Sabato, 22 Marzo, 2025

AUGUSTINUS HIPPONENSEM

LETTERA APOSTOLICA
AUGUSTINUM HIPPONENSEM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
NEL XVI CENTENARIO
DELLA CONVERSIONE DI S.AGOSTINO

Agostino di Ippona, da quando appena un anno dopo la morte, fu annoverato dal mio lontano predecessore Celestino I tra i «maestri migliori della chiesa», ha continuato ad essere presente, nella vita della chiesa e nella mente e nella cultura di tutto l'Occidente. Altri pontefici romani poi, per non parlare dei Concili che hanno attinto spesso e in abbondanza ai suoi scritti, ne hanno proposto gli esempi e i documenti di dottrina affinché fossero studiati e imitati. Leone XIII ne esaltò gli insegnamenti filosofici nella «Aeterni Patris»; Pio XI ne riassunse le virtù e il pensiero nell'enciclica «Ad salutem humani generis», dichiarando che, per l'ingegno acutissimo, per la ricchezza e sublimità della dottrina, per la santità della vita e per la difesa della verità cattolica, nessuno o certo pochissimi gli si possono paragonare di quanti sono fioriti dall'inizio del genere umano fino ad oggi; Paolo VI affermò che «in realtà, oltre a rifulgere in lui in grado eminente le qualità dei Padri, si può dire che tutto il pensiero dell'antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi».

Io stesso ho aggiunto la mia voce a quella dei miei predecessori esprimendo il vivo desiderio che «la sua dottrina filosofica, teologica, spirituale sia studiata e diffusa, sicché egli continui... il suo magistero nella chiesa, un magistero, aggiungevo, umile insieme e luminoso che parla soprattutto di Cristo e dell'amore». Ho avuto altresì occasione di raccomandare in modo particolare ai figli spirituali del grande santo di «mantenere vivo e attraente il fascino di sant'Agostino anche nella società moderna», ideale stupendo ed entusiasmante, perché «la conoscenza esatta e affettuosa della sua vita suscita la sete di Dio, il fascino di Cristo, l'amore alla sapienza e alla verità, il bisogno della grazia, della preghiera, della virtù, della carità fraterna, l'anelito dell'eternità beata».

Sono lieto pertanto che la felice circostanza del XVI centenario della sua conversione e del suo battesimo mi offra l'opportunità di rievocarne la luminosa figura. Sarà questa rievocazione allo stesso tempo un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione; sarà un'occasione propizia per ricordare che il convertito, divenuto vescovo, fu un modello fulgido di pastore, un difensore intrepido della fede ortodossa o, come egli diceva, della «verginità» della fede, un costruttore geniale di quella filosofia che per l'armonia con la fede si può ben chiamare cristiana, un promotore indefesso della perfezione spirituale e religiosa.

I.

LA CONVERSIONE

Conosciamo il cammino della sua conversione dalle sue stesse opere, quelle cioè che egli scrisse nella solitudine di Cassiciaco prima del battesimo e soprattutto dalle celebri «Confessioni», un'opera che è insieme autobiografia, filosofia, teologia, mistica e poesia, in cui uomini sitibondi di verità e consapevoli dei propri limiti, hanno ritrovato e ritrovano se stessi. Già a suo tempo l'autore la considerava tra le sue opere più conosciute. «Quale delle mie opere», scrive verso la fine della vita, «poté avere più vasta notorietà e riuscire più dilettevole dei libri delle mie Confessioni?». Questo giudizio la storia non l'ha mai smentito, anzi lo ha confermato ampiamente. Anche oggi le «Confessioni» di sant'Agostino sono molto lette e, ricche qual sono d'introspezione e di passione religiosa, operano in profondità, scuotono e commuovono. E non solo i credenti. Anche chi non ha la fede, ma va cercando una certezza almeno che gli permetta di capire se stesso, le sue aspirazioni profonde, i suoi tormenti, trova vantaggioso leggere quest'opera. La conversione di sant'Agostino, dominata dal bisogno di trovare la verità, ha molto da insegnare agli uomini d'oggi così spesso smarriti di fronte al grande problema della vita.

Si sa che questa conversione ebbe un cammino del tutto singolare, perché non si trattò di una conquista della fede cattolica, ma di una riconquista. Egli l'aveva perduta, convinto, nel perderla, di non abbandonare Cristo, bensì solo la Chiesa.

Infatti era stato educato cristianamente da sua madre, la pia e santa Monica. In forza di quest'educazione Agostino restò sempre non solo un credente in Dio, nella provvidenza e nella vita futura, ma anche un credente in Cristo, il cui nome «aveva bevuto», come egli dice, «con il latte materno». Tornato alla fede della Chiesa cattolica, egli dirà di essere tornato alla religione «che mi era stata instillata da bambino e fatta entrare fin nelle midolla». Chi vuol capire la sua evoluzione interiore e un aspetto, forse il più profondo, della sua personalità e del suo pensiero, deve partire da questa constatazione.

Svegliatosi a 19 anni all'amore della sapienza con la lettura dell'«Ortensio» di Cicerone - «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire... e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore» - amò profondamente e cercò sempre con tutte le fibre dell'anima la verità. «O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te!».

Nonostante questo amore alla verità, Agostino cadde in gravi errori. Gli studiosi ne cercano le cause e le trovano in tre direzioni: nell'errata impostazione delle relazioni tra la ragione e la fede quasi che si dovesse scegliere tra l'una e l'altra; nel supposto contrasto tra Cristo e la Chiesa con la conseguente persuasione che occorresse abbandonare la Chiesa per aderire più pienamente a Cristo; nel desiderio di liberarsi dalla coscienza del peccato non attraverso la sua remissione per opera della grazia ma attraverso la negazione della responsabilità umana nel peccato stesso.

Il primo errore consisteva dunque in un certo spirito razionalista per cui si persuase «di dover seguire non coloro che comandano di credere, ma coloro che insegnano la verità». Con questo spirito lesse le sacre Scritture e si sentì respinto dai misteri che esse contengono, misteri che occorre accettare con umile fede. Parlando poi al suo popolo di questo momento della vita egli disse: «Io che vi parlo fui ingannato un tempo, quando da giovane mi avvicinai per la prima volta alle sacre Scritture. Mi avvicinai non con la pietà di chi cerca umilmente, ma con la presunzione di chi vuol discutere... Misero me, che mi credei idoneo al volo, abbandonai il nido e caddi prima di poter volare!».

Fu allora che s'imbatté nei manichei, li ascoltò, li seguì. Ragione principale: la promessa «di mettere da parte la terribile autorità e di condurre a Dio e liberare dagli errori i propri discepoli con la pura e semplice ragione». E tale appunto, si mostrava Agostino, «desideroso di tenere e assorbire la verità autentica e senza veli» con la forza della sola ragione.

Accortosi dopo lunghi anni di studi, particolarmente di studi filosofici, di essere stato ingannato, ma, per effetto della propaganda manichea, sempre convinto che nella Chiesa cattolica la verità non ci fosse, cadde in un profondo scoramento e disperò affatto di poter trovare la verità: «gli accademici tennero a lungo il timone della mia nave in mezzo ai flutti».

Da questo pericoloso atteggiamento lo sollevò lo stesso amore per la verità che albergava sempre nel suo animo. Si convinse che non è possibile che alla mente umana sia chiusa la via della verità; se non la trova, è perché ignora e disprezza il metodo per cercarla. Confortato da questa convinzione egli disse a se stesso: «Ma no, cerchiamo con maggior diligenza anziché disperare»; continuò quindi a cercare, e questa volta, guidato dalla grazia divina che la madre implorava con preghiere e lacrime, raggiunse il porto.

Comprese che ragione e fede sono due forze destinate a cooperare insieme per condurre l'uomo alla conoscenza della verità, che ognuna di esse ha un suo primato: temporale la fede, assoluto la ragione - «per importanza viene prima la ragione, in ordine di tempo l'autorità (della fede)» -. Comprese che la fede per essere sicura richiede un'autorità divina, che questa autorità non è altro che quella di Cristo, sommo maestro - di questo Agostino non aveva mai dubitato -, che l'autorità di Cristo si ritrova nelle sacre Scritture, garantite dall'autorità della Chiesa cattolica.

Con l'aiuto dei filosofi platonici si liberò dalla concezione materialistica dell'essere che aveva assorbito dal manicheismo: «Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell'intimo del mio cuore sotto la tua guida... Vi entrai e scorsi con l'occhio della mia anima... sopra la mia intelligenza, una luce immutabile». Fu questa luce immutabile che gli aprì gli immensi orizzonti dello spirito e di Dio.

Capì che intorno alla grave questione del male, che costituiva il suo grande tormento, la prima domanda da porsi non era da dove esso abbia origine, ma che cosa sia, e intuì che il male non è una sostanza ma una privazione di bene: «Tutto ciò che esiste è bene, e il male di cui cercavo l'origine, non è una sostanza». Dio dunque, ne concluse, è il creatore di tutte le cose e non esiste nessuna sostanza che non sia stata creata da lui. Capì altresì, riferendosi alla sua esperienza personale - e questa fu la scoperta più decisiva - che il peccato ha origine dalla volontà dell'uomo, una volontà libera e defettibile: «ero io a volere, io a non volere, io, io ero».

A questo punto poteva dirsi arrivato, invece non lo era ancora; le insidie di un nuovo errore lo avvolsero. Fu la presunzione di poter arrivare al possesso beatificante della verità con le sole sue forze naturali. Un'esperienza personale fallita lo dissuase. Comprese allora che altro è conoscere la meta, altro arrivarci. Per trovare la forza e la via necessarie, «mi buttai con la massima avidità», scrive egli stesso, «sulla venerabile Scrittura del tuo Spirito, e prima di tutto sull'apostolo Paolo». Nelle lettere di Paolo scoperse Cristo maestro, come sempre lo aveva venerato, ma anche Cristo redentore, Verbo incarnato, unico mediatore tra Dio e gli uomini. Allora gli apparve in tutto il suo splendore «il volto della filosofia»: era la filosofia di Paolo che ha per centro Cristo, «potenza e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), e che ha altri centri: la fede, l'umiltà, la grazia; quella «filosofia» che è insieme sapienza e grazia, per cui diventa possibile non solo conoscere la patria ma anche raggiungerla.

Ritrovato Cristo redentore e afferratosi a lui, Agostino era tornato al porto della fede cattolica, alla fede in cui era stato educato da sua madre: «Avevo udito parlare sin da fanciullo della vita eterna, che ci fu promessa mediante l'umiltà del Signore Dio nostro, sceso fino alla nostra superbia». L'amore per la verità, sostenuto dalla grazia divina, aveva trionfato di tutti gli errori.

Sennonché il cammino non era ancora concluso. Nell'animo di Agostino rinasceva un antico proposito, quello di consacrarsi totalmente alla sapienza una volta che l'avesse trovata, di abbandonare cioè, per possederla, ogni terrena speranza. Ora egli non poteva portare più scuse: la verità tanto bramata era ormai certa. Eppure esitava, cercando ragioni per non decidersi a farlo. I vincoli che lo legavano alle speranze terrene erano forti: gli onori, i guadagni, le nozze; specialmente, date le abitudini contratte, le nozze.

Non già che gli fosse proibito sposarsi - Agostino questo lo sapeva bene - ma non voleva essere cristiano cattolico se non in questo modo: rinunciando anche all'ideale vagheggiato della famiglia e dedicandosi con «tutta» l'anima all'amore e al possesso della sapienza. A prendere questa decisione, che corrispondeva alle sue aspirazioni più profonde ma contrastava con le abitudini più radicate, lo stimolava l'esempio di Antonio e dei monaci che si andavano diffondendo anche in Occidente, di cui venne fortuitamente a conoscenza. Egli si chiedeva con grande vergogna: «Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani, queste donne?». Ne nacque un dramma interiore, profondo e lacerante, che la grazia divina condusse a buon fine.

Ecco come Agostino narra a sua madre la serena e forte decisione: «Ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo (Ef 3,20). Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo».

Da quel momento incominciava per Agostino una vita nuova: terminò l'anno scolastico - le vacanze della vendemmia erano vicine -, si ritirò nella solitudine di Cassiciaco; al termine delle vacanze rinunciò all'insegnamento, tornò a Milano agli inizi del 387, s'iscrisse tra i catecumeni, e nella notte del sabato santo - 23/24 aprile - fu battezzato dal vescovo Ambrogio dalla cui predicazione aveva tanto imparato. «E fummo battezzati, e si dileguò da noi l'inquietudine della vita passata. In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano». E aggiunge manifestando l'intima commozione dell'animo: «Quante lacrime versai ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa».

Dopo il battesimo l'unico desiderio di Agostino fu quello di trovare un luogo adatto dove poter vivere insieme con i suoi amici secondo il «santo proposito» di servire il Signore. Lo trovò in Africa, a Tagaste, suo paese natale, dove giunse dopo la morte della madre a Ostia Tiberina e la permanenza di alcuni mesi a Roma per studiare il movimento monastico. Giunto a Tagaste, «rinunciò ai suoi beni e, insieme con quelli che erano uniti a lui, viveva per Dio nei digiuni, nelle preghiere, nelle buone opere, meditando giorno e notte la legge del Signore». L'appassionato amante della verità voleva dedicare la sua vita all'ascetismo, alla contemplazione, all'apostolato intellettuale. Il primo biografo aggiunge infatti: «E delle verità che Dio rivelava alla sua intelligenza faceva parte ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli con discorsi e con libri». A Tagaste scrisse libri e libri, come aveva fatto a Roma, a Milano, a Cassiciaco.

Dopo tre anni scese a Ippona con l'intento di cercare un luogo dove fondare un monastero e d'incontrare un amico che sperava di guadagnare alla vita monastica, e trovò invece, suo malgrado, il sacerdozio. Ma non rinunciò al suo ideale: chiese e ottenne di fondare un monastero: il «monasterium laicorum», in cui visse, e da cui uscirono molti sacerdoti e molti vescovi per tutta l'Africa. Diventò, dopo cinque anni, vescovo, trasformò l'episcopio in monastero: il «monasterium clericorum». L'ideale concepito al momento della conversione non lo lasciò cadere mai, neppure da sacerdote e da vescovo. Scrisse anche una regola «ad servos Dei», che tanta parte ebbe e ha nella storia della vita religiosa occidentale.

II.

IL DOTTORE

Mi sono intrattenuto un poco sui punti essenziali della conversione di Agostino, perché da essa vengono tanti utili insegnamenti non solo per i credenti ma anche per tutti gli uomini di buona volontà: come sia facile deviare nel cammino della vita e come sia difficile ritrovare la via della verità. Ma questa mirabile conversione ci aiuta inoltre a capire meglio la sua vita successiva di monaco, sacerdote, vescovo. Egli restò sempre il grande folgorato della grazia: «Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del tuo amore e portavamo le tue parole confitte nelle viscere». Soprattutto ci aiuta a penetrare più facilmente nel suo pensiero, che fu così universale e profondo da rendere a quello cristiano un servizio incomparabile e imperituro, tanto che possiamo chiamarlo, non senza fondamento, il padre comune dell'Europa cristiana.

La molla segreta della sua insonne ricerca fu la stessa che l'aveva guidato lungo l'itinerario della conversione: l'amore per la verità. Infatti, dice egli stesso: «che cosa desidera l'uomo più fortemente che la verità?». In un'opera di alta speculazione teologica e mistica, scritta più per bisogno personale che per esigenze esterne, ricorda questo amore e scrive: «Ci sentiamo rapiti dall'amore di indagare la verità». E questa volta l'oggetto dell'indagine era l'augusto mistero trinitario e il mistero di Cristo rivelazione del Padre, «scienza e sapienza» dell'uomo: nacque così la grande opera su «La Trinità».

L'orientamento della ricerca, che l'amore incessante nutriva, ebbe due coordinate: l'approfondimento della fede cattolica e la sua difesa contro coloro che la negavano, come i manichei e i pagani, o ne davano interpretazioni errate, come i donatisti, i pelagiani, gli ariani. E' difficile inoltrarsi nel mare del pensiero agostiniano, e tanto più difficile riassumerlo, se pur questo è davvero possibile. Mi si consenta però di ricordare, a comune edificazione, alcune luminose intuizioni di questo sommo pensatore.

1. Ragione e fede

Prima di tutto quelle riguardanti il problema che più lo attanagliò in gioventù e sul quale egli tornò con tutta la forza dell'ingegno e la passione dell'animo, quello riguardante le relazioni tra la ragione e la fede: un problema di sempre, di oggi non meno che di ieri, dalla cui soluzione dipende l'indirizzo del pensiero umano. Ma problema difficile, perché si tratta di passare incolumi tra un estremo e l'altro, tra il fideismo che disprezza la ragione e il razionalismo che esclude la fede. Lo sforzo intellettuale e pastorale di Agostino fu quello di mostrare, senza ombra di dubbio, che «le due forze che ci portano a conoscere», devono cooperare insieme.

Egli ascoltò la fede, ma non esaltò meno la ragione, dando a ciascuna il suo primato, o di tempo o di importanza. Disse a tutti il «crede ut intelligas», ma ripeté anche l'«intellige ut credas». Scrisse un'opera, sempre attuale, sull'utilità della fede e spiegò che è la fede la medicina destinata a sanare l'occhio dello spirito, la fortezza inespugnabile per la difesa di tutti, particolarmente dei deboli, contro l'errore, il nido in cui si mettono le penne per gli alti voli dello spirito, la via breve che permette di conoscere presto, con sicurezza e senza errori, le verità che conducono l'uomo alla sapienza. Ma sostenne anche che la fede non è mai senza ragione, perché è la ragione che dimostra «a chi si debba credere». Pertanto «anche la fede ha i suoi occhi con i quali vede in qualche modo che è vero quello che ancora non vede». «Nessuno dunque crede se prima non ha pensato di dover credere», poiché «credere altro non è che pensare con assenso ("cum assentione cogitare")...» tanto che «la fede che non sia pensata non è fede».

Il discorso sugli occhi della fede sfocia in quello della credibilità, di cui Agostino parla spesso adducendone i motivi, quasi a confermare la consapevolezza con cui era tornato egli stesso alla fede cattolica. Giova riportare un testo. Scrive: «Molte sono le ragioni che mi trattengono in seno della Chiesa cattolica. A parte la sapienza dell'insegnamento (questo argomento, per Agostino fortissimo, non era ammesso dagli avversari)... mi trattiene il consenso dei popoli e delle genti; mi trattiene l'autorità fondata coi miracoli, nutrita con la speranza, aumentata con la carità, consolidata con l'antichità; mi trattiene la successione dei vescovi, della sede stessa dell'apostolo Pietro, a cui il Signore dopo la risurrezione diede a pascere le sue pecore, fino al presente episcopato; mi trattiene infine lo stesso nome di cattolica che non senza ragione solo questa Chiesa ha ottenuto».

Nella grande opera della «Città di Dio», che è insieme apologetica e dommatica, il problema ragione e fede diventa quello di fede e cultura. Agostino, che tanto operò per fondare e promuovere la cultura cristiana, lo risolve svolgendo tre grossi argomenti: l'esposizione fedele della dottrina cristiana; il ricupero attento della cultura pagana in ciò che aveva di ricuperabile, e che sul piano filosofico non era poco; la dimostrazione insistente della presenza nell'insegnamento cristiano di quanto di vero e di perennemente valido v'era in quella cultura, col vantaggio di trovarvisi perfezionato e sublimato. Non per nulla la «Città di Dio» fu molto letta nel medioevo; e merita molto di essere letta anche oggi come esempio e stimolo per approfondire l'incontro del cristianesimo con le culture dei popoli. Vale la pena di riportare un importante testo agostiniano: «La città celeste... convoca cittadini da tutte le nazioni non badando alla differenza dei costumi, delle leggi, delle istituzioni... non sopprime né distrugge alcuna di queste cose, anzi accetta e conserva tutto ciò che, sebbene diverso nelle diverse nazioni, tende a un solo e medesimo fine: la pace terrena, a condizione che non impediscano la religione che insegna ad adorare l'unico Dio, sommo e vero».

2. Dio e l'uomo

L'altro grande binomio che Agostino approfondì senza posa è Dio e l'uomo. Liberatosi, come ho detto sopra, dal materialismo che gli impediva di avere un'esatta nozione di Dio - e quindi la vera nozione dell'uomo -, fissò in questo binomio i grandi temi della sua ricerca e li studiò sempre insieme: l'uomo pensando a Dio, Dio pensando all'uomo, che ne è l'immagine.

Nelle «Confessioni» si pone queste due domande: «Che cosa sei tu per me, Signore?», «e che cosa sono io per te...?». Per rispondere ad esse impiega tutte le risorse del suo pensiero e tutta l'insonne fatica del suo apostolato. Egli è pienamente convinto dell'ineffabilità di Dio, tanto da esclamare: «Che c'è di strano se non comprendi. Se comprendi non è Dio»; perciò «non è un piccolo inizio della conoscenza di Dio se, prima di sapere che cosa egli è, cominciamo a sapere che cosa egli non è». Occorre dunque cercar «di capire Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità», e così via per tutte le categorie del reale che Aristotele aveva descritte.

Nonostante la trascendenza e l'ineffabilità divina Agostino, partendo dall'autocoscienza dell'uomo che sa di essere, di conoscere e di amare, e confortato dalla Scrittura che ci rivela Dio come l'Essere supremo (Es 3,14), la somma Sapienza (Sap passim) e il primo amore (1Gv 4,8), illustra questa triplice nozione di Dio: essere da cui procede, per creazione dal nulla, ogni essere, verità che illumina la mente umana perché possa conoscere con certezza la verità, amore da cui procede e a cui tende ogni vero amore. Dio infatti, come egli ripete tante volte, è «la causa del sussistere, la ragione del pensare, la norma del vivere» o, per riportare un'altra formula celebre, «la causa dell'universo creato, la luce della verità che percepiamo, la fonte della felicità che assaporiamo».

Ma dove il genio di Agostino si esercitò maggiormente fu nello studiare la presenza di Dio nell'uomo, presenza che è insieme profonda e misteriosa. Egli trova Dio, «l'interno-eterno», remotissimo e presentissimo: perché remoto l'uomo lo cerca, perché presente lo conosce e lo trova. Dio è presente come «sostanza creatrice del mondo», come verità illuminatrice, come amore che attrae, più intimo di quanto vi è nell'uomo di più intimo e più alto di quanto vi è di più alto. Riferendosi al periodo antecedente la conversione, Agostino dice a Dio: «Dov'eri dunque allora e quanto lontano da me? Io vagavo lontano da te... tu, invece, eri più dentro in me della mia parte più profonda e più alto della mia parte più alta»; «eri con me, e io non ero con te». E insiste: «eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me, e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te». Chiunque non trova se stesso non trova Dio, perché Dio è nel profondo di ciascuno di noi.

L'uomo dunque non s'intende se non in ordine a Dio. Agostino ha illustrato con vena inesauribile questa grande verità, mentre studiava il rapporto dell'uomo con Dio e lo espresse nelle maniere più varie e più efficaci. Egli vede l'uomo come una tensione verso Dio. Sono celebri le sue parole: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te». Lo vede come capacità di essere elevato fino alla visione immediata di Dio: il finito che raggiunge l'Infinito. L'uomo, scrive ne «La Trinità», «è immagine di Dio, in quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui». Questa capacità «impressa immortalmente nella natura immortale dell'anima razionale» è il segno della sua grandezza suprema: «in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, l'uomo è una grande natura». Lo vede inoltre come un essere indigente di Dio, perché bisognoso della felicità che non può trovare se non in Dio. «La natura umana è stata creata in tanta eccellente grandezza che, per quanto mutabile, solo aderendo al Bene immutabile, che è il sommo Dio, può conseguire la felicità, né può colmare la sua indigenza senza essere felice, ma a colmarla non basta se non Dio».

Da questo rapporto costituzionale dell'uomo con Dio dipende l'insistente richiamo agostiniano all'interiorità. «Torna in te stesso; nell'uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso» per trovare Dio, fonte della luce che illumina la mente. Insieme alla verità c'è nell'uomo interiore la misteriosa capacità d'amare, la quale, come un peso - è questa la celebre metafora agostiniana -, lo porta al di fuori di sé, verso gli altri e soprattutto verso l'Altro, cioè Dio. Il peso dell'amore lo rende costituzionalmente sociale, al punto che «nessuno», come scrive Agostino, «è tanto sociale per natura quanto l'uomo».

L'interiorità dell'uomo, dove si raccolgono le ricchezze inesauribili della verità e dell'amore, costituisce «un abisso», che il nostro dottore non cessa mai di scrutare, e mai cessa di stupirsene. Ma a questo punto occorre aggiungere che l'uomo appare, per chi sia pensoso di sé e della storia, un grande problema, come dice Agostino, una «magna quaestio». Troppi sono gli enigmi che lo circondano: l'enigma della morte, della divisione profonda che soffre in se stesso, dello squilibrio insanabile tra ciò che è e ciò che desidera; enigmi che si riducono a quello fondamentale, che consiste nella sua grandezza e nella sua incomparabile miseria. Su questi enigmi, dei quali ha parlato a lungo il concilio Vaticano II quando si è proposto di illustrare «il mistero dell'uomo», Agostino si è gettato con passione e vi ha esercitato tutto l'acume della sua intelligenza non solo per scoprirne la realtà, che è spesso molto triste - se è vero che nessuno è tanto sociale per natura quanto l'uomo, è vero anche, aggiunge l'autore della «Città di Dio» edotto dalla storia, che «nessuno quanto l'uomo è tanto antisociale per vizio» - ma anche e soprattutto per cercarne e proporne la soluzione. Ora in quanto alla soluzione non ne trova che una, quella che gli era apparsa alla vigilia della sua conversione: Cristo, redentore dell'uomo. Su questa soluzione ho inteso il bisogno di richiamare anch'io l'attenzione dei figli della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà nella mia prima enciclica, appunto la «Redemptor Hominis», lieto di raccogliere nella mia voce la voce di tutta la tradizione cristiana.

Entrando in questa problematica il pensiero di Agostino, pur restando fondamentalmente filosofico, si fa più teologico, e il binomio Cristo e la Chiesa, che aveva prima negato e poi riconosciuto negli anni della giovinezza, incomincia a illustrare quello più generale di Dio e dell'uomo.

3. Cristo e la Chiesa

Si può ben dire che Cristo e la Chiesa siano il fulcro del pensiero teologico del vescovo di Ippona, anzi, si potrebbe aggiungere, della sua stessa filosofia, in quanto egli rimprovera ai filosofi di aver fatto filosofia «sine homine Christo». Da Cristo è inseparabile la Chiesa. Egli riconobbe al momento della conversione e accettò con gioia e gratitudine la legge della Provvidenza che ha posto in Cristo e nella Chiesa «l'autorità più eccelsa e la luce della ragione ("totum culmen auctoritatis lumemque rationis") allo scopo di ricreare e riformare il genere umano».

Senza dubbio egli ha parlato a lungo ed egregiamente, nella grande opera sulla Trinità e nei discorsi sul mistero trinitario tracciando la strada alla teologia posteriore. Ha insistito insieme sull'uguaglianza e sulla distinzione delle Persone divine illustrandole con la dottrina delle relazioni: Dio «è tutto ciò che ha, eccetto le relazioni per cui ogni persona si riferisce all'altra». Ha sviluppato la teologia sullo Spirito santo, che procede dal Padre e dal Figlio, ma «principaliter» dal Padre, perché «di tutta la divinità o, meglio, della deità, il principio è il Padre»; ed egli ha dato al Figlio di spirare lo Spirito Santo, che procede come Amore e perciò non è generato. Per rispondere poi ai «garruli ragionatori», ha proposto la spiegazione «psicologica» della Trinità cercandone l'immagine nella memoria, nell'intelligenza, nell'amore dell'uomo, studiando così insieme il più augusto mistero della fede e la più alta natura del creato qual è lo spirito umano.

Ma parlando della Trinità tiene sempre lo sguardo fisso nel Cristo rivelatore del Padre, e nell'opera della salvezza. Da quando, poco prima della conversione, comprese i termini del mistero del Verbo incarnato, non cessò mai di approfondirlo riassumendo il suo pensiero in formule tanto piene ed efficaci da preannunziare quella di Calcedonia. Ecco un testo significativo da una delle sue ultime opere: «Il cristiano fedele crede e confessa in Cristo la vera natura umana, cioè la nostra, ma assunta in maniera singolare da Dio Verbo, sublimata nell'unico Figlio di Dio, così che colui che assume e ciò che è assunto sia un'unica persona nella Trinità... una sola persona Dio e l'uomo. Perché noi non diciamo che Cristo è solo Dio... e nemmeno diciamo che Cristo è solo uomo... e neppure diciamo che è uomo ma con qualcosa in meno di ciò che con certezza appartiene alla natura umana... Noi al contrario diciamo che Cristo è vero Dio, nato dal Padre... e che lo stesso è vero uomo, nato da madre che fu creatura umana... e che la sua umanità, con la quale è minore del Padre, non toglie nulla alla sua divinità con la quale è uguale al Padre: due nature, un solo Cristo». O, più brevemente: «Colui che è uomo quello stesso è Dio e colui che è Dio quello stesso è uomo, non per la confusione della natura, ma per l'unità della persona», «una persona in due nature».

Con questa ferma visione dell'unità della persona in Cristo, «totus Deus et totus homo», Agostino spazia nell'ampio panorama della teologia e della storia. Se lo sguardo d'aquila si fissa sul Cristo Verbo del Padre, non insiste meno su Cristo uomo. Anzi, afferma energicamente: senza Cristo uomo non c'è né mediazione, né riconciliazione, né giustificazione, né risurrezione, né appartenenza alla Chiesa, di cui Cristo è capo. Su questi temi egli torna sovente e li svolge ampiamente sia per rendere ragione della fede che aveva riconquistato a 32 anni, sia per le esigenze della controversia pelagiana.

Cristo, uomo-Dio, è l'unico mediatore tra Dio giusto e immortale e gli uomini mortali e peccatori, perché è mortale e giusto insieme; è pertanto la via universale della libertà e della salvezza. Fuori di questa via, che «non è mai mancata al genere umano, nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato».

La mediazione di Cristo si compie nella redenzione, che non consiste solo nell'esempio di giustizia, ma prima di tutto nel sacrificio di riconciliazione che fu verissimo, liberissimo, perfettissimo. La redenzione di Cristo ha come carattere essenziale l'universalità, la quale dimostra l'universalità del peccato. In questo senso Agostino ripete e interpreta le parole di san Paolo: «se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2Cor 5,14), morti a causa del peccato. «Tutta la fede cristiana consiste dunque nella causa di due uomini», «uno e uno: uno che porta la morte, uno che dona la vita». Ne segue che «ogni uomo è Adamo, come in coloro che credono ogni uomo è Cristo».

Negare questa dottrina voleva dire per Agostino «rendere vana la croce di Cristo» (1Cor 1,17). Perché ciò non avvenisse parlò e scrisse molto sull'universalità del peccato, compresa la dottrina del peccato originale, «che la Chiesa, scrive egli, crede fin dall'antichità». Infatti Agostino insegna che «il Signore Gesù Cristo non per altro motivo si è fatto uomo... se non per vivificare, salvare, liberare, redimere, illuminare coloro che prima erano nella morte, nell'infermità, nella schiavitù, nella prigionia, nelle tenebre dei peccati. E' logico che nessuno potrà appartenere a Cristo se non ha bisogno di questi benefici della redenzione».

Poiché unico mediatore e redentore degli uomini, Cristo è capo della Chiesa, Cristo e la Chiesa sono una sola persona mistica, il Cristo totale. Scrive arditamente: «Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l'uomo totale è lui e noi». Questa dottrina del Cristo totale è una delle più care al vescovo di Ippona e anche una delle più feconde della sua teologia ecclesiologica.

Altra verità fondamentale è quella dello Spirito Santo anima del corpo mistico - «ciò che è l'anima per il corpo, questo stesso è lo Spirito Santo per il corpo di Cristo che è la Chiesa» -, dello Spirito Santo principio della comunione che unisce i fedeli tra loro e alla Trinità. Infatti «il Padre e il Figlio hanno voluto che noi entrassimo in comunione tra noi e con loro per mezzo di colui che è a loro comune e ci hanno raccolto nell'unità mediante l'unico dono che essi hanno in comune, cioè per mezzo dello Spirito Santo, Dio e dono di Dio». Perciò egli dice nello stesso luogo: «la comunione dell'unità della Chiesa o la "societas unitatis", fuori della quale non c'è perdono dei peccati, è l'opera propria dello Spirito Santo con il quale operano insieme il Padre e il Figlio, poiché in certo modo lo stesso Spirito Santo è il legame o la "societas" che unisce il Padre e il Figlio».

Guardando alla Chiesa corpo di Cristo e vivificata dallo Spirito Santo che è lo spirito di Cristo, Agostino svolse in molte forme una nozione sulla quale si è soffermato con particolare compiacenza anche il recente concilio: la Chiesa comunione. Ne parla in tre modi diversi e convergenti: la comunione dei sacramenti o realtà istituzionale fondata da Cristo sul fondamento degli apostoli, della quale discute a lungo nella controversia donatista difendendone l'unità, l'universalità, l'apostolicità e la santità, e dimostrando che ha per centro la «sede di Pietro», «nella quale fu sempre in vigore il primato della cattedra apostolica»; la comunione dei santi o realtà spirituale che unisce tutti i giusti da Abele fino alla consumazione dei secoli; la comunione dei beati o realtà escatologica che raccoglie tutti coloro che hanno raggiunto la salvezza, cioè la Chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27).

Altro tema caro all'ecclesiologia agostiniana fu quello della Chiesa madre e maestra. Su questo tema Agostino scrisse pagine profonde e commoventi, perché esso toccava da vicino la sua esperienza di convertito e la sua dottrina di teologo. Sulle vie del ritorno alla fede egli incontrò la Chiesa non più opposta a Cristo come gli avevano fatto credere, bensì manifestazione di Cristo, «madre dei cristiani verissima», e garante della verità rivelata.

La Chiesa è madre che genera i cristiani: «Due ci hanno generato per la morte, due ci hanno generato per la vita. I genitori che ci hanno generato per la morte sono Adamo ed Eva, i genitori che ci hanno generato per la vita sono Cristo e la Chiesa». La Chiesa è madre che soffre per quelli che si allontanano dalla giustizia, soprattutto per quelli che ne lacerano l'unità, è la colomba che geme e chiama perché tutti tornino o approdino sotto le sue ali, è la manifestazione della paternità universale di Dio attraverso la carità la quale «per gli uni è carezzevole, per gli altri severa; a nessuno è nemica, a tutti è madre».

E' madre, ma anche, come Maria, vergine: madre per l'ardore della carità, vergine per l'integrità della fede che custodisce, difende, insegna. A questa maternità verginale si riallaccia il suo compito di maestra che la Chiesa esercita in obbedienza a Cristo. Per questo Agostino guarda alla Chiesa come garante delle Scritture, e proclama che egli resta sicuro in essa, qualunque difficoltà si presenti, insegnando insistentemente agli altri a fare altrettanto. «Così, come ho detto spesso e ripeto insistentemente: qualunque cosa noi siamo, voi siete sicuri: voi che avete Dio per padre e la Chiesa per madre». Nasce da questa convinzione l'esortazione accorata ad amare Dio e la Chiesa, appunto Dio come padre, la Chiesa come madre. Nessun altro, forse, ha parlato della Chiesa con tanto affetto e con tanta passione come Agostino. Ne ho riproposto alcuni accenti, pochi in verità ma sufficienti, spero, per far comprendere la profondità e la bellezza d'una dottrina che non sarà mai studiata abbastanza, particolarmente sotto l'aspetto della carità che anima la Chiesa come effetto della presenza in lei dello Spirito Santo. «Abbiamo lo Spirito Santo, scrive, se amiamo la Chiesa; e amiamo la Chiesa se rimaniamo nella sua unità e nella sua carità».

4. Libertà e grazia

Non si finirebbe più a indicare, sia pure per sommi capi, i diversi aspetti della teologia agostiniana. Un altro argomento importante, anzi fondamentale, legato pur esso alla conversione, è quello della libertà e della grazia. Come già ho ricordato, fu alla vigilia della conversione che prese coscienza della responsabilità dell'uomo nelle sue azioni e della necessità della grazia dell'unico Mediatore, di cui sperimentò la forza nel momento dell'ultima decisione. Ne è testimonianza eloquente il libro VIII delle «Confessioni». Le riflessioni personali e le controversie sostenute poi, particolarmente con i seguaci dei manichei e dei pelagiani, gli offrivano l'opportunità di approfondire i termini del problema e di proporne, sia pure con grande modestia a causa della misteriosità della questione, una sintesi.

Sostenne sempre che la libertà è un caposaldo dell'antropologia cristiana. Lo sostenne contro i suoi antichi correligionari, contro il determinismo degli astrologi di cui egli stesso era stato vittima, contro ogni forma di fatalismo; spiegò che la libertà e la prescienza non sono inconciliabili, come pure non lo sono libertà e aiuto della grazia divina. «Il libero arbitrio non viene tolto, perché viene aiutato, ma viene aiutato perché non viene tolto». E' celebre del resto il principio agostiniano: «Chi ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te. Dunque, ha creato chi non sapeva, non giustifica chi non vuole».

A chi dubitava di questa conciliabilità o affermava il contrario dimostra con lunga serie di testi biblici che libertà e grazia appartengono alla divina rivelazione e che occorre tener ferme insieme le due verità. Vedere in profondità la loro conciliazione è questione difficilissima che pochi sono in grado di capire, e che può creare angustia per molti, perché difendendo la libertà si può dare l'impressione di negare la grazia e viceversa. Occorre però credere nella loro conciliabilità come nella conciliabilità di due prerogative essenziali di Cristo dalle quali l'una e l'altra rispettivamente dipendono. Cristo infatti è insieme salvatore e giudice. Ora, «se non c'è la grazia, come salva il mondo? se non c'è il libero arbitrio come giudica il mondo?».

D'altra parte Agostino insiste sulla necessità della grazia, che è insieme necessità della preghiera. A chi diceva che Dio non comanda l'impossibile e perciò la grazia non è necessaria, risponde che sì, è vero, «Dio non comanda l'impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi», e aiuta l'uomo perché possa, egli che «non abbandona nessuno se non è abbandonato».

La dottrina sulla necessità della grazia diventa la dottrina sulla necessità della preghiera, su cui Agostino tanto insiste, perché, così egli scrive, «è certo che Dio ha preparato alcuni doni anche a chi non li implora, come l'inizio della fede, altri solo a chi li implora, come la perseveranza finale».

La grazia è dunque necessaria per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla volontà di fuggire il male e di compiere il bene. Questi ostacoli sono due, «l'ignoranza e la debolezza», soprattutto il secondo, «perché anche quando incomincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare..., non si agisce, non si esegue, non si vive bene». Perciò la grazia adiuvante è soprattutto «l'ispirazione della carità per cui facciamo con santo amore ciò che conosciamo di dover fare».

Ignoranza e debolezza sono due ostacoli che occorre superare per poter respirare la libertà. Non sarà inutile ricordare che la difesa della necessità della grazia è per Agostino la difesa della libertà cristiana. Partendo dalle parole di Cristo: «se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi» (Gv 8,36), egli si fece difensore e cantore di questa libertà che è inseparabile dalla verità e dall'amore. Verità, amore, libertà, i tre grandi beni, che appassionarono l'animo di Agostino e ne esercitarono il genio. Su di essi gettò molta luce di intelligibilità.

Per fermarsi un momento su quest'ultimo bene - quello della libertà - è il caso di osservare che egli descrive ed esalta la libertà cristiana in tutte le sue forme. Queste vanno dalla libertà dall'errore - la libertà invece dell'errore è «la peggior morte dell'anima» -, attraverso il dono della fede che assoggetta l'anima alla verità, fino alla libertà ultima e indefettibile, quella maggiore, che consiste nel non poter morire e nel non poter peccare, cioè nell'immortalità e nella piena giustizia. Tra queste due, che segnano l'inizio e il termine della salvezza, illustra e proclama tutte le altre: la libertà dal peccato opera della giustificazione; la libertà dal dominio delle passioni disordinate, opera della grazia che illumina l'intelletto e dà tanta forza alla volontà da renderla invitta contro il male, come sperimentò egli stesso nella conversione, quando fu liberato dalla dura schiavitù; la libertà dal tempo che divoriamo e ci divora, in quanto l'amore ci permette di vivere ancorati all'eternità.

Sulla giustificazione, di cui espone le ineffabili ricchezze - la vita divina della grazia, l'inabitazione dello Spirito Santo, la «deificazione» - fa un'importante distinzione fra la remissione dei peccati che è piena e totale, piena e perfetta, e il rinnovamento interiore che è progressivo e sarà pieno e totale solo dopo la risurrezione quando tutto l'uomo diventerà partecipe dell'immutabilità divina.

Sulla grazia che fortifica la volontà insiste nel dire che essa opera per mezzo dell'amore e pertanto rende invitta la volontà contro il male senza toglierle la possibilità di non volere. Trattando delle parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «nessuno viene a me se il Padre non lo attira» (Gv 6,44), commenta: «non pensare di essere attratto contro la tua volontà: l'animo è attratto anche dall'amore». Ma l'amore, osserva ancora, opera con «liberale soavità», perciò «compie la legge liberamente chi la compie con amore»: «la legge della carità è legge di libertà».

Non meno insistente è l'insegnamento di Agostino sulla libertà del tempo, libertà che Cristo, Verbo eterno, è venuto a portarci entrando nel mondo con l'incarnazione: «O Verbo, esclama Agostino, che esisti prima dei tempi, per mezzo del quale furono fatti i tempi, anche tu nato nel tempo pur essendo la vita eterna, tu chiami all'esistenza gli esseri temporali e li rendi eterni». Si sa che il nostro dottore ha scrutato molto il mistero del tempo e ha sentito e ha ridetto il bisogno di trascendere il tempo per essere veramente. «Se anche tu vuoi essere, trascendi il tempo. Ma chi può trascendere il tempo con le sue forze? Ci elevi su in alto colui che ha detto al Padre: «Voglio che dove sono io, siano anch'essi con me» (Gv 17,24)».

La libertà cristiana, di cui ho fatto poco più che un accenno, viene vista e studiata nella Chiesa, la città di Dio, che ne mostra gli effetti e, sostenuta dalla grazia divina, li partecipa, per quanto dipende da lei, a tutti gli uomini. E' fondata infatti sull'amore «sociale» che abbraccia tutti gli uomini e vuole unirli nella giustizia e nella pace; al contrario della città degli iniqui che divide e pone l'uno contro l'altro perché fondata sull'amore «privato».

Giova ricordare qui qualcuna delle definizioni della pace che Agostino ha coniato secondo le realtà alle quali viene applicata. Partendo dalla nozione che «la pace degli uomini è l'ordinata concordia», definisce la pace della casa come «l'ordinata concordia degli abitanti nel comandare e nell'obbedire»; così pure la pace della città; continua poi: «la pace della città celeste è la ordinatissima e la concordissima società di coloro che godono di Dio e vicendevolmente in Dio». Dà poi la definizione della pace di tutte le cose che è la tranquillità dell'ordine. Infatti definisce l'ordine stesso, che altro non è se non «la disposizione di realtà uguali e disuguali che dà a ciascuno il proprio posto».

Per questa pace opera e a questa pace «sospira il popolo di Dio durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno».

5. La carità e le ascensioni dello Spirito

Il breve riassunto dell'insegnamento agostiniano resterebbe gravemente incompleto se non si dedicasse un accenno alla dottrina spirituale che, unita strettamente a quella filosofica e teologica, non è meno ricca dell'una e dell'altra. Occorre tornare di nuovo alla conversione da cui ho cominciato. Fu allora che decise di dedicarsi totalmente all'ideale della perfezione cristiana. A questo proposito restò sempre fedele; non solo, ma si impegnò con tutte le forze ad indicarne agli altri la strada. Lo fece attingendo alla sua esperienza e alla Scrittura, che è per tutti il primo alimento della pietà.

Fu un uomo di preghiera, anzi, si direbbe un uomo fatto di preghiera - basti ricordare le celebri «Confessioni» scritte sotto forma di una lettera a Dio -, e ridisse a tutti con incredibile perseveranza la necessità della preghiera: «Dio ha disposto che combattiamo più con la preghiera che con le nostre forze»; ne descrisse la natura, così semplice eppur così complessa, l'interiorità in base alla quale identificò la preghiera con il desiderio: «Il tuo stesso desiderio è la tua preghiera: e il continuo desiderio è una continua preghiera»; il valore sociale: «Preghiamo per quelli che non sono stati chiamati, scrive, perché lo siano: forse sono stati predestinati in modo da essere concessi alle nostre preghiere»; l'insostituibile inserimento in Cristo, «che prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua».

Salì con progressiva diligenza i gradini delle ascensioni interiori, e descrisse il loro programma per tutti, un programma ampio e articolato che comprende il movimento dell'animo verso la contemplazione: purificazione, costanza e serenità, orientamento verso la luce, dimora nella luce; i gradi della carità: incipiente, progressiva, intensa, perfetta; i doni dello Spirito Santo rapportati alle beatitudini; le petizioni del Padre nostro; gli esempi di Cristo.

Se le beatitudini evangeliche costituiscono il clima soprannaturale in cui il cristiano deve vivere, i doni dello Spirito Santo danno il tocco soprannaturale della grazia che rende possibile quel clima; le petizioni del Padre nostro, o in genere la preghiera che tutta si riduce a quelle petizioni, come alimento necessario; l'esempio di Cristo il modello da imitare; la carità poi costituisce l'anima di tutto, il centro di irradiazione, la molla segreta dell'organismo spirituale. Fu merito non piccolo del vescovo di Ippona l'aver ricondotto tutta la dottrina e la vita cristiana alla carità, intesa come «adesione alla verità per vivere nella giustizia».

Vi riconduce infatti la Scrittura che, tutta, «narra Cristo e raccomanda la carità», la teologia che in essa trova il suo fine, la filosofia, la pedagogia e persino la politica. Nella carità pose l'essenza e la misura della perfezione cristiana, il primo dono dello Spirito Santo, la realtà con la quale nessuno può essere cattivo, il bene con il quale si possiedono tutti i beni e senza il quale non giovano a nulla tutti gli altri beni. «Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere».

Della carità mise in rilievo tutte le inesauribili ricchezze: rende facile tutto quanto è difficile, muove ciò che è abituale, insopprimibile il movimento verso il Bene sommo, poiché qui in terra la carità non è mai piena, libera da ogni interesse che non sia Dio, è inseparabile dall'umiltà - «dove c'è l'umiltà, ivi c'è la carità» - è l'essenza d'ogni virtù - la virtù infatti non è che amore ordinato -, dono di Dio. Punto cruciale, quest'ultimo, che distingue e separa la concezione naturalistica e quella cristiana della vita. «Da dove negli uomini la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Poiché se essa proviene non da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani; se invece proviene da Dio, abbiamo vinto i pelagiani».

Dalla carità nasceva in Agostino l'ansia della contemplazione delle cose divine, che è propria della sapienza. Delle forme più alte di contemplazione egli ebbe spesso l'esperienza, non solo quella celebre di Ostia, ma altre ancora. Dice di sé: «spesso faccio questo» - ricorre cioè alla meditazione della Scrittura perché le pressanti occupazioni non l'opprimano -, «è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi dalla stretta delle occupazioni... Talvolta m'introduci in un sentiero interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga in me la sua pienezza, non so dire che mai sarà, ché non sarà certo questa vita». Se si aggiungono queste esperienze all'acume teologico e psicologico di Agostino e alla sua rara capacità di scrittore, si comprende perché abbia descritto con tanta precisione le ascensioni mistiche, tanto che qualcuno ha potuto chiamarlo il principe dei mistici.

Nonostante l'amore predominante per la contemplazione, Agostino accettò la «sarcina» dell'episcopato e insegnò agli altri a fare altrettanto, rispondendo così, con umiltà, alla chiamata della Chiesa madre, ma insegnò anche con l'esempio e gli scritti come conservare tra le occupazioni dell'attività pastorale il gusto della preghiera e della contemplazione. Vale la pena riportare la sintesi, divenuta classica, che ci offre la «Città di Dio». «L'amore della verità ricerca la quiete della contemplazione, il dovere dell'amore accetta l'attività dell'apostolato. Se nessuno impone questo peso, ci si deve dedicare alla ricerca e alla contemplazione della verità; se però esso ci viene imposto, dev'essere assunto per dovere di carità. Ma anche in questo caso non si devono abbandonare le consolazioni della verità, perché non accada che, privati di questa dolcezza, si resti schiacciati da quella necessità». La profonda dottrina qui esposta merita una lunga e attenta riflessione. Questa diventa più facile e più efficace se si guarda ad Agostino stesso, che diede un fulgido esempio di come conciliare i due aspetti, apparentemente contrastanti, della vita cristiana: preghiera e azione.

III.

IL PASTORE

Non sarà inopportuno dedicare un ricordo all'azione pastorale di questo vescovo che nessuno ricuserà di annoverare tra i più grandi pastori della Chiesa. Anche quest'azione ebbe origine dalla conversione, perché da essa nacque il proposito di servire solo Dio. «Ormai te solo amo... a te solo voglio servire...». Quando poi si accorse che questo servizio doveva estendersi all'azione pastorale, non esita ad accettarla; con umiltà e con trepidazione e con rammarico, ma, per obbedire a Dio e alla Chiesa, l'accettò.

I campi di tale azione furono tre, che si andavano allargando come tre cerchi concentrici: la Chiesa locale d'Ippona, non grande ma inquieta e bisognosa; la Chiesa africana, miseramente divisa tra cattolici e donatisti; la Chiesa universale combattuta dal paganesimo e dal manicheismo e attraversata da movimenti ereticali.

Egli si sentì in tutto servo della Chiesa - «servo dei servi di Cristo» - traendo da questo presupposto tutte le conseguenze, anche le più ardue come quella di esporre la propria vita per i fedeli. Chiedeva infatti al Signore la forza di amarli in modo da essere pronto a morire per loro «o in realtà o nella disposizione». Era convinto che chi, messo a capo del popolo, non avesse questa disposizione, più che vescovo, era simile a «un fantoccio di paglia che sta nella vigna». Non vuol essere salvo senza i suoi fedeli ed è pronto ad ogni sacrificio pur di richiamare gli erranti sulla via della verità. In un momento di estremo pericolo a causa dell'invasione dei vandali, insegna ai sacerdoti a restare in mezzo ai fedeli anche col rischio della propria vita. In altre parole egli vuole che vescovi e sacerdoti servano i fedeli come Cristo li ha serviti. «In che senso chi presiede è servo? Nel senso stesso in cui fu servo il Signore». Fu il suo programma.

Nella sua diocesi, da cui non si allontanò mai se non per necessità, fu assiduo alla predicazione - predicava al sabato e alla domenica e spesso per l'intera settimana -, nella catechesi, nella «audientia episcopi» talvolta per tutto il giorno trascurando perfino il mangiare, nella cura dei poveri, nella formazione del clero, nella guida dei monaci, molti dei quali furono chiamati al sacerdozio e all'episcopato, e dei monasteri delle «sanctimoniales». Morendo «lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d'uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l'obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche...».

Per la Chiesa africana lavorò parimenti senza posa: si prestò per la predicazione dovunque fosse chiamato, fu presente ai frequenti concili regionali nonostante le difficoltà del viaggio, s'impegnò con intelligenza, assiduità e passione per comporre lo scisma donatista che divideva in due quella Chiesa. Fu questa la sua grande fatica e, per il successo ottenuto, il suo grande merito. Illustrò con innumerevoli opere la storia e la dottrina del donatismo, propose quella cattolica sulla natura dei sacramenti e della Chiesa, promosse una conferenza ecumenica tra vescovi cattolici e donatisti, l'animò con la sua presenza, propose e ottenne di rimuovere tutti gli ostacoli alla riunificazione, anche quello dell'eventuale rinuncia dei vescovi donatisti all'episcopato, divulgò le conclusioni di quella conferenza, avviò a pieno successo il processo di pacificazione. Perseguitato a morte, una volta sfuggì dalle mani dei «circoncellioni» donatisti perché la guida sbagliò la strada.

Per la Chiesa universale compose tante opere, scrisse tante lettere, sostenne tante controversie. I manichei, i pelagiani, gli ariani, i pagani furono l'oggetto delle cure pastorali in difesa della fede cattolica. Lavorò indefessamente di giorno e di notte. Negli ultimi anni della vita dettava ancora un'opera di notte e un'altra, quand'era libero, di giorno. Morendo a 76 anni, ne lasciò tre incompiute. Queste tre opere incompiute sono la testimonianza più eloquente della sua insonne laboriosità e del suo insuperabile amore verso la Chiesa.

IV.

AGOSTINO AGLI UOMINI D'OGGI

A quest'uomo straordinario vogliamo chiedere, prima di terminare, che cosa abbia da dire agli uomini d'oggi. Penso che abbia da dire veramente molto, sia con l'esempio che con l'insegnamento.

A chi cerca la verità insegna a non disperare di trovarla. Lo insegna con l'esempio - egli la ritrovò dopo molti anni di faticose ricerche - e con la sua attività letteraria della quale fissa il programma nella prima lettera scritta poco dopo la conversione. «A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità». Insegna pertanto a cercarla «con umiltà, disinteresse, diligenza»; a superare lo scetticismo attraverso il ritorno in se stessi, dove abita la verità; il materialismo che impedisce alla mente di percepire la sua unione indissolubile con le realtà intelligibili; il razionalismo, che ricusando la collaborazione della fede si mette nella condizione di non capire il «mistero» dell'uomo.

Ai teologi che meritatamente faticano per approfondire il contenuto della fede, egli lascia l'immenso patrimonio del suo pensiero, nel complesso sempre valido, e particolarmente il metodo teologico cui restò incrollabilmente fedele. Sappiamo che questo metodo comportava l'adesione piena all'autorità della fede, che, una nella sua origine - l'autorità di Cristo - si manifesta attraverso la Scrittura, la tradizione, la Chiesa; l'ardente desiderio di capire la propria fede: «ama molto di capire», dice agli altri e applica a se stesso; il senso profondo del mistero: «è migliore la fedele ignoranza», esclama, «che la temeraria scienza»; la convinta sicurezza che la dottrina cristiana viene da Dio e ha pertanto una sua originalità che non solo dev'essere conservata integralmente - è questa la «verginità» della fede di cui si parlava -, ma deve servire anche come misura per giudicare filosofie ad essa conformi o difformi.

E' noto quanto Agostino amasse la Scrittura, di cui esalta l'origine divina, l'inerranza, la profondità e la ricchezza inesauribile, e quanto la studiasse. Ma egli studia e vuole che si studi tutta la Scrittura, che se ne metta in luce il vero pensiero o, come dice, il «cuore», concordandola, dove occorra, con se stessa. Ritiene questi due presupposti leggi fondamentali per capirla. Per questo la legge nella Chiesa, e tenendo conto della tradizione, della quale mette in rilievo con insistenza le proprietà e la forza obbligante. E' celebre il suo effato: «Io non crederei nel Vangelo se non mi c'inducesse l'autorità della Chiesa cattolica».

Nelle controversie che sorgono sull'interpretazione della Scrittura raccomanda di discutere «con santa umiltà, con pace cattolica, con carità cristiana» «finché non sia emersa la verità, che Dio ha posto nella cattedra dell'unità». Allora si potrà constatare che la controversia non è sorta inutilmente, perché è diventata «occasione d'imparare», determinando un progresso nell'intelligenza della fede.

Per continuare ancora un poco sugli insegnamenti agostiniani agli uomini d'oggi, egli ricorda ai pensatori il duplice oggetto d'indagine che deve occupare la mente umana: Dio e l'uomo. «Che cosa vuoi conoscere?» chiede egli a se stesso. E risponde: «Dio e l'uomo». «Nulla di più? Proprio nulla». Di fronte al triste spettacolo del male, ricorda loro altresì di avere fiducia nel trionfo finale del bene, cioè di quella Città «dove la vittoria è verità, la dignità è santità, la pace è felicità, la vita è eternità».

Invita inoltre gli uomini della scienza a riconoscere nelle cose create il vestigio di Dio e a scoprire nell'armonia dell'universo le «ragioni seminali» che Dio vi ha inserito. Agli uomini poi che hanno in mano le sorti dei popoli raccomanda di amare soprattutto la pace e di promuoverla non con la lotta ma con i metodi di pace, perché, scrive sapientemente, «è titolo più grande di gloria uccidere la guerra con la parola che gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace, non con la guerra».

Infine vorrei dedicare una parola ai giovani che Agostino molto amò come professore prima della conversione e come pastore dopo. Egli ricorda ad essi il suo grande trinomio: verità, amore, libertà; tre beni supremi che stanno insieme; e li invita ad amare la bellezza, egli che ne fu un grande innamorato. Non solo la bellezza dei corpi che potrebbe far dimenticare quella dello spirito, né solo quella dell'arte, ma la bellezza interiore della virtù e soprattutto la bellezza eterna di Dio, da cui la bellezza dei corpi, dell'arte e della virtù discende; di Dio che è «la bellezza di ogni bellezza», «fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli». Agostino, ricordando gli anni precedenti la sua conversione, si rammarica amaramente di aver amato tardi questa «bellezza tanto antica e tanto nuova», e vuole che i giovani non lo seguano in questo, ma che, amandola sempre e soprattutto, conservino perpetuamente in essa lo splendore interiore della loro giovinezza.

V.

CONCLUSIONE

Ho ricordato la conversione e ho delineato un rapido panorama del pensiero di un uomo incomparabile di cui un po' tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli. Esprimo di nuovo il vivo desiderio che la sua dottrina sia studiata e largamente conosciuta e il suo zelo pastorale imitato, affinché il magistero di tanto dottore e pastore continui nella Chiesa e nel mondo a favore della cultura e della fede.

Il XVI centenario della conversione di sant'Agostino offre una occasione assai propizia per incrementare gli studi e diffondere la devozione verso di lui. Esorto a tale impegno e fine in particolare gli ordini religiosi - maschili e femminili - che portano il suo nome, vivono sotto il suo patrocinio o che in qualsiasi modo ne seguono la regola e lo chiamano padre. Vogliano essi profittare di questa occasione per rivivere o far rivivere più intensamente i suoi ideali.

Alle varie iniziative e celebrazioni, che sono state organizzate ovunque per questo motivo, sarò presente con animo grato e beneaugurante; sopra ciascuna di esse invoco di cuore la celeste protezione e l'efficace ausilio della vergine Maria, che il vescovo d'Ippona ha esaltato come madre della Chiesa, auspice la mia apostolica benedizione, che con questa lettera mi è caro impartire.

Dato a Roma presso San Pietro, il 28 agosto, nella festa di sant'Agostino, vescovo e dottore della Chiesa, nell'anno 1986, ottavo del mio Pontificato.

 

 

AMANTISSIMA PROVIDENTIA

 

LETTERA APOSTOLICA
AMANTISSIMA PROVIDENTIA
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL VI CENTENARIO
DEL TRANSITO DI S. CATERINA DA SIENA

Venerati fratelli e diletti figli,
salute e apostolica benedizione.

INTRODUZIONE

L'amabile provvidenza divina si manifesta in vari modi protagonista della storia, accendendo sempre nuove luci sul cammino dell'uomo. Spesso sceglie per questo delle persone apparentemente disadatte e ne eleva talmente le facoltà native, da renderle capaci di azioni assolutamente superiori alla loro portata. E questo fa non tanto per confondere la sapienza dei sapienti (1Cor 1,19), quanto per mettere in luce la sua opera, che non ha bisogno di sostegni umani, e per indicare più chiaramente agli uomini a quale dignità li eleva la sua grazia e a quali grandezze ancora maggiori può e vuole condurli la sua guida.

Ciò è particolarmente evidente nella vita e nelle opere di santa Caterina da Siena, di cui quest'anno si celebra il sesto centenario della pia morte. Sono lieto per questo di additarla nuovamente all'esempio dei fedeli, non solo d'Italia, ma del mondo intero. In lei infatti il divino Spirito fece risplendere meravigliosi arricchimenti di grazia e di umanità, per mezzo dei doni di sapienza, d'intelletto e di scienza, coi quali la mente umana diventa estremamente sensibile alle divine ispirazioni, «nella conoscenza delle cose divine e delle umane» (S.Thomae «Summa Theologiae», I-IIae, q. 68, a. 5 ad 1).

A lei si possono perciò applicare le parole del salmista: «Hai spianato la via ai miei passi, i miei piedi non hanno vacillato» (Sal 17 (18),37). E ancora: «Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sal 118 (119),32).

L'esperienza umana e divina

1. Le condizioni d'Italia e dell'Europa non erano felici, quando venne alla luce in Siena, nel 1347, la piccola Caterina. Già si profilava all'orizzonte la tristemente famosa «peste nera», che l'anno dopo infierì dovunque e seminò la desolazione e la morte in ogni paese e quasi in ogni famiglia.

Altri mali funestavano il mondo civile, come le guerre, particolarmente quella dei cento anni tra Francia e Inghilterra, e le incursioni delle compagnie di ventura. Nel mondo religioso tutto quel secolo è riempito, per tre quarti, dal soggiorno dei Papi in Avignone, e poi dal grande scisma d'occidente, che si prolungò fino al 1417. La storia della mantellata senese s'inserisce vivamente in queste situazioni e vi fa anche da protagonista.

Figlia di un tintore di panni, penultima di 25 nati, Caterina prese molto presto coscienza dei bisogni del mondo e, attratta dall'ideale apostolico domenicano, volle entrare nelle file del terz'ordine o, come allora si diceva in Siena, tra le mantellate, le quali, pur non essendo suore né vivendo in comunità, portavano l'abito bianco e il mantello nero dell'ordine dei predicatori. Giovanissima, già si distingueva per la carità verso i poveri e gli ammalati, la pazienza nel sopportare le maldicenze degli uomini e le battaglie interiori col demonio, la saggezza e l'umiltà degli atteggiamenti e dei pensieri.

Intanto si esercitava in un coraggioso programma ascetico, basato su criteri efficienti, che avrebbe più tardi inculcati ai suoi discepoli: «Non lasciar passare i movimenti (della natura disordinata) che non siano corretti» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 73, p. 161; cfr. c. 60; «Epistulae», passim).

Le si raggruppava poi intorno una varia accolta di discepoli d'ogni ceto, attratti dalla sua pura fede e dalla schietta accoglienza della parola di Dio, senza mezzi termini e senza compromessi. Erano laici, mantellate e religiosi di vari ordini, alcuni conquistati da fatti prodigiosi. Tutti ricevevano da lei una singolare assicurazione, di cui spesso sperimentavano la validità: quella d'assisterli dovunque fossero e di pagare anche per i loro errori (cfr. S.Catharinae Senensis «Epist.» 99).

Il Signore la istruiva, come un maestro con la sua alunna, e le scopriva a grado a grado «quelle cose che sarebbero state utili all'anima sua» (Raimundi Capuani «Legenda Maior» [in «Acta Sanctorum», Apr.]).

Il progresso spirituale culminò con lo sposalizio nella fede, che poteva sembrare il sigillo di una vita votata all'isolamento e alla contemplazione. Invece il Signore, nel darle l'anello invisibile, intendeva unirla a sé nelle imprese del suo regno (Raimundi Capuani «Legenda Maior» [in «Acta Sanctorum», Apr.], par. 115). La popolana ventenne vedeva ciò in termini di separazione dallo Sposo celeste, ma egli invece la rassicurava che intendeva stringerla di più a sé «mediante la carità del prossimo» (Raimundi Capuani «Legenda Maior» [in «Acta Sanctorum», Apr.], par. 115), cioè contemporaneamente sul piano della mistica interiore e su quello dell'azione esteriore o della mistica sociale, com'è stato detto (J.Leclercq «La mystique de l'apostolat», 1922-1947).

Fu come un'impennata verso più ampi spazi, che s'aprivano davanti alla sua mente e alla sua iniziativa. Passò dalla conversione di singoli peccatori alla riconciliazione tra persone o famiglie avversarie; alla rappacificazione fra città e repubbliche. Non ebbe paura di passare tra le fazioni in armi né s'arrestò di fronte al dilatarsi degli orizzonti, che da principio l'avevano spaventata fino al pianto. L'impulso del maestro divino svelò in lei come un'umanità d'accrescimento. Per lei, figlia d'artigiani e donna senza lettere, cioè senza scuola né istruzione, la visione del mondo e dei suoi problemi superò enormemente i limiti del suo quartiere, fino a progettare la sua azione in termini mondiali. Al suo ardire non c'eran più limiti, né alla sua ansia per la salvezza degli uomini. Un giorno, racconta lei stessa, il Signore le dette «la croce in collo e l'ulivo in mano», da portare all'uno e all'altro popolo, il cristiano e l'infedele, come se Cristo la sollevasse alle proprie dimensioni universali della salvezza (S.Catharinae Senensis «Epist.» 219 vel LXV).

Per renderla più conforme al suo mistero di redenzione e prepararla al suo indefesso apostolato, il Signore concesse a Caterina il dono delle stigmate. Ciò avvenne nella chiesa di Santa Cristina, a Pisa, il 1· aprile 1375.

Caterina ha 29 anni ed è giunta al punto di rendersi conto della grandezza del suo compito: «ricomporre l'equilibrio della cristianità» (G.La Pira, in Comm. «Vita Cristiana», 1940, p. 206). Da anni propugnava il «santo passaggio», cioè la crociata per la liberazione dei luoghi santi, sia per distogliere le armi cristiane dalle guerre fratricide (cfr. S.Catharinae Senensis «Epist.» 206, vel LXIII), sia per dare «il condimento della fede» agli infedeli (S.Catharinae Senensis «Epist.» 218 vel LXXIV).

Nella stessa maniera, e se possibile anche più appassionata, incoraggiava il Papa alla riforma morale della Chiesa, cominciando con l'elezione di buoni pastori. Su questo tema trovava gli accenti più infiammati, perché per lei «la Chiesa non è altro che esso Cristo» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 171 vel LX). Ella rimprovera e denunzia i disordini, ma con animo tutto accorato, manifestando per la Chiesa una tenerezza materna, accoppiata a virilità di proposte, quando scrive a Gregorio XI: «Andate tosto alla sposa vostra, che vi aspetta tutta impallidita, perché gli poniate il colore» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 231 vel LXXVII). «Reponetele il cuore, che ha perduto, dell'ardentissima carità: ché tanto sangue le è succhiato per l'iniqui devoratori che è tutta impallidita» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 206 vel LXIII).

Ormai s'avvicina il momento della sua impresa più gloriosa. Nel giugno 1376 si recò ad Avignone, come mediatrice di pace tra la santa Sede e Firenze. La questione era difficile: si sarebbe risolta due anni dopo, non senza una sua nuova mediazione. Ma Caterina aveva a cuore cose anche più grandi. S'era fatta precedere dal suo confessore fra Raimondo da Capua, affidandogli la lettera ora citata, in cui espone al pontefice «da parte di Cristo crocifisso» le tre principali cose che egli deve fare per avere pace in ogni direzione: piantare degni pastori, innalzare il gonfalone della croce per la crociata, e riportare la sede papale a Roma.

Le sue parole risuonano di una forte eco profetica, specialmente quando tocca il tasto della povertà della Chiesa e del danno che le porta la cura dei beni temporali. Sul ritorno del vicario di Cristo alla sua sede non ha titubanza: «Rispondete allo Spirito Santo che vi chiama. Io vi dico: venite, venite, venite». E, dopo averlo esortato a venire «come agnello mansueto», per ridare forza al suo messaggio, aggiunge con rispettosa franchezza: «siatemi uomo virile e non timoroso» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 206 vel LXIII). La pena della lunga attesa e della rovina delle anime le strappa dal cuore, in una lettera successiva, questo grido: «Oimé, Padre, io muoio di dolore e non posso morire» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 196 vel LXIV).

Giunta ad Avignone il 18 giugno, poté far valere a voce, anche in incontri diretti col Papa, il senso improrogabile del dovere, parlandogli senza presunzione né timidezza. Il pio pontefice che tardava a prendere l'ultima decisione dovette convincersi che per bocca di lei parlava realmente il Signore e lo certificava della sua volontà. Gregorio XI lasciò definitivamente Avignone il 13 settembre 1376 ed entrò in Roma fra un delirio di popolo festante il 17 gennaio 1377.

Più tardi dopo una lunga missione in Valdorcia Caterina riprese in mano la questione della pace coi fiorentini, corse anche pericolo, in uno dei tumulti dell'estate 1378, di essere uccisa; e lei, che s'era vista a un punto dal martirio, scriveva poi quasi delusa: «Lo Sposo eterno mi fece una grande beffa» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 295).

Purtroppo quell'anno, scomparso Gregorio XI ed eletto tra burrascosi incidenti Urbano VI, uomo devoto all'austerità dei costumi e all'ideale della riforma morale, scoppiò il grande scisma, che doveva turbare l'unità della Chiesa per quasi quarant'anni. La santa, che pur l'aveva previsto, sentì penetrare nella sua carne la ferita della Chiesa. Ormai era da abbandonare ogni altro pensiero e dedicarsi con tutte le forze a lottare per l'unità del corpo mistico e per l'unico vero Papa. D'ora in poi le sue lettere infocate si potranno chiamare messaggi dell'unità cristiana. L'amore per il Papa e la Chiesa brucia la sua anima.

Naturale che all'invito d'Urbano accorresse a Roma: doveva agire sul cuore stesso della Chiesa. Suggerì e incoraggiò la raccolta intorno al «dolce Cristo in terra» di uomini di puro spirito, per assisterlo col consiglio, la preghiera e il prestigio della vita santa. La sua abitazione in via del Papa (significativo!) diventò un centro d'attività diplomatica. Lettere e messaggeri partivano per ogni dove: ai potenti d'Italia e ai regnanti d'Europa, ai Cardinali ribelli e ai servi di Dio da rincuorare. Animava i soldati che combattevano per Urbano, placava il popolo romano tumultuante, frenava gli impeti del pontefice, andava con fatica a pregare sulla tomba dell'apostolo in san Pietro. Fu un anno e mezzo d'attività logorante e di spasimanti orazioni: «O Dio eterno, ricevi il sacrificio della vita mia in questo corpo mistico della santa Chiesa» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 371). Così, tra invocazioni e desideri struggenti, si spense a Roma la domenica 29 aprile 1380, a trentatré anni come il suo Sposo crocifisso.

Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, dove si venera sotto l'altare maggiore; mentre il capo fu inviato a Siena, dove fu accolto trionfalmente dal clero e dal popolo, presente anche la madre di Caterina, Lapa, e conservato nella Chiesa di San Domenico.

Caterina fu canonizzata dal sommo pontefice Pio II con la Bolla «Misericordias Domini», del 29 giugno 1461. Ella venne così solennemente additata alla Chiesa universale come modello di santità, esempio di una sublime grandezza, cui una semplice donna può giungere con la grazia dell'Onnipotente.

Gli scritti

2. Letterariamente santa Caterina è un caso singolare. Non è mai andata a scuola, né sapeva leggere e scrivere, se non forse molto tardi e imperfettamente. Eppure ha dettato un complesso di scritti, che ne fanno un classico di notevole rilievo nella letteratura trecentesca italiana e tra gli scrittori mistici, tanto da meritarle il titolo di dottore della Chiesa, conferitole da sua santità Paolo VI il 4 ottobre 1970.

Sono rimaste di lei 381 «Lettere», dirette ad ogni genere di persone, umili e grandi. E' un epistolario di ricca spiritualità, specchio di un'anima che vive intensamente ciò che esprime, e trova accenti schietti e toni di toccante eloquenza, spesso anche poetici. Vi arde una costante passione per l'uomo immagine di Dio e peccatore, per Cristo redentore, per la Chiesa che è il campo in cui il salvatore fa fruttificare il tesoro del suo sangue nella salvezza dell'uomo.

Vive in esse uno spirito sensibile a tutti i travagli dell'umanità, un'immaginazione fervida, una fede che arroventa la parola nel denunziare i vizi, ma l'addolcisce fino alla tenerezza nell'ammonire i tiepidi e nel sollevare i deboli. Non c'è niente di falso e di convenzionale, ma schietto vigore anche nella pietà.

Inoltre santa Caterina, tra il 1377 e 1378, dettò in varie riprese un libro, che viene ordinariamente intitolato «Dialogo della Divina Provvidenza o della Divina dottrina», nel quale l'anima di lei, in colloquio estatico col Signore, riferisce ciò che l'eterna verità le dice, rispondendo alle sue domande riguardo al bene della Chiesa e dei suoi figli e del mondo intero. Il libro è caratterizzato da accento profetico, da equilibrio di pensiero e da lucidità d'espressione. Tocca i misteri più augusti della nostra religione e i problemi più ardui dell'ascetica e della mistica. Il pensiero vigile e implorante è rivolto ai fratelli del mondo, che vede perdersi nei sentieri del peccato e che cerca di scuotere dal torpore mortale: mentre con fine intuizione psicologica getta fasci di luce sulla via della perfezione, esaltando l'elevazione dell'uomo il quale, nella sequela di Cristo obbediente, trova la via sicura verso la Trinità beata. Ampiezza di prospettive, aderenza di analisi esperienziali e fiammeggiare d'immagini e di concetti, fanno di quest'opera «uno dei gioielli della letteratura religiosa italiana» (E. Underhill, «Mysticism.», p. 467).

Infine ci sono le «Orazioni», raccolte dalle sue labbra negli ultimi anni di vita, quando la santa effondeva la sua anima e la sua ansia, nel parlare con immediatezza al Signore. Sono autentiche improvvisazioni, che salgono spontanee dalla mente immersa nella luce divina e dal cuore dolente per le miserie degli uomini, senza banalità di concetti o di petizioni, ma con tono passionale e confidente, e con espressioni spesso ardite ma di assoluta ortodossia.

L'immagine più espressiva e ampia di questa maestra di verità e d'amore è quella del ponte, una costruzione simbolica che anticipa in qualche modo la «Salita del monte Carmelo» di san Giovanni della Croce. L'allegoria descrive, in succinta e fine analisi psicologica, il cammino dell'uomo che sale dal peccato al vertice della perfezione. La caratterizza un'accentuazione cristologica. su cui s'appoggia tutta la struttura. Infatti il ponte è Gesù Cristo, sia con la figura del suo corpo innalzata sulla croce, sia con la sua dottrina, sia con la sua grazia.

Sul baratro invalicabile aperto dal peccato e solcato dal fiume vorticoso della corruzione mondana, fu gettato a ricongiungere la terra col cielo, quando il Figlio di Dio s'incarnò, unendo in sé la natura divina con la natura umana (S.Catharinae Senensis «Dialogus», cc. 21-22; cfr. S.Catharinae Senensis «Epist.» 272). E' l'unica via per coloro che vogliono veramente giungere alla vita eterna. Ogni uomo, seguendo l'attrazione della grazia di Cristo (trarrò tutto a me), si libera gradatamente dal peccato, dal timore imperfetto o servile e dall'amor proprio sia sensibile che spirituale, fino ad essere spoglio d'ogni imperfezione.

Contemporaneamente si attua il cammino in ascesa, ch'è tutto nel segno dell'amore. Caterina infatti è con san Tommaso e coi migliori teologi, nel pensare che la perfezione «sta nella virtù della carità» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 11); e concorda anche col Concilio Vaticano II («Lumen Gentium», 5), sia in questo, sia nell'universalità della chiamata alla santità (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 53). Perciò segna su Cristo-ponte tre gradi (da lei detti «scaloni») di ascensione spirituale, che significano tanto le tre potenze dell'anima tratte in alto dall'amore, quanto i tre stati progressivi dello spirito: imperfetti, perfetti, perfettissimi (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 26)

Si ha quindi un ponte-scala, col primo grado che è l'amore di servo, il secondo che è l'amore di amico, il terzo che è l'amore di figlio (S.Catharinae Senensis «Dialogus», cc. 56-57). La divisione ternaria non è puramente schematica e tradizionale, ma è didatticamente accompagnata da annotazioni particolari, caratterizzanti i gradi dell'evoluzione verticale e il modo di superare le tappe inferiori, con un'aderenza psicologica fondata sull'osservazione dell'esperienza spirituale.

Anche i seguenti capitoli del «Dialogo» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», cc. 87-96), che si usa chiamare «Trattato delle lacrime», procedono su una medesima via ascendente ma con assoluta originalità di schema, che dimostra nella santa una maestra dalla personalità propria e dalla didattica matura e precisa, pur nell'improvvisazione del dettato.

Tuttavia il progresso spirituale non è limitato all'ambito personale. Santa Caterina è troppo compresa dell'esistenza degli altri e dell'importanza del prossimo; e molto insiste sulla inscindibilità dell'amore del prossimo dall'amore di Dio, come del resto mette in evidenza lo stesso Concilio Vaticano II («Lumen Gentium», 5). Di lei è la sorprendente affermazione, messa in bocca al Signore: «Io ti fo sapere che ogni virtù si fa col mezzo del prossimo, e ogni difetto» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 6).

Caterina intende dire che, per la comunione della carità e della grazia, il prossimo è sempre coinvolto nel bene e nel male che facciamo (cfr. T.Deman, «La parte del prossimo nella vita spirituale secondo il "Dialogo"», in «Vita Cristiana», 1947, n. 3, pp. 250-258). Ma il suo pensiero va più in là: il prossimo è il «mezzo» per eccellenza per la carità in atto, il luogo dove ogni virtù si esercita necessariamente, se non esclusivamente.

Dice l'eterno Padre: l'anima, «come in verità m'ama, così fa utilità al prossimo suo;... e tanto quanto l'anima ama me, tanto ama lui, perché l'amore verso di lui esce di me. Questo è quello mezzo, che Io v'ho posto acciò che esercitiate e proviate la virtù in voi, che non potendo fare utilità a me, dovetela fare al prossimo» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 7).

Questo principio, ribadito innumerevoli volte, fa del prossimo il terreno su cui si esprime, si esercita, si prova e misura la carità fraterna, la pazienza, la giustizia sociale. Nel contatto con gli altri, gli stessi contrasti diventano mezzo di verifica delle azioni virtuose (S.Catharinae Senensis «Dialogus», cc. 7-8): restando fermo il confronto esistenziale con l'amore di Dio: «Con quella perfezione con cui amiamo Dio, con quella amiamo la creatura ragionevole» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 263; cfr. «Dialogus», cc. 7 et 64).

L'insistenza sul principio di solidarietà serve anche a dimostrare la radice profonda della fraternità umana insegnataci da Cristo. Gli uomini vivono questa realtà: ognuno è quasi complemento degli altri. La provvidenza li ha creati dotandoli di qualità fisiche e morali differenziate da individuo a individuo, sicché ognuno ha bisogno degli altri, «acciò che abbiate materia, per forza, d'usare la carità l'uno con l'altro» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 7) e siano tutti legati dal bisogno dell'aiuto reciproco, come le membra nel corpo (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 148).

Similmente nella Chiesa universale c'è solidarietà tra settore e settore. Ciò è figurato nell'allegoria delle tre vigne: la personale, quella del prossimo e quella universale del Popolo di Dio. Le prime due sono tanto unite, «che niuno può fare bene a sé che non facci al prossimo suo, né male che no 'l facci a lui» (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 24). Ma nella solidarietà con la terza vigna sta il senso dell'equilibrio e dell'ordine cateriniano. E' nella vigna universale che è piantata l'unica vite vera, Gesù Cristo, sulla quale ogni altra dev'essere innestata per riceverne vita (S.Catharinae Senensis «Dialogus», c. 24). In essa il principale lavoratore è il Papa, «Cristo in terra, il quale ci ha a ministrare il sangue» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 313 et 321); da lui ogni altro lavoratore dipende, per obbedienza e perché lui «tiene le chiavi del sangue dell'umile Agnello» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 339; cfr. «Epist.» 309 et 305).

Immagini trasparenti del primato di Pietro - primato di magistero e di governo voluto dalla «prima dolce Verità» (S.Catharinae Senensis «Epist.» 24 vel X) - che salda istituzione e carisma in Cristo, unica fonte di essi.

A tale logica si è ispirata tutta l'azione di questo angelo tutelare della Chiesa a pro del pontificato romano.

CONCLUSIONE

Il ruolo eccezionale svolto da Caterina da Siena, secondo i piani misteriosi della provvidenza divina, nella storia della salvezza, non si esaurì col suo felice transito alla patria celeste. Ella, infatti, ha continuato ad influire salutarmente nella Chiesa sia con i suoi luminosi esempi di virtù, sia con i suoi mirabili scritti. Perciò i sommi pontefici, miei predecessori, ne hanno concordemente esaltata la perenne attualità, proponendola continuamente all'ammirazione ed all'imitazione dei fedeli.

Il sommo pontefice Pio II, nella bolla di canonizzazione, la chiamò con parole quasi profetiche: «Illustris et indelebilis memoriae virginem» (Pii II «Misericordias Domini: Bullar. Roman.», V, a. 1860, p. 165). Pio IX la proclamò (1866) seconda patrona di Roma. San Pio X la propose come modello alle donne di Azione Cattolica, nominandola loro patrona. Pio XII proclamò san Francesco d'Assisi e santa Caterina da Siena primari patroni d'Italia, con la lettera apostolica «Licet Commissa» del 18 giugno 1939; e, nel memorabile discorso in onore dei due santi, tenuto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva il 5 maggio 1940, il Papa tributò alla santa senese questo splendido elogio: «In questo servizio della Chiesa voi ben comprendete, diletti figli, come Caterina precorra i nostri tempi, con un'azione che amplifica l'anima cattolica e la pone al fianco dei ministri della fede, suddita e cooperatrice nella diffusione e difesa del vero e della restaurazione morale e sociale del vivere civile» (Pio XII «Discorsi e Radiomessaggi», II [1949] 100). Né meno palpitanti di attualità sono state le ripetute lodi che alla figura e all'attività apostolica di Caterina, tributò il sommo pontefice Paolo VI, in occasione della festa annuale di lei. Mi sembrano, fra le altre, altamente significative per i tempi nostri le seguenti parole del mio venerato predecessore. «Santa Caterina, disse egli il 30 aprile 1969, ha amato la Chiesa nella sua realtà che, come sappiamo, ha un duplice aspetto: uno mistico, spirituale, invisibile, quello essenziale e fuso con Cristo redentore glorioso, il quale non cessa di effondere il suo sangue (chi ha parlato tanto del sangue di Cristo, quanto Caterina?), sul mondo attraverso la sua Chiesa; l'altro umano, storico, istituzionale, concreto, ma non mai disgiunto da quello divino. V'è da chiedersi se mai i nostri moderni critici dell'aspetto istituzionale della Chiesa siano capaci di cogliere questa simultaneità» («Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 941). Ma Paolo VI testimoniò con ancor maggiore autorità la sua stima per il perenne valore della dottrina ascetica e mistica di santa Caterina, allorché la elevò, insieme a santa Teresa d'Avila, alla dignità di dottore della Chiesa e ne celebrò la sovrumana sapienza nella Basilica di san Pietro, il 4 ottobre 1970 («Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 982-988)

Nella vita e nell'attività, sia letteraria che apostolica, di santa Caterina da Siena si è in realtà verificato quanto ho avuto l'occasione di ricordare a un gruppo di Vescovi nella loro visita «ad limina». «Lo Spirito Santo è attivo nell'illuminare le menti dei fedeli con la sua verità, e nell'infiammare i loro cuori col suo amore. Ma queste intuizioni di fede e questo «sensus fidelium» non sono indipendenti dal magistero della Chiesa, che è uno strumento dello stesso Spirito Santo ed è assistito da lui. Solo quando i fedeli sono stati nutriti della parola di Dio, fedelmente trasmessa nella sua purezza ed integrità, i loro carismi propri diventano pienamente operativi e fecondi» (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Allocutio Indorum Episcoporum coetui habita, occasione oblata eorum visitationis "ad limina"», die 31 maii 1979: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», II [1979] 1354-1358).

Possa, dilettissimi fratelli e figli, l'esempio di santa Caterina da Siena, la cui vita fu così mirabilmente attiva e feconda per la sua patria e la Chiesa, perché docile all'«instinctus» dello Spirito Santo e guidata dal magistero della Chiesa, suscitare in moltissime anime una più viva ammirazione e desiderio;o di imitazione delle sue eroiche virtù. Avremo così una nuova conferma che la sua morte fu veramente - ed è tuttora - «preziosa al cospetto del Signore», com'è «la morte dei suoi santi» (Sal 116,15).

Con tali sentimenti nostro animo, a voi, venerabili fratelli e figli diletti d'Italia, nonché a tutti coloro che ovunque nel mondo ricordano tale ricorrenza centenaria del transito di santa Caterina da Siena, e in particolare all'ordine dei frati predicatori e alle monache e sorelle consacrate a Dio secondo la regola di vita della sua famiglia religiosa, imparto benevolmente la benedizione apostolica.

Dato a Roma, in san Pietro, il 29 aprile, nella memoria di santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, nell'anno 1980, secondo del nostro Pontificato.

 

 

 

AI VESCOVI SULLA SITUAZIONE NEL LIBANO

LETTERA APOSTOLICA
A TUTTI I VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
SULLA SITUAZIONE NEL LIBANO

1. Ancora una volta, con la stessa fiducia ma con maggiore tristezza, desidero sollecitare la vostra fraterna solidarietà per i nostri fratelli del Libano, che continuano ad essere vittime di una impietosa violenza, da nessuna causa giustificata.

Di fronte ai ripetuti drammi, che ciascuno degli abitanti di questa terra conosce, noi prendiamo coscienza dell'estremo pericolo che minaccia l'esistenza stessa del Paese: il Libano non può essere abbandonato nella sua solitudine.

2. A partire dall'anno 1975, il Papa Paolo VI, il Papa Giovanni Paolo I ed io stesso sin dall'inizio del mio pontificato non abbiamo risparmiato sforzo alcuno per rendere avvertita l'opinione pubblica sul valore unico del Libano e del suo patrimonio umano e spirituale, per dare sollievo e coraggio ai suoi abitanti sottoposti a violenze di ogni tipo, per favorire una soluzione negoziata delle divergenze, che oppongono tra di loro le parti in conflitto, e per implorare dal Signore la grazia di una pace pazientemente edificata e duratura.

3. In questi ultimi mesi, profondamente scosso dal degrado della situazione e dalla recrudescenza dei combattimenti omicidi, ho voluto sottolineare con molteplici appelli il dovere che noi tutti abbiamo di non dimenticare il Libano e di non assuefarci alle tribolazioni crudeli, che esso sopporta da sin troppo tempo. Non ho esitato nel continuare a bussare a tutte le porte affinché sia posto termine a ciò che è ben doveroso chiamare il massacro di un popolo. E' cosa buona che tutta la Chiesa conosca gli sforzi intrapresi per il salvataggio di uni popolo in pericolo.

Lo scorso 15 maggio ho anche indirizzato un messaggio a numerosi capi di Stato ed ai responsabili di organizzazioni internazionali. Ritenni, infatti, necessario ricordare certe esigenze etiche, alle quali la comunità internazionale è tenuta nei confronti di un Paese che è - a pieno diritto - sua parte, ed è membro fondatore dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e della Lega degli Stati Arabi. A questa linea di condotta si sono aggiunti molteplici contatti bilaterali tra la Santa Sede ed i governi dei paesi che si proclamano amici del Libano o che tradizionalmente intrattengono stretti rapporti con esso. Alcuni di questi scambi di vedute proseguono tuttora.

4. Non è certamente compito del Papa proporre soluzioni tecniche, ma, preoccupato come sono del bene spirituale e materiale di ogni uomo senza distinzione alcuna, sento l'impellente dovere di ribadire certi obblighi che gravano sui responsabili delle nazioni. L'ignorarli può condurre solamente a far vacillare l'ordine delle relazioni internazionali e, una volta ancora, a consegnare l'uomo al solo potere dell'uomo. Non si possono impunemente disprezzare i diritti, i doveri e le regole, che gli attori della vita internazionale hanno elaborato e che hanno sottoscritto, senza che i rapporti tra i popoli ne soffrano, senza che la pace ne sia minacciata, senza che l'uomo finisca con il diventare ostaggio delle ambizioni e degli interessi dei più forti. Ecco perché ho voluto ribadire - e lo ripeto ancora oggi a tutta la Chiesa - che il diritto delle genti e le istituzioni, che ne sono la garanzia, costituiscono punti di riferimento insostituibili quando occorre difendere l'uguale dignità dei popoli e delle persone.

5. Ma ho soprattutto parlato, come Pastore della Chiesa universale, in favore dei cristiani e, naturalmente, dei cattolici in particolare, i quali, a fianco dei fratelli musulmani, vivono e testimoniano in Libano la loro fede.

Non possiamo dimenticare, cari fratelli nell'Episcopato, i legami che ci uniscono a quei fratelli i quali, nella storia lontana e recente, hanno dovuto affermare il loro essere cristiani al prezzo, sovente, di sacrifici eroici. Per loro, oggi assediati dalla violenza delle armi e della parola. la Chiesa tutta intera ha il dovere di «mobilitarsi».

In primo luogo per parlare. Di fronte a un'informazione spesso parziale o superficiale, dobbiamo far conoscere le ricche e secolari tradizioni di collaborazione tra cristiani e musulmani in questo Paese. Si tratta di uno dei fattori caratteristici della società libanese che, fino a poco tempo fa, costituiva un esempio. Una migliore conoscenza reciproca e l'esercizio di un mutuo dialogo per il servizio dell'uomo sono condizioni indispensabili della libertà, della pace e del rispetto per la dignità della persona. Questo pluralismo accettato e vissuto è un valore fondamentale che ha presieduto alla lunga storia del Libano. Per tale motivo, se questo Paese venisse a mancare, la causa stessa della libertà subirebbe uno scacco drammatico.

In secondo luogo per pregare. Noi credenti non abbiamo nessun'altra «arma» che la supplica che eleviamo, dal profondo della nostra afflizione, a colui che ci «ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce» (1Pt 2,9). In questi momenti tragici in cui una parte della famiglia umana e cristiana è minacciata ed è vittima di violenze ingiustificabili, non possiamo che presentare a Dio, Padre di tutti gli uomini, il grido di paura e di disperazione di questi fratelli, che hanno troppo frequentemente la percezione di essere stati abbandonati nel momento stesso in cui il loro Paese è minacciato di annientamento.

6. E' per questa ragione che desidero, cari fratelli, invitare voi e, per il vostro tramite, tutti i figli della Chiesa cattolica ad una giornata universale di preghiera per la pace nel Libano. In Italia, essa avrà luogo il 4 ottobre prossimo, festa liturgica di san Francesco d'Assisi, santo disarmato e pacificatore, che continua ad invitare tutti gli uomini a farsi «strumenti di pace», perché «là dove c'è odio, noi portiamo l'amore». Ogni Chiesa locale avrà cura di scegliere il giorno più indicato per questa preghiera comune, tenendo in considerazione che il 22 novembre viene celebrata la festa nazionale del Libano.

In tal modo sarà tutta la Chiesa - e quanti vorranno associarsi alla nostra iniziativa -, sarà una Chiesa in preghiera, che implorerà dal Padre celeste la pace e la salvezza per il Libano. Anch'io continuo ad affidare al Signore la realizzazione della visita pastorale che ho la ferma intenzione di compiere in questo Paese, come già annunciai il 15 agosto scorso. Mandando ad effetto questa iniziativa spirituale, la Chiesa desidera manifestare al mondo che il Libano è qualcosa di più di un Paese: è un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l'Oriente come per l'Occidente!

7. Voglio rendere nota l'orante solidarietà di tutti i fratelli ai figli della Chiesa cattolica, che sono chiamati a vivere la fede e a darne testimonianza in un Paese devastato da prove così crudeli. Non sollecitiamo per loro e con loro privilegio alcuno; chiediamo che continui ad essere loro assicurato il diritto non solo di credere secondo la voce della coscienza, ma anche di praticare il proprio credo e di essere fedeli alle proprie tradizioni culturali al pari dei fratelli musulmani, senza dover temere esclusione o discriminazione nella medesima patria.

Tutti i cattolici condividano la mia preghiera, per domandare al Signore di ispirare pensieri di pace alle diverse parti di questo conflitto!

Cari fratelli nell'Episcopato, affido alla vostra sollecitudine pastorale la preparazione e l'organizzazione di questa grande giornata di preghiera per il Libano. La Chiesa così non sarà stata in silenzio: il Papa e i fedeli avranno pregato, parlato e agito perché non siano recise le radici della vita sociale e della cooperazione tra i diversi gruppi del Libano.

La scomparsa del Libano diverrebbe senza alcun dubbio uno dei più grandi rimorsi del mondo. La sua salvaguardia è uno dei compiti più urgenti e più nobili che il mondo contemporaneo deve assumersi.

8. E' a nostra Signora di Harissa che una volta ancora affido le nostre angosce e speranze. Ella sostenga gli afflitti! Dia coraggio a quanti lavorano per la pace! Interceda presso suo Figlio, perché siano trovate soluzioni giuste ed eque ai problemi degli altri popoli del Medio Oriente, anch'essi in cerca di una vita sicura, conforme alle loro aspirazioni!

Nel dare appuntamento a voi, cari fratelli nell'Episcopato, come anche ai fedeli affidati alle vostre cure pastorali, per la preghiera comunitaria in favore del Libano e dei suoi figli, supplico il «Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2Cor 1,3-4).

Con la mia benedizione apostolica.

Dal Vaticano, il 7 settembre 1989.

 

 

A CONCILIO COSTANTINOPOLITANO I

LETTERA APOSTOLICA
A CONCILIO CONSTANTINOPOLITANO I
DEL SANTO PADRE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL 1600° ANNIVERSARIO
DEL I CONCILIO DI COSTANTINOPOLI
E PER IL 1550° ANNIVERSARIO
DEL CONCILIO DI EFESO

Carissimi Fratelli nell'Episcopato,

I.

1. Mi spinge a scrivervi questa lettera, che è insieme una riflessione teologica e un invito pastorale, nato dal profondo del cuore, anzitutto la ricorrenza del XVI centenario del primo Concilio di Costantinopoli, celebrato appunto nel 381. Esso, come ho sottolineato fin dall'alba del nuovo anno nella Basilica di San Pietro, «dopo il Concilio di Nicea fu il secondo Concilio Ecumenico della Chiesa... al quale dobbiamo il "Credo" che è recitato costantemente nella liturgia. Un'eredità particolare di quel Concilio è la dottrina sullo Spirito Santo così proclamata nella liturgia latina: «"Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem... qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas"» («L'Osservatore Romano», 2-3 gennaio 1981).

Queste parole ripetute nel «Credo» da tante generazioni cristiane avranno perciò quest'anno per noi un particolare significato dottrinale e affettivo, e ci ricorderanno i vincoli profondi che legano la Chiesa del nostro tempo - nella prospettiva ormai dell'avvento del terzo millennio della sua vita prodigiosamente ricca e provata, continuamente partecipe della Croce e della Risurrezione del Cristo, nella virtù dello Spirito Santo - a quella del quarto secolo, nell'unica continuità delle sue prime origini, e nella fedeltà all'insegnamento del Vangelo e alla predicazione apostolica.

Basta quanto enunciato per comprendere come l'insegnamento del Concilio Costantinopolitano I sia tuttora l'espressione dell'unica fede comune della Chiesa e di tutto il cristianesimo. Confessando questa fede - come facciamo ogni volta che recitiamo il «Credo» - e ravvivandola nella prossima commemorazione centenaria, noi vogliamo mettere in rilievo ciò che ci unisce con tutti i nostri fratelli, nonostante le divisioni avvenute nei secoli. Facendo questo a 1600 anni dal Concilio Costantinopolitano I, noi ringraziamo Dio per la Verità del Signore, che, grazie all'insegnamento di quel Concilio, illumina le vie della nostra fede, e le vie della vita in virtù della fede. In questa ricorrenza si tratta non soltanto di ricordare una formula di fede, che è in vigore da sedici secoli nella Chiesa, ma al tempo stesso di rendere sempre più presente al nostro spirito, nella riflessione, nella preghiera, nel contributo della spiritualità e della teologia, quella forza personale divina che da la vita, quel Dono ipostatico - «Dominum et Vivifcantem» - quella Terza Persona della Santissima Trinità che in questa fede viene partecipata dalle singole anime e dalla Chiesa tutta. Lo Spirito Santo continua a vivificare la Chiesa, e a spingerla sulle vie della santità e dell'amore. Come bene sottolinea Sant'Ambrogio, nell'opera «De Spiritu Sancto», «sebbene Egli sia inaccessibile per natura, tuttavia può essere ricevuto da noi grazie alla sua bontà; riempie tutto con la sua virtù, ma di lui partecipano soltanto i giusti; è semplice nella sua sostanza, ricco di virtù, presente in tutti, divide ciò che è suo per donarlo a ognuno ed è tutto intero in ogni luogo» (Sant'Ambrogio «De Spiritu Sancto», I, V, 72; ed. O. Faller, CSEL 79, Vindobonae 1964, p. 45).

2. Il ricordo del Concilio di Costantinopoli, che fu il secondo Concilio Ecumenico della Chiesa, rende consapevoli noi, uomini del cristianesimo del secondo millennio che sta per finire, di quanto fosse vivo, nei primi secoli del primo millennio, in mezzo alla crescente comunità dei credenti, il bisogno di intendere e di proclamare giustamente, nella confessione della Chiesa, l'inscrutabile mistero di Dio nella sua trascendenza assoluta: del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questo, ed altri contenuti chiave della verità e della vita cristiana, hanno prima di tutto attirato su di sé l'attenzione dei fedeli; pure intorno a tali contenuti sono nate numerose interpretazioni, anche divergenti, le quali esigevano la voce della Chiesa, la sua solenne testimonianza in virtù della promessa fatta da Cristo nel cenacolo: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, ...vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26); Egli, lo Spirito di verità, «vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13).

Così, nel corrente anno 1981, dobbiamo in modo speciale ringraziare lo Spirito Santo perché in mezzo alle molteplici oscillazioni del pensiero umano, ha permesso alla Chiesa di esprimere la propria fede, pur nelle peculiarità espressive dell'epoca, in piena coerenza con la «verità tutta intera».

«Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti», così suonano le parole del simbolo di fede del primo Concilio di Costantinopoli nel 381 (Così citato per la prima volta negli Atti del Concilio Calcedonense, act. II: ed. E. Schwarts, «Acta Conciliorum Oecumenicorum, II Concilium universale Chalcedonense», Berolini et Lipsiae 1927-32, 1, 2, p. 80; cfr. anche «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bologna 1973, p. 24), che ha illustrato il mistero dello Spirito Santo, della sua origine dal Padre, affermando così l'unità e l'uguaglianza nella divinità di questo Spirito Santo con il Padre e con il Figlio.

II.

3. Ricordando il XVI centenario del Concilio Costantinopolitano I non posso peraltro passare sotto silenzio un'altra significativa circostanza, che riguarda il 1981: quest'anno, infatti, ricorre anche il 1550· anniversario del Concilio di Efeso, celebrato nel 431. E' un ricordo che si pone come all'ombra del precedente Concilio, ma che riveste anch'esso una importanza particolare per la nostra fede, ed è sommamente degno di essere ricordato.

Nello stesso simbolo noi recitiamo infatti, nel cuore della comunità liturgica che si prepara a rivivere i Divini Misteri: «Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est: e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo». Il Concilio Efesino ebbe pertanto un valore soprattutto cristologico, definendo le due nature in Gesù Cristo, quella divina e quella umana, per precisare la dottrina autentica della Chiesa già espressa dal Concilio di Nicea nel 325, ma che era stata messa in pericolo dalla diffusione di differenti interpretazioni della verità già chiarita in quel Concilio, e specialmente di alcune formule usate nell'insegnamento nestoriano. In stretta connessione con queste affermazioni, il Concilio di Efeso ebbe inoltre un significato soteriologico, ponendo in luce che - secondo il noto assioma - «ciò che non è assunto non è salvato». Ma altrettanto strettamente congiunto col valore di quelle definizioni dogmatiche, era altresì la verità concernente la Vergine Santa, chiamata all'unica e irripetibile dignità di Madre di Dio, di «Theotokos», come è messo in solare evidenza principalmente dalle lettere di san Cirillo a Nestorio («Acta Conciliorum Oecumenicorum, I, Concilium universale Ephesinum»: ed E. Schwartz, I, 1, pp 25-28; cfr. anche «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bologna 1973, pp. 40-44; 50-61) e dalla splendida «Formula unionis» del 433 («Acta Conciliorum Oecumenicorum», I, I, 4, pp 8s (A); cfr. anche «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bologna 1973, pp. 69s ). E' stato tutto un inno innalzato da quegli antichi padri alla incarnazione del Figlio Unigenito di Dio, nella piena verità delle due nature nell'Unica persona: è stato un inno all'opera della salvezza, realizzata nel mondo per opera dello Spirito Santo: e tutto ciò non poteva non ridondare ad onore della Madre di Dio, prima cooperatrice della potenza dell'Altissimo, che l'ha adombrata nel momento dell'Annunciazione nel luminoso sopravvenire dello Spirito (cfr. Lc 1,35). E così compresero le nostre sorelle e i nostri fratelli di Efeso, che la sera del 22 giugno, giorno inaugurale del Concilio, celebrato nella Cattedrale della «Madre di Dio», acclamarono con quel titolo la Vergine Maria e portarono in trionfo i Padri al termine di quella prima sessione.

Mi sembra pertanto molto opportuno che anche quell'antico Concilio, il terzo della storia della Chiesa, sia da noi ricordato nel suo ricco contesto teologico ed ecclesiale. La Vergine santissima è Colei che, all'ombra della potenza della Trinità, è stata la creatura più strettamente associata all'opera della salvezza. L'incarnazione del Verbo è avvenuta sotto il suo cuore, per opera dello Spirito Santo. In Lei si è accesa l'aurora della nuova umanità che con Cristo si presentava nel mondo per portare a compimento il piano originario dell'alleanza con Dio, infranta dalla disobbedienza del primo uomo. «Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine».

4. I due anniversari, sia pure a diverso titolo e con diversa rilevanza storica, ridondano ad onore dello Spirito Santo. Tutto ciò si è compiuto per opera dello Spirito Santo. Si vede quanto profondamente queste due grandi commemorazioni, a cui è doveroso fare riferimento nell'anno del Signore 1981, siano unite tra loro nell'insegnamento e nella professione della fede della Chiesa, della fede di tutti i cristiani. Fede nella Santissima Trinità: fede nel Padre, da cui provengono tutti i doni (cfr. Gc 1,17). Fede nel Cristo Redentore dell'uomo. Fede nello Spirito Santo. E, in questa luce, venerazione alla Madonna, che «acconsentendo alla parola divina diventò Madre di Gesù, e, abbracciando con tutto l'animo e senza impedimento alcuno di peccato la volontà salvifica di Dio, consacrò totalmente se stessa quale Ancella del Signore alla persona e all'opera del Figlio suo» e perciò «non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma... cooperò alla salvezza dell'uomo con libera fede e obbedienza» («Lumen Gentium», 56). Ed è tanto bello che, come Maria aspettò con questa fede la venuta del Signore, così, anche in questa fine de secondo millennio, essa sia presente a illuminare la nostra fede, in tale prospettiva di «avvento».

Tutto ciò è per noi fonte di immensa gioia, fonte di gratitudine per la luce di questa fede, mediante la quale partecipiamo agli inscrutabili misteri divini, facendone il contenuto vitale delle nostre anime, dilatando in esse gli orizzonti della nostra dignità spirituale e dei nostri destini umani. E perciò, anche questi grandi anniversari non possono rimanere per noi solamente un ricordo del lontano passato. Devono rivivere nella fede della Chiesa, devono risuonare con un'eco nuova nella sua spiritualità, devono anzi trovare la manifestazione esterna della loro sempre viva attualità per l'intera comunità dei credenti.

5. Scrivo queste cose prima di tutto a voi, miei amati e venerati fratelli nel servizio episcopale. Mi rivolgo, al tempo stesso, ai fratelli sacerdoti, i più stretti collaboratori nella vostra sollecitudine pastorale «in virtute Spiritus Sancti». Mi rivolgo ai fratelli e sorelle di tutte le famiglie religiose maschili e femminili, in mezzo alle quali dovrebbe essere particolarmente viva la testimonianza dello Spirito di Cristo ed altresì particolarmente cara la missione di Colei che ha voluto essere l'Ancella del Signore (cfr. Lc 1,38). Mi rivolgo infine a tutti i fratelli e sorelle del laicato della Chiesa, i quali, professandone la fede, insieme a tutti gli altri membri della comunità ecclesiale, tante volte e da tante generazioni rendono sempre vivo il ricordo dei grandi Concili. Sono convinto che essi accetteranno con gratitudine la rievocazione di queste date e di questi anniversari, specialmente quando insieme ci renderemo conto di quanto «attuali» siano, al tempo stesso, i misteri, ai quali i due Concili hanno dato una autorevole espressione già nella prima metà del primo millennio della storia della Chiesa.

Oso infine nutrire la speranza, che la commemorazione dei Concili di Costantinopoli e di Efeso, i quali sono stati l'espressione di fede insegnata e professata dalla Chiesa indivisa, ci faccia crescere nella reciproca comprensione con i nostri amati fratelli nell'Oriente e nell'Occidente, con i quali ancora non ci unisce la piena comunione ecclesiale, ma insieme ai quali cerchiamo nella preghiera, con umiltà e con fiducia, le vie all'unità nella verità. Che cosa, infatti, può meglio affrettare il cammino verso questa unità, quanto il ricordo e, insieme, la vivificazione di ciò che per tanti secoli è stato ill contenuto della fede professata in comune, anzi di ciò che non ha cessato di essere tale, anche dopo le dolorose divisioni che si sono verificate nel corso dei secoli?

III.

6. E' pertanto mia intenzione che questi avvenimenti siano vissuti nel loro profondo contesto ecclesiologico. Non dobbiamo infatti soltanto ricordare questi grandi anniversari come fatti del passato - ma rianimarli anche con la nostra contemporaneità, e collegarli in profondità con la vita e i compiti della Chiesa della nostra epoca, così come essi sono stati espressi nell'intero messaggio del Concilio della nostra epoca: Il Vaticano II. Quanto profondamente vivono in tale magistero le verità definite in quei Concili e quanto esse hanno pervaso il contenuto dell'insegnamento sulla Chiesa, che è centrale nel Vaticano II! Quanto sono sostanziali e costitutive per quest'insegnamento e, ugualmente, quanto intensamente queste fondamentali e centrali verità del nostro «Credo» vivono, per così dire una vita nuova e brillano con una luce nuova nell'insieme dell'insegnamento del Vaticano II!

Se il principale compito della nostra generazione, e può darsi anche delle generazioni future nella Chiesa, sarà di realizzare e di introdurre nella vita l'insegnamento e gli orientamenti di questo grande Concilio, quest'anno gli anniversari dei Concili Costantinopolitano I ed Efesino offrono l'opportunità di adempiere questo compito nel vivo contesto della verità che, attraverso i secoli, dura in eterno.

7. «Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa, e perché i credenti avessero così per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, è una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per Lui il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1Cor 3,16; 6,19), e in essi prega e rende testimonianza della loro adozione filiale (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli guida la Chiesa alla verità tutta intera (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel mistero, la istruisce e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la Sposa dicono al Signore Gesù: "Vieni" (cfr. Ap 22,17). Così la Chiesa universale si presenta come "un popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"» («Lumen Gentium», 4): ecco il passo certamente più ricco, più sintetico, anche se non unico, il quale indica come, nella totalità dell'insegnamento del Vaticano II viva di una vita nuova e brilli con uno splendore nuovo la verità sullo Spirito Santo, alla quale 1600 anni fa ha dato così autorevole espressione il Concilio Costantinopolitano I.

Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato - rinnovamento che deve essere ad un tempo «aggiornamento» e consolidamento in ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa - non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l'aiuto della sua luce e della sua potenza. Questo è importante, tanto importante, per tutta la Chiesa nella sua universalità, come pure per ogni Chiesa particolare nella comunione con tutte le altre Chiese particolari. Questo è importante anche per la via ecumenica all'interno del cristianesimo e per la sua via nel mondo contemporaneo, la quale deve svilupparsi nella direzione della giustizia e della pace. Questo è importante, anche per l'opera delle vocazioni sacerdotali o religiose e, al tempo stesso, per l'apostolato dei laici, come frutto di una nuova maturità della loro fede.

8. Le due formulazioni del simbolo Niceno-Costantinopolitano: «Et incarnatus est de Spiritu Sancto... Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem» ci ricordano poi che la più grande opera compiuta dallo Spirito Santo, alla quale incessantemente tutte le altre si riferiscono, attingendo da essa come ad una sorgente, e proprio quella dell'incarnazione del Verbo Eterno, nel seno della Vergine Maria.

Cristo, Redentore dell'uomo e del mondo, è il centro della storia: «Gesù Cristo è lo stesso, ieri e oggi...» (Eb 13,8). Se i nostri pensieri e i nostri cuori permangono rivolti verso di Lui nella prospettiva del secondo millennio, che sta per chiudersi e che ci separa dalla sua prima venuta nel mondo, allora con ciò stesso essi si rivolgono verso lo Spirito Santo, per opera del quale è avvenuto il suo umano concepimento; e si rivolgono anche a Colei, dalla quale è stato concepito ed è nato: alla Vergine Maria. Proprio gli anniversari dei due grandi Concili dirigono quest'anno in modo speciale i nostri pensieri e i nostri cuori verso lo Spirito Santo e verso la madre di Dio, Maria. E se ricordiamo quanta gioia ed esultanza suscitò 1550 anni fa a Efeso la professione di fede nella maternità divina della Vergine Maria (Theotokos), comprendiamo allora che in quella professione di fede è stata insieme glorificata la particolare opera dello Spirito Santo: cioè quella che compongono sia l'umano concepimento e la nascita del Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo, sia, sempre per opera dello stesso Spirito Santo, la maternità santissima della Vergine Maria. Questa maternità non solo è fonte e fondamento di tutta l'eccezionale santità di Maria e della sua particolarissima partecipazione a tutta l'economia della salvezza, ma stabilisce anche un permanente legame materno con la Chiesa, derivante dal fatto stesso che Essa è stata scelta dalla Santissima Trinità come Madre di Cristo, il quale è il Capo del Corpo, cioè della Chiesa» (Col 1,18). Questo legame si rivela particolarmente sotto la croce, dove Maria, «soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di Lui, ...dallo stesso Gesù morente in croce fu data quale madre al discepolo con queste parole: «Donna, ecco il tuo figlio» (cfr. Gv 19,26-27)» («Lumen Gentium», 58).

Il Concilio Vaticano II, poi, sintetizza felicemente la relazione inscindibile di Maria Santissima con Cristo e con la Chiesa: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare solennemente il mistero della salvezza umana prima di avere effuso lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli Apostoli prima del giorno della Pentecoste "perseveranti d'un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria Madre di Gesù e i fratelli di Lui" (At 1,14), e anche Maria implorante con le sue preghiere il dono dello Spirito, che l'aveva già ricoperta nell'Annunciazione» («Lumen Gentium», 59). Con questa espressione il testo del Concilio unisce tra di loro i due momenti, nei quali la maternità di Maria è più strettamente legata all'opera dello Spirito Santo: dapprima, il momento dell'Incarnazione, e poi quello della nascita della Chiesa nel Cenacolo di Gerusalemme.

IV

9. Tutti questi grandi e importanti motivi, e il confluire di circostanze così significative persuadono pertanto a far sì che nell'anno in corso, doppiamente giubilare, si metta in particolare evidenza la solennità della Pentecoste in tutta la Chiesa.

Invito perciò a Roma in quel giorno tutte le Conferenze Episcopali della Chiesa Cattolica e i Patriarcati e Metropolie delle Chiese Orientali cattoliche, nella rappresentanza che piacerà loro di inviare, affinché insieme possiamo rinnovare quell'eredita che abbiamo ricevuto dal Cenacolo della Pentecoste e nella potenza dello Spirito Santo: è Lui infatti che ha mostrato alla Chiesa, nel momento della sua nascita, quella via che conduce a tutte le nazioni, a tutti i popoli e lingue, e al cuore di tutti gli uomini.

Trovandoci raccolti nell'unità collegiale come gli eredi della sollecitudine apostolica per tutte le Chiese (cfr. 2Cor 11,28) attingeremo all'abbondanza sorgiva dello stesso Spirito, che guida la missione della Chiesa sulle vie dell'umanità contemporanea alla fine del secondo millennio dopo l'Incarnazione del Verbo, per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria.

10. La prima parte della solennità ci riunirà, al mattino, nella Basilica di san Pietro in Vaticano per cantare con tutto il cuore il nostro Credo «in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem... qui locutus est per prophetas... Et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam». A tanto ci spinge il 1600· anniversario del Concilio Costantinopolitano I: come gli Apostoli nel Cenacolo, come i Padri di quel Concilio ci riunirà Colui il quale «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa» e «continuamente la rinnova» (cfr. «Lumen Gentium», 4).

In tal modo la solennità della Pentecoste di quest'anno diventerà una sublime e riconoscente professione di quella fede nello Spirito Santo, Signore e Datore di vita, che in modo particolare dobbiamo a quel Concilio. E al tempo stesso, diventerà un'umile preghiera e un'ardente invocazione affinché questo stesso Spirito Santo ci aiuti a «rinnovare la faccia della terra», anche mediante l'opera di rinnovamento della Chiesa secondo il pensiero del Vaticano II. Che quest'opera si svolga in modo maturo e regolare in tutte le Chiese, in tutte le comunità cristiane; che essa si compia prima di tutto nelle anime degli uomini, perché non è possibile un vero rinnovamento senza una continua conversione a Dio. Chiederemo allo Spirito di Verità di rimanere, sulla via di questo rinnovamento, perfettamente fedeli a quel «parlare dello Spirito», che è per noi attualmente l'insegnamento del Vaticano II, di non lasciare questa via spinti da un certo riguardo verso lo spirito del mondo. Chiederemo inoltre a Colui che e «fons vivus, ignis, caritas» - acqua viva, fuoco, amore -, di permeare noi stessi e tutta la Chiesa, e infine la famiglia umana, di quell'amore che «tutto spera, tutto sopporta», e che «non avrà mai fine» (1Cor 13,7-8).

Non c'è alcun dubbio che, nella presente tappa della storia della Chiesa e dell'umanità, si senta un particolare bisogno di approfondire e di rianimare questa verità. Ce ne darà occasione, a Pentecoste, la commemorazione del 1600· anniversario del Concilio Costantinopolitano I. Che lo Spirito Santo accetti questa nostra manifestazione di fede. Accolga, nella funzione liturgica della solennità della Pentecoste, quest'umile aprirsi dei cuori a Lui, il Consolatore, nel quale si rivela e si realizza il dono dell'unità.

11. In una seconda parte della celebrazione, ci riuniremo quel giorno, nelle ore del tardo pomeriggio, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove la parte mattutina sarà completata con i contenuti, che offre alla nostra riflessione il 1550· anniversario del Concilio di Efeso. Ce lo suggerirà anche la singolare coincidenza che la Pentecoste cadrà quest'anno il 7 giugno, come già avvenne nel 431, e in quel giorno solenne, che era stato fissato per l'inizio delle sessioni (spostate poi al 22 giugno), cominciarono ad affluire a Efeso i primi gruppi di Vescovi.

Tali contenuti saranno tuttavia visti anch'essi attraverso l'apporto del Concilio Vaticano II, con un particolare riguardo al mirabile capitolo VII della Costituzione «Lumen Gentium». Così come il Concilio di Efeso, mediante l'insegnamento cristologico e soteriologico, permise di riconfermare la verità sulla Maternità Divina di Maria - la Theotokos - così il Vaticano II ci permette di ricordare che la Chiesa, la quale nasce nel Cenacolo gerosolimitano dalla potenza dello Spirito Santo, comincia a guardare a Maria come all'esempio della maternità spirituale della Chiesa stessa, e perciò come alla sua figura archetipa. In quel giorno Colei, che da Paolo VI fu chiamata anche Madre della Chiesa, irradia la sua potenza di intercessione sulla Chiesa-Madre e ne protegge quella spinta apostolica di cui questa tuttora vive, generando a Dio i credenti di tutti i tempi e di tutte le latitudini.

E perciò la liturgia pomeridiana della solennità di Pentecoste ci riunirà nella principale Basilica Mariana di Roma per ricordare in modo particolare, mediante tale atto, che nel cenacolo gerosolimitano gli Apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con.... Maria, la Madre di Gesù...» (At 1,14), preparandosi alla venuta dello Spirito Santo. Similmente anche noi, in quel giorno così importante, desideriamo di essere assidui nella preghiera insieme con Colei la quale, secondo le parole della Costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Chiesa, come Madre di Dio «è figura della Chiesa... nell'ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo» («Lumen Gentium», 63). E così, perseverando nella preghiera insieme con Lei e pieni di fiducia in Lei, affideremo alla potenza dello Spirito Santissimo la Chiesa, e la sua missione tra tutte le nazioni del mondo di oggi e di domani. Noi infatti portiamo in noi stessi l'eredità di coloro, ai quali Cristo Risorto ha ordinato di andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15).

Nel giorno di Pentecoste, riuniti nella preghiera insieme con Maria, la Madre di Gesù, essi si sono convinti di poter compiere questo ordine con la potenza dello Spirito Santo, disceso su di loro conformemente al preannunzio del Signore (cfr. At 1,8). In quello stesso giorno noi, loro eredi, ci stringeremo nello stesso atto di fede e di preghiera.

V

12. Diletti miei fratelli!

So che il Giovedì Santo voi rinnovate, nella comunità del presbiterio delle vostre diocesi, il memoriale dell'Ultima Cena, durante la quale il pane e il vino, mediante le parole di Cristo e la potenza dello Spirito Santo, sono diventati il corpo e il sangue del nostro Salvatore, cioè l'Eucaristia della nostra redenzione.

In quel giorno, o anche in altre occasioni opportune, parlate a tutto il Popolo di Dio di questi anniversari e avvenimenti importanti, affinché siano similmente ricordati e vissuti anche in ogni Chiesa locale e in ogni comunità della Chiesa, così come essi meritano, nel modo che sarà stabilito dai singoli Pastori, secondo le indicazioni delle rispettive Conferenze Episcopali e dei Patriarcati e Metropolie delle Chiese Orientali.

Nel desiderio vivissimo delle annunciate celebrazioni, mi è caro impartire a tutti voi, venerati e carissimi fratelli nell'Episcopato, e, insieme con voi, alle vostre singole comunità ecclesiali, la mia particolare benedizione apostolica.

Dato in Roma, presso san Pietro, il 25 marzo 1981, Solennità dell'Annunciazione del Signore, terzo anno del Pontificato.

 

 

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