Sabato, 22 Marzo, 2025

Vita consecrata

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POST-SINODALE
VITA CONSECRATA
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO E AL CLERO
AGLI ORDINI E CONGREGAZIONI RELIGIOSE
ALLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA
AGLI ISTITUTI SECOLARI
E A TUTTI I FEDELI
CIRCA LA VITA CONSACRATA E LA SUA MISSIONE
NELLA CHIESA E NEL MONDO

 

INTRODUZIONE

1. La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. Con la professione dei consigli evangelici i tratti caratteristici di Gesù — vergine, povero ed obbediente — acquistano una tipica e permanente «visibilità» in mezzo al mondo, e lo sguardo dei fedeli è richiamato verso quel mistero del Regno di Dio che già opera nella storia, ma attende la sua piena attuazione nei cieli.

Lungo i secoli non sono mai mancati uomini e donne che, docili alla chiamata del Padre e alla mozione dello Spirito, hanno scelto questa via di speciale sequela di Cristo, per dedicarsi a Lui con cuore «indiviso» (cfr 1 Cor 7, 34). Anch'essi hanno lasciato ogni cosa, come gli Apostoli, per stare con Lui e mettersi, come Lui, al servizio di Dio e dei fratelli. In questo modo essi hanno contribuito a manifestare il mistero e la missione della Chiesa con i molteplici carismi di vita spirituale ed apostolica che loro distribuiva lo Spirito Santo, e di conseguenza hanno pure concorso a rinnovare la società.

Rendimento di grazie per la vita consacrata

2. Il ruolo della vita consacrata nella Chiesa è tanto rilevante che decisi di convocare un Sinodo per approfondirne il significato e le prospettive, in vista dell'ormai imminente nuovo millennio. Nell'Assemblea sinodale ho voluto che fossero presenti, accanto ai Padri, anche numerosi consacrati e consacrate, affinché non mancasse il loro apporto alla comune riflessione.Siamo tutti consapevoli della ricchezza che, per la comunità ecclesiale, costituisce il dono della vita consacrata nella varietà dei suoi carismi e delle sue istituzioni. Insieme rendiamo grazie a Dio per gli Ordini e gli Istituti religiosi dediti alla contemplazione, alle opere di apostolato, per le Società di vita apostolica, per gli Istituti secolari e per altri gruppi di consacrati, come pure per tutti coloro che, nel segreto del loro cuore, si dedicano a Dio con speciale consacrazione.Al Sinodo si è toccata con mano l'universale diffusione della vita consacrata, presente nelle Chiese di ogni parte della terra. Essa stimola ed accompagna lo sviluppo della evangelizzazione nelle diverse regioni del mondo, dove non solo si ricevono con gratitudine Istituti provenienti da fuori, ma se ne costituiscono di nuovi, con grande varietà di forme e di espressioni.Così, se in alcune regioni della terra gli Istituti di vita consacrata sembrano attraversare un momento di difficoltà, in altre essi prosperano con sorprendente vigore, mostrando che la scelta di totale donazione a Dio in Cristo non è per nulla incompatibile con la cultura e la storia di ogni popolo. Né essa fiorisce soltanto dentro la Chiesa cattolica; in realtà la si trova particolarmente viva nel monachesimo delle Chiese ortodosse, quale tratto essenziale della loro fisionomia e sta iniziando o riemergendo nelle Chiese e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma, come segno di una grazia comune dei discepoli di Cristo. Da tale constatazione deriva un impulso all'ecumenismo che alimenta il desiderio di una comunione sempre più piena fra i cristiani, «perché il mondo creda» (Gv 17, 21).

La vita consacrata, dono alla Chiesa

3. L'universale presenza della vita consacrata e il carattere evangelico della sua testimonianza mostrano con tutta evidenza — se ce ne fosse bisogno — che essa non è una realtà isolata e marginale , ma tocca tutta la Chiesa. I Vescovi nel Sinodo lo hanno più volte confermato: «de re nostra agitur», «è cosa che ci riguarda».1 In realtà, la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché «esprime l'intima natura della vocazione cristiana»2 e la tensione di tutta la Chiesa-Sposa verso l'unione con l'unico Sposo.3 Al Sinodo è stato più volte affermato che la vita consacrata non ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e di sostegno per la Chiesa, ma è dono prezioso e necessario anche per il presente e per il futuro del Popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione.4

Le attuali difficoltà, che non pochi Istituti incontrano in alcune regioni del mondo, non devono indurre a sollevare dubbi sul fatto che la professione dei consigli evangelici sia parte integrante della vita della Chiesa, alla quale reca un prezioso impulso verso una sempre maggiore coerenza evangelica.5 Si potrà avere storicamente una ulteriore varietà di forme, ma non muterà la sostanza di una scelta che s'esprime nel radicalismo del dono di sé per amore del Signore Gesù e, in Lui, di ogni componente della famiglia umana. Su questa certezza, che ha animato innumerevoli persone nel corso dei secoli, il popolo cristiano continua a contare, ben sapendo di poter trarre dall'apporto di queste anime generose un validissimo sostegno nel suo cammino verso la patria del cielo.

Raccogliendo i frutti del Sinodo

4. Aderendo al desiderio manifestato dall'Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi raccolta per riflettere sul tema «La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo», intendo proporre in questa Esortazione apostolica i frutti dell'itinerario sinodale6 e mostrare a tutti i fedeli — Vescovi, presbiteri, diaconi, persone consacrate e laici —, come pure a quanti vorranno porsi in ascolto, le meraviglie che il Signore anche oggi vuole compiere attraverso la vita consacrata.Questo Sinodo, venendo dopo quelli dedicati ai laici e ai presbiteri, completa la trattazione delle peculiarità che caratterizzano gli stati di vita voluti dal Signore Gesù per la sua Chiesa. Se infatti nel Concilio Vaticano II è stata sottolineata la grande realtà della comunione ecclesiale, nella quale convergono tutti i doni in vista della costruzione del Corpo di Cristo e della missione della Chiesa nel mondo, in questi ultimi anni si è avvertita la necessità di esplicitare meglio l'identità dei vari stati di vita, la loro vocazione e la loro missione specifica nella Chiesa.

La comunione nella Chiesa non è infatti uniformità, ma dono dello Spirito che passa anche attraverso la varietà dei carismi e degli stati di vita. Questi saranno tanto più utili alla Chiesa e alla sua missione, quanto maggiore sarà il rispetto della loro identità. In effetti, ogni dono dello Spirito è concesso perché fruttifichi per il Signore7 nella crescita della fraternità e della missione.

L'opera dello Spirito nelle varie forme di vita consacrata

5. Come non ricordare con gratitudine verso lo Spirito l'abbondanza delle forme storiche di vita consacrata, da Lui suscitate e tuttora presenti nel tessuto ecclesiale? Esse si presentano come una pianta dai molti rami,8 che affonda le sue radici nel Vangelo e produce frutti copiosi in ogni stagione della Chiesa. Quale straordinaria ricchezza! Io stesso, alla fine del Sinodo, ho sentito il bisogno di sottolineare questo elemento costante nella storia della Chiesa: la schiera di fondatori e di fondatrici, di santi e di sante, che hanno scelto Cristo nella radicalità evangelica e nel servizio fraterno, specialmente dei poveri e abbandonati.9 Proprio in tale servizio emerge con particolare evidenza come la vita consacrata manifesti l'unitarietà del comandamento dell'amore, nell'inscindibile connessione tra amore di Dio e amore del prossimo.

Il Sinodo ha fatto memoria di quest'opera incessante dello Spirito Santo, che nel corso dei secoli dispiega le ricchezze della pratica dei consigli evangelici attraverso i molteplici carismi, e anche per questa via rende perennemente presente nella Chiesa e nel mondo, nel tempo e nello spazio, il mistero di Cristo.

Vita monastica in Oriente e in Occidente

6. I Padri sinodali delle Chiese cattoliche orientali e i rappresentanti delle altre Chiese dell'Oriente hanno messo in risalto, nei loro interventi, i valori evangelici della vita monastica, 10 apparsa già agli inizi del cristianesimo e tuttora fiorente nei loro territori, specialmente presso le Chiese ortodosse.

Fin dai primi secoli della Chiesa vi sono stati uomini e donne che si sono sentiti chiamati ad imitare la condizione di servo del Verbo incarnato, e si sono posti alla sua sequela vivendo in modo specifico e radicale, nella professione monastica, le esigenze derivanti dalla partecipazione battesimale al mistero pasquale della sua morte e risurrezione. In questo modo, facendosi portatori della Croce (staurophóroi), si sono impegnati a diventare portatori dello Spirito (pneumatophóroi), uomini e donne autenticamente spirituali, capaci di fecondare segretamente la storia con la lode e l'intercessione continua, con i consigli ascetici e le opere della carità.

Nell'intento di trasfigurare il mondo e la vita in attesa della definitiva visione del volto di Dio, il monachesimo orientale privilegia la conversione, la rinuncia a se stessi e la compunzione del cuore, la ricerca dell'esichia, cioè della pace interiore, e la preghiera incessante, il digiuno e le veglie, il combattimento spirituale e il silenzio, la gioia pasquale per la presenza del Signore e per l'attesa della sua venuta definitiva, l'offerta di sé e dei propri averi, vissuta nella santa comunione del cenobio o nella solitudine eremitica.11

Anche l'Occidente ha praticato fin dai primi secoli della Chiesa la vita monastica e ne ha conosciuto una grande varietà di espressioni nell'ambito sia cenobitico che eremitico. Nella sua forma attuale, ispirata specialmente a san Benedetto, il monachesimo occidentale è erede di tanti uomini e donne che, lasciata la vita secondo il mondo, cercarono Dio e a lui si dedicarono, «nulla anteponendo all'amore di Cristo».12 Anche i monaci di oggi si sforzano di conciliare armonicamente la vita interiore e il lavoro nell'impegno evangelico della conversione dei costumi, dell'obbedienza, della stabilità, e nell'assidua dedizione alla meditazione della Parola (lectio divina), alla celebrazione della liturgia, alla preghiera. I monasteri sono stati e sono tuttora, nel cuore della Chiesa e del mondo, un eloquente segno di comunione, un'accogliente dimora per coloro che cercano Dio e le cose dello spirito, scuole di fede e veri laboratori di studio, di dialogo e di cultura per l'edificazione della vita ecclesiale e della stessa città terrena, in attesa di quella celeste.

L'Ordine delle vergini, gli eremiti, le vedove

7. È motivo di gioia e di speranza vedere che torna oggi a fiorire l'antico Ordine delle vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici.13 Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano, pur restando nel mondo. Da sole o associate, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l'amore per Cristo Sposo.

Gli eremiti e le eremite, appartenenti ad Ordini antichi o ad Istituti nuovi, o anche dipendenti direttamente dal Vescovo, con l'interiore ed esteriore separazione dal mondo testimoniano la provvisorietà del tempo presente, col digiuno e la penitenza attestano che non di solo pane vive l'uomo, ma della Parola di Dio (cfr Mt 4, 4). Una tale vita «nel deserto» è un invito per i propri simili e per la stessa comunità ecclesiale a non perdere mai di vista la suprema vocazione, che è di stare sempre con il Signore.

Torna ad essere oggi praticata anche la consacrazione delle vedove,14 nota fin dai tempi apostolici (cfr 1 Tim 5, 5. 9-10; 1 Cor 7, 8), nonché quella dei vedovi. Queste persone, mediante il voto di castità perpetua quale segno del Regno di Dio, consacrano la loro condizione per dedicarsi alla preghiera e al servizio della Chiesa.

Istituti dediti totalmente alla contemplazione

8. Gli Istituti completamente ordinati alla contemplazione, composti da donne o da uomini, sono per la Chiesa un motivo di gloria e una sorgente di grazie celesti. Con la loro vita e la loro missione le persone che ne fanno parte imitano Cristo in orazione sul monte, testimoniano la signoria di Dio sulla storia, anticipano la gloria futura.

Nella solitudine e nel silenzio, mediante l'ascolto della Parola di Dio, l'esercizio del culto divino, l'ascesi personale, la preghiera, la mortificazione e la comunione dell'amore fraterno, orientano tutta la loro vita ed attività alla contemplazione di Dio. Offrono così alla comunità ecclesiale una singolare testimonianza dell'amore della Chiesa per il suo Signore e contribuiscono, con una misteriosa fecondità apostolica, alla crescita del Popolo di Dio.15

È legittimo, pertanto, auspicare che le varie forme di vita contemplativa conoscano una crescente diffusione nelle giovani Chiese come espressione di pieno radicamento del Vangelo, soprattutto in quelle regioni del mondo dove sono più diffuse altre religioni. Ciò consentirà di testimoniare il vigore delle tradizioni di ascesi e di mistica cristiane e favorirà lo stesso dialogo interreligioso.16

La vita religiosa apostolica

9. In Occidente sono fiorite lungo i secoli molteplici altre espressioni di vita religiosa, nelle quali innumerevoli persone, rinunciando al mondo, si sono consacrate a Dio attraverso la professione pubblica dei consigli evangelici secondo uno specifico carisma e in una stabile forma di vita comune,17 per un multiforme servizio apostolico al popolo di Dio: così le diverse famiglie di Canonici regolari, gli Ordini mendicanti, i Chierici regolari ed in genere le Congregazioni religiose maschili e femminili dedite all'attività apostolica e missionaria ed alle molteplici opere che la carità cristiana ha suscitato.

È una testimonianza splendida e varia, nella quale si rispecchia la molteplicità dei doni elargiti da Dio a fondatori e fondatrici che, aperti all'azione dello Spirito Santo, hanno saputo interpretare i segni dei tempi e rispondere in modo illuminato alle esigenze via via emergenti. Sulle loro orme tante altre persone hanno cercato, con la parola e con l'azione, di incarnare il Vangelo nella propria esistenza, per riproporre nel loro tempo la viva presenza di Gesù, il Consacrato per eccellenza e l'Apostolo del Padre. In Cristo Signore religiosi e religiose devono continuare a specchiarsi in ogni epoca, alimentando nella preghiera una profonda comunione di sentimenti con Lui (cfr Fil 2, 5-11), affinché tutta la loro vita sia pervasa dallo spirito apostolico e tutta l'azione apostolica sia compenetrata di contemplazione.18

Gli Istituti secolari

10. Lo Spirito Santo, artefice mirabile della varietà dei carismi, ha suscitato nel nostro tempo nuove espressioni di vita consacrata, quasi a voler corrispondere, secondo un provvidenziale disegno, alle nuove necessità che la Chiesa oggi incontra nell'adempimento della sua missione nel mondo.

Il pensiero va innanzitutto agli Istituti secolari, i cui membri intendono vivere la consacrazione a Dio nel mondo attraverso la professione dei consigli evangelici nel contesto delle strutture temporali, per essere così lievito di sapienza e testimoni di grazia all'interno della vita culturale, economica e politica. Attraverso la sintesi, che è loro specifica, di secolarità e consacrazione, essi intendono immettere nella società le energie nuove del Regno di Cristo, cercando di trasfigurare il mondo dal di dentro con la forza delle Beatitudini. In questo modo, mentre la totale appartenenza a Dio li rende pienamente consacrati al suo servizio, la loro attività nelle normali condizioni laicali contribuisce, sotto l'azione dello Spirito, all'animazione evangelica delle realtà secolari. Gli Istituti secolari contribuiscono così ad assicurare alla Chiesa, secondo la specifica indole di ciascuno, una presenza incisiva nella società.19

Una preziosa funzione svolgono anche gli Istituti secolari clericali, in cui sacerdoti appartenenti al presbiterio diocesano, anche quando viene ad alcuni di loro riconosciuta l'incardinazione al proprio Istituto, si consacrano a Cristo mediante la pratica dei consigli evangelici secondo uno specifico carisma. Essi trovano nelle ricchezze spirituali dell'Istituto a cui appartengono un grande aiuto per vivere intensamente la spiritualità propria del sacerdozio e, in tal modo, essere fermento di comunione e di generosità apostolica tra i confratelli.

Le Società di vita apostolica

11. Speciale menzione meritano, poi, le Società di vita apostolica o di vita comune, maschili e femminili, le quali perseguono, con uno stile loro proprio, uno specifico fine apostolico o missionario. In molte di esse, con vincoli sacri riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa, sono espressamente assunti i consigli evangelici. Anche in tal caso, tuttavia, la peculiarità della loro consacrazione le distingue dagli Istituti religiosi e dagli Istituti secolari. È da salvaguardare e promuovere la specificità di questa forma di vita, che nel corso degli ultimi secoli ha prodotto tanti frutti di santità e di apostolato, specialmente nel campo della carità e nella diffusione missionaria del Vangelo.20

Nuove espressioni di vita consacrata

12. La perenne giovinezza della Chiesa continua a manifestarsi anche oggi: negli ultimi decenni, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, sono apparse nuove o rinnovate forme di vita consacrata. In molti casi si tratta di Istituti simili a quelli già esistenti, ma nati da nuovi impulsi spirituali ed apostolici. La loro vitalità deve essere vagliata dall'autorità della Chiesa, alla quale compete l'opportuno esame sia per saggiare l'autenticità della finalità ispiratrice sia per evitare l'eccessiva moltiplicazione di istituzioni tra loro analoghe, col conseguente rischio di una nociva frammentazione in gruppi troppo piccoli. In altri casi si tratta di esperienze originali, che sono alla ricerca di una propria identità nella Chiesa e attendono di essere ufficialmente riconosciute dalla Sede Apostolica, alla quale sola compete l'ultimo giudizio.21

Queste nuove forme di vita consacrata, che s'aggiungono alle antiche, testimoniano della costante attrattiva che la donazione totale al Signore, l'ideale della comunità apostolica, i carismi di fondazione continuano ad esercitare anche sulla presente generazione e sono pure segno della complementarietà dei doni dello Spirito Santo.

Lo Spirito, tuttavia, nella novità non si contraddice. Ne è prova il fatto che le nuove forme di vita consacrata non hanno soppiantato le precedenti. In così multiforme varietà s'è potuta conservare l'unità di fondo grazie alla medesima chiamata a seguire, nella ricerca della perfetta carità, Gesù vergine, povero e obbediente. Tale chiamata, come si trova in tutte le forme già esistenti, così è richiesta in quelle che si propongono come nuove.

Finalità dell'Esortazione apostolica

13. Raccogliendo i frutti dei lavori sinodali, con questa Esortazione apostolica intendo rivolgermi a tutta la Chiesa, per offrire non solo alle persone consacrate, ma anche ai Pastori e ai fedeli, i risultati di un confronto stimolante, sui cui sviluppi non ha mancato di vegliare lo Spirito Santo con i suoi doni di verità e d'amore.

In questi anni di rinnovamento la vita consacrata ha attraversato, come del resto altre forme di vita nella Chiesa, un periodo delicato e faticoso. È stato un periodo ricco di speranze, di tentativi e proposte innovatrici miranti a rinvigorire la professione dei consigli evangelici. Ma è stato anche un tempo non privo di tensioni e di travagli, in cui esperienze pur generose non sono state sempre coronate da risultati positivi.

Le difficoltà non devono tuttavia indurre allo scoraggiamento. Occorre piuttosto impegnarsi con nuovo slancio, perché la Chiesa ha bisogno dell'apporto spirituale e apostolico di una vita consacrata rinnovata e rinvigorita. Con la presente Esortazione postsinodale desidero rivolgermi alle comunità religiose e alle persone consacrate con lo stesso spirito che animava la lettera inviata ai cristiani di Antiochia dal Concilio di Gerusalemme, e nutro la speranza che abbia pure a ripetersi oggi la medesima esperienza registrata allora: «Quando l'ebbero letta, si rallegrarono per l' incoraggiamento che infondeva» (At 15, 31). Non solo: ma nutro pure la speranza di accrescere la gioia di tutto il popolo di Dio, che, conoscendo meglio la vita consacrata, potrà con più consapevolezza rendere grazie all'Onnipotente per questo grande dono.

In atteggiamento di cordiale apertura verso i Padri sinodali, ho fatto tesoro dei preziosi contributi emersi durante gli intensi lavori assembleari, ai quali ho voluto essere costantemente presente. Durante tale periodo, ho pure curato di offrire a tutto il Popolo di Dio alcune catechesi sistematiche sulla vita consacrata nella Chiesa. Ho riproposto in esse gli insegnamenti presenti nei testi del Concilio Vaticano II, che è stato luminoso punto di riferimento degli sviluppi dottrinali successivi e della stessa riflessione operata dal Sinodo durante le intense settimane dei suoi lavori.22

Mentre confido che i figli della Chiesa, e in particolare le persone consacrate, vorranno accogliere con adesione cordiale anche questa Esortazione, auspico che la riflessione continui per l'approfondimento del grande dono della vita consacrata nella triplice dimensione della consacrazione, della comunione e della missione, e che consacrati e consacrate, in piena sintonia con la Chiesa e il suo Magistero, trovino così ulteriori stimoli per affrontare spiritualmente e apostolicamente le sfide emergenti.

 

CAPITOLO I

CONFESSIO TRINITATIS

ALLE SORGENTI CRISTOLOGICO-TRINITARIE
DELLA VITA CONSACRATA

 

L'icona di Cristo trasfigurato

14. Il fondamento evangelico della vita consacrata va cercato nel rapporto speciale che Gesù, nella sua esistenza terrena, stabilì con alcuni dei suoi discepoli, invitandoli non solo ad accogliere il Regno di Dio nella propria vita, ma a porre la propria esistenza a servizio di questa causa, lasciando tutto e imitando da vicino la sua forma di vita.

Una tale esistenza «cristiforme», proposta a tanti battezzati lungo la storia, è possibile solo sulla base di una speciale vocazione e in forza di un peculiare dono dello Spirito. In essa, infatti, la consacrazione battesimale è portata ad una risposta radicale nella sequela di Cristo mediante l'assunzione dei consigli evangelici, primo ed essenziale tra essi il vincolo sacro della castità per il Regno dei Cieli.23 Questa speciale «sequela di Cristo», alla cui origine sta sempre l'iniziativa del Padre, ha, dunque, una connotazione essenzialmente cristologica e pneumatologica, esprimendo così in modo particolarmente vivo il carattere trinitario della vita cristiana, della quale anticipa in qualche modo la realizzazione escatologica a cui tutta la Chiesa tende.24

Molte sono, nel Vangelo, le parole e i gesti di Cristo che illuminano il senso di questa speciale vocazione. Per coglierne, tuttavia, in una visione d'insieme i tratti essenziali, di singolare aiuto si rivela fissare lo sguardo sul volto raggiante di Cristo nel mistero della Trasfigurazione. A questa «icona» si riferisce tutta un'antica tradizione spirituale, quando collega la vita contemplativa all'orazione di Gesù «sul monte».25 Ad essa possono inoltre ricondursi, in qualche modo, le stesse dimensioni «attive» della vita consacrata, giacché la Trasfigurazione non è solo rivelazione della gloria di Cristo, ma anche preparazione ad affrontarne la croce. Essa implica un «ascendere al monte» e un «discendere dal monte»: i discepoli che hanno goduto dell'intimità del Maestro, avvolti per un momento dallo splendore della vita trinitaria e della comunione dei santi, quasi rapiti nell'orizzonte dell'eterno, sono subito riportati alla realtà quotidiana, dove non vedono che «Gesù solo» nell'umiltà della natura umana, e sono invitati a tornare a valle, per vivere con lui la fatica del disegno di Dio e imboccare con coraggio la via della croce.

 «E fu trasfigurato davanti a loro»

15. «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.Pietro prese allora la parole e disse a Gesù: ‘ Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè una per Elia '.Egli stava ancora parlando quando una nube luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva:‘ Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo '.All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore.Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: ‘Alzatevi e non temete '. Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo.E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro:‘ Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti '» (Mt 17, 1-9).L'episodio della Trasfigurazione segna un momento decisivo nel ministero di Gesù. È evento di rivelazione che consolida la fede nel cuore dei discepoli, li prepara al dramma della Croce ed anticipa la gloria della risurrezione. Questo mistero è continuamente rivissuto dalla Chiesa, popolo in cammino verso l'incontro escatologico col suo Signore. Come i tre apostoli prescelti, la Chiesa contempla il volto trasfigurato di Cristo, per confermarsi nella fede e non rischiare lo smarrimento davanti al suo volto sfigurato sulla Croce. Nell'uno e nell'altro caso, essa è la Sposa davanti allo Sposo, partecipe del suo mistero, avvolta dalla sua luce.

Da questa luce sono raggiunti tutti i suoi figli, tutti ugualmente chiamati a seguire Cristo riponendo in Lui il senso ultimo della propria vita, fino a poter dire con l'Apostolo: «Per me il vivere è Cristo!» (Fil 1, 21). Ma un'esperienza singolare della luce che promana dal Verbo incarnato fanno certamente i chiamati alla vita consacrata. La professione dei consigli evangelici, infatti, li pone quale segno e profezia per la comunità dei fratelli e per il mondo. Non possono perciò non trovare in essi particolare risonanza le parole estatiche di Pietro: «Signore, è bello per noi stare qui!» (Mt 17, 4). Queste parole dicono la tensione cristocentrica di tutta la vita cristiana. Esse, tuttavia, esprimono con particolare eloquenza il carattere totalizzante che costituisce il dinamismo profondo della vocazione alla vita consacrata: “Come è bello restare con Te, dedicarci a Te, concentrare in modo esclusivo la nostra esistenza su di Te!”. In effetti, chi ha ricevuto la grazia di questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come rapito dal suo fulgore: Egli è il «più bello tra i figli dell'uomo» (Sal 45 [44], 3), l'Incomparabile.

«Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!»

16. Ai tre discepoli estasiati giunge l'appello del Padre a mettersi in ascolto di Cristo, a porre in Lui ogni fiducia, a farne il centro della vita. Nella parola che viene dall'alto acquista nuova profondità l'invito col quale Gesù stesso, all'inizio della vita pubblica, li aveva chiamati alla sua sequela, strappandoli alla loro vita ordinaria e accogliendoli nella sua intimità. È proprio da questa speciale grazia di intimità che scaturisce, nella vita consacrata, la possibilità e l'esigenza del dono totale di sé nella professione dei consigli evangelici. Questi, prima e più che una rinuncia, sono una specifica accoglienza del mistero di Cristo, vissuta all'interno della Chiesa.

Nell'unità della vita cristiana, infatti, le varie vocazioni sono come raggi dell'unica luce di Cristo «riflessa sul volto della Chiesa».26 I laici, in forza dell'indole secolare della loro vocazione, rispecchiano il mistero del Verbo Incarnato soprattutto in quanto esso è l'Alfa e l'Omega del mondo, fondamento e misura del valore di tutte le cose create. I ministri sacri, da parte loro, sono immagini vive di Cristo capo e pastore, che guida il suo popolo nel tempo del «già e non ancora», in attesa della sua venuta nella gloria. Alla vita consacrata è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l'infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell'uomo. Nella vita consacrata, dunque, non si tratta solo di seguire Cristo con tutto il cuore, amandolo «più del padre e della madre, più del figlio o della figlia» (cfr Mt 10, 37), come è chiesto ad ogni discepolo, ma di vivere ed esprimere ciò con l'adesione «conformativa» a Cristo dell'intera esistenza , in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo e secondo i vari carismi, la perfezione escatologica.

Attraverso la professione dei consigli, infatti, il consacrato non solo fa di Cristo il senso della propria vita, ma si preoccupa di riprodurre in sé, per quanto possibile, «la forma di vita, che il Figlio di Dio prese quando venne nel mondo».27 Abbracciando la verginità , egli fa suo l'amore verginale di Cristo e lo confessa al mondo quale Figlio unigenito, uno con il Padre (cfr Gv 10, 30; 14, 11); imitando la sua povertà, lo confessa Figlio che tutto riceve dal Padre e nell'amore tutto gli restituisce (cfr Gv 17, 7.10); aderendo, col sacrificio della propria libertà, al mistero della sua obbedienza filiale, lo confessa infinitamente amato ed amante, come Colui che si compiace solo della volontà del Padre (cfr Gv 4, 34), al quale è perfettamente unito e dal quale in tutto dipende.

Con tale immedesimazione «conformativa» al mistero di Cristo, la vita consacrata realizza a titolo speciale quella confessio Trinitatis che caratterizza l'intera vita cristiana, riconoscendo con ammirazione la sublime bellezza di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e testimoniandone con gioia l'amorevole condiscendenza verso ogni essere umano.

I. A LODE DELLA TRINITÀ

A Patre ad Patrem: l'iniziativa di Dio

17. La contemplazione della gloria del Signore Gesù nell'icona della Trasfigurazione rivela alle persone consacrate innanzitutto il Padre, creatore e datore di ogni bene, che attrae a sé (cfr Gv 6, 44) una sua creatura con uno speciale amore e in vista di una speciale missione. «Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!» (Mt 17, 5). Assecondando quest'appello accompagnato da un'interiore attrazione, la persona chiamata si affida all'amore di Dio che la vuole al suo esclusivo servizio, e si consacra totalmente a Lui e al suo disegno di salvezza (cfr 1 Cor 7, 32-34).

Qui sta il senso della vocazione alla vita consacrata: un'iniziativa tutta del Padre (cfr Gv 15, 16), che richiede da coloro che ha scelti la risposta di una dedizione totale ed esclusiva.28 L'esperienza di questo amore gratuito di Dio è a tal punto intima e forte che la persona avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani. Proprio per questo, seguendo san Tommaso, si può comprendere l'identità della persona consacrata a partire dalla totalità della sua offerta, paragonabile ad un autentico olocausto.29

 Per Filium: sulle orme di Cristo

18. Il Figlio, via che conduce al Padre (cfr Gv 14, 6), chiama tutti coloro che il Padre gli ha dato (cfr Gv 17, 9) ad una sequela che ne orienta l'esistenza. Ma ad alcuni — le persone di vita consacrata, appunto — Egli chiede un coinvolgimento totale, che comporta l'abbandono di ogni cosa (cfr Mt 19, 27), per vivere in intimità con Lui30 e seguirlo dovunque Egli vada (cfr Ap 14, 4).

Nello sguardo di Gesù (cfr Mc 10, 21), «immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15), irradiazione della gloria del Padre (cfr Eb 1, 3), si coglie la profondità di un amore eterno ed infinito che tocca le radici dell'essere.31 La persona, che se ne lascia afferrare, non può non abbandonare tutto e seguirlo (cfr Mc 1, 16-20; 2, 14; 10, 21.28). Come Paolo, essa considera tutto il resto «una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù», a confronto del quale non esita a ritenere ogni cosa «come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 8). La sua aspirazione è di immedesimarsi con Lui, assumendone i sentimenti e la forma di vita. Questo lasciare tutto e seguire il Signore (cfr Lc 18, 28) costituisce un programma valido per tutte le persone chiamate e per tutti i tempi.

I consigli evangelici, con i quali Cristo invita alcuni a condividere la sua esperienza di vergine, povero e obbediente, richiedono e manifestano, in chi li accoglie, il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui. Vivendo «in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità»,32 i consacrati confessano che Gesù è il Modello in cui ogni virtù raggiunge la perfezione. La sua forma di vita casta, povera e obbediente, appare infatti il modo più radicale di vivere il Vangelo su questa terra, un modo — si può dire — divino, perché abbracciato da Lui, Uomo-Dio, quale espressione della sua relazione di Figlio Unigenito col Padre e con lo Spirito Santo. È questo il motivo per cui nella tradizione cristiana si è sempre parlato della obiettiva eccellenza della vita consacrata.Non si può inoltre negare che la pratica dei consigli costituisca un modo particolarmente intimo e fecondo di prendere parte anche alla missione di Cristo, sull'esempio di Maria di Nazaret, prima discepola, la quale accettò di mettersi al servizio del disegno divino con il dono totale di se stessa. Ogni missione inizia con lo stesso atteggiamento espresso da Maria nell'annunciazione: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38).

In Spiritu: consacrati dallo Spirito Santo

19. «Una nube luminosa li avvolse con la sua ombra» (Mt 17, 5). Una significativa interpretazione spirituale della Trasfigurazione vede in questa nube l'immagine dello Spirito Santo.ome l'intera esistenza cristiana, anche la chiamata alla vita consacrata è in intima relazione con l'opera dello Spirito Santo. È Lui che, lungo i millenni, attrae sempre nuove persone a percepire il fascino di una scelta tanto impegnativa. Sotto la sua azione esse rivivono, in qualche modo, l'esperienza del profeta Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (20, 7). È lo Spirito che suscita il desiderio di una risposta piena; è Lui che guida la crescita di tale desiderio, portando a maturazione la risposta positiva e sostenendone poi la fedele esecuzione; è Lui che forma e plasma l'animo dei chiamati, configurandoli a Cristo casto, povero e obbediente e spingendoli a far propria la sua missione. Lasciandosi guidare dallo Spirito in un incessante cammino di purificazione, essi diventano, giorno dopo giorno, persone cristiformi, prolungamento nella storia di una speciale presenza del Signore risorto.Con penetrante intuizione, i Padri della Chiesa hanno qualificato questo cammino spirituale come filocalia, ossia amore per la bellezza divina, che è irradiazione della divina bontà. La persona che dalla potenza dello Spirito Santo è condotta progressivamente alla piena configurazione a Cristo, riflette in sé un raggio della luce inaccessibile e nel suo peregrinare terreno cammina fino alla Fonte inesauribile della luce. In tal modo la vita consacrata diventa un'espressione particolarmente profonda della Chiesa Sposa, la quale, condotta dallo Spirito a riprodurre in sé i lineamenti dello Sposo, Gli compare davanti «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 27).Lo stesso Spirito poi, lungi dal sottrarre alla storia degli uomini le persone che il Padre ha chiamato, le pone a servizio dei fratelli secondo le modalità proprie del loro stato di vita, e le orienta a svolgere particolari compiti, in rapporto alle necessità della Chiesa e del mondo, attraverso i carismi propri dei vari Istituti. Da qui il sorgere di molteplici forme di vita consacrata, attraverso le quali la Chiesa è «anche abbellita con la varietà dei doni dei suoi figli, [...] come una sposa adornata per il suo sposo (cfr Ap 21, 2)»e viene arricchita di ogni mezzo per svolgere la sua missione nel mondo.

I consigli evangelici, dono della Trinità

20. I consigli evangelici sono dunque prima di tutto un dono della Trinità Santissima. La vita consacrata è annuncio di ciò che il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito compie con il suo amore, la sua bontà, la sua bellezza. Infatti «lo stato religioso [...] manifesta l'elevatezza del Regno di Dio sopra tutte le cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la preminente grandezza della virtù di Cristo regnante e la infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa».rimo compito della vita consacrata è di rendere visibili le meraviglie che Dio opera nella fragile umanità delle persone chiamate. Più che con le parole, esse testimoniano tali meraviglie con il linguaggio eloquente di un'esistenza trasfigurata, capace di sorprendere il mondo. Allo stupore degli uomini esse rispondono con l'annuncio dei prodigi di grazia che il Signore compie in coloro che Egli ama. Nella misura in cui la persona consacrata si lascia condurre dallo Spirito fino ai vertici della perfezione, può esclamare: «Vedo la bellezza della tua grazia, ne contemplo in fulgore, ne rifletto la luce; sono preso dal suo ineffabile splendore; sono condotto fuori di me mentre penso a me stesso; vedo com'ero e cosa sono divenuto. O prodigio! Sto attento, sono pieno di rispetto per me stesso, di riverenza e di timore, come davanti a Te stesso; non so cosa fare, poiché mi ha preso la timidezza; non so dove sedermi, a che cosa avvicinarmi, dove riposare queste membra che ti appartengono; per quale impresa, per quale opera impiegarle, queste sorprendenti meraviglie divine».Così la vita consacrata diviene una delle tracce concrete che la Trinità lascia nella storia, perché gli uomini possano avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina.

Nei consigli il riflesso della vita trinitaria

21. Il riferimento dei consigli evangelici alla Trinità Santa e santificante rivela il loro senso più profondo. Essi infatti sono espressione dell'amore che il Figlio porta al Padre nell'unità dello Spirito Santo. Praticandoli, la persona consacrata vive con particolare intensità il carattere trinitario e cristologico che contrassegna tutta la vita cristiana. La castità dei celibi e delle vergini, in quanto manifestazione della dedizione a Dio con cuore indiviso (cfr 1 Cor 7, 32-34), costituisce un riflesso dell'amore infinito che lega le tre Persone divine nella profondità misteriosa della vita trinitaria; amore testimoniato dal Verbo incarnato fino al dono della sua vita; amore «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5), che stimola ad una risposta di amore totale per Dio e per i fratelli.La povertà confessa che Dio è l'unica vera ricchezza dell'uomo. Vissuta sull'esempio di Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero» (2 Cor 8, 9), diventa espressione del dono totale di sé che le tre Persone divine reciprocamente si fanno. È dono che trabocca nella creazione e si manifesta pienamente nell'Incarnazione del Verbo e nella sua morte redentrice.L' obbedienza, praticata ad imitazione di Cristo, il cui cibo era fare la volontà del Padre (cfr Gv 4, 34), manifesta la bellezza liberante di una dipendenza filiale e non servile, ricca di senso di responsabilità e animata dalla reciproca fiducia, che è riflesso nella storia dell' amorosa corrispondenza delle tre Persone divine.La vita consacrata, pertanto, è chiamata ad approfondire continuamente il dono dei consigli evangelici con un amore sempre più sincero e forte in dimensione trinitaria : amore al Cristo, che chiama alla sua intimità; allo Spirito Santo, che dispone l'animo ad accogliere le sue ispirazioni; al Padre , prima origine e scopo supremo della vita consacrata.Essa diventa così confessione e segno della Trinità, il cui mistero viene additato alla Chiesa come modello e sorgente di ogni forma di vita cristiana.La stessa vita fraterna, in virtù della quale le persone consacrate si sforzano di vivere in Cristo con «un cuore solo e un'anima sola» (At 4, 32), si propone come eloquente confessione trinitaria. Essa confessa il Padre, che vuole fare di tutti gli uomini una sola famiglia; confessa il Figlio incarnato, che raccoglie i redenti nell'unità, indicando la via con il suo esempio, la sua preghiera, le sue parole e soprattutto con la sua morte, sorgente di riconciliazione per gli uomini divisi e dispersi; confessa lo Spirito Santo quale principio di unità nella Chiesa, dove Egli non cessa di suscitare famiglie spirituali e comunità fraterne.

Consacrati come Cristo per il Regno di Dio

22. La vita consacrata «più fedelmente imita e continuamente rappresenta nella Chiesa»,per impulso dello Spirito Santo, la forma di vita che Gesù, supremo consacrato e missionario del Padre per il suo Regno, ha abbracciato ed ha proposto ai discepoli che lo seguivano (cfr Mt 4, 18-22; Mc 1, 16-20; Lc 5, 10-11; Gv 15, 16). Alla luce della consacrazione di Gesù, è possibile scoprire nell'iniziativa del Padre, fonte di ogni santità, la sorgente originaria della vita consacrata. Gesù stesso, infatti, è colui che «Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza» (At 10, 38), «colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10, 36). Accogliendo la consacrazione del Padre, il Figlio a sua volta si consacra a Lui per l'umanità (cfr Gv 17, 19): la sua vita di verginità, di obbedienza e di povertà esprime la sua filiale e totale adesione al disegno del Padre (cfr Gv 10, 30; 14, 11). La sua perfetta oblazione conferisce un significato di consacrazione a tutti gli eventi della sua esistenza terrena.Egli è l' obbediente per eccellenza, disceso dal cielo non per fare la sua volontà, ma la volontà di Colui che lo ha mandato (cfr Gv 6, 38; Eb 10, 5.7). Egli rimette il suo modo di essere e di agire nelle mani del Padre (cfr Lc 2, 49). In obbedienza filiale, adotta la forma del servo: «Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo [...], facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil 2, 7-8). È in tale atteggiamento di docilità al Padre che, pur approvando e difendendo la dignità e la santità della vita matrimoniale, Cristo assume la forma di vita verginale e rivela così il pregio sublime e la misteriosa fecondità spirituale della verginità. La sua piena adesione al disegno del Padre si manifesta anche nel distacco dai beni terreni: «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8, 9). La profondità della sua povertà si rivela nella perfetta oblazione di tutto ciò che è suo al Padre.Veramente la vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli. Essa è vivente tradizione della vita e del messaggio del Salvatore.

II. TRA PASQUA E COMPIMENTO

Dal Tabor al Calvario

23. L'evento sfolgorante della Trasfigurazione prepara quello tragico, ma non meno glorioso, del Calvario. Pietro, Giacomo e Giovanni contemplano il Signore Gesù insieme a Mosè ed Elia, con i quali — secondo l'evangelista Luca — Gesù parla «della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (9, 31). Gli occhi degli apostoli dunque sono fissi su Gesù che pensa alla Croce (cfr Lc 9, 43-45). Lì il suo amore verginale per il Padre e per tutti gli uomini raggiungerà la sua massima espressione; la sua povertà arriverà allo spogliamento di tutto; la sua obbedienza fino al dono della vita.I discepoli e le discepole sono invitati a contemplare Gesù esaltato sulla Croce, dalla quale «il Verbo uscito dal silenzio»,nel suo silenzio e nella sua solitudine, afferma profeticamente l'assoluta trascendenza di Dio su tutti i beni creati, vince nella sua carne il nostro peccato e attira a sé ogni uomo e ogni donna, donando a ciascuno la nuova vita della risurrezione (cfr Gv 12, 32; 19, 34.37). Nella contemplazione di Cristo crocifisso trovano ispirazione tutte le vocazioni; da essa traggono origine, con il dono fondamentale dello Spirito, tutti i doni e in particolare il dono della vita consacrata.Dopo Maria, Madre di Gesù, questo dono riceve Giovanni, il discepolo che Gesù amava, il testimone che insieme a Maria si trovava ai piedi della Croce (cfr Gv 19, 26-27). La sua decisione di consacrazione totale è frutto dell'amore divino che lo avvolge, lo sostiene, gli riempie il cuore. Giovanni, accanto a Maria, è tra i primi della lunga schiera di uomini e donne, che dagli inizi della Chiesa fino alla fine, toccati dall'amore di Dio, si sentono chiamati a seguire l'Agnello immolato e vivente, dovunque Egli vada (cfr Ap 14, 1-5).

Dimensione pasquale della vita consacrata

24. La persona consacrata, nelle varie forme di vita suscitate dallo Spirito lungo il corso della storia, fa esperienza della verità di Dio-Amore in modo tanto più immediato e profondo quanto più si pone sotto la Croce di Cristo. Colui che nella sua morte appare agli occhi umani sfigurato e senza bellezza tanto da indurre gli astanti a coprirsi il volto (cfr Is 53, 2-3), proprio sulla Croce manifesta pienamente la bellezza e la potenza dell'amore di Dio. Sant'Agostino lo canta così: «Bello è Dio, Verbo presso Dio [...]. È bello in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell'invitare alla vita e bello nel non curarsi della morte; bello nell'abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella Croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza».a vita consacrata rispecchia questo splendore dell'amore, perché confessa, con la sua fedeltà al mistero della Croce, di credere e di vivere dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In questo modo essa contribuisce a tener viva nella Chiesa la coscienza che la Croce è la sovrabbondanza dell'amore di Dio che trabocca su questo mondo , è il grande segno della presenza salvifica di Cristo. E ciò specialmente nelle difficoltà e nelle prove. È quanto viene testimoniato continuamente e con coraggio degno di profonda ammirazione da un gran numero di persone consacrate, che vivono spesso in situazioni difficili, persino di persecuzione e di martirio. La loro fedeltà all'unico Amore si mostra e si tempra nell'umiltà di una vita nascosta, nell'accettazione delle sofferenze per completare ciò che nella propria carne «manca ai patimenti di Cristo» (Col 1, 24), nel sacrificio silenzioso, nell'abbandono alla santa volontà di Dio, nella serena fedeltà anche di fronte al declino delle forze e della propria autorevolezza. Dalla fedeltà a Dio scaturisce pure la dedizione al prossimo, che le persone consacrate vivono non senza sacrificio nella costante intercessione per le necessità dei fratelli, nel generoso servizio ai poveri e agli ammalati, nella condivisione delle difficoltà altrui, nella sollecita partecipazione alle preoccupazioni e alle prove della Chiesa.

Testimoni di Cristo nel mondo

25. Dal mistero pasquale sgorga anche la missionarietà , che è dimensione qualificante l'intera vita ecclesiale. Essa ha una sua specifica realizzazione nella vita consacrata. Infatti, anche al di là dei carismi propri di quegli Istituti che sono dediti alla missione ad gentes o s'impegnano in attività di tipo propriamente apostolico, si può dire che la missionarietà è insita nel cuore stesso di ogni forma di vita consacrata. Nella misura in cui il consacrato vive una vita unicamente dedita al Padre (cfr Lc 2, 49; Gv 4, 34), afferrata da Cristo (cfr Gv 15, 16; Gal 1, 15-16), animata dallo Spirito (cfr Lc 24, 49; At 1, 8; 2, 4), egli coopera efficacemente alla missione del Signore Gesù (cfr Gv 20, 21), contribuendo in modo particolarmente profondo al rinnovamento del mondo.Il primo compito missionario le persone consacrate lo hanno verso se stesse, e lo adempiono aprendo il proprio cuore all'azione dello Spirito di Cristo. La loro testimonianza aiuta la Chiesa intera a ricordare che al primo posto sta il servizio gratuito di Dio, reso possibile dalla grazia di Cristo, comunicata al credente mediante il dono dello Spirito. Al mondo viene così annunciata la pace che discende dal Padre, la dedizione che è testimoniata dal Figlio, la gioia che è frutto dello Spirito Santo.Le persone consacrate saranno missionarie innanzitutto approfondendo continuamente la coscienza di essere state chiamate e scelte da Dio, al quale devono perciò rivolgere tutta la loro vita ed offrire tutto ciò che sono e che hanno, liberandosi dagli impedimenti che potrebbero ritardare la totalità della risposta d'amore. In questo modo potranno diventare un vero segno di Cristo nel mondo. Anche il loro stile di vita deve far trasparire l'ideale che professano, proponendosi come segno vivente di Dio e come eloquente, anche se spesso silenziosa, predicazione del Vangelo.Sempre, ma specialmente nella cultura contemporanea, spesso così secolarizzata e tuttavia sensibile al linguaggio dei segni, la Chiesa deve preoccuparsi di rendere visibile la sua presenza nella vita quotidiana. Un contributo significativo in tal senso essa ha diritto di attendersi dalle persone consacrate, chiamate a rendere in ogni situazione una concreta testimonianza della loro appartenenza a Cristo.Poiché l'abito è segno di consacrazione, di povertà e di appartenenza ad una certa famiglia religiosa, insieme con i Padri del Sinodo raccomando vivamente ai religiosi e alle religiose di indossare il proprio abito, opportunamente adattato alle circostanze dei tempi e dei luoghi.Dove valide esigenze apostoliche lo richiedano, essi, in conformità alle norme del proprio Istituto, potranno anche portare un vestito semplice e decoroso, con un simbolo idoneo, in modo che sia riconoscibile la loro consacrazione.Gli Istituti, che dall'origine o per disposizione delle loro costituzioni non prevedono un abito proprio, abbiano cura che l'abbigliamento dei loro membri risponda, per dignità e semplicità, alla natura della loro vocazione.

Dimensione escatologica della vita consacrata

26. Poiché oggi le preoccupazioni apostoliche appaiono sempre più urgenti e l'impegno nelle cose di questo mondo rischia di essere sempre più assorbente, è particolarmente opportuno richiamare l'attenzione sulla natura escatologica della vita consacrata .«Là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21): il tesoro unico del Regno suscita il desiderio, l'attesa, l'impegno e la testimonianza. Nella Chiesa primitiva l'attesa della venuta del Signore era vissuta in modo particolarmente intenso. Questo atteggiamento di speranza la Chiesa non ha, tuttavia, cessato di coltivare col passare dei secoli: essa ha continuato ad invitare i fedeli a guardare verso la salvezza pronta ormai per essere rivelata, «perché passa la scena di questo mondo» (1 Cor 7, 31; cfr 1 Pt 1, 3-6).. questo orizzonte che meglio si comprende il ruolo di segno escatologico proprio della vita consacrata. In effetti, è costante la dottrina che la presenta come anticipazione del Regno futuro. Il Concilio Vaticano II ripropone questo insegnamento quando afferma che la consacrazione «meglio preannunzia la futura risurrezione e la gloria del Regno celeste».Questo fa innanzitutto la scelta verginale , sempre intesa dalla tradizione come un'anticipazione del mondo definitivo , che già fin da ora opera e trasforma l'uomo nella sua interezza.Le persone che hanno dedicato la loro vita a Cristo non possono non vivere nel desiderio di incontrarLo per essere finalmente e per sempre con Lui. Di qui l'ardente attesa, di qui il desiderio di «immergersi nel Focolare d'amore che brucia in esse e che altri non è che lo Spirito Santo»,attesa e desiderio sostenuti dai doni che il Signore liberamente concede a coloro che aspirano alle cose di lassù (cfr Col 3, 1).Fissa nelle cose del Signore, la persona consacrata ricorda che «non abbiamo quaggiù una città stabile» (Eb 13, 14), perché «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3, 20). Sola cosa necessaria è cercare «il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6, 33), invocando incessantemente la venuta del Signore.

Un'attesa operosa: impegno e vigilanza

27. «Vieni Signore Gesù» (Ap 22, 20). Questa attesa è tutt'altro che inerte: pur rivolgendosi al Regno futuro, essa si traduce in lavoro e missione, perché il Regno si renda già presente ora attraverso l'instaurazione dello spirito delle Beatitudini, capace di suscitare anche nella società umana istanze efficaci di giustizia, di pace, di solidarietà e di perdono.Questo è dimostrato ampiamente dalla storia della vita consacrata, che sempre ha prodotto frutti abbondanti anche per il mondo. Con i loro carismi le persone consacrate diventano un segno dello Spirito in ordine ad un futuro nuovo, illuminato dalla fede e dalla speranza cristiana. La tensione escatologica si converte in missione , affinché il Regno si affermi in modo crescente qui ed ora. Alla supplica: «Vieni, Signore Gesù!», si unisce l'altra invocazione: «Venga il tuo Regno» (Mt 6, 10).Chi attende vigile il compimento delle promesse di Cristo è in grado di infondere speranza anche ai suoi fratelli e sorelle, spesso sfiduciati e pessimisti riguardo al futuro. La sua è una speranza fondata sulla promessa di Dio contenuta nella Parola rivelata: la storia degli uomini cammina verso il nuovo cielo e la nuova terra (cfr Ap 21, 1), in cui il Signore «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4).La vita consacrata è al servizio di questa definitiva irradiazione della gloria divina, quando ogni carne vedrà la salvezza di Dio (cfr Lc 3, 6; Is 40, 5). L'Oriente cristiano sottolinea questa dimensione quando considera i monaci come angeli di Dio sulla terra, che annunciano il rinnovamento del mondo in Cristo. In Occidente il monachesimo è celebrazione di memoria e vigilia: memoria delle meraviglie operate da Dio, vigilia del compimento ultimo della speranza. Il messaggio del monachesimo e della vita contemplativa ripete incessantemente che il primato di Dio è per l'esistenza umana pienezza di significato e di gioia, perché l'uomo è fatto per Dio ed è inquieto finché in Lui non trova pace.

La Vergine Maria, modello di consacrazione e di sequela

28. Maria è colei che, fin dalla sua concezione immacolata, più perfettamente riflette la divina bellezza. «Tutta bella» è il titolo con cui la Chiesa la invoca. «Il rapporto con Maria Santissima, che ogni fedele ha in conseguenza della sua unione con Cristo, risulta ancora più accentuato nella vita delle persone consacrate. [...] In tutti (gli Istituti di vita consacrata) vi è la convinzione che la presenza di Maria abbia un'importanza fondamentale sia per la vita spirituale di ogni singola anima consacrata, sia per la consistenza, l'unità, il progresso di tutta la comunità».aria, in effetti, è esempio sublime di perfetta consacrazione, nella piena appartenenza e totale dedizione a Dio. Scelta dal Signore, il quale ha voluto compiere in Lei il mistero dell'Incarnazione, ricorda ai consacrati il primato dell'iniziativa di Dio. Al tempo stesso, avendo dato il suo assenso alla divina Parola, che si è fatta carne in Lei, Maria si pone come modello dell'accoglienza della grazia da parte della creatura umana.Vicina a Cristo, insieme con Giuseppe, nella vita nascosta di Nazaret, presente accanto al Figlio in momenti cruciali della sua vita pubblica, la Vergine è maestra di sequela incondizionata e di assiduo servizio. In Lei, «tempio dello Spirito Santo»,rifulge così tutto lo splendore della nuova creatura. La vita consacrata guarda a Lei come a modello sublime di consacrazione al Padre, di unione col Figlio e di docilità allo Spirito, nella consapevolezza che aderire «al genere di vita verginale e povera»di Cristo significa far proprio anche il genere di vita di Maria.Nella Vergine la persona consacrata incontra, inoltre, una Madre a titolo del tutto speciale . Infatti, se la nuova maternità conferita a Maria sul Calvario è un dono fatto a tutti i cristiani, essa ha un valore specifico per chi ha consacrato pienamente la propria vita a Cristo. «Ecco la tua madre!» (Gv 19, 27): le parole di Gesù al «discepolo che egli amava» (Gv 19, 26) assumono particolare profondità nella vita della persona consacrata. Essa è chiamata, infatti, con Giovanni a prendere con sé Maria Santissima (cfr Gv 19, 27), amandola e imitandola con la radicalità propria della sua vocazione e sperimentandone, di rimando, una speciale tenerezza materna. La Vergine le comunica quell'amore che le consente di offrire ogni giorno la vita per Cristo, cooperando con Lui alla salvezza del mondo. Per questo il rapporto filiale con Maria costituisce la via privilegiata per la fedeltà alla vocazione ricevuta e un aiuto efficacissimo per progredire in essa e viverla in pienezza.

III. NELLA CHIESA E PER LA CHIESA

«È bello per noi restare qui»: la vita consacrata nel mistero della Chiesa

29. Nella scena della Trasfigurazione, Pietro parla a nome degli altri apostoli: «È bello per noi restare qui» (Mt 17, 4). L'esperienza della gloria di Cristo, che pur gli inebria la mente e il cuore, non lo isola, ma al contrario lo lega più profondamente al «noi» dei discepoli.Questa dimensione del «noi» ci porta a considerare il posto che la vita consacrata occupa nel mistero della Chiesa. La riflessione teologica sulla natura della vita consacrata ha approfondito in questi anni le nuove prospettive emerse dalla dottrina del Concilio Vaticano II. Alla sua luce s'è preso atto che la professione dei consigli evangelici appartiene indiscutibilmente alla vita e alla santità della Chiesa.Questo significa che la vita consacrata, presente fin dagli inizi, non potrà mai mancare alla Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante, in quanto espressivo della sua stessa natura.Ciò appare con evidenza dal fatto che la professione dei consigli evangelici è intimamente connessa col mistero di Cristo, avendo il compito di rendere in qualche modo presente la forma di vita che Egli prescelse, additandola come valore assoluto ed escatologico. Gesù stesso, chiamando alcune persone ad abbandonare tutto per seguirlo, ha inaugurato questo genere di vita che, sotto l'azione dello Spirito, si svilupperà gradualmente lungo i secoli nelle varie forme della vita consacrata. La concezione di una Chiesa composta unicamente da ministri sacri e da laici non corrisponde, pertanto, alle intenzioni del suo divino Fondatore quali ci risultano dai Vangeli e dagli altri scritti neotestamentari.

La nuova e speciale consacrazione

30. Nella tradizione della Chiesa la professione religiosa viene considerata come un singolare e fecondo approfondimento della consacrazione battesimale in quanto, per suo mezzo, l'intima unione con Cristo, già inaugurata col Battesimo, si sviluppa nel dono di una conformazione più compiutamente espressa e realizzata, attraverso la professione dei consigli evangelici.uesta ulteriore consacrazione, tuttavia, riveste una sua peculiarità rispetto alla prima, della quale non è una conseguenza necessaria.In realtà, ogni rigenerato in Cristo è chiamato a vivere, con la forza proveniente dal dono dello Spirito, la castità corrispondente al proprio stato di vita, l'obbedienza a Dio e alla Chiesa, un ragionevole distacco dai beni materiali, perché tutti sono chiamati alla santità, che consiste nella perfezione della carità.Ma il battesimo non comporta per se stesso la chiamata al celibato o alla verginità, la rinuncia al possesso dei beni, l'obbedienza ad un superiore, nella forma propria dei consigli evangelici. Pertanto la professione di questi ultimi suppone un particolare dono di Dio non concesso a tutti, come Gesù stesso sottolinea per il caso del celibato volontario (cfr Mt 19, 10-12).A questa chiamata corrisponde, peraltro, uno specifico dono dello Spirito Santo, affinché la persona consacrata possa rispondere alla sua vocazione e alla sua missione. Per questo, come testimoniano le liturgie dell'Oriente e dell'Occidente, nel rito della professione monastica o religiosa e nella consacrazione delle vergini, la Chiesa invoca sulle persone prescelte il dono dello Spirito Santo e associa la loro oblazione al sacrificio di Cristo.a professione dei consigli evangelici è uno sviluppo anche della grazia del sacramento della Confermazione, ma va oltre le esigenze normali della consacrazione crismale in forza di un particolare dono dello Spirito, che apre a nuove possibilità e frutti di santità e di apostolato, come dimostra la storia della vita consacrata.Quanto ai sacerdoti che fanno professione dei consigli evangelici, l'esperienza stessa mostra che il sacramento dell'Ordine trova una peculiare fecondità in questa consacrazione, dal momento che essa pone e favorisce l'esigenza di una appartenenza più stretta al Signore. Il sacerdote che fa professione dei consigli evangelici è particolarmente favorito nel rivivere in sé la pienezza del mistero di Cristo, grazie anche alla spiritualità peculiare del proprio Istituto e alla dimensione apostolica del relativo carisma. Nel presbitero infatti la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata convergono in profonda e dinamica unità.Di incommensurabile valore è anche il contributo recato alla vita della Chiesa dai religiosi sacerdoti integralmente dediti alla contemplazione. Specialmente nella celebrazione eucaristica essi compiono un atto della Chiesa e per la Chiesa, al quale uniscono l'offerta di se stessi, in comunione con Cristo che si offre al Padre per la salvezza del mondo intero.

I rapporti fra i diversi stati di vita del cristiano

31. Le varie forme di vita in cui, secondo il disegno del Signore Gesù, si articola la vita ecclesiale presentano reciproci rapporti sui quali mette conto di soffermarsi.Tutti i fedeli, in virtù della loro rigenerazione in Cristo, condividono una comune dignità; tutti sono chiamati alla santità; tutti cooperano all'edificazione dell'unico Corpo di Cristo, ciascuno secondo la propria vocazione e il dono ricevuto dallo Spirito (cfr Rm 12, 3-8).L'uguale dignità fra tutte le membra della Chiesa è opera dello Spirito, è fondata sul Battesimo e sulla Cresima ed è corroborata dall'Eucaristia. Ma è opera dello Spirito anche la pluriformità. È Lui che costituisce la Chiesa in una comunione organica nella diversità di vocazioni, carismi e ministeri.e vocazioni alla vita laicale, al ministero ordinato e alla vita consacrata si possono considerare paradigmatiche, dal momento che tutte le vocazioni particolari, sotto l'uno o l'altro aspetto, si richiamano o si riconducono ad esse, assunte separatamente o congiuntamente, secondo la ricchezza del dono di Dio. Esse, inoltre, sono al servizio l'una dell'altra, per la crescita del Corpo di Cristo nella storia e per la sua missione nel mondo. Tutti nella Chiesa sono consacrati nel Battesimo e nella Cresima, ma il ministero ordinato e la vita consacrata suppongono ciascuno una distinta vocazione ed una specifica forma di consacrazione, in vista di una missione peculiare.Alla missione dei laici, dei quali è proprio «cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»,è fondamento adeguato la consacrazione battesimale e cresimale, comune a tutti i membri del Popolo di Dio. I ministri ordinati, oltre a questa consacrazione fondamentale, ricevono quella dell'Ordinazione per continuare nel tempo il ministero apostolico. Le persone consacrate, che abbracciano i consigli evangelici, ricevono una nuova e speciale consacrazione che, senza essere sacramentale, le impegna a fare propria — nel celibato, nella povertà e nell'obbedienza — la forma di vita praticata personalmente da Gesù, e da Lui proposta ai discepoli. Pur essendo, queste diverse categorie, manifestazione dell'unico mistero di Cristo, i laici hanno come caratteristica peculiare, anche se non esclusiva, la secolarità, i pastori la ministerialità, i consacrati la speciale conformazione a Cristo vergine, povero, obbediente.

Lo speciale valore della vita consacrata

32. In questo armonioso insieme di doni, a ciascuno dei fondamentali stati di vita è affidato il compito di esprimere, nel suo proprio ordine, l'una o l'altra dimensione dell'unico mistero di Cristo. Se nel far risuonare l'annuncio evangelico all'interno delle realtà temporali ha una particolare missione la vita laicale, nell'ambito della comunione ecclesiale un insostituibile ministero è svolto da coloro che sono costituiti nell'Ordine sacro , in modo speciale dai Vescovi. Questi hanno il compito di guidare il Popolo di Dio con l'insegnamento della Parola, l'amministrazione dei Sacramenti e l'esercizio della sacra potestà a servizio della comunione ecclesiale, che è comunione organica, gerarchicamente ordinata.uanto alla significazione della santità della Chiesa, un'oggettiva eccellenza è da riconoscere alla vita consacrata, che rispecchia lo stesso modo di vivere di Cristo. Proprio per questo, in essa si ha una manifestazione particolarmente ricca dei beni evangelici e un'attuazione più compiuta del fine della Chiesa che è la santificazione dell'umanità. La vita consacrata annuncia e in certo modo anticipa il tempo futuro, quando, raggiunta la pienezza di quel Regno dei cieli che già ora è presente in germe e nel mistero,i figli della risurrezione non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli di Dio (cfr Mt 22, 30).In effetti, l'eccellenza della castità perfetta per il Regno,a buon diritto considerata la «porta» di tutta la vita consacrata,è oggetto del costante insegnamento della Chiesa. Essa peraltro tributa grande stima alla vocazione al matrimonio, che rende i coniugi «testimoni e cooperatori della fecondità della madre Chiesa, in segno e in partecipazione di quell'amore, col quale Cristo ha amato la sua Sposa e si è dato per lei».n questo orizzonte comune a tutta la vita consacrata, si articolano vie distinte tra loro ma complementari. I religiosi e le religiose integralmente dediti alla contemplazione sono in modo speciale immagine di Cristo che prega sul monte.Le persone consacrate di vita attiva lo manifestano mentre «annuncia il regno di Dio alle folle, o risana i malati e i feriti e converte a miglior vita i peccatori o benedice i fanciulli e fa del bene a tutti».Un particolare servizio all'avvento del Regno di Dio rendono le persone consacrate negli Istituti secolari, che uniscono in una specifica sintesi il valore della consacrazione e quello della secolarità. Vivendo la loro consacrazione nel secolo e a partire dal secolo,esse «si sforzano di permeare ogni realtà di spirito evangelico per consolidare e far crescere il Corpo di Cristo».Partecipano a tal fine alla funzione evangelizzatrice della Chiesa mediante la personale testimonianza di vita cristiana, l'impegno perché le realtà temporali siano ordinate secondo Dio, la collaborazione nel servizio della comunità ecclesiale, secondo lo stile di vita secolare che è loro proprio.

Testimoniare il Vangelo delle Beatitudini

33. Compito peculiare della vita consacrata è di tener viva nei battezzati la consapevolezza dei valori fondamentali del Vangelo, testimoniando «in modo splendido e singolare che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle Beatitudini».In tal modo la vita consacrata fa continuamente emergere nella coscienza del Popolo di Dio l'esigenza di rispondere con la santità della vita all'amore di Dio riversato nei cuori dallo Spirito Santo (cfr Rm 5, 5), rispecchiando nella condotta la consacrazione sacramentale avvenuta per opera di Dio nel Battesimo, nella Cresima o nell'Ordine. Occorre infatti che dalla santità comunicata nei sacramenti si passi alla santità della vita quotidiana. La vita consacrata, con il suo stesso esistere nella Chiesa, si pone al servizio della consacrazione della vita di ogni fedele, laico e chierico.D'altra parte, non si deve dimenticare che i consacrati ricevono anch'essi dalla testimonianza propria delle altre vocazioni un aiuto a vivere integralmente l'adesione al mistero di Cristo e della Chiesa nelle sue molteplici dimensioni. In virtù di tale reciproco arricchimento, diventa più eloquente ed efficace la missione della vita consacrata: indicare come meta agli altri fratelli e sorelle, tenendo fisso lo sguardo sulla pace futura, la beatitudine definitiva che è presso Dio.

Immagine viva della Chiesa-Sposa

34. Particolare rilievo ha, nella vita consacrata, il significato sponsale, che rimanda all'esigenza della Chiesa di vivere nella dedizione piena ed esclusiva al suo Sposo, dal quale riceve ogni bene. In questa dimensione sponsale, propria di tutta la vita consacrata, è soprattutto la donna che ritrova singolarmente se stessa, quasi scoprendo il genio speciale del suo rapporto con il Signore.Suggestiva è, al riguardo, la pagina neotestamentaria che presenta Maria con gli Apostoli nel cenacolo in attesa orante dello Spirito Santo (cfr At 1, 13-14). Vi si può vedere un'immagine viva della Chiesa-Sposa, attenta ai cenni dello Sposo e pronta ad accogliere il suo dono. In Pietro e negli altri Apostoli emerge soprattutto la dimensione della fecondità, quale si esprime nel ministero ecclesiale, che si fa strumento dello Spirito per la generazione di nuovi figli mediante la dispensazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la cura pastorale. In Maria è particolarmente viva la dimensione dell'accoglienza sponsale, con cui la Chiesa fa fruttificare in sé la vita divina attraverso il suo totale amore di vergine.La vita consacrata è sempre stata vista prevalentemente nella parte di Maria, la Vergine sposa. Da tale amore verginale proviene una particolare fecondità, che contribuisce al nascere e al crescere della vita divina nei cuori.La persona consacrata, sulle tracce di Maria, nuova Eva, esprime la sua spirituale fecondità facendosi accogliente alla Parola, per collaborare alla costruzione della nuova umanità con la sua incondizionata dedizione e la sua viva testimonianza. Così la Chiesa manifesta pienamente la sua maternità sia attraverso la comunicazione dell'azione divina affidata a Pietro, sia attraverso la responsabile accoglienza del dono divino, tipica di Maria.Il popolo cristiano, per parte sua, trova nel ministero ordinato i mezzi della salvezza, nella vita consacrata lo stimolo a una piena risposta d'amore in tutte le varie forme di diaconia.

IV. GUIDATI DALLO SPIRITO DI SANTITÀ

Esistenza «trasfigurata»: la chiamata alla santità

35. «All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore» (Mt 17, 6). Nell'episodio della Trasfigurazione i sinottici, pur con diverse sfumature, mettono in evidenza il senso di timore che prende i discepoli. Il fascino del volto trasfigurato di Cristo non impedisce che essi si sentano sgomenti di fronte alla Maestà divina che li sovrasta. Sempre, quando l'uomo avverte la gloria di Dio, tocca con mano anche la sua piccolezza e ne trae un senso di spavento. Questo timore è salutare. Ricorda all'uomo la divina perfezione, e al tempo stesso lo incalza con un appello pressante alla «santità».Tutti i figli della Chiesa, chiamati dal Padre ad «ascoltare» Cristo, non possono non avvertire una profonda esigenza di conversione e di santità. Ma, come è stato sottolineato al Sinodo, questa esigenza chiama in causa in primo luogo la vita consacrata. In effetti, la vocazione delle persone consacrate a cercare innanzitutto il Regno di Dio è, prima di ogni altra cosa, una chiamata alla conversione piena, nella rinuncia a se stessi per vivere totalmente del Signore, affinché Dio sia tutto in tutti. Chiamati a contemplare e testimoniare il volto trasfigurato di Cristo, i consacrati sono anche chiamati a un'esistenza «trasfigurata».Significativo, a questo proposito, è quanto è stato espresso nella Relazione finale della II Assemblea Straordinaria del Sinodo: «I santi e le sante sempre sono stati fonte e origine di rinnovamento nelle più difficili circostanze in tutta la storia della Chiesa. Oggi abbiamo grandissimo bisogno di santi, che dobbiamo implorare da Dio con assiduità. Gli Istituti di vita consacrata, mediante la professione dei consigli evangelici, devono essere consapevoli della loro speciale missione nella Chiesa odierna e noi dobbiamo incoraggiarli nella loro missione».A queste valutazioni hanno fatto eco i Padri di questa IX Assemblea sinodale, i quali hanno affermato: «La vita consacrata è stata, lungo la storia della Chiesa, una presenza viva dell'azione dello Spirito, come spazio privilegiato di amore assoluto a Dio e al prossimo, testimone del progetto divino di fare di tutta l'umanità, all'interno della civiltà dell'amore, la grande famiglia dei figli di Dio».a Chiesa ha sempre visto nella professione dei consigli evangelici una via privilegiata verso la santità. Le stesse espressioni con cui la qualifica — scuola del servizio del Signore, scuola di amore e di santità, via o stato di perfezione — indicano sia l'efficacia e la ricchezza dei mezzi propri di questa forma di vita evangelica, sia il particolare impegno di coloro che la abbracciano.Non a caso sono tanti i consacrati che lungo i secoli hanno lasciato testimonianze eloquenti di santità e compiuto imprese di evangelizzazione e di servizio particolarmente generose ed ardue.

Fedeltà al carisma

36. Nella sequela di Cristo e nell'amore per la sua persona vi sono alcuni punti concernenti la crescita della santità nella vita consacrata, che meritano di essere messi oggi in speciale evidenza.Anzitutto è richiesta la fedeltà al carisma fondazionale e al conseguente patrimonio spirituale di ciascun Istituto. Proprio in tale fedeltà all'ispirazione dei fondatori e delle fondatrici, dono dello Spirito Santo, si riscoprono più facilmente e si rivivono più fervidamente gli elementi essenziali della vita consacrata.Ogni carisma ha infatti, alla sua origine, un triplice orientamento: verso il Padre, innanzitutto, nel desiderio di ricercarne filialmente la volontà attraverso un processo di conversione continua, in cui l'obbedienza è fonte di vera libertà, la castità esprime la tensione di un cuore insoddisfatto di ogni amore finito, la povertà alimenta quella fame e sete di giustizia che Dio ha promesso di saziare (cfr Mt 5, 6). In questa prospettiva il carisma di ogni Istituto spingerà la persona consacrata ad essere tutta di Dio, a parlare con Dio o di Dio, come si dice di san Domenico,per gustare quanto sia buono il Signore (cfr Sal 34[33], 9) in tutte le situazioni.I carismi di vita consacrata implicano anche un orientamento verso il Figlio, col quale inducono a coltivare una comunione di vita intima e lieta, alla scuola del suo servizio generoso di Dio e dei fratelli. In tal modo, «lo sguardo progressivamente cristificato impara a distaccarsi dall'esteriorità, dal turbine dei sensi, da quanto cioè impedisce all'uomo quella lievità disponibile a lasciarsi afferrare dallo Spirito»,e consente così di andare in missione con Cristo, lavorando e soffrendo con Lui nel diffondere il suo Regno.Ogni carisma comporta, infine, un orientamento verso lo Spirito Santo, in quanto dispone la persona a lasciarsi guidare e sostenere da Lui, sia nel proprio cammino spirituale che nella vita di comunione e nell'azione apostolica, per vivere in quell'atteggiamento di servizio che deve ispirare ogni scelta dell'autentico cristiano.In effetti, è sempre questa triplice relazione che emerge, pur con i tratti specifici dei vari modelli di vita, in ogni carisma di fondazione, per il fatto stesso che in esso domina «un profondo ardore dell'animo di configurarsi a Cristo, per testimoniare qualche aspetto del suo mistero»,aspetto specifico chiamato a incarnarsi e svilupparsi nella più genuina tradizione dell'Istituto, secondo le Regole, le Costituzioni e gli Statuti.

Fedeltà creativa

37. Gli Istituti sono dunque invitati a riproporre con coraggio l'intraprendenza, l'inventiva e la santità dei fondatori e delle fondatrici come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi.Questo invito è innanzitutto un appello alla perseveranza nel cammino di santità attraverso le difficoltà materiali e spirituali che segnano le vicende quotidiane. Ma è anche appello a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme, quando è necessario, alle nuove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità all'ispirazione divina e al discernimento ecclesiale. Deve rimanere, comunque, viva la convinzione che nella ricerca della conformazione sempre più piena al Signore sta la garanzia di ogni rinnovamento che intenda rimanere fedele all'ispirazione originaria.n questo spirito torna oggi impellente per ogni Istituto la necessità di un rinnovato riferimento alla Regola, perché in essa e nelle Costituzioni è racchiuso un itinerario di sequela, qualificato da uno specifico carisma autenticato dalla Chiesa. Un'accresciuta considerazione per la Regola non mancherà di offrire alle persone consacrate un criterio sicuro per ricercare le forme adeguate di una testimonianza che sappia rispondere alle esigenze del momento senza allontanarsi dall'ispirazione iniziale.

Preghiera ed ascesi: il combattimento spirituale

38. La chiamata alla santità è accolta e può essere coltivata solo nel silenzio dell'adorazione davanti all'infinita trascendenza di Dio: «Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo (cfr Es 34, 33)[...]; l'impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono [...]. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola».Ciò comporta in concreto una grande fedeltà alla preghiera liturgica e personale, ai tempi dedicati all'orazione mentale e alla contemplazione, all'adorazione eucaristica, ai ritiri mensili e agli esercizi spirituali.Occorre anche riscoprire i mezzi ascetici tipici della tradizione spirituale della Chiesa e del proprio Istituto. Essi hanno costituito e tuttora costituiscono un potente aiuto per un autentico cammino di santità. L'ascesi, aiutando a dominare e correggere le tendenze della natura umana ferita dal peccato, è veramente indispensabile alla persona consacrata per restare fedele alla propria vocazione e seguire Gesù sulla via della Croce.È necessario anche riconoscere e superare alcune tentazioni che talvolta, per insidia diabolica, si presentano sotto apparenza di bene. Così, ad esempio, la legittima esigenza di conoscere la società odierna per rispondere alle sue sfide può indurre a cedere alle mode del momento, con diminuzione del fervore spirituale o con atteggiamenti di scoraggiamento. La possibilità di una formazione spirituale più elevata potrebbe spingere le persone consacrate ad un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli, mentre l'urgenza di legittima e doverosa qualificazione può trasformarsi in una esasperata ricerca di efficienza, quasi che il servizio apostolico dipenda prevalentemente dai mezzi umani, anziché da Dio. Il lodevole desiderio di farsi vicini agli uomini e alle donne del nostro tempo, credenti e non credenti, poveri e ricchi, può portare all'adozione di uno stile di vita secolarizzato o ad una promozione dei valori umani in senso puramente orizzontale. La condivisione delle istanze legittime della propria nazione o cultura potrebbe indurre ad abbracciare forme di nazionalismo o ad accogliere elementi di costume che hanno invece bisogno di essere purificati ed elevati alla luce del Vangelo.Il cammino che conduce alla santità comporta quindi l'accettazione del combattimento spirituale. È un dato esigente al quale oggi non sempre si dedica l'attenzione necessaria. La tradizione ha spesso visto raffigurato il combattimento spirituale nella lotta di Giacobbe alle prese col mistero di Dio, che egli affronta per accedere alla sua benedizione e alla sua visione (cfr Gn 32, 23-31). In questa vicenda dei primordi della storia biblica le persone consacrate possono leggere il simbolo dell'impegno ascetico che è loro necessario per dilatare il cuore e aprirlo all'accoglienza del Signore e dei fratelli.

Promuovere la santità

39. Un rinnovato impegno di santità da parte delle persone consacrate è oggi più che mai necessario anche per favorire e sostenere la tensione di ogni cristiano verso la perfezione. «È necessario, pertanto, suscitare in ogni fedele un vero anelito alla santità, un desiderio forte di conversione e di rinnovamento personale in un clima di sempre più intensa preghiera e di solidale accoglienza del prossimo, specialmente quello più bisognoso».e persone consacrate, nella misura in cui approfondiscono la propria amicizia con Dio, si pongono nella condizione di aiutare fratelli e sorelle mediante valide iniziative spirituali, quali scuole di orazione, esercizi e ritiri spirituali, giornate di solitudine, ascolto e direzione spirituale. In questo modo viene agevolato il progresso nella preghiera di persone che potranno poi operare un miglior discernimento della volontà di Dio su di sé e decidersi alle opzioni coraggiose, talvolta eroiche, richieste dalla fede. In effetti, le persone consacrate «con la stessa intima natura del loro essere si collocano nel dinamismo della Chiesa, assetata dell'Assoluto di Dio, chiamata alla santità. Di questa santità esse sono testimoni».II fatto che tutti siano chiamati a diventare santi non può che stimolare maggiormente coloro che, per la loro stessa scelta di vita, hanno la missione di ricordarlo agli altri.

«Alzatevi e non temete»: una rinnovata fiducia

40. «Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: ‘Alzatevi e non temete'» (Mt 17, 7). Come i tre apostoli nell'episodio della Trasfigurazione, le persone consacrate sanno per esperienza che non sempre la loro vita è illuminata da quel fervore sensibile che fa esclamare: «È bello per noi stare qui» (Mt 17, 4). È però sempre una vita «toccata» dalla mano di Cristo, raggiunta dalla sua voce, sorretta dalla sua grazia.«Alzatevi e non temete». Questo incoraggiamento del Maestro è indirizzato, ovviamente, a ogni cristiano. Ma a maggior ragione esso vale per chi è stato chiamato a «lasciare tutto» e, dunque, a «rischiare tutto» per Cristo. Ciò vale in modo speciale ogni qualvolta, col Maestro, si scende dal «monte» per imboccare la strada che dal Tabor porta al Calvario.Dicendo che Mosè ed Elia parlavano con Cristo del suo mistero pasquale, Luca usa significativamente il termine «dipartita» ( éxodos): «parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 31). «Esodo»: termine fondamentale della rivelazione, a cui si richiama tutta la storia della salvezza, e che esprime il senso profondo del mistero pasquale. Tema particolarmente caro alla spiritualità della vita consacrata e che ben ne manifesta il significato. In esso è incluso inevitabilmente ciò che appartiene al mysterium Crucis. Ma questo impegnativo «cammino esodale», visto dalla prospettiva del Tabor, appare come un cammino posto tra due luci: la luce anticipatrice della Trasfigurazione e quella definitiva della Risurrezione.La vocazione alla vita consacrata — nell'orizzonte dell'intera vita cristiana — nonostante le sue rinunce e le sue prove, ed anzi in forza di esse, è cammino «di luce», sul quale veglia lo sguardo del Redentore: «Alzatevi e non temete».

CAPITOLO II

SIGNUM FRATERNITATIS

LA VITA CONSACRATA
SEGNO DI COMUNIONE NELLA CHIESA

I. VALORI PERMANENTI

Ad immagine della Trinità

41. Il Signore Gesù nella sua vita terrena chiamò quelli che Egli volle, per tenerli accanto a sé e formarli a vivere sul suo esempio per il Padre e per la missione da Lui ricevuta (cfr Mc 3, 13-15). Egli inaugurava così quella nuova famiglia della quale avrebbero fatto parte nel corso dei secoli quanti sarebbero stati pronti a «compiere la volontà di Dio» (cfr Mc 3, 32-35). Dopo l'Ascensione, per effetto del dono dello Spirito, si costituì intorno agli Apostoli una comunità fraterna raccolta nella lode di Dio e in una concreta esperienza di comunione (cfr At 2, 42-47; 4, 32-35). La vita di tale comunità e, più ancora, l'esperienza di piena condivisione con Cristo vissuta dai Dodici, sono state costantemente il modello a cui la Chiesa si è ispirata, quando ha voluto rivivere il fervore delle origini e riprendere con rinnovato vigore evangelico il suo cammino nella storia.n realtà, la Chiesa è essenzialmente mistero di comunione, «popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».La vita fraterna intende rispecchiare la profondità e la ricchezza di tale mistero, configurandosi come spazio umano abitato dalla Trinità, che estende così nella storia i doni della comunione propri delle tre Persone divine. Molti sono, nella vita ecclesiale, gli ambiti e le modalità in cui s'esprime la comunione fraterna. La vita consacrata ha sicuramente il merito di aver efficacemente contribuito a tener viva nella Chiesa l'esigenza della fraternità come confessione della Trinità. Con la costante promozione dell'amore fraterno anche nella forma della vita comune, essa ha rivelato che la partecipazione alla comunione trinitaria può cambiare i rapporti umani, creando un nuovo tipo di solidarietà. In questo modo essa addita agli uomini sia la bellezza della comunione fraterna, sia le vie che ad essa concretamente conducono. Le persone consacrate, infatti, vivono «per» Dio e «di» Dio, e proprio per questo possono confessare la potenza dell'azione riconciliatrice della grazia, che abbatte i dinamismi disgregatori presenti nel cuore dell'uomo e nei rapporti sociali.

Vita fraterna nell'amore

42. La vita fraterna, intesa come vita condivisa nell'amore, è segno eloquente della comunione ecclesiale. Essa viene coltivata con particolare cura dagli Istituti religiosi e dalle Società di vita apostolica, ove acquista speciale significato la vita in comunità.Ma la dimensione della comunione fraterna non è estranea né agli Istituti Secolari né alle stesse forme individuali di vita consacrata. Gli eremiti, nella profondità della loro solitudine, non solo non si sottraggono alla comunione ecclesiale, ma la servono con il loro specifico carisma contemplativo; le vergini consacrate nel secolo attuano la loro consacrazione in uno speciale rapporto di comunione con la Chiesa particolare e universale. Similmente le vedove e i vedovi consacrati.Tutte queste persone, in attuazione del discepolato evangelico, si impegnano a vivere il «comandamento nuovo» del Signore, amandosi gli uni gli altri come Egli ci ha amati (cfr Gv 13, 34). L'amore ha portato Cristo al dono di sé fino al sacrificio supremo della Croce. Anche tra i suoi discepoli non c'è unità vera senza questo amore reciproco incondizionato, che esige disponibilità al servizio senza risparmio di energie, prontezza ad accogliere l'altro così com'è senza «giudicarlo» (cfr Mt 7, 1-2), capacità di perdonare anche «settanta volte sette» (Mt 18, 22). Per le persone consacrate, rese «un cuore solo e un'anima sola» (At 4, 32) da questo amore riversato nei cuori dallo Spirito Santo (cfr Rm 5, 5), diventa un'esigenza interiore porre tutto in comune: beni materiali ed esperienze spirituali, talenti e ispirazioni, così come ideali apostolici e servizio caritativo: «Nella vita comunitaria l'energia dello Spirito che è in uno passa contemporaneamente a tutti. Qui non solo si fruisce del proprio dono, ma lo si moltiplica nel farne parte ad altri e si gode del frutto del dono altrui come del proprio».ella vita di comunità, poi, deve farsi in qualche modo tangibile che la comunione fraterna, prima d'essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto (cfr Mt 18, 20).Questo avviene grazie all'amore reciproco di quanti compongono la comunità, un amore alimentato dalla Parola e dall'Eucaristia, purificato nel Sacramento della Riconciliazione, sostenuto dall'implorazione dell'unità, speciale dono dello Spirito per coloro che si pongono in obbediente ascolto del Vangelo. E proprio Lui, lo Spirito, ad introdurre l'anima alla comunione col Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo (cfr 1 Gv 1, 3), comunione nella quale è la sorgente della vita fraterna. Dallo Spirito le comunità di vita consacrata sono guidate nell'adempimento della loro missione di servizio alla Chiesa e all'intera umanità, secondo la propria ispirazione originaria.In questa prospettiva, particolare importanza rivestono i «Capitoli» (o riunioni analoghe), sia particolari che generali, nelle quali ogni Istituto è chiamato ad eleggere i Superiori o le Superiore secondo le norme stabilite dalle proprie Costituzioni, e a discernere, alla luce dello Spirito, le modalità adeguate per custodire e rendere attuale, nelle diverse situazioni storiche e culturali, il proprio carisma ed il proprio patrimonio spirituale.

Il compito dell'autorità

43. Nella vita consacrata la funzione dei Superiori e delle Superiore, anche locali, ha sempre avuto una grande importanza sia per la vita spirituale che per la missione. In questi anni di ricerche e di mutamenti si è talvolta sentita la necessità di una revisione di questo ufficio. Ma occorre riconoscere che chi esercita l'autorità non può abdicare al suo compito di primo responsabile della comunità, quale guida dei fratelli e delle sorelle nel cammino spirituale e apostolico.Non è facile, in ambienti fortemente segnati dall'individualismo, far riconoscere ed accogliere la funzione che l'autorità svolge a vantaggio di tutti. Si deve, però, riaffermare l'importanza di questo compito, che si rivela necessario proprio per consolidare la comunione fraterna e non vanificare l'obbedienza professata. Se l'autorità deve essere prima di tutto fraterna e spirituale e se, di conseguenza, chi ne è rivestito deve saper coinvolgere mediante il dialogo i confratelli e le consorelle nel processo decisionale, conviene tuttavia ricordare che tocca all'autorità l'ultima parola, e ad essa compete poi di far rispettare le decisioni prese.

Il ruolo delle persone anziane

44. La cura degli anziani e degli ammalati ha una parte rilevante nella vita fraterna, specie in un momento come questo, in cui in alcune regioni del mondo aumenta il numero delle persone consacrate che sono ormai avanti negli anni. L'attenzione premurosa che esse meritano non risponde solo a un preciso dovere di carità e di riconoscenza, ma è anche espressione della consapevolezza che la loro testimonianza giova molto alla Chiesa e agli Istituti e che la loro missione resta valida e meritoria, anche quando per motivi di età o di infermità hanno dovuto abbandonare la loro attività specifica. Essi hanno certamente molto da dare in saggezza ed esperienza alla comunità, se questa sa stare loro vicino con attenzione e capacità di ascolto.In realtà la missione apostolica, prima che nell'azione, consiste nella testimonianza della propria dedizione piena alla volontà salvifica del Signore, una dedizione che si alimenta alle fonti dell'orazione e della penitenza. Molti sono, pertanto, i modi in cui gli anziani sono chiamati a vivere la loro vocazione: la preghiera assidua, la paziente accettazione della propria condizione, la disponibilità per il servizio di direttore spirituale, di confessore, di guida nella preghiera.

Ad immagine della comunità apostolica

45. La vita fraterna svolge un ruolo fondamentale nel cammino spirituale delle persone consacrate, sia per il loro costante rinnovamento che per il pieno compimento della loro missione nel mondo: lo si deduce dalle motivazioni teologiche che ne stanno alla base, e se ne ha ampia conferma dalla stessa esperienza. Esorto pertanto i consacrati e le consacrate a coltivarla con impegno, seguendo l'esempio dei primi cristiani di Gerusalemme, che erano assidui nell'ascolto dell'insegnamento degli Apostoli, nella preghiera comune, nella partecipazione all'Eucaristia, nella condivisione dei beni di natura e di grazia (cfr At 2, 42-47). Esorto soprattutto i religiosi, le religiose e i membri delle Società di vita apostolica a vivere senza riserve l'amore vicendevole, esprimendolo nelle modalità consone alla natura di ciascun Istituto, perché ogni comunità si manifesti come segno luminoso della nuova Gerusalemme, «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21, 3).La Chiesa tutta, infatti, conta molto sulla testimonianza di comunità ricche «di gioia e di Spirito Santo» (At 13, 52). Essa desidera additare al mondo l'esempio di comunità nelle quali l'attenzione reciproca aiuta a superare la solitudine, la comunicazione spinge tutti a sentirsi corresponsabili, il perdono rimargina le ferite, rafforzando in ciascuno il proposito della comunione. In comunità di questo tipo, la natura del carisma dirige le energie, sostiene la fedeltà ed orienta il lavoro apostolico di tutti verso l'unica missione. Per presentare all'umanità di oggi il suo vero volto, la Chiesa ha urgente bisogno di simili comunità fraterne, le quali con la loro stessa esistenza costituiscono un contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo concreto i frutti del «comandamento nuovo».

Sentire cum Ecclesia

46. Un grande compito è affidato alla vita consacrata anche alla luce della dottrina sulla Chiesa-comunione, con tanto vigore proposta dal Concilio Vaticano II. Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità,come «testimoni e artefici di quel “progetto di comunione” che sta al vertice della storia dell'uomo secondo Dio».Il senso della comunione ecclesiale, sviluppandosi in spiritualità di comunione, promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa. La vita di comunione, infatti, «diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo [...]. In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione», anzi «la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria».ei fondatori e nelle fondatrici appare sempre vivo il senso della Chiesa, che si manifesta nella loro partecipazione piena alla vita ecclesiale in tutte le sue dimensioni e nella pronta obbedienza ai Pastori, specialmente al Romano Pontefice. In questo orizzonte di amore verso la Santa Chiesa, «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3, 15), ben si comprendono la devozione di Francesco d'Assisi per «il Signor Papa»,l'intraprendenza filiale di Caterina da Siena verso colui che ella chiama «dolce Cristo in terra»,l'obbedienza apostolica e il sentire cum Ecclesiadi Ignazio di Loyola, la gioiosa professione di fede di Teresa di Gesù: «Sono figlia della Chiesa».Si comprende anche l'anelito di Teresa di Lisieux: «Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l'amore».Simili testimonianze sono rappresentative della piena comunione ecclesiale che santi e sante, fondatori e fondatrici, hanno condiviso in epoche e circostanze fra loro diverse e spesso molto difficili. Sono esempi ai quali le persone consacrate devono fare costante riferimento, per resistere alle spinte centrifughe e disgregatrici, oggi particolarmente attive. Un aspetto qualificante di questa comunione ecclesiale è l'adesione di mente e di cuore al magistero dei Vescovi, che va vissuta con lealtà e testimoniata con chiarezza davanti al Popolo di Dio da parte di tutte le persone consacrate, particolarmente da quelle impegnate nella ricerca teologica e nell'insegnamento, nelle pubblicazioni, nella catechesi, nell'uso dei mezzi di comunicazione sociale.Poiché le persone consacrate occupano un posto speciale nella Chiesa, il loro atteggiamento a questo proposito ha grande rilievo per l'intero Popolo di Dio. Dalla loro testimonianza di amore filiale trae forza ed incisività la loro azione apostolica che, nel quadro della missione profetica di tutti i battezzati, si qualifica in genere per compiti di speciale collaborazione con l'ordine gerarchico.In questo modo, con la ricchezza dei loro carismi essi danno uno specifico contributo, perché la Chiesa realizzi sempre più profondamente la sua natura di sacramento «dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».

La fraternità nella Chiesa universale

47. Le persone consacrate sono chiamate ad essere fermento di comunione missionaria nella Chiesa universale per il fatto stesso che i molteplici carismi dei rispettivi Istituti sono donati dallo Spirito Santo in vista del bene dell'intero Corpo mistico, alla cui edificazione essi devono servire (cfr 1 Cor 12, 4-11). Significativamente «la via migliore» (1 Cor 12, 31), la realtà «di tutte più grande» (1 Cor 13, 13), secondo la parola dell'Apostolo, è la carità, che armonizza tutte le diversità e a tutti infonde la forza del mutuo sostegno nello slancio apostolico. Proprio a questo tende il peculiare vincolo di comunione, che le varie forme di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno con il Successore di Pietro nel suo ministero di unità e di universalità missionaria. La storia della spiritualità illustra ampiamente questo vincolo, mostrandone la provvidenziale funzione a garanzia sia dell'identità propria della vita consacrata che dell'espansione missionaria del Vangelo. La vigorosa diffusione dell'annuncio evangelico, come pure il saldo radicamento della Chiesa in tante regioni del mondo e la primavera cristiana che oggi si registra nelle giovani Chiese, sarebbero impensabili — come i Padri sinodali hanno osservato — senza il contributo di tanti Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica. Essi hanno mantenuto salda lungo i secoli la comunione con i Successori di Pietro, i quali hanno trovato in loro prontezza generosa nel dedicarsi alla missione con una disponibilità che, all'occorrenza, ha saputo spingersi fino all'eroismo.Emerge così il carattere di universalità e di comunione, che è proprio degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica. Per la connotazione sovradiocesana radicata nel loro speciale rapporto col ministero petrino, essi sono anche al servizio della collaborazione fra le diverse Chiese particolari,tra le quali possono efficacemente promuovere lo «scambio di doni», contribuendo ad una inculturazione del Vangelo che purifichi, valorizzi ed assuma le ricchezze delle culture di tutti i popoli. Anche oggi la fioritura nelle giovani Chiese di vocazioni alla vita consacrata manifesta la capacità che questa possiede di esprimere nell'unità cattolica le istanze dei vari popoli e culture.

La vita consacrata e la Chiesa particolare

48. Un ruolo significativo spetta alle persone consacrate anche all'interno delle Chiese particolari. E questo un aspetto che, partendo dalla dottrina conciliare sulla Chiesa come comunione e mistero e sulle Chiese particolari come porzione del Popolo di Dio nelle quali «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica»,è stato approfondito e codificato in vari documenti successivi. Alla luce di questi testi appare in tutta evidenza il fondamentale rilievo che la collaborazione delle persone consacrate con i Vescovi riveste per l'armonioso sviluppo della pastorale diocesana. Molto possono contribuire i carismi della vita consacrata all'edificazione della carità nella Chiesa particolare.Le varie forme in cui vengono vissuti i consigli evangelici, infatti, sono espressione e frutto di doni spirituali ricevuti da fondatori e fondatrici e, come tali, costituiscono una «esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita».L'indole propria di ciascun Istituto comporta uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che tende a consolidarsi in una determinata tradizione, caratterizzata da elementi oggettivi.Per questo la Chiesa ha cura che gli Istituti crescano e si sviluppino secondo lo spirito dei fondatori e delle fondatrici e le loro sane tradizioni.i conseguenza, è riconosciuta ai singoli Istituti una giusta autonomia , grazie alla quale essi possono valersi di una propria disciplina e conservare integro il loro patrimonio spirituale ed apostolico. E compito degli Ordinari dei luoghi conservare e tutelare tale autonomia.Pertanto ai Vescovi è chiesto di accogliere e stimare i carismi della vita consacrata, dando loro spazio nei progetti della pastorale diocesana. Una particolare premura devono avere per gli Istituti di diritto diocesano, che sono affidati alla cura speciale del Vescovo del luogo. Una diocesi che restasse senza vita consacrata, oltre a perdere tanti doni spirituali, appropriati luoghi di ricerca di Dio, specifiche attività apostoliche e metodologie pastorali, rischierebbe di trovarsi grandemente indebolita in quello spirito missionario che è proprio della maggioranza degli Istituti.E pertanto doveroso corrispondere al dono della vita consacrata, che lo Spirito suscita nella Chiesa particolare, accogliendolo generosamente con rendimento di grazie.

Una feconda e ordinata comunione ecclesiale

49. Il Vescovo è padre e pastore dell'intera Chiesa particolare. A lui compete di riconoscere e rispettare i singoli carismi, di promuoverli e coordinarli. Nella sua carità pastorale accoglierà pertanto il carisma della vita consacrata come grazia che non riguarda soltanto un Istituto, ma rifluisce a vantaggio di tutta la Chiesa. Cercherà così di sostenere ed aiutare le persone consacrate, affinché, in comunione con la Chiesa, si aprano a prospettive spirituali e pastorali corrispondenti alle esigenze del nostro tempo, in fedeltà all'ispirazione fondazionale. Da parte loro, le persone di vita consacrata non mancheranno di offrire generosamente la loro collaborazione alla Chiesa particolare secondo le proprie forze e nel rispetto del proprio carisma, operando in piena comunione col Vescovo nell'ambito della evangelizzazione, della catechesi, della vita delle parrocchie.Giova ricordare che, nel coordinare il servizio alla Chiesa universale con quello alla Chiesa particolare, gli Istituti non possono invocare la legittima autonomia e la stessa esenzione, di cui molti di loro godono,per giustificare scelte che di fatto contrastano con le esigenze di organica comunione poste da una sana vita ecclesiale. Occorre invece che le iniziative pastorali delle persone consacrate siano decise ed attuate sulla base di un dialogo cordiale e aperto tra Vescovi e Superiori dei vari Istituti. La speciale attenzione da parte dei Vescovi alla vocazione e missione degli Istituti e il rispetto, da parte di questi, del ministero dei Vescovi, con la pronta accoglienza delle loro concrete indicazioni pastorali per la vita diocesana, rappresentano due forme intimamente connesse di quell'unica carità ecclesiale che impegna tutti al servizio della comunione organica — carismatica e insieme gerarchicamente strutturata — dell'intero Popolo di Dio.

Un costante dialogo animato dalla carità

50. Per promuovere la reciproca conoscenza, presupposto necessario di una fattiva cooperazione soprattutto in ambito pastorale, è quanto mai opportuno un costante dialogo di Superiori e Superiore degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica con i Vescovi. Grazie a questi abituali contatti, Superiori e Superiore potranno informare i Vescovi circa le iniziative apostoliche che intendono avviare nelle loro diocesi, per giungere con essi ai necessari accordi operativi. Allo stesso modo, conviene che persone delegate dalle Conferenze dei Superiori e delle Superiore maggiori siano invitate ad assistere alle assemblee delle Conferenze dei Vescovi e che, viceversa, delegati delle Conferenze episcopali vengano invitati alle Conferenze dei Superiori e delle Superiore maggiori, secondo modalità da determinare. In questa prospettiva sarà di grande giovamento che, ove ancora non ci fossero, siano costituite e rese operanti, a livello nazionale, commissioni miste di Vescovi e Superiori e Superiore maggioriche esaminino insieme i problemi di comune interesse. Alla miglior conoscenza reciproca contribuirà pure l'inserimento della teologia e della spiritualità della vita consacrata nel piano di studi teologici dei presbiteri diocesani, come pure la previsione, nella formazione delle persone consacrate, di una adeguata trattazione della teologia della Chiesa particolare e della spiritualità del clero diocesano. infine consolante ricordare che, al Sinodo, non solo sono stati numerosi gli interventi circa la dottrina della comunione, ma grande è stata anche la soddisfazione per l'esperienza di dialogo vissuta, in un clima di reciproca fiducia ed apertura, tra i Vescovi e i religiosi e le religiose presenti. Ciò ha suscitato il desiderio che «tale esperienza spirituale di comunione e collaborazione si estenda a tutta la Chiesa» anche dopo il Sinodo.E auspicio che faccio mio per la crescita in tutti della mentalità e della spiritualità di comunione.

La fraternità in un mondo diviso e ingiusto

51. La Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato dall'odio etnico o da follie omicide. Collocate nelle diverse società del nostro pianeta — società percorse spesso da passioni e da interessi contrastanti, desiderose di unità ma incerte sulle vie da prendere — le comunità di vita consacrata, nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità.Le comunità di vita consacrata sono mandate ad annunziare, con la testimonianza della loro vita, il valore della fraternità cristiana e la forza trasformante della Buona Novella,che fa riconoscere tutti come figli di Dio e spinge all'amore oblativo verso tutti, specialmente verso gli ultimi. Queste comunità sono luoghi di speranza e di scoperta delle Beatitudini, luoghi nei quali l'amore, attingendo alla preghiera, sorgente della comunione, è chiamato a diventare logica di vita e fonte di gioia. Soprattutto gli Istituti internazionali, in quest'epoca caratterizzata dalla mondializzazione dei problemi e insieme dal ritorno degli idoli del nazionalismo, hanno il compito di tener vivo e di testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze, le culture. In un clima di fraternità, l'apertura alla dimensione mondiale dei problemi non soffocherà le ricchezze particolari, né l'affermazione di una particolarità creerà contrasto con le altre né con l'unità. Gli Istituti internazionali possono fare questo con efficacia, dovendo essi stessi affrontare creativamente la sfida dell'inculturazione e conservare nello stesso tempo la loro identità.

Comunione fra i diversi Istituti

52. Il fraterno rapporto spirituale e la mutua collaborazione fra i diversi Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica sono sostenuti e alimentati dal senso ecclesiale di comunione. Persone che sono fra loro unite dal comune impegno della sequela di Cristo ed animate dal medesimo Spirito non possono non manifestare visibilmente, come tralci dell'unica Vite, la pienezza del Vangelo dell'amore. Memori dell'amicizia spirituale, che spesso ha legato sulla terra i diversi fondatori e fondatrici, esse, restando fedeli all'indole del proprio Istituto, sono chiamate ad esprimere un'esemplare fraternità, che sia di stimolo alle altre componenti ecclesiali nel quotidiano impegno di testimonianza al Vangelo.Sono sempre attuali le parole di san Bernardo, a proposito dei diversi Ordini religiosi: «Io li ammiro tutti. Appartengo ad uno di essi con l'osservanza, ma a tutti nella carità. Abbiamo bisogno tutti gli uni degli altri: il bene spirituale che io non ho e non possiedo, lo ricevo dagli altri [...]. In questo esilio, la Chiesa è ancora in cammino e, se posso dire così, plurale: è una pluralità unica e una unità plurale. E tutte le nostre diversità, che manifestano la ricchezza dei doni di Dio, sussisteranno nell'unica casa del Padre, che comporta tante dimore. Adesso c'è divisione di grazie: allora ci sarà distinzione di glorie. L'unità, sia qui che là, consiste in una medesima carità».

Organismi di coordinamento

53. Un notevole contributo alla comunione può essere dato dalle Conferenze dei Superiori e delle Superiore maggiori e dalle Conferenze degli Istituti secolari. Incoraggiati e regolamentati dal Concilio Vaticano IIe da documenti successivi,questi organismi hanno per scopo principale la promozione della vita consacrata inserita nella compagine della missione ecclesiale.Per loro tramite, gli Istituti esprimono la comunione tra loro e cercano i mezzi per rafforzarla, nel rispetto e nella valorizzazione delle specificità dei vari carismi, nei quali si rispecchiano il mistero della Chiesa e la multiforme sapienza di Dio.Incoraggio gli Istituti di vita consacrata a collaborare tra di loro, specie in quei Paesi dove, per particolari difficoltà, può essere forte la tentazione di ripiegarsi su di sé, a danno della stessa vita consacrata e della Chiesa. Occorre invece che si aiutino a vicenda nel cercare di capire il disegno di Dio nell'attuale travaglio della storia, per meglio rispondervi con iniziative apostoliche adeguate.In questo orizzonte di comunione aperto alle sfide del nostro tempo, i Superiori e le Superiore, «operando in sintonia con l'episcopato», cerchino di «usufruire dell'opera dei migliori collaboratori di ciascun Istituto e offrire servizi che non solo aiutino a superare eventuali limiti, ma creino uno stile valido di formazione alla vita consacrata».sorto le Conferenze dei Superiori e delle Superiore maggiori e le Conferenze degli Istituti Secolari a curare anche frequenti e regolari contatti con la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, come manifestazione della loro comunione con la Santa Sede. Un rapporto attivo e fiducioso dovrà pure essere intrattenuto con le Conferenze episcopali dei singoli Paesi. Nello spirito del documento Mutuae relationes, sarà conveniente che tale rapporto assuma una forma stabile, così da rendere possibile il costante e tempestivo coordinamento delle iniziative via via emergenti. Se tutto questo sarà attuato con perseveranza e spirito di fedele adesione alle direttive del Magistero, gli organismi di collegamento e di comunione si riveleranno particolarmente utili per trovare soluzioni che evitino incomprensioni e tensioni sul piano sia teorico che pratico;in questo modo saranno di sostegno non solo alla crescita della comunione tra gli Istituti di vita consacrata e i Vescovi, ma anche allo svolgimento della stessa missione delle Chiese particolari.

Comunione e collaborazione con i laici

54. Uno dei frutti della dottrina della Chiesa come comunione, in questi anni, è stata la presa di coscienza che le sue varie componenti possono e devono unire le loro forze, in atteggiamento di collaborazione e di scambio di doni, per partecipare più efficacemente alla missione ecclesiale. Ciò contribuisce a dare un'immagine più articolata e completa della Chiesa stessa, oltre che a rendere più efficace la risposta alle grandi sfide del nostro tempo, grazie all'apporto corale dei diversi doni.I rapporti con i laici, nel caso di Istituti monastici e contemplativi, si configurano come una relazione prevalentemente spirituale, mentre per gli Istituti impegnati sul versante dell'apostolato si traducono anche in forme di collaborazione pastorale. I membri poi degli Istituti secolari, laici o chierici, entrano in rapporto con gli altri fedeli nelle forme ordinarie della vita quotidiana. Oggi non pochi Istituti, spesso in forza delle nuove situazioni, sono pervenuti alla convinzione che il loro carisma può essere condiviso con i laici. Questi vengono perciò invitati a partecipare in modo più intenso alla spiritualità e alla missione dell'Istituto medesimo. Si può dire che, sulla scia di esperienze storiche come quella dei diversi Ordini secolari o Terz'Ordini, è iniziato un nuovo capitolo, ricco di speranze, nella storia delle relazioni tra le persone consacrate e il laicato.

Per un rinnovato dinamismo spirituale ed apostolico

55. Questi nuovi percorsi di comunione e di collaborazione meritano di essere incoraggiati per diversi motivi. Potrà infatti derivarne, innanzitutto, un'irradiazione di operosa spiritualità al di là delle frontiere dell'Istituto, che conterà così su nuove energie, anche per assicurare alla Chiesa la continuità di certe sue forme tipiche di servizio. Un'altra conseguenza positiva potrà poi essere l'agevolazione di una più intensa sinergia tra persone consacrate e laici in ordine alla missione: mossi dagli esempi di santità delle persone consacrate, i laici saranno introdotti all'esperienza diretta dello spirito dei consigli evangelici, e saranno così incoraggiati a vivere e a testimoniare lo spirito delle Beatitudini, in vista della trasformazione del mondo secondo il cuore di Dio.a partecipazione dei laici non raramente porta inattesi e fecondi approfondimenti di alcuni aspetti del carisma, ridestandone un'interpretazione più spirituale e spingendo a trarne indicazioni per nuovi dinamismi apostolici. In qualunque attività o ministero siano impegnate, le persone consacrate ricorderanno, pertanto, di dover essere innanzitutto guide esperte di vita spirituale, e coltiveranno in questa prospettiva «il talento più prezioso: lo spirito».A loro volta i laici offrano alle famiglie religiose il prezioso contributo della loro secolarità e del loro specifico servizio.

Laici volontari e associati

56. Una espressione significativa di partecipazione laicale alle ricchezze della vita consacrata è l'adesione di fedeli laici ai vari Istituti nella nuova forma dei cosiddetti membri associati o, secondo le esigenze presenti in alcuni contesti culturali, di persone che condividono, per un certo periodo di tempo, la vita comunitaria e la particolare dedizione contemplativa o apostolica dell'Istituto, sempre che ovviamente l'identità della sua vita interna non ne patisca danno. giusto circondare di grande stima il volontariato che attinge alle ricchezze della vita consacrata; occorre però curarne la formazione, affinché i volontari, oltre alla competenza, abbiano sempre profonde motivazioni soprannaturali nei loro propositi e vivo senso comunitario ed ecclesiale nei loro progetti.E da tener presente poi che iniziative nelle quali siano coinvolti laici anche a livello decisionale, per essere considerate opera di un determinato Istituto, devono perseguirne i fini ed essere attuate sotto la sua responsabilità. Perciò, se dei laici ne assumono la direzione, essi risponderanno di tale conduzione ai Superiori e Superiore competenti. E opportuno che tutto questo sia vagliato e regolato da apposite direttive dei singoli Istituti, approvate dall'Autorità Superiore, in cui siano previste le rispettive competenze dell'Istituto stesso, delle comunità, dei membri associati o dei volontari.Le persone consacrate, inviate dai loro Superiori e Superiore e restando alle loro dipendenze, possono essere presenti con specifiche forme di collaborazione in iniziative laicali, particolarmente in organizzazioni ed istituzioni che si interessano dell'emarginazione e hanno lo scopo di alleviare la sofferenza umana. Tale collaborazione, se è animata e sostenuta da una chiara e forte identità cristiana ed è rispettosa dell'indole propria della vita consacrata, può far brillare la forza illuminante del Vangelo nelle situazioni più oscure dell'esistenza umana.In questi anni, non poche persone consacrate sono entrate in qualcuno dei movimenti ecclesiali sviluppatisi nel nostro tempo. Da tali esperienze gli interessati traggono in genere beneficio, specialmente sul piano del rinnovamento spirituale. Tuttavia non si può negare che, in alcuni casi, ciò generi disagi e disorientamento a livello personale e comunitario, specialmente quando queste esperienze entrano in conflitto con le esigenze della vita comune e della spiritualità dell'Istituto. Occorrerà pertanto curare che l'adesione ai movimenti ecclesiali avvenga nel rispetto del carisma e della disciplina del proprio Istituto,col consenso dei Superiori e delle Superiore e nella piena disponibilità ad accoglierne le decisioni.

La dignità e il ruolo della donna consacrata

57. La Chiesa rivela pienamente la sua multiforme ricchezza spirituale quando, superate le discriminazioni, accoglie come una vera benedizione i doni da Dio riversati sia negli uomini che nelle donne, tutti valorizzando nella loro pari dignità. Le donne consacrate sono chiamate in modo tutto speciale ad essere, attraverso la loro dedizione vissuta in pienezza e con gioia, un segno della tenerezza di Dio verso il genere umano ed una testimonianza particolare del mistero della Chiesa che è vergine, sposa e madre.Tale loro missione non ha mancato di manifestarsi al Sinodo, al quale hanno partecipato numerose, potendo far sentire la loro voce, che è stata ascoltata ed apprezzata da tutti. Grazie anche ai loro contributi sono emerse utili indicazioni per la vita della Chiesa e per la sua missione evangelizzatrice. Certo, non si può non riconoscere la fondatezza di molte rivendicazioni concernenti la posizione della donna in diversi ambiti sociali ed ecclesiali. Ugualmente è doveroso rilevare che la nuova coscienza femminile aiuta anche gli uomini a rivedere i loro schemi mentali, il loro modo di autocomprendersi, di collocarsi nella storia e di interpretarla, di organizzare la vita sociale, politica, economica, religiosa, ecclesiale.La Chiesa, che ha ricevuto da Cristo un messaggio di liberazione, ha la missione di diffonderlo profeticamente, promuovendo mentalità e condotta conformi alle intenzioni del Signore. In questo contesto la donna consacrata, a partire dalla sua esperienza di Chiesa e di donna nella Chiesa, può contribuire ad eliminare certe visioni unilaterali, che non manifestano il pieno riconoscimento della sua dignità, del suo apporto specifico alla vita e all'azione pastorale e missionaria della Chiesa. Per questo è legittimo che la donna consacrata aspiri a veder riconosciuta più chiaramente la sua identità, la sua capacità, la sua missione, la sua responsabilità sia nella coscienza ecclesiale che nella vita quotidiana.Anche il futuro della nuova evangelizzazione, come del resto di tutte le altre forme di azione missionaria, è impensabile senza un rinnovato contributo delle donne, specialmente delle donne consacrate.

Nuove prospettive di presenza e di azione

58. E, pertanto, urgente compiere alcuni passi concreti, a partire dall'apertura alle donne di spazi di partecipazione in vari settori e a tutti i livelli, anche nei processi di elaborazione delle decisioni, soprattutto in ciò che le riguarda.E necessario anche che la formazione delle donne consacrate, non meno di quella degli uomini, sia adeguata alle nuove urgenze e preveda tempo sufficiente e valide opportunità istituzionali per un'educazione sistematica, estesa a tutti i campi, da quello teologico-pastorale a quello professionale. La formazione pastorale e catechetica, sempre importante, assume particolare rilievo in vista della nuova evangelizzazione, che richiede anche dalle donne nuove forme di partecipazione.Si può ritenere che l'approfondimento formativo, mentre aiuterà la donna consacrata a comprendere meglio i propri doni, non mancherà di stimolare la necessaria reciprocità all'interno della Chiesa. Anche nel campo della riflessione teologica, culturale e spirituale ci si attende molto dal genio della donna in ciò che riguarda non solo la specificità della vita consacrata femminile, ma anche l'intelligenza della fede in tutte le sue espressioni. A questo proposito, quanto deve la storia della spiritualità a sante come Teresa di Gesù e Caterina da Siena, le prime due donne insignite del titolo di Dottore della Chiesa, e a tante altre mistiche per quanto concerne l'esplorazione del mistero di Dio e l'analisi della sua azione nel credente! La Chiesa conta molto sulle donne consacrate per un contributo originale nella promozione della dottrina, dei costumi, della stessa vita familiare e sociale, specialmente in ciò che attiene alla dignità della donna e al rispetto della vita umana.Infatti, «le donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un “nuovo femminismo” che, senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli “maschilisti', sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento».'è motivo di sperare che da un più profondo riconoscimento della missione della donna, la vita consacrata femminile tragga una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo e un'accresciuta dedizione alla causa del Regno di Dio. Ciò potrà tradursi in molteplici opere, quali l'impegno per l'evangelizzazione, l'attività educativa, la partecipazione nella formazione dei futuri sacerdoti e delle persone consacrate, l'animazione della comunità cristiana, l'accompagnamento spirituale, la promozione dei fondamentali beni della vita e della pace. Alle donne consacrate e alla loro straordinaria capacità di dedizione esprimo ancora una volta l'ammirata riconoscenza della Chiesa intera, che le sostiene perché vivano in pienezza e con gioia la loro vocazione e si sentano interpellate dall'alto compito di aiutare a formare la donna di oggi.

II. CONTINUITÀ NELL'OPERA DELLO SPIRITO SANTO:FEDELTÀ NELLA NOVITÀ

Le monache di clausura

59. Particolare attenzione meritano la vita monastica femminile e la clausura delle monache, per l'altissima stima che la comunità cristiana nutre verso questo genere di vita, segno dell'unione esclusiva della Chiesa-Sposa con il suo Signore, sommamente amato. In effetti, la vita delle monache di clausura, impegnate in modo precipuo nella preghiera, nell'ascesi e nel fervido progresso della vita spirituale, «non è altro che un tendere alla Gerusalemme celeste, un'anticipazione della Chiesa escatologica, fissa nel possesso e nella contemplazione di Dio».Alla luce di questa vocazione e missione ecclesiale, la clausura risponde all'esigenza, avvertita come prioritaria, di stare con il Signore. Scegliendo uno spazio circoscritto come luogo di vita, le claustrali partecipano all'annientamento di Cristo, mediante una povertà radicale che si esprime nella rinuncia non solo alle cose, ma anche allo «spazio», ai contatti, a tanti beni del creato. Questo modo particolare di donare il «corpo» le immette più sensibilmente nel mistero eucaristico. Esse si offrono con Gesù per la salvezza del mondo. La loro offerta, oltre all'aspetto di sacrificio e di espiazione, acquista anche quello di rendimento di grazie al Padre, nella partecipazione all'azione di grazie del Figlio diletto.Radicata in questa tensione spirituale, la clausura non è solo un mezzo ascetico di immenso valore, ma un modo di vivere la Pasqua di Cristo.Da esperienza di «morte» essa diventa sovrabbondanza di «vita», ponendosi come gioioso annuncio e anticipazione profetica della possibilità offerta ad ogni persona e all'umanità intera di vivere unicamente per Dio, in Cristo Gesù (cfr Rm 6, 11). La clausura evoca dunque quella cella del cuore in cui ciascuno è chiamato a vivere l'unione con il Signore. Accolta come dono e scelta come libera risposta di amore, essa è il luogo della comunione spirituale con Dio e con i fratelli e le sorelle, dove la limitazione degli spazi e dei contatti opera a vantaggio dell'interiorizzazione dei valori evangelici (cfr Gv 13, 34; Mt 5, 3.8).Le comunità claustrali, poste come città sul monte e lucerne sul lucerniere (cfr Mt 5, 14-15), pur nella semplicità della loro vita, raffigurano visibilmente la meta verso cui cammina l'intera comunità ecclesiale che, «ardente nell'azione e dedita alla contemplazione»,avanza sulle strade del tempo con lo sguardo fisso alla futura ricapitolazione di tutto in Cristo, quando la Chiesa «col suo Sposo comparirà rivestita di gloria (cfr Col 3, 1-4)»,e Cristo «consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza [...] perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15, 24.28).A queste carissime Sorelle va, pertanto, la mia riconoscenza con l'incoraggiamento a rimanere fedeli alla vita claustrale secondo il proprio carisma. Grazie al loro esempio, questo genere di vita continua a registrare numerose vocazioni, attratte dalla radicalità di un'esistenza «sponsale», dedicata totalmente a Dio nella contemplazione. Come espressione di puro amore che vale più di ogni opera, la vita contemplativa sviluppa una straordinaria efficacia apostolica e missionaria. Padri sinodali hanno espresso grande apprezzamento per il valore della clausura, prendendo al tempo stesso in esame le richieste qua e là avanzate quanto alla sua concreta disciplina. Le indicazioni del Sinodo sull'argomento e, in particolare, il voto di una maggiore responsabilizzazione delle Superiore Maggiori in materia di deroghe alla clausura per giusta e grave causasaranno fatte oggetto di organica considerazione, in linea con il cammino di rinnovamento già attuato, a partire dal Concilio Vaticano II.In questo modo la clausura nelle sue varie forme e gradi — dalla clausura papale e costituzionale, alla clausura monastica — corrisponderà meglio alla varietà degli Istituti contemplativi e delle tradizioni dei monasteri.Come lo stesso Sinodo ha sottolineato, sono inoltre da favorire le Associazioni e Federazioni fra monasteri, già raccomandate da Pio XII e dal Concilio Ecumenico Vaticano II,specialmente dove non esistono altre forme efficaci di coordinamento e di aiuto, per custodire e promuovere i valori della vita contemplativa. Tali organismi, salva sempre la legittima autonomia dei monasteri, possono infatti offrire un valido sussidio per risolvere adeguatamente problemi comuni, quali il conveniente rinnovamento, la formazione sia iniziale che permanente, il vicendevole sostegno economico ed anche la riorganizzazione degli stessi monasteri.

I religiosi fratelli

60. Secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, la vita consacrata per natura sua non è né laicale né clericale,e per questo la «consacrazione laicale», tanto maschile quanto femminile, costituisce uno stato in sé completo di professione dei consigli evangelici.Essa perciò ha, sia per la persona che per la Chiesa, un valore proprio, indipendentemente dal ministero sacro.In linea con l'insegnamento del Concilio Vaticano II,il Sinodo ha espresso grande stima per questo tipo di vita consacrata nella quale i religiosi fratelli svolgono, dentro e fuori della comunità, diversi e preziosi servizi, partecipando così alla missione di proclamare il Vangelo e di testimoniarlo con la carità nella vita di ogni giorno. In effetti, alcuni di tali servizi si possono considerare ministeri ecclesiali, affidati dalla legittima autorità. Ciò esige una formazione appropriata e integrale: umana, spirituale, teologica, pastorale e professionale. Secondo la vigente terminologia, gli Istituti che, per determinazione del fondatore o in forza di una legittima tradizione, hanno carattere e finalità che non comportino l'esercizio dell'Ordine sacro, sono chiamati «Istituti laicali».Tuttavia nel Sinodo è stato messo in luce che questa terminologia non esprime adeguatamente l'indole peculiare della vocazione dei membri di tali Istituti religiosi. Infatti essi, pur svolgendo molti servizi che sono comuni anche ai fedeli laici, lo fanno con la loro identità di consacrati ed esprimono così lo spirito di dono totale a Cristo e alla Chiesa, secondo il loro carisma specifico. Per questa ragione i Padri sinodali, al fine di evitare ogni ambiguità e confusione con l'indole secolare dei fedeli laici,hanno voluto proporre il titolo di Istituti religiosi di Fratelli .La proposta è significativa, soprattutto se si considera che il titolo di fratello richiama anche una ricca spiritualità. «Questi religiosi sono chiamati ad essere fratelli di Cristo, profondamente uniti a Lui “primogenito fra molti fratelli” (Rm 8, 29); fratelli fra di loro, nell'amore reciproco e nella cooperazione allo stesso servizio di bene nella Chiesa; fratelli di ogni uomo nella testimonianza della carità di Cristo verso tutti, specialmente i più piccoli, i più bisognosi; fratelli per una più grande fratellanza nella Chiesa».Vivendo in modo speciale questo aspetto della vita cristiana e insieme consacrata, i «religiosi fratelli» ricordano efficacemente agli stessi religiosi sacerdoti la fondamentale dimensione della fraternità in Cristo, da vivere fra di loro e con ogni uomo e donna, e a tutti proclamano la parola del Signore: «E voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8).In questi Istituti religiosi di Fratelli niente impedisce, quando il Capitolo generale abbia così disposto, che alcuni membri assumano gli Ordini sacri per il servizio sacerdotale della comunità religiosa.Tuttavia il Concilio Vaticano II non offre alcun esplicito incoraggiamento in tal senso, proprio perché desidera che gli Istituti di Fratelli permangano fedeli alla loro vocazione e missione. Ciò vale anche in tema di accesso alla carica di Superiore, considerando che essa riflette in modo speciale la natura dell'Istituto stesso.Diversa è la vocazione dei fratelli in quegli Istituti che sono detti «clericali» perché, secondo il progetto del fondatore oppure in forza di una legittima tradizione, prevedono l'esercizio dell'Ordine sacro, sono governati da chierici e come tali sono riconosciuti dall'autorità della Chiesa.In questi Istituti il ministero sacro è costitutivo del carisma stesso e ne determina l'indole, il fine, lo spirito. La presenza di fratelli costituisce una partecipazione differenziata alla missione dell'Istituto, con servizi svolti sia all'interno delle comunità che nelle opere apostoliche, in collaborazione con coloro che esercitano il ministero sacerdotale.

Istituti misti

61. Alcuni Istituti religiosi, che nel progetto originario del fondatore si configuravano come fraternità, nelle quali tutti i membri — sacerdoti e non sacerdoti — erano considerati uguali tra di loro, col passare del tempo hanno acquistato una diversa fisionomia. Occorre che questi Istituti, chiamati «misti», valutino, sulla base dell'approfondimento del proprio carisma fondazionale, se sia opportuno e possibile tornare all'ispirazione originaria. I Padri sinodali hanno espresso il voto che in tali Istituti sia riconosciuta a tutti i religiosi parità di diritti e di obblighi, eccettuati quelli che scaturiscono dall'Ordine sacro.Per esaminare e risolvere i problemi connessi con questa materia è stata istituita un'apposita commissione, le cui conclusioni conviene attendere, per fare poi le opportune scelte secondo quanto sarà autorevolmente disposto.

Nuove forme di vita evangelica

62. Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l'impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali.L'originalità delle nuove comunità consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all'una o all'altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi. Anche il loro impegno di vita evangelica si esprime in forme diverse, mentre si manifesta, come orientamento generale, un'intensa aspirazione alla vita comunitaria, alla povertà e alla preghiera. Al governo partecipano chierici e laici, in base alle loro competenze, e il fine apostolico si apre alle istanze della nuova evangelizzazione.Se, da una parte, c'è da rallegrarsi di fronte all'azione dello Spirito, dall'altra è necessario procedere al discernimento dei carismi. Principio fondamentale, perché si possa parlare di vita consacrata, è che i tratti specifici delle nuove comunità e forme di vita risultino fondati sopra gli elementi essenziali, teologici e canonici, che sono propri della vita consacrata.Questo discernimento si rende necessario a livello sia locale che universale, allo scopo di prestare una comune obbedienza all'unico Spirito. Nelle diocesi, il Vescovo esamini la testimonianza di vita e l'ortodossia di fondatori e fondatrici di tali comunità, la loro spiritualità, la sensibilità ecclesiale nell'adempimento della loro missione, i metodi di formazione e i modi di incorporazione alla comunità; valuti con saggezza eventuali debolezze, attendendo con pazienza il riscontro dei frutti (cfr Mt 7, 16), per poter riconoscere l'autenticità del carisma.In special modo a lui è chiesto di stabilire, alla luce di chiari criteri, l'idoneità di quanti in queste comunità domandano di accedere agli Ordini sacri.n forza dello stesso principio di discernimento, non possono essere comprese nella specifica categoria della vita consacrata quelle pur lodevoli forme di impegno che alcuni coniugi cristiani assumono in associazioni o movimenti ecclesiali, quando, nell'intento di portare alla perfezione della carità il loro amore, già «come consacrato» nel sacramento del matrimonio,confermano con un voto il dovere della castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, professano la povertà e l'obbedienza.La precisazione doverosa circa la natura di tale esperienza non intende sottovalutare questo particolare cammino di santificazione, a cui non è certo estranea l'azione dello Spirito Santo, infinitamente ricco nei suoi doni e nelle sue ispirazioni.Di fronte a tanta ricchezza di doni e di impulsi innovativi, sembra opportuno creare una Commissione per le questioni riguardanti le nuove forme di vita consacrata, allo scopo di stabilire criteri di autenticità, che siano di aiuto nel discernimento e nelle decisioni.Tra gli altri compiti, tale Commissione dovrà valutare, alla luce dell'esperienza di questi ultimi decenni, quali nuove forme di consacrazione l'autorità ecclesiastica possa, con prudenza pastorale e a comune vantaggio, riconoscere ufficialmente e proporre ai fedeli desiderosi di una vita cristiana più perfetta.Queste nuove associazioni di vita evangelica non sono alternative alle precedenti istituzioni, le quali continuano ad occupare il posto insigne che la tradizione ha loro assegnato. Le nuove forme sono anch'esse un dono dello Spirito, perché la Chiesa segua il suo Signore in perenne slancio di generosità, attenta agli appelli di Dio che si rivelano mediante i segni dei tempi. Così essa si presenta al mondo variegata nelle forme di santità e di servizi, quale «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».Gli antichi Istituti, tra cui molti passati attraverso il vaglio di prove durissime, sostenute con fortezza lungo i secoli, possono arricchirsi entrando in dialogo e scambiando i doni con le fondazioni che vengono alla luce in questo nostro tempo.In tal modo il vigore delle varie istituzioni di vita consacrata, dalle più antiche alle più recenti, come pure la vivacità delle nuove comunità, alimenteranno la fedeltà allo Spirito Santo, che è principio di comunione e di perenne novità di vita.

III. GUARDANDO VERSO IL FUTURO

Difficoltà e prospettive

63. I mutamenti in corso nella società e la diminuzione del numero delle vocazioni stanno pesando sulla vita consacrata in alcune regioni del mondo. Le opere apostoliche di molti Istituti e la loro stessa presenza in certe Chiese locali sono poste a repentaglio. Come è già accaduto altre volte nella storia, vi sono persino Istituti che corrono il rischio di scomparire. La Chiesa universale è sommamente grata per il grande contributo da essi offerto alla sua edificazione con la testimonianza ed il servizio.L'affanno di oggi non annulla i loro meriti e i frutti maturati grazie alle loro fatiche.Per altri Istituti si pone piuttosto il problema della riorganizzazione delle opere. Tale compito, non facile e non raramente doloroso, esige studio e discernimento, alla luce di alcuni criteri. Occorre, ad esempio, salvaguardare il senso del proprio carisma, promuovere la vita fraterna, essere attenti alle necessità della Chiesa sia universale che particolare, occuparsi di ciò che il mondo trascura, rispondere generosamente e con audacia, anche se con interventi forzatamente esigui, alle nuove povertà, soprattutto nei luoghi più abbandonati.e varie difficoltà, derivanti dalla contrazione di personale e di iniziative, non devono in alcun modo far perdere la fiducia nella forza evangelica della vita consacrata, che sarà sempre attuale ed operante nella Chiesa. Se i singoli Istituti non hanno la prerogativa della perennità, la vita consacrata continuerà ad alimentare tra i fedeli la risposta di amore verso Dio e verso i fratelli. Per questo è necessario distinguere la vicenda storica di un determinato Istituto o di una forma di vita consacrata dalla missione ecclesiale della vita consacrata come tale. La prima può mutare col mutare delle situazioni, la seconda è destinata a non venir meno.Ciò è vero sia per la vita consacrata di tipo contemplativo, che per quella dedita alle opere di apostolato. Nel suo complesso, sotto l'azione sempre nuova dello Spirito, essa è destinata a continuare quale testimonianza luminosa dell'unità indissolubile dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo, come memoria vivente della fecondità, anche umana e sociale, dell'amore di Dio. Le nuove situazioni di scarsità vanno perciò affrontate con la serenità di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l'impegno della fedeltà. Ciò che si deve assolutamente evitare è la vera sconfitta della vita consacrata, che non sta nel declino numerico, ma nel venir meno dell'adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione. Perseverando fedelmente in essa, si confessa invece, con grande efficacia anche di fronte al mondo, la propria ferma fiducia nel Signore della storia, nelle cui mani sono i tempi e i destini delle persone, delle istituzioni, dei popoli, e dunque anche le attuazioni storiche dei suoi doni. Le dolorose situazioni di crisi sollecitano le persone consacrate a proclamare con fortezza la fede nella morte e risurrezione di Cristo, per divenire segno visibile del passaggio dalla morte alla vita.

Nuovo slancio della pastorale vocazionale

64. La missione della vita consacrata e la vitalità degli Istituti dipendono, certo, dall'impegno di fedeltà con cui i consacrati rispondono alla loro vocazione, ma hanno un futuro nella misura in cui altri uomini e donne accolgono generosamente la chiamata del Signore. Il problema delle vocazioni è una vera sfida, che interpella direttamente gli Istituti, ma coinvolge tutta la Chiesa. Si spendono nel campo della pastorale vocazionale grandi energie spirituali e materiali, ma i risultati non sempre corrispondono alle attese e agli sforzi. Capita così che, mentre le vocazioni alla vita consacrata fioriscono nelle giovani Chiese e in quelle che hanno subito persecuzione da parte di regimi totalitari, scarseggiano nei paesi tradizionalmente ricchi di vocazioni anche missionarie.Questa situazione di difficoltà mette alla prova le persone consacrate che talvolta si chiedono: abbiamo forse perduto la capacità di attirare nuove vocazioni? E necessario avere fiducia nel Signore Gesù, che continua a chiamare alla sua sequela, ed affidarsi allo Spirito Santo, autore e ispiratore dei carismi della vita consacrata. Mentre dunque ci rallegriamo dell'azione dello Spirito, che ringiovanisce la Sposa di Cristo facendo fiorire la vita consacrata in molte nazioni, dobbiamo rivolgere insistente preghiera al Padrone della messe, perché invii operai alla sua Chiesa, per far fronte alle urgenze della nuova evangelizzazione (cfr Mt 9, 37-38). Oltre a promuovere la preghiera per le vocazioni, è urgente impegnarsi, con un annunzio esplicito ed una catechesi adeguata, per favorire nei chiamati alla vita consacrata quella risposta libera, pronta e generosa, che rende operante la grazia della vocazione.L'invito di Gesù: «Venite e vedrete» (Gv 1, 39) rimane ancora oggi la regola d'oro della pastorale vocazionale. Essa mira a presentare, sull'esempio dei fondatori e delle fondatrici, il fascino della persona del Signore Gesù e la bellezza del totale dono di sé alla causa del Vangelo. Compito primario di tutti i consacrati e le consacrate è dunque quello di proporre coraggiosamente, con la parola e con l'esempio, l'ideale della sequela di Cristo, sostenendo poi la risposta agli impulsi dello Spirito nel cuore dei chiamati. All'entusiasmo del primo incontro con Cristo dovrà ovviamente seguire lo sforzo paziente della quotidiana corrispondenza, che fa della vocazione una storia di amicizia con il Signore. A questo scopo la pastorale vocazionale si avvalga di appropriati sussidi, come la direzione spirituale, per alimentare quella risposta di amore personale al Signore che è condizione essenziale per diventare discepoli e apostoli del suo Regno. Intanto, se la fioritura vocazionale che si manifesta in varie parti del mondo giustifica ottimismo e speranza, la scarsità in altre regioni non deve indurre né allo scoraggiamento, né alla tentazione di facili e improvvidi reclutamenti. Occorre che il compito di promuovere le vocazioni sia svolto in modo da apparire sempre più un impegno corale di tutta la Chiesa.Esso esige, pertanto, l'attiva collaborazione di pastori, religiosi, famiglie ed educatori, quale si conviene a un servizio che è parte integrante della pastorale d'insieme di ogni Chiesa particolare. Ci sia dunque in ogni diocesi questo servizio comune che coordini e moltiplichi le forze, senza tuttavia pregiudicare, ed anzi favorendo, l'attività vocazionale di ciascun Istituto.ale operosa collaborazione di tutto il Popolo di Dio, sostenuta dalla Provvidenza, non potrà che sollecitare l'abbondanza dei doni divini. La solidarietà cristiana venga largamente incontro alle necessità della formazione vocazionale nei Paesi economicamente più poveri. La promozione delle vocazioni in queste nazioni sia fatta dai vari Istituti in piena armonia con le Chiese del luogo, sulla base di un attivo e prolungato inserimento nella loro pastorale.Il modo più autentico per assecondare l'azione dello Spirito sarà quello di investire generosamente le migliori energie nell'attività vocazionale, specialmente con una adeguata dedizione alla pastorale giovanile.

L'impegno della formazione iniziale

65. Particolare attenzione l'Assemblea sinodale ha riservato alla formazione di chi intende consacrarsi al Signore,riconoscendone la decisiva importanza. Obiettivo centrale del cammino formativo è la preparazione della persona alla totale consacrazione di sé a Dio nella sequela di Cristo, a servizio della missione. Dire «sì» alla chiamata del Signore assumendo in prima persona il dinamismo della crescita vocazionale è responsabilità inalienabile di ogni chiamato, il quale deve aprire lo spazio della propria vita all'azione dello Spirito Santo; è percorrere con generosità il cammino formativo, accogliendo con fede le mediazioni che il Signore e la Chiesa offrono.a formazione dovrà, pertanto, raggiungere in profondità la persona stessa, così che ogni suo atteggiamento o gesto, nei momenti importanti e nelle circostanze ordinarie della vita, abbia a rivelarne la piena e gioiosa appartenenza a Dio.Dal momento che il fine della vita consacrata consiste nella configurazione al Signore Gesù e alla sua totale oblazione, è soprattutto a questo che deve mirare la formazione. Si tratta di un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre. Se questo è lo scopo della vita consacrata, il metodo che ad essa prepara dovrà assumere ed esprimere la caratteristica della totalità . Dovrà essere formazione di tutta la persona,in ogni aspetto della sua individualità, nei comportamenti come nelle intenzioni. E chiaro che, proprio per il suo tendere alla trasformazione di tutta la persona, l'impegno formativo non cessa mai. Occorre, infatti, che alle persone consacrate siano offerte sino alla fine opportunità di crescita nell'adesione al carisma e alla missione del proprio Istituto.La formazione, per essere totale, comprenderà tutti i campi della vita cristiana e della vita consacrata. Va prevista, pertanto, una preparazione umana, culturale, spirituale e pastorale, ponendo ogni attenzione perché sia favorita l'integrazione armonica dei vari aspetti. Alla formazione iniziale, intesa come processo evolutivo che passa per ogni grado della maturazione personale — da quello psicologico e spirituale a quello teologico e pastorale — si deve riservare uno spazio di tempo sufficientemente ampio. Nel caso delle vocazioni al presbiterato, esso viene a coincidere e ad armonizzarsi con uno specifico programma di studi, come parte di un più ampio percorso formativo.

L'opera di formatori e formatrici

66. Dio Padre, nel dono continuo di Cristo e dello Spirito, è il formatore per eccellenza di chi si consacra a Lui. Ma in quest'opera Egli si serve della mediazione umana, ponendo a fianco di colui che Egli chiama alcuni fratelli e sorelle maggiori. La formazione è dunque partecipazione all'azione del Padre che, mediante lo Spirito, plasma nel cuore dei giovani e delle giovani i sentimenti del Figlio. I formatori e le formatrici devono perciò essere persone esperte nel cammino della ricerca di Dio, per essere in grado di accompagnare anche altri in questo itinerario. Attente all'azione della grazia, esse sapranno indicare gli ostacoli anche meno evidenti, ma soprattutto mostreranno la bellezza della sequela del Signore ed il valore del carisma in cui essa si compie. Ai lumi della sapienza spirituale uniranno quelli offerti dagli strumenti umani, che possano essere d'aiuto sia nel discernimento vocazionale, sia nella formazione dell'uomo nuovo, perché divenga autenticamente libero. Strumento precipuo di formazione è il colloquio personale, da tenersi con regolarità e con una certa frequenza, come consuetudine di insostituibile e collaudata efficacia.Di fronte a compiti tanto delicati appare veramente importante la formazione di formatori idonei, che assicurino nel loro servizio una grande sintonia con il cammino di tutta la Chiesa. Sarà opportuno creare adeguate strutture per la formazione dei formatori, possibilmente in luoghi dove sia consentito il contatto con la cultura in cui sarà poi esercitato il proprio servizio pastorale. In quest'opera formativa, gli Istituti già meglio radicati diano un aiuto agli Istituti di più recente fondazione, grazie al contributo di alcuni dei loro membri migliori.

Una formazione comunitaria ed apostolica

67. Poiché la formazione deve essere anche comunitaria, il suo luogo privilegiato, per gli Istituti di vita religiosa e le Società di vita apostolica, è la comunità. In essa avviene l'iniziazione alla fatica e alla gioia del vivere insieme. Nella fraternità ciascuno impara a vivere con colui che Dio gli ha posto accanto, accettandone le caratteristiche positive ed insieme le diversità e i limiti. In particolare, egli impara a condividere i doni ricevuti per l'edificazione di tutti, poiché «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune» (1 Cor 12, 7).Al tempo stesso, la vita comunitaria deve, sin dalla prima formazione, mostrare l'intrinseca dimensione missionaria della consacrazione. Per questo, durante il periodo della formazione iniziale, negli Istituti di vita consacrata sarà utile procedere ad esperienze concrete e prudentemente accompagnate dal formatore o dalla formatrice, per esercitare, in dialogo con la cultura circostante, le attitudini apostoliche, le capacità di adattamento, lo spirito di iniziativa.Se, da un lato, è importante che la persona consacrata si formi progressivamente una coscienza evangelicamente critica verso i valori e i disvalori della propria cultura e di quella che incontrerà nel futuro campo di lavoro, dall'altro deve esercitarsi nella difficile arte dell'unità di vita, della mutua compenetrazione della carità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle, sperimentando che la preghiera è l'anima dell'apostolato, ma anche che l'apostolato vivifica e stimola la preghiera.

Necessità di una ratio completa ed aggiornata

68. Un periodo esplicitamente formativo, che si estenda fino alla professione perpetua, viene raccomandato anche agli Istituti femminili, nonché a quelli maschili relativamente ai religiosi fratelli. Questo vale sostanzialmente pure per le comunità claustrali, che avranno cura di elaborare un programma adeguato, in vista di un'autentica formazione alla vita contemplativa e alla sua missione peculiare nella Chiesa.I Padri sinodali hanno caldamente sollecitato tutti gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ad elaborare quanto prima una ratio institutionis, cioè un progetto formativo ispirato al carisma istituzionale, nel quale sia presentato in forma chiara e dinamica il cammino da seguire per assimilare appieno la spiritualità del proprio Istituto. La ratio risponde oggi a una vera urgenza: da un lato essa indica il modo di trasmettere lo spirito dell'Istituto, perché sia vissuto nella sua genuinità dalle nuove generazioni, nella diversità delle culture e delle situazioni geografiche; dall'altro, illustra alle persone consacrate i mezzi per vivere il medesimo spirito nelle varie fasi dell'esistenza progredendo verso la piena maturità della fede in Cristo Gesù.Se dunque è vero che il rinnovamento della vita consacrata dipende principalmente dalla formazione, è altrettanto vero che questa è, a sua volta, legata alla capacità di proporre un metodo ricco di sapienza spirituale e pedagogica che conduca progressivamente chi aspira a consacrarsi ad assumere i sentimenti di Cristo Signore. La formazione è un processo vitale attraverso il quale la persona si converte al Verbo di Dio fin nelle profondità del suo essere e, nello stesso tempo, impara l'arte di cercare i segni di Dio nelle realtà del mondo. In un'epoca di crescente emarginazione dei valori religiosi dalla cultura, questo cammino formativo è doppiamente importante: grazie ad esso la persona consacrata non solo può continuare a «vedere» Dio, con gli occhi della fede, in un mondo che ne ignora la presenza, ma riesce anche a renderne in qualche modo «sensibile» la presenza mediante la testimonianza del proprio carisma.

La formazione permanente

69. La formazione permanente, sia per gli Istituti di vita apostolica come per quelli di vita contemplativa, è un'esigenza intrinseca alla consacrazione religiosa. Il processo formativo, come s'è detto, non si riduce alla sua fase iniziale, giacché, per i limiti umani, la persona consacrata non potrà mai ritenere di aver completato la gestazione di quell'uomo nuovo che sperimenta dentro di sé, in ogni circostanza della vita, gli stessi sentimenti di Cristo. La formazione iniziale deve, pertanto, saldarsi con quella permanente, creando nel soggetto la disponibilità a lasciarsi formare in ogni giorno della vita.arà molto importante, di conseguenza, che ogni Istituto preveda, come parte della ratio institutionis , la definizione, per quanto possibile precisa e sistematica, di un progetto di formazione permanente, il cui scopo primario sia quello di accompagnare ogni persona consacrata con un programma esteso all'intera esistenza. Nessuno può esimersi dall'applicarsi alla propria crescita umana e religiosa; così come nessuno può presumere di sé e gestire la propria vita con autosufficienza. Nessuna fase della vita può considerarsi tanto sicura e fervorosa da escludere l'opportunità di specifiche attenzioni per garantire la perseveranza nella fedeltà, così come non esiste età che possa vedere esaurita la maturazione della persona.

In un dinamismo di fedeltà

70. C'è una giovinezza dello spirito che permane nel tempo: essa si collega col fatto che l'individuo cerca e trova ad ogni ciclo vitale un compito diverso da svolgere, un modo specifico d'essere, di servire e d'amare.ella vita consacrata i primi anni del pieno inserimento nell'attività apostolica rappresentano una fase di per se stessa critica, segnata dal passaggio da una vita guidata ad una situazione di piena responsabilità operativa. Sarà importante che le giovani persone consacrate siano sorrette e accompagnate da un fratello o da una sorella, che le aiuti a vivere in pieno la giovinezza del loro amore e del loro entusiasmo per Cristo. La fase successiva può presentare il rischio dell'abitudine e la conseguente tentazione della delusione per la scarsità dei risultati. E necessario allora aiutare le persone consacrate di mezza età a rivedere, alla luce del Vangelo e dell'ispirazione carismatica, la propria opzione originaria, non confondendo la totalità della dedizione con la totalità del risultato. Ciò consentirà di dare nuovo slancio e nuove motivazioni alla propria scelta. E la stagione della ricerca dell'essenziale.La fase dell'età matura, insieme alla crescita personale, può comportare il pericolo d'un certo individualismo, accompagnato sia dal timore di non essere adeguati ai tempi che da fenomeni di irrigidimento, di chiusura, di rilassamento. La formazione permanente ha qui lo scopo d'aiutare non solo a recuperare un tono più alto di vita spirituale e apostolica, ma a scoprire pure la peculiarità di tale fase esistenziale. In essa, infatti, purificati alcuni aspetti della personalità, l'offerta di sé sale a Dio con maggior purezza e generosità, e ricade su fratelli e sorelle più pacata e discreta ed insieme più trasparente e ricca di grazia. E il dono e l'esperienza della paternità e maternità spirituale.L'età avanzata pone problemi nuovi, che vanno preventivamente affrontati con un oculato programma di sostegno spirituale. Il ritiro progressivo dall'azione, in taluni casi la malattia e la forzata inattività, costituiscono un'esperienza che può divenire altamente formativa. Momento spesso doloroso, esso offre tuttavia alla persona consacrata anziana l'opportunità di lasciarsi plasmare dall'esperienza pasquale,configurandosi a Cristo crocifisso che compie in tutto la volontà del Padre e s'abbandona nelle sue mani fino a rendergli lo spirito. Tale configurazione è un modo nuovo di vivere la consacrazione, che non è legata all'efficienza di un compito di governo o di un lavoro apostolico.Quando poi giunge il momento di unirsi all'ora suprema della passione del Signore, la persona consacrata sa che il Padre sta portando ormai a compimento in essa quel misterioso processo di formazione iniziato da tempo. La morte sarà allora attesa e preparata come l'atto supremo d'amore e di consegna di sé.E necessario aggiungere che, indipendentemente dalle varie fasi della vita, ogni età può conoscere situazioni critiche per l'intervento di fattori esterni — cambio di posto o di ufficio, difficoltà nel lavoro o insuccesso apostolico, incomprensione o emarginazione, ecc. — o di fattori più strettamente personali — malattia fisica o psichica, aridità spirituale, lutti, problemi di rapporti interpersonali, forti tentazioni, crisi di fede o di identità, sensazione di insignificanza, e simili. Quando la fedeltà si fa più difficile, bisogna offrire alla persona il sostegno di una maggior fiducia e di un più intenso amore, sia a livello personale che comunitario. E necessaria allora, innanzitutto, la vicinanza affettuosa del Superiore; grande conforto verrà pure dall'aiuto qualificato di un fratello o di una sorella, la cui presenza premurosa e disponibile potrà condurre a riscoprire il senso dell'alleanza che Dio per primo ha stabilito e non intende smentire. La persona provata giungerà così ad accogliere purificazione e spogliamento come atti essenziali della sequela di Cristo crocifisso. La prova stessa apparirà come strumento provvidenziale di formazione nelle mani del Padre, come lotta non solo psicologica, condotta dall'io in rapporto a se stesso e alle sue debolezze, ma religiosa, segnata ogni giorno dalla presenza di Dio e dalla potenza della Croce!

Dimensioni della formazione permanente

71. Se soggetto della formazione è la persona in ogni fase della vita, termine della formazione è la totalità dell'essere umano, chiamato a cercare e amare Dio «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6, 5) e il prossimo come se stesso (cfr Lv 19, 18; Mt 22, 37-39). L'amore a Dio e ai fratelli è dinamismo potente che può costantemente ispirare il cammino di crescita e di fedeltà.La vita nello Spirito ha un suo ovvio primato. In essa la persona consacrata ritrova la propria identità ed una serenità profonda, cresce nell'attenzione alle provocazioni quotidiane della Parola di Dio e si lascia guidare dall'ispirazione originaria del proprio Istituto. Sotto l'azione dello Spirito vengono difesi con tenacia i tempi di orazione, di silenzio, di solitudine e si implora dall'Alto con insistenza il dono della sapienza nella fatica di ogni giorno (cfr Sap 9, 10).La dimensione umana e fraterna richiede la conoscenza di sé e dei propri limiti, per trarne opportuno stimolo e sostegno nel cammino verso la piena liberazione. Particolarmente importanti, nel contesto odierno, sono la libertà interiore della persona consacrata, la sua integrazione affettiva, la capacità di comunicare con tutti, specialmente nella propria comunità, la serenità dello spirito e la sensibilità verso chi soffre, l'amore per la verità, la coerenza lineare tra il dire e il fare.La dimensione apostolica apre la mente e il cuore della persona consacrata, e la dispone ad un continuo sforzo operativo, quale segno dell'amore del Cristo che la spinge (cfr 2 Cor 5, 14). In pratica, ciò significherà l'aggiornamento di metodi e scopi delle attività apostoliche nella fedeltà allo spirito e alla finalità del fondatore o della fondatrice e alle tradizioni successivamente maturate, con costante attenzione alle mutate condizioni storiche e culturali, generali e locali, dell'ambiente ove si opera.La dimensione culturale e professionale, sulla base di una salda formazione teologica che renda capaci di discernimento, implica un aggiornamento continuo e una particolare attenzione ai diversi campi ai quali ciascun carisma indirizza. E dunque necessario mantenersi aperti mentalmente e il più possibile duttili, perché il servizio sia concepito e reso secondo le esigenze del proprio tempo avvalendosi degli strumenti forniti dal progresso culturale.Nella dimensione del carisma , infine, si trovano raccolte tutte le altre istanze, come in una sintesi che esige un continuo approfondimento della propria speciale consacrazione nelle sue varie componenti, non solo in quella apostolica, ma anche in quella ascetica e mistica. Ciò comporta per ciascun membro uno studio assiduo dello spirito dell'Istituto d'appartenenza, della sua storia e della sua missione, per migliorarne l'assimilazione personale e comunitaria.

CAPITOLO III

SERVITIUM CARITATIS

LA VITA CONSACRATA
EPIFANIA DELL'AMORE DI DIO NEL MONDO

Consacrati per la missione

72. Ad immagine di Gesù, Figlio diletto «che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10, 36), anche coloro che Dio chiama alla sua sequela sono consacrati ed inviati nel mondo per imitarne l'esempio e continuarne la missione. Fondamentalmente, questo vale per ogni discepolo. In modo speciale, tuttavia, vale per quanti, nella forma caratteristica della vita consacrata, sono chiamati a seguire Cristo «più da vicino», e a fare di Lui il «tutto» della loro esistenza. Nella loro chiamata è quindi compreso il compito di dedicarsi totalmente alla missione ; anzi, la stessa vita consacrata, sotto l'azione dello Spirito Santo che è all'origine di ogni vocazione e di ogni carisma, diventa missione, come lo è stata tutta la vita di Gesù. La professione dei consigli evangelici, che rende la persona totalmente libera per la causa del Vangelo, rivela anche da questo punto di vista la sua rilevanza. Si deve dunque affermare che la missione è essenziale per ogni Istituto, non solo in quelli di vita apostolica attiva, ma anche in quelli di vita contemplativa.

La missione, infatti, prima di caratterizzarsi per le opere esteriori, si esplica nel rendere presente al mondo Cristo stesso mediante la testimonianza personale. E questa la sfida, questo il compito primario della vita consacrata! Più ci si lascia conformare a Cristo, più lo si rende presente e operante nel mondo per la salvezza degli uomini.Si può allora dire che la persona consacrata è «in missione» in virtù della sua stessa consacrazione, testimoniata secondo il progetto del proprio Istituto. Quando il carisma fondazionale prevede attività pastorali, è ovvio che testimonianza di vita ed opere di apostolato e di promozione umana sono ugualmente necessarie: entrambe raffigurano Cristo, che è insieme il consacrato alla gloria del Padre e l'inviato al mondo per la salvezza dei fratelli e delle sorelle.a vita religiosa, inoltre, partecipa alla missione di Cristo con un altro elemento peculiare e proprio: la vita fraterna in comunità per la missione. La vita religiosa sarà perciò tanto più apostolica quanto più intima ne sarà la dedizione al Signore Gesù, più fraterna la forma comunitaria di esistenza, più ardente il coinvolgimento nella missione specifica dell'Istituto.

A servizio di Dio e dell'uomo

73. La vita consacrata ha il compito profetico di ricordare e servire il disegno di Dio sugli uomini, come è annunciato dalla Scrittura e come emerge anche dall'attenta lettura dei segni dell'azione provvidente di Dio nella storia. E progetto di un'umanità salvata e riconciliata (cfr Col 2, 20-22). Per compiere opportunamente questo servizio, le persone consacrate devono avere una profonda esperienza di Dio e prendere coscienza delle sfide del proprio tempo, cogliendone il senso teologico profondo mediante il discernimento operato con l'aiuto dello Spirito. In realtà, negli avvenimenti storici si cela spesso l'appello di Dio a operare secondo i suoi piani con un inserimento attivo e fecondo nelle vicende del nostro tempo.l discernimento dei segni dei tempi, come afferma il Concilio, deve essere condotto alla luce del Vangelo, perché si «possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».E necessario, pertanto, aprire l'animo agli interiori suggerimenti dello Spirito che invita a cogliere in profondità i disegni della Provvidenza. Egli chiama la vita consacrata ad elaborare nuove risposte per i nuovi problemi del mondo di oggi. Sono sollecitazioni divine, che solo anime abituate a cercare in tutto la volontà di Dio sanno raccogliere fedelmente e poi tradurre coraggiosamente in scelte coerenti sia col carisma originario che con le esigenze della situazione storica concreta.Di fronte ai numerosi problemi ed urgenze che sembrano talvolta compromettere e persino travolgere la vita consacrata, i chiamati non possono non avvertire l'impegno di portare nel cuore e nella preghiera le molte necessità del mondo intero, operando al tempo stesso alacremente nei campi attinenti al carisma di fondazione. La loro dedizione dovrà essere, ovviamente, guidata dal discernimento soprannaturale, che sa distinguere ciò che viene dallo Spirito da ciò che gli è contrario (cfr Gal 5, 16-17.22; 1 Gv 4, 6). Esso, mediante la fedeltà alla Regola e alle Costituzioni, conserva la piena comunione con la Chiesa.n questo modo la vita consacrata non si limiterà a leggere i segni dei tempi, ma contribuirà anche ad elaborare ed attuare nuovi progetti di evangelizzazione per le odierne situazioni. Tutto questo nella certezza di fede che lo Spirito sa dare anche alle domande più difficili le risposte appropriate. Sarà bene, a tal proposito, riscoprire quanto hanno sempre insegnato i grandi protagonisti dell'azione apostolica: occorre confidare in Dio come se tutto dipendesse da Lui e, al tempo stesso, impegnarsi generosamente come se tutto dipendesse da noi.

Collaborazione ecclesiale e spiritualità apostolica

74. Tutto dev'esser fatto in comunione e in dialogo con le altre componenti ecclesiali. Le sfide della missione sono tali da non poter essere efficacemente affrontate senza la collaborazione, sia nel discernimento che nell'azione, di tutti i membri della Chiesa. Difficilmente i singoli posseggono la risposta risolutiva: questa può invece scaturire dal confronto e dal dialogo. In particolare, la comunione operativa tra i vari carismi non mancherà di assicurare, oltre che un arricchimento reciproco, una più incisiva efficacia nella missione. L'esperienza di questi anni conferma ampiamente che «il dialogo è il nuovo nome della carità»,specie di quella ecclesiale; esso aiuta a vedere i problemi nelle loro reali dimensioni e consente di affrontarli con migliori speranze di successo. La vita consacrata, per il fatto stesso di coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza privilegiata di dialogo. Essa pertanto può contribuire a creare un clima di accettazione reciproca, nel quale i vari soggetti ecclesiali, sentendosi valorizzati per quello che sono, convergono in modo più convinto nella comunione ecclesiale, tesa alla grande missione universale.Gli Istituti impegnati nell'una o nell'altra forma di servizio apostolico devono infine coltivare una solida spiritualità dell'azione, vedendo Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio. Infatti «bisogna sapere che come la vita ben ordinata tende a passare dalla vita attiva a quella contemplativa, così per lo più l'animo ritorna utilmente dalla vita contemplativa a quella attiva, per conservare in modo più perfetto la vita attiva per quello che la vita contemplativa ha acceso nella mente. La vita attiva deve, quindi, trasferirci nella contemplativa e qualche volta, da ciò che vediamo interiormente, la contemplazione deve richiamarci meglio all'azione».Gesù stesso ci ha dato l'esempio perfetto di come si possa unire la comunione col Padre con una vita intensamente attiva. Senza la costante tensione a questa unità, il pericolo del collasso interiore, del disorientamento, dello scoraggiamento è continuamente in agguato. La stretta unione tra contemplazione e azione permetterà, oggi come ieri, di affrontare le missioni più difficili.

I. L'AMORE SINO ALLA FINE

Amare col cuore di Cristo

75. «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano [...] si alzò da tavola [...] e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13, 1-2.4-5).Nella lavanda dei piedi Gesù rivela la profondità dell'amore di Dio per l'uomo: in Lui Dio stesso si mette a servizio degli uomini! Egli rivela, al tempo stesso, il senso della vita cristiana e, a maggior ragione, della vita consacrata, che è vita d'amore oblativo, di concreto e generoso servizio. Ponendosi alla sequela del Figlio dell'uomo, che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20, 28), la vita consacrata, almeno nei periodi migliori della sua lunga storia, s'è caratterizzata per questo «lavare i piedi», ossia per il servizio specialmente ai più poveri e ai più bisognosi. Se, da una parte, essa contempla il mistero sublime del Verbo nel seno del Padre (cfr Gv 1, 1), dall'altra segue lo stesso Verbo che si fa carne (cfr Gv 1, 14), si abbassa, si umilia per servire gli uomini. Le persone che seguono Cristo nella via dei consigli evangelici anche oggi intendono andare dove è andato Cristo e fare ciò che Egli ha fatto.Continuamente Egli chiama a sé nuovi discepoli, uomini e donne, per comunicare loro, mediante l'effusione dello Spirito (cfr Rm 5, 5), l'agape divina, il suo modo d'amare, e per sospingerli così a servire gli altri nell'umile dono di sé, alieno da calcoli interessati. A Pietro, che estasiato dalla luce della Trasfigurazione esclama: «Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4), è rivolto l'invito a tornare sulle strade del mondo, per continuare a servire il Regno di Dio: «Scendi, Pietro; desideravi riposare sul monte: scendi; predica la Parola di Dio, insisti in ogni occasione opportuna e importuna, rimprovera, esorta, incoraggia usando tutta la tua pazienza e la tua capacità di insegnare. Lavora, affaticati molto, accetta anche sofferenze e supplizi, affinché, mediante il candore e la bellezza delle buone opere, tu possegga nella carità ciò che è simboleggiato nel candore delle vesti del Signore».Lo sguardo fisso sul volto del Signore non attenua nell'apostolo l'impegno per l'uomo; al contrario lo potenzia, dotandolo di una nuova capacità di incidere sulla storia, per liberarla da quanto la deturpa.La ricerca della divina bellezza spinge le persone consacrate a prendersi cura dell'immagine divina deformata nei volti di fratelli e sorelle, volti sfigurati dalla fame, volti delusi da promesse politiche, volti umiliati di chi vede disprezzata la propria cultura, volti spaventati dalla violenza quotidiana e indiscriminata, volti angustiati di minorenni, volti di donne offese e umiliate, volti stanchi di migranti senza degna accoglienza, volti di anziani senza le minime condizioni per una vita degna.La vita consacrata mostra così, con l'eloquenza delle opere, che la divina carità è fondamento e stimolo dell'amore gratuito ed operoso. Ne era ben convinto S. Vincenzo de Paoli quando indicava alle Figlie della Carità questo programma di vita: «Lo spirito della Compagnia consiste nel darsi a Dio per amare Nostro Signore e servirlo nella persona dei poveri materialmente e spiritualmente, nelle loro case e altrove, per istruire le povere giovanette, i bambini, in generale tutti coloro che la divina Provvidenza vi manda».ra i diversi possibili ambiti della carità, certamente quello che a titolo speciale manifesta al mondo l'amore «sino alla fine» è, oggi, l'annuncio appassionato di Gesù Cristo a coloro che ancora non Lo conoscono, a coloro che L'hanno dimenticato e, in modo preferenziale, ai poveri.

Contributo specifico della vita consacrata all'evangelizzazione

76. Il contributo specifico di consacrati e consacrate alla evangelizzazione sta innanzitutto nella testimonianza di una vita totalmente donata a Dio e ai fratelli, a imitazione del Salvatore che, per amore dell'uomo, si è fatto servo. Nell'opera della salvezza, infatti, tutto viene dalla partecipazione all'agape divina. Le persone consacrate rendono visibile, nella loro consacrazione e totale dedizione, la presenza amorevole e salvifica di Cristo, il consacrato del Padre, inviato in missione.Esse, lasciandosi conquistare da Lui (cfr Fil 3, 12), si dispongono a divenire, in certo modo, un prolungamento della sua umanità.La vita consacrata dice eloquentemente che quanto più si vive di Cristo, tanto meglio Lo si può servire negli altri, spingendosi fino agli avamposti della missione, e assumendo i più grandi rischi.

La prima evangelizzazione: annunciare Cristo alle genti

77. Chi ama Dio, Padre di tutti, non può non amare i suoi simili, nei quali riconosce altrettanti fratelli e sorelle. Proprio per questo egli non può restare indifferente di fronte alla costatazione che molti di loro non conoscono la piena manifestazione dell'amore di Dio in Cristo. Nasce di qui, in obbedienza al mandato di Cristo, lo slancio missionario ad gentes, che ogni cristiano consapevole condivide con la Chiesa, per sua natura missionaria. E slancio avvertito soprattutto dai membri degli Istituti sia di vita contemplativa che di vita attiva.Le persone consacrate, infatti, hanno il compito di rendere presente anche tra i non cristianiil Cristo casto, povero, obbediente, orante e missionario.Restando dinamicamente fedeli al loro carisma, esse, in virtù della più intima consacrazione a Dio,non possono non sentirsi coinvolte in una speciale collaborazione con l'attività missionaria della Chiesa. Il desiderio tante volte espresso da Teresa di Lisieux, «amarti e farti amare», l'anelito ardente di san Francesco Saverio che molti, «studiando le scienze, meditassero sul conto che Dio nostro Signore chiederà di loro stessi e del talento loro concesso, si smuoverebbero, ricorrendo a quei mezzi e a quegli Esercizi spirituali che fanno conoscere e sentire dentro le proprie anime la volontà divina e così, uniformandosi ad essa più che non alle proprie inclinazioni, direbbero: ‘Signore, sono qui, che vuoi che io faccia? Mandami dove vuoi'»,ed altre simili testimonianze di innumerevoli anime sante, manifestano l'insopprimibile tensione missionaria, che distingue e qualifica la vita consacrata.

Presenti in ogni angolo della terra

78. «L'amore del Cristo ci spinge» (2 Cor 5, 14): i membri di ogni Istituto dovrebbero poterlo ripetere con l'Apostolo, perché compito della vita consacrata è di lavorare in ogni parte della terra per consolidare e dilatare il Regno di Cristo, portando l'annuncio del Vangelo dappertutto, anche nelle regioni più lontane.Di fatto, la storia missionaria testimonia il grande contributo da essi dato all'evangelizzazione dei popoli: dalle antiche Famiglie monastiche fino alle più recenti Fondazioni impegnate in maniera esclusiva nella missione ad gentes, dagli Istituti di vita attiva a quelli dediti alla contemplazione,innumerevoli persone hanno speso le loro energie in questa «attività primaria della Chiesa, essenziale e mai conclusa»,perché rivolta alla moltitudine crescente di coloro che non conoscono Cristo.Anche oggi questo dovere continua a chiamare in causa con urgenza gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: l'annuncio del Vangelo di Cristo attende da loro il massimo contributo possibile. Anche gli Istituti che sorgono o operano nelle giovani Chiese sono invitati ad aprirsi alla missione fra i non cristiani, all'interno e fuori della loro patria. Nonostante le comprensibili difficoltà che alcuni di essi possono attraversare, è bene ricordare a tutti che come «la fede si rafforza donandola»,così la missione rafforza la vita consacrata, le dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni, sollecita la sua fedeltà. Da parte sua, l'attività missionaria offre larghi spazi per accogliere le svariate forme di vita consacrata.La missione ad gentes presenta speciali e straordinarie opportunità alle donne consacrate, ai religiosi fratelli e ai membri di Istituti secolari per un inserimento in un'azione apostolica particolarmente incisiva. Questi ultimi, poi, con la loro presenza nei vari ambiti tipici della vocazione laicale, possono svolgere un'opera preziosa di evangelizzazione degli ambienti, delle strutture e delle stesse leggi che regolano la convivenza. Inoltre, essi possono testimoniare i valori evangelici a fianco di persone che non hanno ancora conoscenza di Gesù, dando così uno specifico contributo alla missione.E da sottolineare che, nei paesi dove sono radicate religioni non cristiane, la presenza della vita consacrata, tanto con attività educative, caritative e culturali, quanto con il segno della vita contemplativa, assume enorme importanza. Per questo è particolarmente da incoraggiare la fondazione nelle nuove Chiese di comunità dedite alla contemplazione, dato che «la vita contemplativa interessa la presenza della Chiesa nella forma più piena».E, poi, necessario promuovere con mezzi adeguati un'equa distribuzione della vita consacrata nelle varie forme per suscitare un nuovo impulso evangelizzatore, sia con l'invio di missionari e missionarie, sia con il doveroso aiuto degli Istituti di vita consacrata alle diocesi più povere.

Annuncio di Cristo e inculturazione

79. L'annuncio di Cristo «ha la priorità permanente nella missione della Chiesa»e mira alla conversione, cioè all'adesione piena e sincera a Cristo ed al suo Vangelo.Nel quadro dell'attività missionaria rientrano anche il processo di inculturazione e il dialogo interreligioso. La sfida dell'inculturazione va accolta dalle persone consacrate come appello a una feconda collaborazione con la grazia nell'approccio con le diverse culture. Ciò suppone seria preparazione personale, mature doti di discernimento, fedele adesione agli indispensabili criteri di ortodossia dottrinale, di autenticità e di comunione ecclesiale.Col sostegno del carisma dei fondatori e delle fondatrici, molte persone consacrate hanno saputo avvicinarsi alle diverse culture nell'atteggiamento di Gesù che «spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 7) e, con un paziente ed audace sforzo di dialogo, hanno stabilito contatti proficui con le genti più varie, a tutte annunciando la via della salvezza. Anche oggi quante di loro sanno cercare e trovare, nella storia delle singole persone e di interi popoli, tracce della presenza di Dio, che guida tutta l'umanità verso il discernimento dei segni della sua volontà redentrice. Tale ricerca si rivela vantaggiosa per le stesse persone consacrate: i valori scoperti nelle diverse civiltà possono spingerli, infatti, ad accrescere il proprio impegno di contemplazione e di preghiera, a praticare più intensamente la condivisione comunitaria e l'ospitalità, a coltivare con maggiore diligenza l'attenzione alla persona ed il rispetto per la natura.Per un'autentica inculturazione sono necessari atteggiamenti simili a quelli del Signore, quando si è incarnato ed è venuto, con amore e umiltà, in mezzo a noi. In questo senso la vita consacrata rende le persone particolarmente adatte ad affrontare il complesso travaglio dell'inculturazione, perché le abitua al distacco dalle cose e persino da tanti aspetti della propria cultura. Applicandosi con questi atteggiamenti allo studio e alla comprensione delle culture, i consacrati possono meglio discernere in esse gli autentici valori e il modo in cui accoglierli e perfezionarli con l'aiuto del proprio carisma.Non si deve comunque dimenticare che, in molte antiche culture, l'espressione religiosa è così profondamente integrata, che la religione rappresenta spesso la dimensione trascendente della cultura stessa. In questo caso una vera inculturazione comporta necessariamente un serio e aperto dialogo interreligioso, «che non è in contrapposizione con la missione ad gentes e che non dispensa dall'evangelizzazione».

L'inculturazione della vita consacrata

80. Da parte sua la vita consacrata, di per sé portatrice di valori evangelici, là dove è vissuta con autenticità può offrire un contributo originale alle sfide dell'inculturazione. Essendo infatti un segno del primato di Dio e del Regno, essa diventa una provocazione che, nel dialogo, può scuotere la coscienza degli uomini. Se la vita consacrata mantiene la forza profetica che le è propria, diventa all'interno di una cultura fermento evangelico capace di purificarla e farla evolvere. E quanto dimostra la storia di numerosi santi e sante, che in epoche diverse hanno saputo immergersi nel loro tempo senza farsene sommergere, ma additando alla loro generazione nuovi cammini. Lo stile di vita evangelico è una fonte importante per la proposta di un nuovo modello culturale. Quanti fondatori e fondatrici, cogliendo alcune esigenze del loro tempo, pur con tutti i limiti da essi stessi riconosciuti, hanno dato loro una risposta che è diventata proposta culturale innovativa!Le comunità degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica possono, infatti, offrire concrete e significative proposte culturali, quando testimoniano il modo evangelico di vivere l'accoglienza reciproca nella diversità e di esercitare l'autorità, la condivisione dei beni sia materiali che spirituali, l'internazionalità, la collaborazione inter-congregazionale, l'ascolto degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il modo di pensare e di agire di chi segue Cristo più da vicino, infatti, dà origine ad una vera e propria cultura di riferimento, serve a mettere in luce ciò che è disumano, testimonia che Dio solo dà ai valori forza e compimento. Un'autentica inculturazione aiuterà, a sua volta, le persone consacrate a vivere il radicalismo evangelico secondo il carisma del proprio Istituto e il genio del popolo col quale entrano in contatto. Da questo fecondo rapporto scaturiranno stili di vita e metodi pastorali che potranno rivelarsi un'autentica ricchezza per tutto l'Istituto, se risulteranno coerenti con il carisma di fondazione e con l'azione unificante dello Spirito Santo. In questo processo, fatto di discernimento e di audacia, di dialogo e di provocazione evangelica, una garanzia di retto cammino è offerta dalla Santa Sede, alla quale spetta incoraggiare l'evangelizzazione delle culture nonché autenticarne gli sviluppi e di sancirne gli esiti in ordine all'inculturazione:compito, questo, «difficile e delicato poiché pone in questione la fedeltà della Chiesa al Vangelo e alla tradizione apostolica nell'evoluzione costante delle culture».

La nuova evangelizzazione

81. Per affrontare adeguatamente le grandi sfide che alla nuova evangelizzazione pone la storia attuale, è necessaria innanzitutto una vita consacrata che si lasci continuamente interpellare dalla Parola rivelata e dai segni dei tempi.Il ricordo delle grandi evangelizzatrici e dei grandi evangelizzatori, che furono prima grandi evangelizzati, rivela che per affrontare il mondo di oggi occorrono persone amorosamente dedite al Signore e al suo Vangelo. «Le persone consacrate, per la loro vocazione specifica, sono chiamate a far emergere l'unità tra autoevangelizzazione e testimonianza, tra rinnovamento interiore e ardore apostolico, tra essere e agire, evidenziando che il dinamismo promana sempre dal primo elemento del binomio».a nuova evangelizzazione, come quella di sempre, sarà efficace se saprà proclamare dai tetti quanto ha prima vissuto nell'intimità con il Signore. Per essa sono richieste solide personalità, animate dal fervore dei santi. La nuova evangelizzazione esige da consacrati e consacrate piena consapevolezza del senso teologico delle sfide del nostro tempo. Queste sfide vanno esaminate con attento e corale discernimento, in vista del rinnovamento della missione. Il coraggio dell'annuncio del Signore Gesù deve accompagnarsi con la fiducia nell'azione della Provvidenza, che opera nel mondo e che «dispone tutto, anche le umane avversità, per il maggior bene della Chiesa».lementi importanti per un proficuo inserimento degli Istituti nel processo della nuova evangelizzazione sono la fedeltà al carisma di fondazione, la comunione con quanti nella Chiesa sono impegnati nella stessa impresa, specialmente con i Pastori, e la cooperazione con tutti gli uomini di buona volontà. Ciò esige un serio discernimento degli appelli che lo Spirito rivolge ad ogni Istituto, sia in quelle regioni ove non si prevedono immediatamente grandi progressi, sia nelle altre regioni ove si preannuncia una consolante rinascita. In ogni luogo e situazione, le persone consacrate siano annunciatrici ardenti del Signore Gesù, pronte a rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall'inquietudine del cuore umano e dalle sue urgenti necessità.

La predilezione per i poveri e la promozione della giustizia

82. Agli inizi del suo ministero, nella sinagoga di Nazaret, Gesù proclama che lo Spirito lo ha consacrato per portare ai poveri un lieto messaggio, per annunciare ai prigionieri la liberazione, restituire ai ciechi la vista, rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore (cfr Lc 4, 16-19). La Chiesa, assumendo come propria la missione del Signore, annuncia il Vangelo ad ogni uomo e ad ogni donna, facendosi carico della loro salvezza integrale. Ma con un'attenzione speciale, una vera «opzione preferenziale», essa si volge verso quanti si trovano in situazione di maggiore debolezza, e pertanto di più grave bisogno. «Poveri», nelle molteplici dimensioni della povertà, sono gli oppressi, gli emarginati, gli anziani, gli ammalati, i piccoli, quanti vengono considerati e trattati come «ultimi» nella società.L'opzione per i poveri è insita nella dinamica stessa dell'amore vissuto secondo Cristo. Ad essa sono dunque tenuti tutti i discepoli di Cristo; coloro tuttavia che vogliono seguire il Signore più da vicino, imitando i suoi atteggiamenti, non possono non sentirsene coinvolti in modo tutto particolare. La sincerità della loro risposta all'amore di Cristo li conduce a vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri. Ciò comporta per ogni Istituto, secondo lo specifico carisma, l'adozione di uno stile di vita , sia personale che comunitario, umile ed austero. Forti di questa testimonianza vissuta, le persone consacrate potranno, nei modi consoni alla loro scelta di vita e rimanendo libere nei confronti delle ideologie politiche, denunciare le ingiustizie che vengono compiute verso tanti figli e figlie di Dio, ed impegnarsi per la promozione della giustizia nell'ambiente sociale in cui operano.In questo modo, anche nelle attuali situazioni, si rinnoverà, attraverso la testimonianza di innumerevoli persone consacrate, la dedizione che fu propria di fondatori e fondatrici che spesero la loro vita per servire il Signore presente nei poveri. Infatti Cristo «si trova sulla terra nella persona dei suoi poveri [...]. Come Dio, ricco, come uomo, povero. E infatti lo stesso uomo già ricco ascese al cielo, siede alla destra del Padre eppure quaggiù tuttora povero soffre la fame, la sete, è nudo».l Vangelo si rende operante attraverso la carità, che è gloria della Chiesa e segno della sua fedeltà al Signore. Lo dimostra tutta la storia della vita consacrata, che si può considerare una esegesi vivente della parola di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). Molti Istituti, specie in età moderna, sono nati proprio per venire incontro all'una o all'altra necessità dei poveri. Ma anche quando tale finalità non è stata determinante, l'attenzione e la premura per i bisognosi, espressa attraverso la preghiera, l'accoglienza, l'ospitalità, si sono sempre accompagnate con naturalezza alle varie forme di vita consacrata, anche di quella contemplativa. E come potrebbe essere diversamente, dal momento che il Cristo raggiunto nella contemplazione è lo stesso che vive e soffre nei poveri? La storia della vita consacrata è ricca, in questo senso, di esempi meravigliosi e talvolta geniali. San Paolino di Nola, dopo aver distribuito i suoi beni ai poveri per consacrarsi pienamente a Dio, innalzò le celle del suo monastero sopra un ospizio destinato appunto agli indigenti. Egli gioiva al pensiero di questo singolare «scambio di doni»: i poveri, da lui assistiti, rinsaldavano con la loro preghiera le «fondamenta» stesse della sua casa, tutta dedita alla lode di Dio.S. Vincenzo de' Paoli, da parte sua, amava dire che, quando si è costretti a lasciare la preghiera per assistere un povero in necessità, in realtà non la si interrompe, perché «si lascia Dio per Dio».ervire i poveri è atto di evangelizzazione e, nello stesso tempo, sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata, poiché — come dice san Gregorio Magno — «quando la carità si abbassa amorosamente a provvedere anche agli infimi bisogni del prossimo, allora divampa verso le più alte vette. E quando benignamente si piega alle estreme necessità, allora vigorosamente riprende il volo verso le altezze».

La cura degli ammalati

83. Seguendo una gloriosa tradizione, un gran numero di persone consacrate, soprattutto donne, esercitano il loro apostolato negli ambienti sanitari, secondo il carisma del proprio Istituto. Molte, lungo i secoli, sono state le persone consacrate che hanno sacrificato la loro vita nel servizio alle vittime di malattie contagiose, mostrando che la dedizione fino all'eroismo appartiene all'indole profetica della vita consacrata.La Chiesa guarda con ammirazione e gratitudine le tante persone consacrate che, assistendo i malati e i sofferenti, contribuiscono in maniera significativa alla sua missione. Esse continuano il ministero di misericordia di Cristo, che «passò beneficando e sanando tutti» (At 10, 38). Sulle orme di Lui, divino Samaritano, medico delle anime e dei corpi,e sull'esempio dei rispettivi fondatori e fondatrici, le persone consacrate, che a ciò sono orientate dal carisma del loro Istituto, perseverino nella loro testimonianza d'amore verso i malati, dedicandosi a loro con profonda comprensione e partecipazione. Privilegino nelle loro scelte gli ammalati più poveri e abbandonati, come gli anziani, i disabili, gli emarginati, i malati terminali, le vittime della droga e delle nuove malattie contagiose. Favoriscano nei malati l'offerta del proprio soffrire in comunione con Cristo crocifisso e glorificato per la salvezza di tutti,anzi alimentino in loro la coscienza di essere, con la preghiera e la testimonianza della parola e della condotta, soggetti attivi di pastorale attraverso il peculiare carisma della croce.a Chiesa, inoltre, ricorda ai consacrati e alle consacrate che fa parte della loro missione evangelizzare gli ambienti sanitari in cui lavorano, cercando di illuminare, attraverso la comunicazione dei valori evangelici, il modo di vivere, soffrire e morire degli uomini del nostro tempo. E loro impegno dedicarsi all'umanizzazione della medicina e all'approfondimento della bioetica, a servizio del Vangelo della vita. Promuovano perciò innanzitutto il rispetto della persona e della vita umana dal concepimento al termine naturale, in piena conformità con l'insegnamento morale della Chiesa,istituendo per questo anche centri di formazionee collaborando fraternamente con gli organismi ecclesiali della pastorale sanitaria.

II. UNA TESTIMONIANZA PROFETICA DI FRONTE ALLE GRANDI SFIDE

Il profetismo della vita consacrata

84. Il carattere profetico della vita consacrata è stato messo in forte risalto dai Padri sinodali. Esso si configura come una speciale forma di partecipazione alla funzione profetica di Cristo , comunicata dallo Spirito a tutto il Popolo di Dio. E un profetismo inerente alla vita consacrata come tale, per il radicalismo della sequela di Cristo e della conseguente dedizione alla missione che la caratterizza. La funzione di segno, che il Concilio Vaticano II riconosce alla vita consacrata,si esprime nella testimonianza profetica del primato che Dio ed i valori del Vangelo hanno nella vita cristiana. In forza di tale primato nulla può essere anteposto all'amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive.a tradizione patristica ha visto un modello della vita religiosa monastica in Elia, profeta audace e amico di Dio.Viveva alla sua presenza e contemplava nel silenzio il suo passaggio, intercedeva per il popolo e proclamava con coraggio la sua volontà, difendeva i diritti di Dio e si ergeva a difesa dei poveri contro i potenti del mondo (cfr 1 Re 18-19). Nella storia della Chiesa, accanto ad altri cristiani, non sono mancati uomini e donne consacrati a Dio che, per un particolare dono dello Spirito, hanno esercitato un autentico ministero profetico, parlando nel nome di Dio a tutti ed anche ai Pastori della Chiesa. La vera profezia nasce da Dio, dall'amicizia con Lui, dall'ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia. Il profeta sente ardere nel cuore la passione per la santità di Dio e, dopo averne accolto nel dialogo della preghiera la parola, la proclama con la vita, con le labbra e con i gesti, facendosi portavoce di Dio contro il male ed il peccato. La testimonianza profetica richiede la costante e appassionata ricerca della volontà di Dio, la generosa e imprescindibile comunione ecclesiale, l'esercizio del discernimento spirituale, l'amore per la verità. Essa si esprime anche con la denuncia di quanto è contrario al volere divino e con l'esplorazione di vie nuove per attuare il Vangelo nella storia, in vista del Regno di Dio.

Sua rilevanza per il mondo contemporaneo

85. Nel nostro mondo, dove sembrano spesso smarrite le tracce di Dio, si rende urgente una forte testimonianza profetica da parte delle persone consacrate. Essa verterà innanzitutto sull'affermazione del primato di Dio e dei beni futuri , quale traspare dalla sequela e dall'imitazione di Cristo casto, povero e obbediente, totalmente votato alla gloria del Padre e all'amore dei fratelli e delle sorelle. La stessa vita fraterna è profezia in atto nel contesto di una società che, talvolta senza rendersene conto, ha un profondo anelito ad una fraternità senza frontiere. Alle persone consacrate è chiesto di offrire la loro testimonianza con la franchezza del profeta, che non teme di rischiare anche la vita.Un'intima forza persuasiva deriva alla profezia dalla coerenza fra l'annuncio e la vita. Le persone consacrate saranno fedeli alla loro missione nella Chiesa e nel mondo, se saranno capaci di rivedere continuamente se stesse alla luce della Parola di Dio.In tal modo potranno arricchire gli altri fedeli dei beni carismatici ricevuti, lasciandosi a loro volta interpellare dalle provocazioni profetiche provenienti dalle altre componenti ecclesiali. In questo scambio di doni, garantito dalla piena sintonia col Magistero e la disciplina della Chiesa, risplenderà l'azione dello Spirito che «la unifica nella comunione e nel servizio, la istruisce e dirige mediante i diversi doni gerarchici e carismatici».

Una fedeltà fino al martirio

86. In questo secolo, come in altre epoche della storia, uomini e donne consacrati hanno reso testimonianza a Cristo Signore con il dono della propria vita. Sono migliaia coloro che, costretti alle catacombe dalla persecuzione di regimi totalitari o di gruppi violenti, osteggiati nell'attività missionaria, nell'azione a favore dei poveri, nell'assistenza agli ammalati ed agli emarginati, hanno vissuto e vivono la loro consacrazione nella sofferenza prolungata ed eroica, e spesso con l'effusione del proprio sangue, pienamente configurati al Signore crocifisso. Di alcuni di essi la Chiesa ha già riconosciuto ufficialmente la santità onorandoli come martiri di Cristo. Essi ci illuminano con il loro esempio, intercedono per la nostra fedeltà, ci attendono nella gloria.E vivo il desiderio che la memoria di tanti testimoni della fede rimanga nella coscienza della Chiesa come incitamento alla celebrazione e all'imitazione. Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica contribuiscano a quest'opera raccogliendo i nomi e le testimonianze di tutte le persone consacrate, che possono essere iscritte nel Martirologio del ventesimo secolo.

Le grandi sfide della vita consacrata

87. Il compito profetico della vita consacrata viene provocato da tre sfide principali rivolte alla stessa Chiesa: sono sfide di sempre, che vengono poste in forme nuove, e forse più radicali, dalla società contemporanea, almeno in alcune parti del mondo. Esse toccano direttamente i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, stimolando la Chiesa e, in particolare, le persone consacrate a metterne in luce e a testimoniarne il profondo significato antropologico. La scelta di questi consigli, infatti, lungi dal costituire un impoverimento di valori autenticamente umani, si propone piuttosto come una loro trasfigurazione. I consigli evangelici non vanno considerati come una negazione dei valori inerenti alla sessualità, al legittimo desiderio di disporre di beni materiali e di decidere autonomamente di sé. Queste inclinazioni, in quanto fondate nella natura, sono in se stesse buone. La creatura umana, tuttavia, debilitata com'è dal peccato originale, è esposta al rischio di tradurle in atto in modo trasgressivo. La professione di castità, povertà e obbedienza diventa monito a non sottovalutare le ferite prodotte dal peccato originale e, pur affermando il valore dei beni creati, li relativizza additando Dio come il bene assoluto. Così coloro che seguono i consigli evangelici, mentre cercano la santità per se stessi, propongono, per così dire, una «terapia spirituale» per l'umanità, poiché rifiutano l'idolatria del creato e rendono in qualche modo visibile il Dio vivente. La vita consacrata, specie nei tempi difficili, è una benedizione per la vita umana e per la stessa vita ecclesiale.

La sfida della castità consacrata

88. La prima provocazione è quella di una cultura edonistica che svincola la sessualità da ogni norma morale oggettiva, riducendola spesso a gioco e a consumo, e indulgendo con la complicità dei mezzi di comunicazione sociale a una sorta di idolatria dell'istinto. Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: prevaricazioni di ogni genere, a cui s'accompagnano innumerevoli sofferenze psichiche e morali per gli individui e le famiglie. La risposta della vita consacrata sta innanzitutto nella pratica gioiosa della castità perfetta, quale testimonianza della potenza dell'amore di Dio nella fragilità della condizione umana. La persona consacrata attesta che quanto è creduto impossibile dai più diventa, con la grazia del Signore Gesù, possibile e autenticamente liberante. Sì, in Cristo è possibile amare Dio con tutto il cuore, ponendolo al di sopra di ogni altro amore, ed amare così, con la libertà di Dio, ogni creatura! E questa una testimonianza oggi più che mai necessaria, proprio perché così poco compresa dal nostro mondo. Essa è offerta ad ogni persona — ai giovani, ai fidanzati, ai coniugi, alle famiglie cristiane — per mostrare che la forza dell'amore di Dio può operare grandi cose proprio dentro le vicende dell'amore umano. E una testimonianza che va incontro anche a un crescente bisogno di limpidezza interiore nei rapporti umani.E necessario che la vita consacrata presenti al mondo di oggi esempi di una castità vissuta da uomini e donne che dimostrano equilibrio, dominio di sé, intraprendenza, maturità psicologica ed affettiva.Grazie a questa testimonianza, viene offerto all'amore umano un sicuro punto di riferimento, che la persona consacrata attinge dalla contemplazione dell'amore trinitario, rivelatoci in Cristo. Proprio perché immersa in questo mistero, essa si sente capace di un amore radicale e universale, che le dà la forza della padronanza di sé e della disciplina necessarie per non cadere nella schiavitù dei sensi e degli istinti. La castità consacrata appare così come esperienza di gioia e di libertà. Illuminata dalla fede nel Signore risorto e dall'attesa dei cieli nuovi e della terra nuova (cfr Ap 21, 1), essa offre preziosi stimoli anche per l'educazione alla castità doverosa in altri stati di vita.

La sfida della povertà

89. Altra provocazione è, oggi, quella di un materialismo avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli e privo di ogni considerazione per lo stesso equilibrio delle risorse naturali. La risposta della vita consacrata sta nella professione della povertà evangelica, vissuta in forme diverse e spesso accompagnata da un attivo impegno nella promozione della solidarietà e della carità.Quanti Istituti si dedicano all'educazione, all'istruzione e alla formazione professionale, mettendo in grado giovani e non più giovani di diventare protagonisti del loro futuro! Quante persone consacrate si spendono senza risparmio di energie per gli ultimi della terra! Quante di esse si adoperano a formare futuri educatori e responsabili della vita sociale, in modo che si impegnino ad eliminare le strutture oppressive e a promuovere progetti di solidarietà a vantaggio dei poveri! Esse lottano per sconfiggere la fame e le sue cause, animano le attività del volontariato e le organizzazioni umanitarie, sensibilizzano organismi pubblici e privati per favorire un'equa distribuzione degli aiuti internazionali. Le nazioni devono veramente molto a questi intraprendenti operatori e operatrici di carità, che con la loro instancabile generosità hanno dato e danno un sensibile contributo per l'umanizzazione del mondo.

La povertà evangelica a servizio dei poveri

90. In realtà, prima ancora di essere un servizio per i poveri, la povertà evangelica è un valore in se stessa, in quanto richiama la prima delle Beatitudini nell'imitazione di Cristo povero.Il suo primo senso, infatti, è testimoniare Dio come vera ricchezza del cuore umano. Ma proprio per questo essa contesta con forza l'idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l'imposizione di un doveroso freno ai propri desideri.Alle persone consacrate è chiesta dunque una rinnovata e vigorosa testimonianza evangelica di abnegazione e di sobrietà, in uno stile di vita fraterna ispirata a criteri di semplicità e di ospitalità, anche come esempio per quanti rimangono indifferenti di fronte alle necessità del prossimo. Tale testimonianza si accompagnerà naturalmente all'amore preferenziale per i poveri e si manifesterà in modo speciale nella condivisione delle condizioni di vita dei più diseredati. Non sono poche le comunità che vivono e operano tra i poveri e gli emarginati, ne abbracciano la condizione e ne condividono le sofferenze, i problemi e i pericoli.Grandi pagine di storia di solidarietà evangelica e di dedizione eroica sono state scritte da persone consacrate, in questi anni di profondi cambiamenti e di grandi ingiustizie, di speranze e di delusioni, di importanti conquiste e di amare sconfitte. E pagine non meno significative sono state e sono tuttora scritte da altre innumerevoli persone consacrate, le quali vivono in pienezza la loro vita «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3) per la salvezza del mondo, all'insegna della gratuità, dell'investimento della propria vita in cause poco riconosciute e meno ancora applaudite. Attraverso queste forme diverse e complementari, la vita consacrata partecipa all'estrema povertà abbracciata dal Signore e vive il suo specifico ruolo nel mistero salvifico della sua incarnazione e della sua morte redentrice.

La sfida della libertà nell'obbedienza

91. La terza provocazione proviene da quelle concezioni della libertà che sottraggono questa fondamentale prerogativa umana al suo costitutivo rapporto con la verità e con la norma morale.In realtà, la cultura della libertà è un autentico valore, intimamente connesso col rispetto della persona umana. Ma chi non vede a quali abnormi conseguenze di ingiustizia e persino di violenza porta, nella vita dei singoli e dei popoli, l'uso distorto della libertà?Una risposta efficace a tale situazione è l' obbedienza che caratterizza la vita consacrata. Essa ripropone in modo particolarmente vivo l'obbedienza di Cristo al Padre e, proprio partendo dal suo mistero, testimonia che non c'è contraddizione tra obbedienza e libertà. In effetti, l'atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d'obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell'obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà. E proprio questo mistero che la persona consacrata vuole esprimere con questo preciso voto. Con esso intende attestare la consapevolezza di un rapporto di figliolanza, in forza del quale desidera assumere la volontà paterna come cibo quotidiano (cfr Gv 4, 34), come sua roccia, sua letizia, suo scudo e baluardo (cfr Sal 18[17], 3). Dimostra così di crescere nella piena verità di se stessa rimanendo collegata con la fonte della sua esistenza ed offrendo perciò il messaggio consolantissimo: «Grande pace per chi ama la tua legge nel suo cammino non trova inciampo» ( Sal 119[118], 165).

Compiere insieme la volontà del Padre

92. Questa testimonianza delle persone consacrate assume nella vita religiosa particolare significato anche per la dimensione comunitaria che la caratterizza. La vita fraterna è il luogo privilegiato per discernere e accogliere il volere di Dio e camminare insieme in unione di mente e di cuore. L'obbedienza, vivificata dalla carità, unifica i membri di un Istituto nella medesima testimonianza e nella medesima missione, pur nella diversità dei doni e nel rispetto delle singole individualità. Nella fraternità, animata dallo Spirito, ciascuno intrattiene con l'altro un prezioso dialogo per scoprire la volontà del Padre, e tutti riconoscono in chi presiede l'espressione della paternità di Dio e l'esercizio dell'autorità ricevuta da Dio, a servizio del discernimento e della comunione.a vita di comunità poi è, in modo particolare, il segno, di fronte alla Chiesa e alla società, del legame che viene dalla medesima chiamata e dalla volontà comune di obbedire ad essa, al di là di ogni diversità di razza e d'origine, di lingua e di cultura. Contro lo spirito di discordia e di divisione, autorità e obbedienza risplendono come un segno di quell'unica paternità che viene da Dio, della fraternità nata dallo Spirito, della libertà interiore di chi si fida di Dio nonostante i limiti umani di quanti Lo rappresentano. Attraverso questa obbedienza, assunta da alcuni come regola di vita, viene sperimentata ed annunciata a vantaggio di tutti la beatitudine promessa da Gesù a «coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano» (Lc 11, 28). Inoltre, chi obbedisce ha la garanzia di essere davvero in missione, alla sequela del Signore e non alla rincorsa dei propri desideri o delle proprie aspettative. E così è possibile sapersi condotti dallo Spirito del Signore e sostenuti, anche in mezzo a grandi difficoltà, dalla sua mano sicura (cfr At 20, 22s).

Un deciso impegno di vita spirituale

93. Una delle preoccupazioni più volte manifestate nel Sinodo è stata quella di una vita consacrata che si alimenti alle sorgenti di una spiritualità solida e profonda. Si tratta, in effetti, di un'esigenza prioritaria, inscritta nell'essenza stessa della vita consacrata, dal momento che, come ogni altro battezzato, ed anzi con motivi anche più stringenti, chi professa i consigli evangelici è tenuto a tendere con tutte le sue forze verso la perfezione della carità.E un impegno fortemente richiamato dagli innumerevoli esempi di santi fondatori e fondatrici e di tante persone consacrate, che hanno testimoniato la fedeltà a Cristo fino al martirio.Tendere alla santità: ecco in sintesi il programma di ogni vita consacrata, anche nella prospettiva del suo rinnovamento alle soglie del terzo millennio. Il punto di avvio del programma sta nel lasciare tutto per Cristo (cfr Mt 4, 18-22; 19, 21.27; Lc 5, 11) preferendo Lui ad ogni cosa, per poter partecipare pienamente al Suo mistero pasquale.Lo aveva ben capito san Paolo che esclamava: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù [...]. E questo perché io possa conoscere Lui, la potenza della Sua risurrezione» (Fil 3, 8.10). E la via segnata fin dall'inizio dagli Apostoli, come ricorda la tradizione cristiana in Oriente e in Occidente: «Coloro che attualmente seguono Gesù abbandonando tutto per Lui, rievocano gli Apostoli che, rispondendo al suo invito, rinunciano a tutto il resto. Perciò tradizionalmente si è soliti parlare della vita religiosa come di apostolica vivendi forma» .La stessa tradizione ha anche messo in evidenza, nella vita consacrata, la dimensione della peculiare alleanza con Dio, anzi dell'alleanza sponsale con Cristo, di cui san Paolo fu maestro col suo esempio (cfr 1 Cor 7, 7) e col suo insegnamento, proposto sotto la guida dello Spirito (cfr 1 Cor 7, 40).Possiamo dire che la vita spirituale, intesa come vita in Cristo, vita secondo lo Spirito, si configura come un itinerario di crescente fedeltà, in cui la persona consacrata è guidata dallo Spirito e da Lui configurata a Cristo, in piena comunione di amore e di servizio nella Chiesa.Tutti questi elementi, calati nelle varie forme di vita consacrata, generano una peculiare spiritualità, cioè un progetto concreto di rapporto con Dio e con l'ambiente, caratterizzato da particolari accenti spirituali e scelte operative, che evidenziano e ripresentano ora l'uno ora l'altro aspetto dell'unico mistero di Cristo. Quando la Chiesa riconosce una forma di vita consacrata o un Istituto, garantisce che nel suo carisma spirituale e apostolico si trovano tutti i requisiti oggettivi per raggiungere la perfezione evangelica personale e comunitaria.La vita spirituale dev'essere dunque al primo posto nel programma delle Famiglie di vita consacrata, in modo che ogni Istituto e ogni comunità si presentino come scuole di vera spiritualità evangelica. Da questa opzione prioritaria, sviluppata nell'impegno personale e comunitario, dipendono la fecondità apostolica, la generosità nell'amore per i poveri, la stessa attrattiva vocazionale sulle nuove generazioni. E proprio la qualità spirituale della vita consacrata che può scuotere le persone del nostro tempo, anch'esse assetate di valori assoluti, trasformandosi così in affascinante testimonianza.

In ascolto della Parola di Dio

94. La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana. Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante. E per questo che la lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione. Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito. Benché tutta la Sacra Scrittura sia «utile per insegnare» (2 Tm 3, 16) e «sorgente pura e perenne della vita spirituale»,meritano particolare venerazione gli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto i Vangeli, che sono «il cuore di tutte le Scritture».Gioverà pertanto alle persone consacrate fare oggetto di assidua meditazione i testi evangelici e gli altri scritti neotestamentari che illustrano le parole e gli esempi di Cristo e della Vergine Maria e la apostolica vivendi forma. Ad essi si sono costantemente riferiti fondatori e fondatrici nell'accoglienza della vocazione e nel discernimento del carisma e della missione del proprio Istituto.Di grande valore è la meditazione comunitaria della Bibbia. Realizzata secondo le possibilità e le circostanze della vita di comunità, essa porta alla gioiosa condivisione delle ricchezze attinte alla Parola di Dio, grazie alle quali fratelli e sorelle crescono insieme e si aiutano a progredire nella vita spirituale. Conviene anzi che tale prassi venga proposta anche agli altri membri del Popolo di Dio, sacerdoti e laici, promovendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura, nella quale Dio «parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38) per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».alla meditazione della Parola di Dio, e in particolare dei misteri di Cristo, nascono, come insegna la tradizione spirituale, l'intensità della contemplazione e l'ardore dell'azione apostolica. Sia nella vita religiosa contemplativa che in quella apostolica sono sempre stati uomini e donne di preghiera a realizzare, quali autentici interpreti ed esecutori della volontà di Dio, opere grandi. Dalla frequentazione della Parola di Dio essi hanno tratto la luce necessaria per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutati a cercare nei segni dei tempi le vie del Signore. Essi hanno così acquisito una sorta di istinto soprannaturale , che ha loro permesso di non conformarsi alla mentalità del secolo, ma di rinnovare la propria mente, «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2).

In comunione con Cristo

95. Mezzo fondamentale per alimentare efficacemente la comunione col Signore è senza dubbio la santa liturgia, in modo speciale la Celebrazione eucaristica e la Liturgia delle Ore.Innanzitutto l'Eucaristia, nella quale «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e Pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita»all'umanità. Cuore della vita ecclesiale, essa lo è anche della vita consacrata. La persona chiamata, nella professione dei consigli evangelici, a scegliere Cristo come unico senso della sua esistenza, come potrebbe non desiderare di instaurare con Lui una comunione sempre più profonda mediante la partecipazione quotidiana al Sacramento che lo rende presente, al sacrificio che ne attualizza il dono d'amore del Golgota, al convito che alimenta e sostiene il popolo di Dio pellegrinante? L'Eucaristia sta per sua natura al centro della vita consacrata, personale e comunitaria. Essa è viatico quotidiano e fonte della spiritualità del singolo e dell'Istituto. In essa ogni consacrato è chiamato a vivere il mistero pasquale di Cristo, unendosi con Lui nell'offerta della propria vita al Padre mediante lo Spirito. L'adorazione assidua e prolungata di Cristo presente nell'Eucaristia consente in qualche modo di rivivere l'esperienza di Pietro nella Trasfigurazione: «E bello per noi stare qui». E nella celebrazione del mistero del Corpo e del Sangue del Signore si consolida ed incrementa l'unità e la carità di coloro che hanno consacrato a Dio l'esistenza.Accanto all'Eucaristia, e in intimo rapporto con essa, la Liturgia delle Ore, celebrata comunitariamente o personalmente secondo l'indole di ciascun Istituto, in comunione con la preghiera della Chiesa, esprime la vocazione alla lode e all'intercessione, che è propria delle persone consacrate.Alla medesima Eucaristia dice profonda relazione l'impegno di conversione continua e di necessaria purificazione, che le persone consacrate sviluppano nel sacramento della Riconciliazione. Mediante l'incontro frequente con la misericordia di Dio esse purificano e rinnovano il loro cuore e, attraverso l'umile riconoscimento dei peccati, rendono trasparente il proprio rapporto con Lui; la gioiosa esperienza del perdono sacramentale, nel cammino condiviso con i fratelli e le sorelle, rende il cuore docile e stimola l'impegno ad una crescente fedeltà.E di grande sostegno per progredire nel cammino evangelico, specialmente nel periodo di formazione e in certi momenti della vita, il ricorso fiducioso e umile alla direzione spirituale, grazie alla quale la persona è aiutata a rispondere alle mozioni dello Spirito con generosità e ad orientarsi decisamente verso la santità.Esorto, infine, tutte le persone consacrate, secondo le proprie tradizioni, a rinnovare quotidianamente l'unione spirituale con la Vergine Maria, ripercorrendo con lei i misteri del Figlio, particolarmente con la recita del Santo Rosario.

III. ALCUNI AREOPAGHI DELLA MISSIONE

Presenza nel mondo dell'educazione

96. La Chiesa ha sempre percepito che l'educazione è un elemento essenziale della sua missione. Suo Maestro interiore è lo Spirito Santo, il quale penetra le profondità più inaccessibili del cuore di ogni uomo e conosce il segreto dinamismo della storia. Tutta la Chiesa è animata dallo Spirito e con Lui svolge la sua opera educatrice. All'interno della Chiesa, tuttavia, un compito specifico spetta in questo campo alle persone consacrate, le quali sono chiamate a immettere nell'orizzonte educativo la testimonianza radicale dei beni del Regno, proposti ad ogni uomo nell'attesa dell'incontro definitivo col Signore della storia. Per la loro speciale consacrazione, per la peculiare esperienza dei doni dello Spirito, per l'assiduo ascolto della Parola e l'esercizio del discernimento, per il ricco patrimonio di tradizioni educative accumulato nel tempo dal proprio Istituto, per la approfondita conoscenza della verità spirituale (cfr Ef 1, 17), le persone consacrate sono in grado di sviluppare un'azione educativa particolarmente efficace, offrendo uno specifico contributo alle iniziative degli altri educatori ed educatrici.Munite di questo carisma, esse possono dar vita ad ambienti educativi permeati dallo spirito evangelico di libertà e di carità, nei quali i giovani sono aiutati a crescere in umanità sotto la guida dello Spirito.In questo modo la comunità educativa diventa esperienza di comunione e luogo di grazia, dove il progetto pedagogico contribuisce ad unire in sintesi armonica il divino e l'umano, il Vangelo e la cultura, la fede e la vita.La storia della Chiesa, dall'antichità ai nostri giorni, è ricca di ammirevoli esempi di persone consacrate che hanno vissuto e vivono la tensione alla santità mediante l'impegno pedagogico, proponendo allo stesso tempo la santità quale meta educativa. Di fatto, molte di esse hanno realizzato la perfezione della carità educando. Questo è uno dei doni più preziosi che le persone consacrate possono offrire anche oggi alla gioventù, facendola oggetto di un servizio pedagogico ricco di amore, secondo il sapiente avvertimento di san Giovanni Bosco: «I giovani non siano solo amati, ma conoscano anche d'essere amati».

Necessità di rinnovato impegno nel campo educativo

97. Consacrati e consacrate manifestino, con delicato rispetto unito a coraggio missionario, che la fede in Gesù Cristo illumina tutto il campo dell'educazione, non pregiudicando, ma piuttosto confermando ed elevando gli stessi valori umani. In tal modo essi si fanno testimoni e strumenti della potenza dell'Incarnazione e della forza dello Spirito. Questo loro compito è una delle espressioni più significative di quella maternità che la Chiesa, ad immagine di Maria, esercita verso tutti i suoi figli. per questo che il Sinodo ha esortato insistentemente le persone consacrate a riprendere con nuovo impegno, là dove è possibile, la missione dell'educazione con scuole di ogni tipo e grado, Università e Istituti superiori.Facendo mia l'indicazione sinodale, invito caldamente i membri degli Istituti dediti all'educazione ad essere fedeli al loro carisma originario ed alle loro tradizioni, consci che l'amore preferenziale per i poveri trova una sua particolare applicazione nella scelta dei mezzi atti a liberare gli uomini da quella grave forma di miseria che è la mancanza di formazione culturale e religiosa.Data l'importanza che le Università e le Facoltà cattoliche ed ecclesiastiche assumono nel campo dell'educazione e dell'evangelizzazione, gli Istituti che ne hanno la conduzione siano consci della loro responsabilità, facendo sì che in esse, mentre si dialoga attivamente con l'attuale contesto culturale, sia conservata la peculiare indole cattolica, in piena fedeltà al Magistero della Chiesa. Inoltre, secondo le circostanze, i membri di questi Istituti e Società siano pronti ad entrare nelle strutture educative statali. A questo tipo di intervento sono particolarmente chiamati, per loro specifica vocazione, i membri degli Istituti secolari.

Evangelizzare la cultura

98. Gli Istituti di vita consacrata hanno sempre avuto un grande influsso nella formazione e nella trasmissione della cultura. Ciò è accaduto nel medioevo, quando i monasteri divennero luoghi di accesso alle ricchezze culturali del passato e di elaborazione di una nuova cultura umanistica e cristiana. Ciò si è avverato ogni qualvolta la luce del Vangelo ha raggiunto nuovi popoli. Molte persone consacrate hanno promosso la cultura, e spesso hanno investigato e difeso le culture autoctone. Il bisogno di contribuire alla promozione della cultura, al dialogo fra cultura e fede, è avvertito oggi nella Chiesa in modo tutto particolare. consacrati non possono non sentirsi interpellati da questa urgenza. Anch'essi sono chiamati a individuare, nell'annuncio della Parola di Dio, metodi più appropriati alle esigenze dei diversi gruppi umani e dei molteplici ambiti professionali, perché la luce di Cristo penetri ogni settore umano ed il fermento della salvezza trasformi dall'interno il vivere sociale, favorendo l'affermarsi di una cultura permeata di valori evangelici.Anche attraverso tale impegno, alla soglia del terzo millennio cristiano, la vita consacrata potrà rinnovare la sua corrispondenza ai desideri di Dio, il quale viene incontro a tutte le persone che, consapevolmente o inconsapevolmente, vanno come a tentoni cercando la Verità e la Vita (cfr At 17, 27).Ma al di là del servizio rivolto agli altri, anche all'interno della vita consacrata c'è bisogno di rinnovato amore per l'impegno culturale, di dedizione allo studio come mezzo per la formazione integrale e come percorso ascetico, straordinariamente attuale, di fronte alla diversità delle culture. Diminuire l'impegno per lo studio può avere pesanti conseguenze anche sull'apostolato, generando un senso di emarginazione e di inferiorità o favorendo superficialità e avventatezza nelle iniziative.Nella diversità dei carismi e delle reali possibilità dei singoli Istituti, l'impegno dello studio non si può ridurre alla formazione iniziale o al conseguimento di titoli accademici e di competenze professionali. Esso è piuttosto espressione del mai appagato desiderio di conoscere più a fondo Dio, abisso di luce e fonte di ogni umana verità. Per questo, tale impegno non isola la persona consacrata in un astratto intellettualismo, né la rinchiude nelle spire di un soffocante narcisismo; è invece sprone al dialogo e alla condivisione, è formazione alla capacità di giudizio, è stimolo alla contemplazione e alla preghiera, nella continua ricerca di Dio e della sua azione nella complessa realtà del mondo contemporaneo.La persona consacrata, lasciandosi trasformare dallo Spirito, diventa capace di ampliare gli orizzonti degli angusti desideri umani e, nello stesso tempo, di cogliere le dimensioni profonde di ogni individuo e della sua storia, al di là degli aspetti più vistosi ma spesso marginali. Innumerevoli sono oggi i campi di sfida che emergono dalle varie culture: ambiti nuovi o tradizionalmente frequentati dalla vita consacrata, con i quali urge mantenere fecondi rapporti, in atteggiamento di vigile senso critico ma anche di fiduciosa attenzione verso chi affronta le difficoltà tipiche del lavoro intellettuale, specie quando, in presenza degli inediti problemi del nostro tempo, occorre tentare analisi e sintesi nuove.Una seria e valida evangelizzazione dei nuovi ambiti, ove si elabora e si trasmette la cultura, non può essere operata senza un'attiva collaborazione con i laici ivi impegnati.

Presenza nel mondo della comunicazione sociale

99. Come nel passato le persone consacrate hanno saputo porsi con ogni mezzo al servizio dell'evangelizzazione, affrontando genialmente le difficoltà, così oggi sono interpellate in modo nuovo dall'esigenza di testimoniare il Vangelo attraverso i mezzi della comunicazione sociale. Tali mezzi hanno assunto una capacità di irradiazione cosmica mediante potentissime tecnologie, in grado di raggiungere ogni angolo della terra. Le persone consacrate, soprattutto quando per carisma istituzionale operano in questo campo, sono tenute ad acquisire una seria conoscenza del linguaggio proprio di tali mezzi, per parlare in modo efficace di Cristo all'uomo d'oggi, interpretandone «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce»,e contribuire così all'edificazione di una società in cui tutti si sentano fratelli e sorelle in cammino verso Dio.Occorre tuttavia essere vigili nei confronti dell'uso distorto di questi mezzi, a motivo dello straordinario potere di persuasione di cui dispongono. E bene non nascondersi i problemi che possono derivarne alla stessa vita consacrata; occorre piuttosto affrontarli con illuminato discernimento.La risposta della Chiesa è soprattutto educativa: mira a promuovere un atteggiamento di corretta comprensione delle dinamiche soggiacenti ed una attenta valutazione etica dei programmi, come pure l'adozione di sane abitudini nella loro fruizione.In questo compito educativo, volto a formare sapienti recettori ed esperti comunicatori, le persone consacrate sono chiamate ad offrire la loro particolare testimonianza sulla relatività di tutte le realtà visibili, aiutando i fratelli a valorizzarle secondo il disegno di Dio, ma anche a liberarsi dalla cattura ossessiva della scena di questo mondo che passa (cfr 1 Cor 7, 31).Ogni sforzo in questo importante e nuovo campo apostolico va incoraggiato, affinché il Vangelo di Cristo risuoni anche attraverso questi mezzi moderni. I vari Istituti siano pronti a collaborare, con l'apporto di forze, mezzi e persone, per realizzare progetti comuni nei vari settori della comunicazione sociale. Le persone consacrate, inoltre, specie i membri degli Istituti secolari, prestino volentieri il loro servizio, secondo le opportunità pastorali, anche per la formazione religiosa dei responsabili e degli operatori della comunicazione sociale pubblica o privata, affinché da una parte siano scongiurati i danni provocati dall'uso viziato dei mezzi e dall'altra venga promossa una superiore qualità delle trasmissioni, con messaggi rispettosi della legge morale e ricchi di valori umani e cristiani.

IV. IMPEGNATI NEL DIALOGO CON TUTTI

Al servizio dell'unità dei cristiani

100. La preghiera di Cristo al Padre prima della Passione, perché i suoi discepoli rimangano nell'unità (cfr Gv 17, 21-23), continua nella preghiera e nell'azione della Chiesa. Come potrebbero non sentirsene coinvolti i chiamati alla vita consacrata? La ferita della disunione tuttora esistente fra i credenti in Cristo e l'urgenza di pregare e lavorare per promuovere l'unità di tutti i cristiani sono state particolarmente avvertite al Sinodo. La sensibilità ecumenica di consacrati e consacrate è ravvivata anche dalla consapevolezza che in altre Chiese e Comunità ecclesiali si conserva ed è fiorente il monachesimo, come nel caso delle Chiese orientali, o si rinnova la professione dei consigli evangelici, come nella Comunione anglicana e nelle Comunità della Riforma.Il Sinodo ha messo in luce il profondo legame della vita consacrata con la causa dell'ecumenismo e l'urgenza di una testimonianza più intensa in questo campo. Se infatti l'anima dell'ecumenismo è la preghiera e la conversione,non v'è dubbio che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno un particolare dovere di coltivare questo impegno. E urgente, pertanto, che nella vita delle persone consacrate si aprano spazi maggiori alla orazione ecumenica ed alla testimonianza autenticamente evangelica, affinché con la forza dello Spirito Santo si possano abbattere i muri delle divisioni e dei pregiudizi tra i cristiani.

Forme di dialogo ecumenico

101. La condivisione della lectio divina nella ricerca della verità, la partecipazione alla preghiera comune, nella quale il Signore garantisce la sua presenza (cfr Mt 18, 20), il dialogo dell'amicizia e della carità che fa sentire come è bello che i fratelli vivano insieme (cfr Sal 133[132]), la cordiale ospitalità praticata verso i fratelli e le sorelle delle diverse confessioni cristiane, la mutua conoscenza e lo scambio dei doni, la collaborazione in iniziative comuni di servizio e di testimonianza, sono altrettante forme del dialogo ecumenico, espressioni gradite al Padre comune e segni della volontà di camminare insieme verso l'unità perfetta sulla via della verità e dell'amore.Anche la conoscenza della storia, della dottrina, della liturgia, dell'attività caritativa e apostolica degli altri cristiani non mancherà di giovare ad un'azione ecumenica sempre più incisiva.oglio incoraggiare quegli Istituti che, per nativo carattere o per successiva chiamata, si dedicano alla promozione dell'unità dei cristiani e per essa coltivano iniziative di studio e di azione concreta. In realtà, nessun Istituto di vita consacrata deve sentirsi dispensato dal lavorare per questa causa. Rivolgo inoltre il mio pensiero alle Chiese orientali cattoliche auspicando che, anche attraverso il monachesimo maschile e femminile, la cui fioritura è grazia che va costantemente implorata, esse possano giovare all'unità con le Chiese ortodosse, grazie al dialogo della carità e alla condivisione della comune spiritualità, patrimonio della Chiesa indivisa del primo millennio.Affido in modo particolare l'ecumenismo spirituale della preghiera, della conversione del cuore e della carità ai monasteri di vita contemplativa. A questo scopo incoraggio la loro presenza là dove vivono comunità cristiane di varie confessioni, affinché la loro totale dedizione all'«unico necessario» (cfr Lc 10, 42), al culto di Dio e all'intercessione per la salvezza del mondo, unitamente alla loro testimonianza di vita evangelica, secondo i propri carismi, sia per tutti uno stimolo a vivere, ad immagine della Trinità, in quella unità che Gesù ha voluto e chiesto al Padre per tutti i suoi discepoli.

Il dialogo interreligioso

102. Dal momento che «il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa»,gli Istituti di vita consacrata non possono esimersi dall'impegnarsi anche in questo campo, ciascuno secondo il proprio carisma e seguendo le indicazioni dell'autorità ecclesiastica. La prima forma di evangelizzazione nei confronti di fratelli e sorelle di altra religione sarà la stessa testimonianza di una vita povera, umile e casta, permeata di amore fraterno per tutti. Nel medesimo tempo, la libertà di spirito che è propria della vita consacrata favorirà quel «dialogo di vita»in cui si attua un modello fondamentale di missione e di annuncio del Vangelo di Cristo. Per favorire la mutua conoscenza, il vicendevole rispetto e la carità, gli Istituti religiosi potranno inoltre coltivare opportune forme di dialogo, improntate a cordiale amicizia e reciproca sincerità, con gli ambienti monastici di altre religioni.Un altro ambito di collaborazione con uomini e donne di diversa tradizione religiosa è costituito dalla comune sollecitudine per la vita umana, che va dalla compassione per la sofferenza fisica e spirituale, all'impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. In questi settori saranno soprattutto gli Istituti di vita attiva a cercare l'intesa con i membri di altre religioni, in quel «dialogo delle opere»che prepara la via ad una condivisione più profonda.Un campo particolare di incontro operoso con persone di altre tradizioni religiose è pure quello della ricerca e della promozione della dignità della donna. Nell'ottica dell'uguaglianza e della giusta reciprocità tra uomo e donna, un servizio prezioso può essere reso soprattutto dalle donne consacrate.uesti e altri impegni delle persone consacrate a servizio del dialogo interreligioso esigono una adeguata preparazione nella formazione iniziale e nella formazione permanente, come pure nello studio e nella ricerca,dal momento che in questo non facile settore occorre profonda conoscenza del cristianesimo e delle altre religioni, accompagnata da fede solida e da maturità spirituale ed umana.

Una risposta di spiritualità alla ricerca del sacro e alla nostalgia di Dio

103. Quanti abbracciano la vita consacrata, uomini e donne, si pongono, per la natura stessa della loro scelta, come interlocutori privilegiati di quella ricerca di Dio che da sempre agita il cuore dell'uomo e lo conduce a molteplici forme di ascesi e di spiritualità. Tale ricerca oggi, in molte regioni, emerge con insistenza come risposta a culture tendenti, se non sempre a negare, certo ad emarginare la dimensione religiosa dell'esistenza.Le persone consacrate, vivendo con coerenza e in pienezza gli impegni liberamente assunti, possono offrire una risposta agli aneliti dei loro contemporanei, affrancandoli da soluzioni per lo più illusorie e spesso negatrici dell'incarnazione salvifica del Cristo (cfr 1 Gv 4, 2-3), quali, ad esempio, vengono proposte dalle sette. Praticando un'ascesi personale e comunitaria, che purifica e trasfigura l'intera esistenza, esse testimoniano, contro la tentazione dell'egocentrismo e della sensualità, i caratteri dell'autentica ricerca di Dio ed ammoniscono a non confonderla con la sottile ricerca di se stessi o con la fuga nella gnosi. Ogni persona consacrata è impegnata a coltivare l'uomo interiore, che non si estrania dalla storia né si ripiega su di sé. Vivendo in ascolto obbediente della Parola, di cui la Chiesa è custode e interprete, essa addita nel Cristo sommamente amato e nel Mistero trinitario l'oggetto dell'anelito profondo del cuore umano e l'approdo di ogni itinerario religioso sinceramente aperto alla trascendenza.Per questo le persone consacrate hanno il dovere di offrire generosamente accoglienza e accompagnamento spirituale a quanti, mossi dalla sete di Dio e desiderosi di vivere le esigenze della fede, si rivolgono a loro.

CONCLUSIONE

La sovrabbondanza della gratuità

104. Non sono pochi coloro che oggi si interrogano perplessi: Perché la vita consacrata? Perché abbracciare questo genere di vita, dal momento che vi sono tante urgenze, nell'ambito della carità e della stessa evangelizzazione, a cui si può rispondere anche senza assumersi gli impegni peculiari della vita consacrata? Non è forse, la vita consacrata, una sorta di «spreco» di energie umane utilizzabili secondo un criterio di efficienza per un bene più grande a vantaggio dell'umanità e della Chiesa?Queste domande sono più frequenti nel nostro tempo, perché stimolate da una cultura utilitaristica e tecnocratica, che tende a valutare l'importanza delle cose e delle stesse persone in rapporto alla loro immediata «funzionalità». Ma interrogativi simili sono esistiti sempre, come dimostra eloquentemente l'episodio evangelico dell'unzione di Betania: «Maria, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento» ( Gv 12, 3). A Giuda che, prendendo a pretesto il bisogno dei poveri, si lamentava per tanto spreco, Gesù rispose: «Lasciala fare!» (Gv 12, 7).E questa la risposta sempre valida alla domanda che tanti, anche in buona fede, si pongono circa l'attualità della vita consacrata: Non si potrebbe investire la propria esistenza in modo più efficiente e razionale per il miglioramento della società? Ecco la risposta di Gesù: «Lasciala fare!».A chi è concesso il dono inestimabile di seguire più da vicino il Signore Gesù appare ovvio che Egli possa e debba essere amato con cuore indiviso, che a Lui si possa dedicare tutta la vita e non solo alcuni gesti o alcuni momenti o alcune attività. L'unguento prezioso versato come puro atto di amore, e perciò al di là di ogni considerazione «utilitaristica», è segno di una sovrabbondanza di gratuità, quale si esprime in una vita spesa per amare e per servire il Signore, per dedicarsi alla sua persona e al suo Corpo mistico. Ma è da questa vita «versata» senza risparmio che si diffonde un profumo che riempie tutta la casa. La casa di Dio, la Chiesa, è, oggi non meno di ieri, adornata e impreziosita dalla presenza della vita consacrata.Quello che agli occhi degli uomini può apparire come uno spreco, per la persona avvinta nel segreto del cuore dalla bellezza e dalla bontà del Signore è un'ovvia risposta d'amore, è esultante gratitudine per essere stata ammessa in modo tutto speciale alla conoscenza del Figlio ed alla condivisione della sua divina missione nel mondo.«Se un figlio di Dio conoscesse e gustasse l'amore divino, Dio increato, Dio incarnato, Dio passionato, che è il sommo bene, gli si darebbe tutto, si sottrarrebbe non solo alle altre creature, ma perfino a se stesso e con tutto se stesso amerebbe questo Dio d'amore fino a trasformarsi tutto nel Dio-uomo, che è il sommo Amato».

La vita consacrata al servizio del Regno di Dio

105. «Che sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi»?Al di là delle superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è importante proprio nel suo essere sovrabbondanza di gratuità e d'amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell'effimero. «Senza questo segno concreto, la carità che anima l'intera Chiesa rischierebbe di raffreddarsi, il paradosso salvifico del Vangelo di smussarsi, il «sale» della fede di diluirsi in un mondo in fase di secolarizzazione».La vita della Chiesa e la stessa società hanno bisogno di persone capaci di dedicarsi totalmente a Dio e agli altri per amore di Dio.La Chiesa non può assolutamente rinunciare alla vita consacrata, perché essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza «sponsale». In essa trova nuovo slancio e forza l'annuncio del Vangelo a tutto il mondo. C'è bisogno infatti di chi presenti il volto paterno di Dio e il volto materno della Chiesa, di chi metta in gioco la propria vita, perché altri abbiano vita e speranza. Alla Chiesa sono necessarie persone consacrate le quali, prima ancora di impegnarsi a servizio dell'una o dell'altra nobile causa, si lascino trasformare dalla grazia di Dio e si conformino pienamente al Vangelo.La Chiesa intera trova nelle sue mani questo grande dono e in atteggiamento di gratitudine si dedica a promuoverlo con la stima, la preghiera, l'invito esplicito ad accoglierlo. E importante che Vescovi, presbiteri e diaconi, convinti dell'eccellenza evangelica di questo genere di vita, lavorino per scoprire e sostenere i germi di vocazione con la predicazione, il discernimento e un saggio accompagnamento spirituale. A tutti i fedeli si chiede una costante preghiera per le persone consacrate, perché il loro fervore e la loro capacità d'amare aumentino continuamente, contribuendo a diffondere nell'odierna società il buon profumo di Cristo (cfr 2 Cor 2, 15). L'intera comunità cristiana — pastori, laici e persone consacrate — è responsabile della vita consacrata, dell'accoglienza e del sostegno offerto alle nuove vocazioni.

Alla gioventù

106. A voi, giovani, dico: Se avvertite la chiamata del Signore, non respingetela! Inseritevi, piuttosto, coraggiosamente nelle grandi correnti di santità, che insigni sante e santi hanno avviato al seguito di Cristo. Coltivate gli aneliti tipici della vostra età, ma aderite prontamente al progetto di Dio su di voi, se Egli vi invita a cercare la santità nella vita consacrata. Ammirate tutte le opere di Dio nel mondo, ma sappiate fissare lo sguardo sulle realtà destinate a non tramontare mai.Il terzo millennio attende il contributo della fede e dell'inventiva di schiere di giovani consacrati, perché il mondo sia reso più sereno e capace di accogliere Dio e, in Lui, tutti i suoi figli e figlie.

Alle famiglie

107. Mi rivolgo a voi, famiglie cristiane. Voi, genitori, rendete grazie al Signore se ha chiamato alla vita consacrata qualcuno dei vostri figli. Deve essere considerato — come è sempre stato — un grande onore che il Signore guardi ad una famiglia e scelga qualcuno dei suoi componenti per invitarlo ad intraprendere la via dei consigli evangelici! Coltivate il desiderio di dare al Signore qualcuno dei vostri figli per la crescita dell'amore di Dio nel mondo. Quale frutto dell'amore coniugale potrebbe esservi più bello di questo?E necessario ricordare che se i genitori non vivono i valori evangelici, difficilmente il giovane e la giovane potranno percepire la chiamata, comprendere la necessità dei sacrifici da affrontare, apprezzare la bellezza della meta da raggiungere. E nella famiglia, infatti, che i giovani fanno le prime esperienze dei valori evangelici, dell'amore che si dona a Dio e agli altri. Occorre pure che essi vengano educati all'uso responsabile della propria libertà, per essere disposti a vivere, secondo la loro vocazione, delle più alte realtà spirituali.Prego perché voi, famiglie cristiane, unite al Signore con la preghiera e la vita sacramentale, siate vivai accoglienti di vocazioni.

Agli uomini e alle donne di buona volontà

108. A tutti gli uomini e le donne che vorranno ascoltare la mia voce, desidero far giungere l'invito a cercare le vie che conducono al Dio vivo e vero anche nei percorsi tracciati dalla vita consacrata. Le persone consacrate testimoniano che «chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, si fa anch'egli più uomo».Quante di esse si sono chinate, e continuano a chinarsi, come buoni samaritani sulle innumerevoli ferite dei fratelli e delle sorelle che incontrano sulla loro strada!Guardate a queste persone afferrate da Cristo, che indicano nel dominio di sé, sostenuto dalla grazia e dall'amore di Dio, il rimedio contro l'avidità di avere, di godere, di dominare. Non dimenticate i carismi che hanno plasmato meravigliosi «ricercatori di Dio» e benefattori dell'umanità, che hanno aperto vie sicure a coloro che cercano Dio con cuore sincero. Considerate il gran numero di santi cresciuti in questo genere di vita, considerate il bene fatto al mondo, ieri e oggi, da chi si è dedicato a Dio! Questo nostro mondo non ha forse bisogno di gioiosi testimoni e profeti della potenza benefica dell'amore di Dio? Non ha bisogno anche di uomini e donne che, con la loro vita e la loro azione, sappiano gettare semi di pace e di fraternità?

Alle persone consacrate

109. Ma è soprattutto a voi, donne e uomini consacrati, che al termine di questa Esortazione rivolgo il mio appello fiducioso: vivete pienamente la vostra dedizione a Dio, per non lasciar mancare a questo mondo un raggio della divina bellezza che illumini il cammino dell'esistenza umana. I cristiani, immersi nelle occupazioni e nelle preoccupazioni di questo mondo, ma chiamati anch'essi alla santità, hanno bisogno di trovare in voi cuori purificati che nella fede «vedono» Dio, persone docili all'azione dello Spirito Santo che camminano spedite nella fedeltà al carisma della chiamata e della missione.Voi sapete bene di aver intrapreso un cammino di conversione continua, di dedizione esclusiva all'amore di Dio e dei fratelli, per testimoniare sempre più splendidamente la grazia che trasfigura l'esistenza cristiana. Il mondo e la Chiesa cercano autentici testimoni di Cristo. E la vita consacrata è un dono che Dio offre perché sia posto davanti agli occhi di tutti l'«unico necessario» (cfr Lc 10, 42). Dare testimonianza a Cristo con la vita, con le opere e con le parole è peculiare missione della vita consacrata nella Chiesa e nel mondo.Voi sapete a Chi avete creduto (cfr 2 Tm 1, 12): dategli tutto! I giovani non si lasciano ingannare: venendo a voi, essi vogliono vedere ciò che non vedono altrove. Avete un compito immenso nei confronti del domani: specialmente i giovani consacrati, testimoniando la loro consacrazione, possono indurre i loro coetanei al rinnovamento della loro vita. L'amore appassionato per Gesù Cristo è una potente attrazione per gli altri giovani, che Egli nella sua bontà chiama a seguirlo da vicino e per sempre. I nostri contemporanei vogliono vedere nelle persone consacrate la gioia che proviene dall'essere con il Signore.Persone consacrate, anziane e giovani, vivete la fedeltà al vostro impegno verso Dio, in mutua edificazione e con mutuo sostegno. Nonostante le difficoltà che talvolta avete potuto incontrare e l'indebolimento della stima per la vita consacrata in una certa opinione pubblica, voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!

Guardare al futuro

110. Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.Fate della vostra vita un'attesa fervida di Cristo, andando incontro a Lui come le vergini sagge che vanno incontro allo Sposo. Siate sempre pronti, fedeli a Cristo, alla Chiesa, al vostro Istituto e all'uomo del nostro tempo.Sarete così da Cristo rinnovati di giorno in giorno, per costruire con il suo Spirito comunità fraterne, per lavare con Lui i piedi ai poveri e dare il vostro insostituibile contributo alla trasfigurazione del mondo.Questo nostro mondo affidato alle mani dell'uomo, mentre sta entrando nel nuovo millennio, possa essere sempre più umano e giusto, segno e anticipazione del mondo futuro, nel quale Egli, il Signore umile e glorificato, povero ed esaltato, sarà la gioia piena e duratura per noi e per i nostri fratelli e sorelle, con il Padre e lo Spirito Santo.

Preghiera alla Trinità

111. Trinità Santissima, beata e beatificante, rendi beati i tuoi figli e le tue figlie che hai chiamato a confessare la grandezza del tuo amore, della tua bontà misericordiosa e della tua bellezza.Padre Santo, santifica i figli e le figlie che si sono consacrati a Te, per la gloria del tuo nome. Accompagnali con la tua potenza, perché possano testimoniare che Tu sei l'Origine di tutto, l'unica sorgente dell'amore e della libertà. Ti ringraziamo per il dono della vita consacrata, che nella fede cerca Te e nella sua missione universale invita tutti a camminare verso Te.Salvatore Gesù, Verbo Incarnato, come hai consegnato la tua forma di vita a quelli che hai chiamato, continua ad attirare a Te persone che, per l'umanità del nostro tempo, siano depositarie di misericordia, preannuncio del tuo ritorno, segno vivente dei beni della risurrezione futura. Nessuna tribolazione li separi da Te e dal tuo amore! Spirito Santo, Amore riversato nei cuori, che dai grazia ed ispirazione alle menti, Fonte perenne di vita, che porti a compimento la missione di Cristo con i numerosi carismi, noi Ti preghiamo per tutte le persone consacrate. Riempi il loro cuore con l'intima certezza d'essere state prescelte per amare, lodare e servire. Fa' gustare loro la tua amicizia, riempile della tua gioia e del tuo conforto, aiutale a superare i momenti di difficoltà e a rialzarsi con fiducia dopo le cadute, rendile specchio della bellezza divina. Da' loro il coraggio di affrontare le sfide del nostro tempo e la grazia di portare agli uomini la benignità e l'umanità del Salvatore nostro Gesù Cristo (cfr Tit 3, 4).

Invocazione alla Vergine Maria

112. Maria, figura della Chiesa, Sposa senza ruga e senza macchia, che imitandoti «conserva verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità»,sostieni le persone consacrate nel loro tendere all'eterna e unica Beatitudine.A Te, Vergine della Visitazione, le affidiamo, perché sappiano correre incontro alle necessità umane, per portare aiuto, ma soprattutto per portare Gesù. Insegna loro a proclamare le meraviglie che il Signore compie nel mondo, perché i popoli tutti magnifichino il suo nome. Sostienile nella loro opera a favore dei poveri, degli affamati, dei senza speranza, degli ultimi e di tutti coloro che cercano il Figlio tuo con cuore sincero.A te, Madre, che vuoi il rinnovamento spirituale e apostolico dei tuoi figli e figlie nella risposta d'amore e di dedizione totale a Cristo, rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera. Tu che hai fatto la volontà del Padre, pronta nell'obbedienza, coraggiosa nella povertà, accogliente nella verginità feconda, ottieni dal tuo divin Figlio che quanti hanno ricevuto il dono di seguirlo nella vita consacrata lo sappiano testimoniare con una esistenza trasfigurata, camminando gioiosamente, con tutti gli altri fratelli e sorelle, verso la patria celeste e la luce che non conosce tramonto.Te lo chiediamo, perché in tutti e in tutto sia glorificato, benedetto e amato il Sommo Signore di tutte le cose che è Padre, Figlio e Spirito Santo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1996, decimottavo di Pontificato.

 

 

Redemptoris custos

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTORIS CUSTOS
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA FIGURA E LA MISSIONE
DI SAN GIUSEPPE
NELLA VITA DI CRISTO
E DELLA CHIESA

Ai Vescovi
ai sacerdoti e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
a tutti i fedeli

INTRODUZIONE

1. Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).

Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.

Nel centenario della pubblicazione dell'epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l'amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.

In tal modo l'intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all'economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all'identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d'Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super "Missus est" Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179).

Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l'umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell'ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell'Incarnazione.

Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun'altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l'eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

I

IL QUADRO EVANGELICO

Il matrimonio con Maria

2. «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa.

L'evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l'origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l'Annunciazione della nascita di Gesù: «L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell'angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).

L'Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell'Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall'Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.

A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell'Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.

3. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all'inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati"» (Mt 1,20-21).

Esiste una stretta analogia tra l'«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che - secondo la promessa divina - adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù - Yehossua', che significa: Dio salva.

Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria.

«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero.

II

IL DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO

4. Quando Maria, poco dopo l'Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell'angelo nell'Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell'enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l'insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo.

Ora, all'inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all'«annuncio» dell'angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).

Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell'Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede", per la quale l'uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il "pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l'essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.

5. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall'Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l'adozione a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio - insegna il Concilio - nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).

Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria - ed anche in relazione a Maria - egli partecipa a questa fase culminante dell'autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria - soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste - andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63).

6. La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella - ritornato Cristo al Padre - si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L'Incarnazione e la Redenzione costituiscono un'unità organica ed indissolubile, in cui l'«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).

Il servizio della paternità

7. Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E' per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe - una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) - passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.

Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).

Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché - si chiede santo Agostino - non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (...) La Scrittura afferma, per mezzo dell'autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l'origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l'autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall'unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342).

Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c'è nessun adulterio; il sacramento, perché non c'è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810).

Analizzando la natura del matrimonio, sia sant'Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell'«indivisibile unione degli animi», nell'«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l'umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell'accogliere ed esprimere un tale amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch'esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all'inizio dell'Antico, c'è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l'opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell'amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum "Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317).

Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l'essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall'amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l'amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell'amore di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l'esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).

8. San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell'aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell'incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell'aver usato dell'autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell'aver convertito la sua umana vocazione all'amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell'amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).

La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell'opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell'onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).

Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell'amore naturale, tutta quell'affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174).

Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l'amore corrispondente, quell'amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).

Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l'umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all'economia dell'Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero...» e il riferimento dell'avvenimento descritto a un testo dell'antico testamento tendono a sottolineare l'unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento.

Con l'Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell'antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l'umile serva del Signore, preparata dall'eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l'ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l'incarico di provvedere all'inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia.

Il censimento

9. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (cfr. Gv 1,45) nell'anagrafe dell'impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l'appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt'altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l'impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).

La nascita a Betlemme

10. Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,6-7).

Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell'adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l'angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell'omaggio dei magi, venuti dall'Oriente (cfr. Mt 2,11).

La circoncisione

11. Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.

Il principio secondo il quale i riti dell'antico testamento sono l'ombra della realtà (cfr. Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L'alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).

L'imposizione del nome

12. In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore.

La presentazione di Gesù al tempio

13. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.

Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell'alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell'antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l'autore stesso del riscatto.

L'Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (cfr. Lc 2,30-34).

La fuga in Egitto

14. Dopo la presentazione al tempio l'evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).

Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo"» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall'Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l'avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio"» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).

In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l'Egitto. Come Israele aveva preso la via dell'esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l'antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.

La permanenza di Gesù al tempio

15. Dal momento dell'Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell'intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l'ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret - una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.

Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50).

Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,... non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».

Il sostentamento e l'educazione di Gesù a Nazaret

16. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell'ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l'alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre.

Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).

Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.

III

L'UOMO GIUSTO-LO SPOSO

17. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell'Annunciazione, mentre Giuseppe - come è già stato detto - al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l'inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).

Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l'uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

18. L'uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L'Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo... chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l'immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell'intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell'Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».

Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell'Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell'uomo».

Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell'angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima - le sue nozze con Maria - era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).

19. Nelle parole dell'«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l'ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest'uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore.

«Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l'amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche - ed in modo del tutto singolare - l'amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell'esclusivo abbandono, dell'alleanza delle persone e dell'autentica comunione sull'esempio del mistero trinitario.

«Giuseppe... prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un'altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell'unione e del contatto tra le persone - dell'uomo e della donna - provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell'amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l'uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.

20. Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini.

Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l'esclusiva appartenenza a Dio.

D'altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E' certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c'è dubbio che a quell'altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell'onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all'eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s).

21. Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell'esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell'Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme - così come nella Incarnazione - a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio - vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l'autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E' contenuta in ciò una conseguenza dell'unione ipostatica: umanità assunta nell'unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l'assunzione dell'umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe.

In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io... ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell'Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall'inizio accettò mediante «l'obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all'uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.

IV

IL LAVORO ESPRESSIONE DELL'AMORE

22. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l'intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l'Evangelista dopo l'episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l'obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell'ordine della salvezza e della santità è l'esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all'umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell'Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.

23. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell'uomo» che «trasforma la natura» e rende l'uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).

L'importanza del lavoro nella vita dell'uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398).

24. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono "grandi cose", ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

V

IL PRIMATO DELLA VITA INTERIORE

25. Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E' un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.

26. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l'esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).

27. La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell'Incarnazione proprio sotto l'aspetto dell'umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).

Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l'importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l'influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).

La testimonianza apostolica non ha trascurato - come si è visto - la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).

Poiché l'amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull'amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l'amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull'amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell'amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore.

Inoltre, l'apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l'amore della verità («caritas veritatis») e l'esigenza dell'amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l'amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall'umanità di Cristo, sia l'esigenza dell'amore, cioè l'amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità.

VI

PATRONO DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO

28. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell'eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).

Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall'essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù... Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia... E' dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).

29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove - come ho scritto nell'esortazione apostolica "Christifideles Laici" - la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall'alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall'intercessione e dall'esempio dei suoi santi.

30. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell'insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all'intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.

Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l'attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell'assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all'inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell'obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.

Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell'azione divina con l'azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non è mai dispensata da un'umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

31. La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all'opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull'esempio e per l'intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»).

Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L'epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell'«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa - come ho ricordato all'inizio - implora la protezione di san Giuseppe - «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all'Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.

Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi..., assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre...; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries"» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo.

32. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E' certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano.

Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell'«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l'«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all'apostolato.

L'uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell'antica alleanza, è stato anche introdotto nell'«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch'è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo.

Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto - solennità dell'Assunzione della beata Vergine Maria - dell'anno 1989, undecimo di pontificato.

 

 

Redemptionis donum

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTIONIS DONUM
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
AI RELIGIOSI E ALLE RELIGIOSE
CIRCA LA LORO CONSACRAZIONE
ALLA LUCE
DEL MISTERO DELLA REDENZIONE

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Gesù!

I.

SALUTO

1. Il dono della redenzione, che questo anno giubilare straordinario mette particolarmente in luce, porta con sé una speciale chiamata alla conversione e alla riconciliazione con Dio in Cristo Gesù. Mentre il motivo esteriore del presente giubileo ha carattere storico - si celebra, infatti, il 1950· anniversario dell'evento della croce e della risurrezione -, contemporaneamente domina in esso il motivo interiore, unito con la profondità stessa del mistero della redenzione. La Chiesa è nata da questo mistero, e di esso vive in tutta la sua storia. Il tempo del giubileo straordinario ha un carattere eccezionale. La chiamata alla conversione e alla riconciliazione con Dio significa che dobbiamo meditare più a fondo sulla nostra vita, sulla nostra vocazione cristiana alla luce del mistero della redenzione, per radicarle sempre di più in esso.

Se questa chiamata riguarda tutti nella Chiesa, in modo speciale essa tocca voi, religiosi e religiose, che, nella consacrazione a Dio mediante il voto dei consigli evangelici, tendete a una particolare pienezza di vita cristiana. La vostra specifica vocazione e l'insieme della vostra vita nella Chiesa e nel mondo attingono il loro carattere e la loro forza spirituale dalla profondità stessa del mistero della redenzione. Seguendo il Cristo per la via «stretta... e angusta» (Mt 7,14), voi sperimentate in modo straordinario quanto è «grande presso di lui la redenzione»: «copiosa apud eum redemptio» (Sal 129,7).

2. Perciò, mentre quest'anno santo sta avviandosi verso la sua conclusione, desidero rivolgermi in modo particolare a voi tutti, religiosi e religiose, che siete interamente consacrati alla contemplazione o votati alle diverse opere dell'apostolato. Ciò ho già fatto in numerosi luoghi e in diverse circostanze, confermando e prolungando l'insegnamento evangelico contenuto in tutta la tradizione della Chiesa, specialmente nel magistero del recente Concilio ecumenico, dalla costituzione dogmatica «Lumen Gentium» al decreto «Perfectae Caritatis», nello spirito delle indicazioni dell'esortazione apostolica del mio predecessore Paolo VI «Evangelica Testificatio». Il Codice di diritto canonico, che è entrato recentemente in vigore e si può considerare in qualche modo come l'ultimo documento conciliare, sarà per voi tutti un aiuto prezioso e una guida sicura nel precisare in concreto i mezzi per vivere fedelmente e generosamente la vostra magnifica vocazione ecclesiale.

Vi saluto con l'affetto del vescovo di Roma e successore di san Pietro, col quale le vostre comunità rimangono unite in modo caratteristico. Dalla stessa sede romana giungono anche, con un'eco incessante, le parole di san Paolo: «Vi ho promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11,2). La Chiesa, che raccoglie dopo gli apostoli il tesoro delle nozze con lo Sposo divino, guarda con sommo amore verso tutti i suoi figli e tutte le sue figlie, che con la professione dei consigli evangelici hanno stretto, attraverso la sua mediazione, un'alleanza privilegiata col Redentore del mondo.

Accogliete, dunque, questa parola dell'anno giubilare della redenzione proprio come una parola d'amore, che la Chiesa pronuncia per voi. Accoglietela dovunque voi siate: nella clausura delle comunità contemplative o nella dedizione al multiforme servizio apostolico: nelle missioni, nell'azione pastorale, negli ospedali o in altri luoghi, dove viene servito l'uomo che soffre, negli istituti educativi, nelle scuole o nelle università e, infine, in ciascuna delle vostre case, dove rimanete «riuniti nel nome di Cristo» con la consapevolezza che il Signore è «in mezzo a voi» (Mt 18,20).

Che la parola d'amore della Chiesa, a voi indirizzata nel giubileo della redenzione, sia il riflesso di quella parola d'amore che Cristo stesso ha indirizzato a ciascuno e a ciascuna di voi, pronunciando un giorno quel misterioso «seguimi», dal quale ha preso inizio la vostra vocazione nella Chiesa.

II.

VOCAZIONE

«Gesù, fissatolo, lo amò»

3. «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21) e gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Anche se sappiamo che queste parole, dette al giovane ricco, non furono accolte dal chiamato, tuttavia il loro contenuto merita un'attenta riflessione. Esse, infatti, ci presentano la struttura interiore della vocazione.

«Gesù, fissatolo, lo amò». Questo è l'amore del Redentore: un amore che scaturisce da tutta la profondità divino-umana della redenzione. In esso si riflette l'eterno amore del Padre, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Figlio, investito da quest'amore, accettò la missione del Padre nello Spirito Santo, e divenne il Redentore del mondo. L'amore del Padre si è rivelato nel Figlio come amore che salva. Proprio quest'amore costituisce il vero prezzo della redenzione dell'uomo e del mondo. Gli apostoli di Cristo parlano del prezzo della redenzione con una profonda emozione: «Non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati... ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia», scrive san Pietro (1Pt 1,18). «Infatti, siete stati comprati a caro prezzo», afferma san Paolo (1Cor 6,20).

La chiamata alla via dei consigli evangelici nasce dall'incontro interiore con l'amore di Cristo, che è amore redentivo. Cristo chiama proprio mediante questo suo amore. Nella struttura della vocazione l'incontro con questo amore diventa qualcosa di specificamente personale. Quando Cristo «dopo avervi fissati vi amò», chiamando ognuno e ognuna di voi, cari religiosi e religiose, quel suo amore redentivo venne rivolto a una determinata persona, acquistando al tempo stesso caratteristiche sponsali: esso divenne amore d'elezione. Tale amore abbraccia la persona intera, anima e corpo, sia uomo o sia donna, nel suo unico e irripetibile «io» personale. Colui che, donatosi eternamente al Padre, «dona» se stesso nel mistero della redenzione, ecco che ha chiamato l'uomo, affinché questi, a sua volta, si doni interamente a un particolare servizio dell'opera della redenzione mediante l'appartenenza a una comunità fraterna, riconosciuta e approvata dalla Chiesa. Non fanno forse eco proprio a questa chiamata le parole di san Paolo: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo... e che non appartenete a voi stessi? Infatti, siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,19-20).

Sì, l'amore di Cristo ha raggiunto ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, con quel medesimo «prezzo» della redenzione. In conseguenza di ciò, vi siete resi conto come «non appartenete più a voi stessi», ma a lui. Questa nuova consapevolezza è stata il frutto dello «sguardo amorevole» di Cristo nel segreto del vostro cuore. Voi avete risposto a questo sguardo, scegliendo colui che per primo ha scelto ciascuno e ciascuna di voi, chiamandovi con l'immensità del suo amore redentivo. Chiamando «per nome», la sua chiamata fa appello sempre alla libertà dell'uomo. Cristo dice: «Se vuoi...». E la risposta a questa chiamata è, dunque, una scelta libera. Voi avete scelto Gesù di Nazaret, il redentore del mondo, scegliendo la strada che egli vi ha indicato.

«Se vuoi essere perfetto...»

4. Questa via si chiama anche la via della perfezione. Conversando col giovane, Cristo dice: «Se vuoi essere perfetto...», sicché il concetto di «via della perfezione» possiede la sua motivazione nella stessa fonte evangelica. Non sentiamo, del resto, nel discorso della montagna: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48)? La chiamata dell'uomo alla perfezione è stata, in qualche modo, percepita da pensatori e moralisti del mondo antico e anche successivamente, nelle diverse epoche della storia. La chiamata biblica, però, possiede un suo profilo del tutto originale: essa è particolarmente esigente, quando addita all'uomo la perfezione a somiglianza di Dio stesso. Proprio in tale forma la chiamata corrisponde a tutta la logica interna della Rivelazione, secondo la quale l'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio stesso. Egli deve, quindi, cercare la perfezione che gli è propria nella linea di questa immagine e somiglianza. Scriverà san Paolo nella lettera agli Efesini: «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,12).

Pertanto, la chiamata alla perfezione appartiene all'essenza stessa della vocazione cristiana. In base a questa chiamata bisogna intendere anche le parole che Cristo indirizza al giovane del Vangelo. Esse sono legate in modo particolare al mistero della redenzione dell'uomo nel mondo. Questa, infatti, restituisce a Dio l'opera della creazione contaminata dal peccato, indicando la perfezione che l'intera creazione e, in particolare, l'uomo possiedono nel pensiero e nell'intento di Dio stesso. Specialmente l'uomo deve essere donato e restituito a Dio, se deve essere pienamente restituito a se stesso. Da ciò l'eterna chiamata: «Ritorna a me, poiché io ti ho redento» (Is 44,22). Le parole di Cristo: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri...» ci introducono senza dubbio nell'ambito del consiglio evangelico della povertà, che appartiene all'essenza stessa della vocazione e della professione religiosa.

Al tempo stesso, queste parole possono essere intese in modo più ampio e, in un certo senso, essenziale. Il Maestro di Nazaret invita il suo interlocutore a rinunciare a un programma di vita, nel quale emerge in primo piano la categoria del possesso, quella dell'«avere», e ad accettare, invece, al suo posto un programma incentrato sul valore della persona umana: sull'«essere» personale con tutta la trascendenza che gli è propria.

Una tale comprensione delle parole di Cristo costituisce quasi un più ampio sfondo per l'ideale della povertà evangelica, specialmente di quella povertà che, come consiglio evangelico, appartiene al contenuto essenziale delle vostre mistiche nozze con lo Sposo divino nella Chiesa. Leggendo le parole di Cristo alla luce del principio della superiorità dell'«essere» sull'«avere», specialmente se quest'ultimo è inteso in senso materialistico e utilitaristico, tocchiamo quasi le stesse basi antropologiche della vocazione nel Vangelo. Sullo sfondo dello sviluppo della civiltà contemporanea, questa è una scoperta particolarmente attuale. E per questo diventa attuale la stessa vocazione «alla via della perfezione», così come l'ha tracciata Cristo. Se nell'ambito dell'odierna civiltà, specialmente nel contesto del mondo del benessere consumistico, l'uomo risente dolorosamente l'essenziale deficienza di «essere» personale, che proviene alla sua umanità dall'abbondanza del multiforme «avere», allora egli diventa più disposto ad accogliere questa verità sulla vocazione, qual è stata pronunciata una volta per sempre nel Vangelo. Sì, la chiamata che voi, cari fratelli e sorelle, accogliete entrando nella via della professione religiosa, tocca le radici stesse dell'umanità, le radici del destino dell'uomo nel mondo temporale. L'evangelico «stato di perfezione» non vi distacca da queste radici. Al contrario, esso vi permette di ancorarvi più fortemente in ciò per cui l'uomo è uomo, permeando questa umanità, in diversi modi appesantita dal peccato, col fermento divino-umano del mistero della redenzione.

«Avrai un tesoro nel cielo»

5. La vocazione porta in sé la risposta all'interrogativo: perché essere uomo e come esserlo? Questa risposta dà una nuova dimensione a tutta la vita e stabilisce il suo senso definitivo. Tale senso emerge nell'orizzonte del paradosso evangelico circa la vita che si perde volendo salvarla, e che, al contrario, si salva perdendola «a causa di Cristo e del Vangelo», come leggiamo in Marco.

Alla luce di questa parola acquista piena evidenza la chiamata di Cristo: «Va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». Tra questo «va'» e il successivo «vieni e seguimi» si stabilisce uno stretto rapporto. Si può dire che queste ultime parole determinino l'essenza stessa della vocazione. Si tratta, infatti, di seguire le orme di Cristo («sequi», da cui la «sequela Christi»). I termini «va' - vendi - dallo» sembrano definire la condizione che precede la vocazione. D'altra parte, però, questa condizione non sta «all'esterno» della vocazione, ma si trova già «all'interno» di essa. Infatti, l'uomo fa la scoperta del nuovo senso della propria umanità non solo per «seguire» Cristo, ma in tanto in quanto lo segue. Quando egli «vende ciò che possiede» e «lo dà ai poveri», allora scopre che quei beni e quelle agiatezze, che già possedeva, non erano il tesoro accanto a cui rimanere: il tesoro sta nel suo cuore, reso capace da Cristo di «dare» agli altri, dando se stesso. Ricco non è colui che possiede, ma colui che dà, colui che è capace di dare.

In questo punto il paradosso evangelico acquista una particolare espressività. Diventa un programma dell'essere: essere povero, nel senso dato dal Maestro di Nazaret a un tale «essere», significa diventare nella propria umanità un dispensatore di bene. Ciò parimenti vuol dire scoprire «il tesoro». Questo tesoro è indistruttibile. Esso passa insieme con l'uomo nella dimensione dell'eternità, appartiene all'escatologia divina dell'uomo. Grazie a questo tesoro l'uomo ha il suo definitivo futuro in Dio. Cristo dice: «Avrai un tesoro nel cielo». Questo tesoro non è tanto «un premio» dopo la morte per le opere compiute sull'esempio del divino Maestro, quanto piuttosto è il compimento escatologico di ciò che si nascondeva dietro queste opere già qui, sulla terra, nel «tesoro» interiore del cuore. Lo stesso Cristo, infatti, invitando nel discorso della montagna ad accumulare tesori nel cielo, ha aggiunto: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,20). Queste parole indicano il carattere escatologico della vocazione cristiana e, ancor più, il carattere escatologico della vocazione che si realizza sulla via delle nozze spirituali con Cristo mediante la pratica dei consigli evangelici.

6. La struttura di questa vocazione, quale si desume dalle parole rivolte al giovane nei Vangeli sinottici, si delinea man mano che si scopre il tesoro fondamentale della propria umanità nella prospettiva di quel «tesoro», che l'uomo «ha nel cielo». In questa prospettiva il tesoro fondamentale della propria umanità si collega al fatto di «essere donando se stessi». Il punto diretto di riferimento in una tale vocazione è la persona viva di Gesù Cristo. La chiamata alla via della perfezione prende forma da lui e per lui nello Spirito Santo il quale a sempre nuove persone, uomini e donne, in diversi momenti della loro vita e prevalentemente nella giovinezza, «ricorda» tutto ciò che Cristo «ha detto» e, in particolare, ciò che «disse» al giovane che gli chiedeva: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Attraverso la risposta di Cristo, il quale «fissa con amore» il suo interlocutore, l'intenso fermento del mistero della redenzione penetra la coscienza, il cuore e la volontà di un uomo che cerca con verità e sincerità.

In questo modo la chiamata alla via dei consigli evangelici ha sempre il suo inizio in Dio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». La vocazione, nella quale l'uomo scopre fino in fondo la legge evangelica del dono iscritta nella propria umanità, è essa stessa un dono! E' un dono ricolmo del contenuto più profondo del Vangelo, un dono nel quale si riflette il profilo divino-umano del mistero della redenzione del mondo. «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione» (1Gv 4,10).

III.

CONSACRAZIONE

La professione è un'espressione più perfetta del battesimo

7. La vocazione, cari fratelli e sorelle, vi ha condotti alla professione religiosa, grazie alla quale siete stati consacrati a Dio mediante il ministero della Chiesa e, al tempo stesso, siete stati incorporati nella vostra famiglia religiosa. Perciò la Chiesa pensa a voi, prima di tutto, come a persone «consacrate»: consacrate a Dio in Gesù Cristo come proprietà esclusiva. Questa consacrazione determina il vostro posto nella vasta comunità della Chiesa, del popolo di Dio. Al tempo stesso, essa introduce nella missione universale di questo popolo una speciale risorsa di energia spirituale e soprannaturale: una particolare forma di vita, di testimonianza e di apostolato, in fedeltà alla missione del vostro istituto, alla sua identità e al suo patrimonio spirituale. La missione universale del popolo di Dio si radica nella missione messianica di Cristo stesso - profeta, sacerdote e re -, alla quale tutti partecipano in diversi modi. La forma di partecipazione propria delle persone «consacrate» corrisponde alla forma del vostro radicamento in Cristo. Della profondità e della forza di questo radicamento decide proprio la professione religiosa.

Essa crea un nuovo legame dell'uomo con Dio uno e trino, in Gesù Cristo. Questo legame cresce sul fondamento di quel vincolo originale che è contenuto nel sacramento del battesimo. La professione religiosa «ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale, e ne è un'espressione più perfetta» («Perfectae Caritatis», 5). In tal modo essa diventa, nel suo contenuto costitutivo, una nuova consacrazione: la consacrazione e la donazione della persona umana a Dio, amato sopra ogni cosa. L'impegno, assunto mediante i voti, di attuare i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza secondo le disposizioni proprie delle vostre famiglie religiose, quali sono determinate nelle rispettive costituzioni, rappresenta l'espressione di una totale consacrazione a Dio e, insieme, il mezzo che porta alla sua pratica attuazione. Di qui prendono anche forma la testimonianza e l'apostolato proprio delle persone consacrate. Tuttavia, bisogna cercare la radice di questa consacrazione consapevole e libera, e della conseguente donazione di sé come proprietà a Dio, nel battesimo, sacramento che ci conduce al mistero pasquale come vertice e centro della redenzione compiuta da Cristo.

Pertanto, per mettere pienamente in risalto la realtà della professione religiosa, bisogna rifarsi alle vibranti parole di Paolo nella lettera ai Romani: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo... così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»; «Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché... noi non fossimo più schiavi del peccato»; «Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,3-4.6.11).

La professione religiosa - sulla base sacramentale del battesimo in cui si radica - è una nuova «sepoltura nella morte di Cristo»: nuova mediante la consapevolezza e la scelta; nuova mediante l'amore e la vocazione; nuova mediante l'incessante «conversione». Tale «sepoltura nella morte» fa sì che l'uomo, «sepolto insieme a Cristo», «cammini come Cristo in una vita nuova». In Cristo crocifisso trovano il loro fondamento ultimo sia la consacrazione battesimale, sia la professione dei consigli evangelici, la quale - secondo le parole del Vaticano II - «costituisce una speciale consacrazione». Essa è ad un tempo morte e liberazione. San Paolo scrive: «Consideratevi morti al peccato«; al tempo stesso, tuttavia, chiama questa morte «liberazione dalla schiavitù del peccato». Soprattutto, però, la consacrazione religiosa costituisce, sulla base sacramentale del santo battesimo, una nuova vita «per Dio in Gesù Cristo». Ecco che così, unitamente alla professione dei consigli evangelici, in modo molto più maturo e più consapevole viene «deposto l'uomo vecchio» e, nello stesso modo, «viene rivestito l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera», per adoperare ancora le parole della lettera agli Efesini.

Alleanza dell'amore sponsale

8. Pertanto, cari fratelli e sorelle, tutti voi che nella Chiesa intera vivete l'alleanza della professione dei consigli evangelici, rinnovate in quest'anno santo della redenzione la consapevolezza della vostra speciale partecipazione alla morte in croce del Redentore: di quella partecipazione, cioè, mediante la quale siete risuscitati insieme con lui, e costantemente risorgete a una vita nuova. Il Signore parla a ognuno e a ognuna di voi, così come una volta parlò per mezzo del profeta Isaia: «Non temere, perché io ti ho riscattato, / ti ho chiamato per nome: / tu mi appartieni!» (Is 43,1).

La chiamata evangelica: «Se vuoi essere perfetto... seguimi» ci guida con la luce delle parole del divino Maestro. Dal profondo della redenzione viene la chiamata di Cristo, e da questa profondità essa raggiunge l'anima dell'uomo: in virtù della grazia della redenzione tale chiamata salvifica assume, nell'anima del chiamato, la forma concreta della professione dei consigli evangelici. In questa forma è contenuta la vostra risposta alla chiamata dell'amore redentivo, e questa è anche una risposta d'amore: amore di donazione, che è l'anima della consacrazione, cioè della consacrazione della persona. Le parole di Isaia: «Ti ho riscattato / tu mi appartieni» sembrano sigillare proprio questo amore, che è amore totale ed esclusivo di una consacrazione a Dio.

In tal modo si forma la particolare alleanza dell'amore sponsale, nella quale sembrano risonare con un'eco incessante le parole relative a Israele, che il Signore «si è scelto... come suo possesso» (Sal 134,4). In ogni persona consacrata viene, infatti, scelto l'«Israele» della nuova ed eterna alleanza. L'intero popolo messianico, la Chiesa intera viene eletta in ogni persona che il Signore sceglie in mezzo a questo popolo: in ogni persona che per tutti si consacra a Dio come proprietà esclusiva. Infatti, anche se nessun uomo, nemmeno il più santo, può ripetere le parole di Cristo: «Per loro io consacro me stesso» (Gv 17,19) secondo la potenza redentrice propria di queste parole, tuttavia ognuno, grazie all'amore di donazione, offrendosi come proprietà esclusiva a Dio, può ritrovarsi mediante la fede nel raggio di queste parole.

Non ci richiamano forse a questo le altre parole dell'apostolo nella lettera ai Romani, che tanto spesso ripetiamo e meditiamo: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1)? In queste parole risuona quasi un'eco lontana di colui che, venendo nel mondo e diventando uomo, dice al Padre: «Un corpo mi hai preparato... Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5.7).

Risaliamo dunque - in questo particolare contesto dell'anno giubilare della redenzione - al mistero del corpo e dell'anima di Cristo, come al soggetto integrale dell'amore sponsale e redentivo: sponsale, perché redentivo. Per amore egli offrì se stesso, per amore diede il suo corpo «per il peccato del mondo». Immergendovi mediante la consacrazione dei voti religiosi nel mistero pasquale del Redentore, voi, con l'amore di una donazione totale, desiderate colmare le vostre anime e i vostri corpi dello spirito di sacrificio (Rm 12,1), proprio come vi invita a fare san Paolo con le parole della lettera ai Romani appena riportate: «Offrite i vostri corpi come sacrificio». In questo modo si imprime nella professione religiosa la somiglianza di quell'amore, che nel cuore di Cristo è redentivo e insieme sponsale. E tale amore deve sgorgare in ciascuno di voi, cari fratelli e sorelle, dalla fonte stessa di quella particolare consacrazione che - sulla base sacramentale del santo battesimo - è l'inizio della vostra nuova vita in Cristo e nella Chiesa: è l'inizio della nuova creazione.

Che insieme con quest'amore si approfondisca in ciascuno e ciascuna di voi la gioia di appartenere esclusivamente a Dio, di essere un'eredità particolare della santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Ripetete ogni tanto, insieme col salmista, le ispirate parole: «Chi altri avrò per me in cielo? / Fuori di te nulla bramo sulla terra. / Vengono meno la mia carne e il mio cuore: / ma la roccia del mio cuore è Dio, / è Dio la mia sorte per sempre» (Sal 72,25-26). Oppure le altre: «Ho detto a Dio: "Sei tu il mio Signore, / senza di te non ho alcun bene"... / Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita» (Sal 15,2.5).

La consapevolezza di appartenere a Dio stesso in Gesù Cristo, Redentore del mondo e Sposo della Chiesa, suggelli i vostri cuori, tutti i vostri pensieri, parole e opere, col segno della biblica sposa. Come voi sapete, questa conoscenza ardente e profonda del Cristo si attua e si approfondisce ogni giorno di più grazie alla vita di preghiera personale, comunitaria e liturgica, propria di ciascuna delle vostre famiglie religiose. Anche in ciò, e soprattutto i religiosi e le religiose essenzialmente dedite alla contemplazione, sono un valido aiuto e un sostegno stimolante per i loro fratelli e le loro sorelle, votati alle opere di apostolato. Questa consapevolezza di appartenere a Cristo apra i vostri cuori, pensieri e opere, con la chiave del mistero della redenzione, a tutte le sofferenze, a tutte le necessità e a tutte le speranze degli uomini e del mondo, in mezzo ai quali la vostra consacrazione evangelica è stata innestata come un segno particolare della presenza di Dio, «per il quale tutti vivono», abbracciati dalla dimensione invisibile del suo Regno.

La parola «seguimi», pronunciata da Cristo, quando «fissò e amò» ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, ha anche questo significato: prendi parte, nel modo più completo e più radicale possibile, alla formazione di quella «nuova creatura» (2Cor 5,17), che deve emergere dalla redenzione del mondo mediante la forza dello Spirito di verità, operante dall'abbondanza del mistero pasquale di Cristo.

IV.

CONSIGLI EVANGELICI

Economia della redenzione

9. Mediante la professione si schiude davanti ad ognuno e ognuna di voi la via dei consigli evangelici. Nel Vangelo ci sono molte raccomandazioni che oltrepassano la misura del comandamento, indicando non solo ciò che è «necessario», ma ciò che è «migliore». Così, per esempio, l'esortazione a non giudicare, a prestare «senza sperarne nulla», a soddisfare tutte le richieste e i desideri del prossimo, a invitare a banchetto i poveri, a perdonare sempre, e molte altre simili. Se, seguendo la tradizione, la professione dei consigli evangelici si è concentrata sui tre punti della castità, povertà e obbedienza, tale consuetudine sembra mettere in rilievo in modo sufficientemente chiaro la loro importanza di elementi-chiave e, in un certo senso, «riassuntivi» dell'intera economia della salvezza. Tutto ciò che nel Vangelo è consiglio entra indirettamente nel programma di quella via, alla quale Cristo chiama, quando dice: «Seguimi». Ma la castità, la povertà e l'obbedienza danno a questa via una particolare caratteristica cristocentrica e imprimono su di essa uno specifico segno dell'economia della redenzione.

E' essenziale per questa «economia» la trasformazione del cosmo intero attraverso il cuore dell'uomo, dal di dentro: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere essa pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21). Questa trasformazione va di pari passo con quell'amore, che la chiamata di Cristo infonde nell'interno dell'uomo, con quell'amore che costituisce la sostanza stessa della consacrazione: del votarsi dell'uomo o della donna a Dio nella professione religiosa, sul fondamento della consacrazione sacramentale del battesimo. Possiamo scoprire le basi dell'economia della redenzione leggendo le parole della prima lettera di san Giovanni: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,15-17).

La professione religiosa pone nel cuore di ognuno e ognuna di voi, cari fratelli e sorelle, l'amore del Padre, quell'amore che è nel cuore di Gesù Cristo, redentore del mondo. E' amore, questo, che abbraccia il mondo e tutto ciò che in esso viene dal Padre e che al tempo stesso tende a sconfiggere nel mondo tutto ciò che «non viene dal Padre». Esso tende, dunque, a vincere la triplice concupiscenza. «La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» sono nascoste nell'interno dell'uomo come eredità del peccato originale, in conseguenza del quale il rapporto col mondo creato da Dio e dato in dominio all'uomo, venne deformato nel cuore umano in diversi modi. Nell'economia della redenzione i consigli evangelici di castità, di povertà e di obbedienza costituiscono i mezzi più radicali per trasformare nel cuore dell'uomo tale rapporto con «il mondo»: col mondo esterno e col proprio «io», il quale in un certo senso è la parte centrale «del mondo» nel significato biblico, se in esso prende inizio ciò che «non viene dal Padre».

Sullo sfondo delle frasi riportate dalla prima lettera di san Giovanni non è difficile notare la fondamentale importanza dei tre consigli evangelici nell'intera economia della redenzione. Difatti, la castità evangelica ci aiuta a trasformare nella nostra vita interiore tutto ciò che trova la sua fonte nella concupiscenza della carne; la povertà evangelica ciò che ha la sua fonte nella concupiscenza degli occhi; infine, l'obbedienza evangelica ci permette di trasformare in modo radicale ciò che nel cuore umano scaturisce dalla superbia della vita. Parliamo qui volutamente del superamento come di una trasformazione, poiché l'intera economia della redenzione si inquadra nella cornice delle parole, rivolte da Cristo nella preghiera sacerdotale al Padre: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17,15). I consigli evangelici nella loro essenziale finalità servono «al rinnovamento della creazione»: «il mondo», grazie ad essi, deve venire sottomesso all'uomo e a lui dato in modo che l'uomo stesso sia perfettamente donato a Dio.

Partecipazione all'annientamento di Cristo

10. La finalità interiore dei consigli evangelici conduce alla scoperta di altri aspetti ancora, che ne mettono in rilievo lo stretto rapporto con l'economia della redenzione. Si sa che questa trova il suo punto culminante nel mistero pasquale di Gesù Cristo, nel quale vengono uniti l'annientamento mediante la morte e la nascita a una nuova vita mediante la risurrezione. La pratica dei consigli evangelici contiene in sé un profondo riflesso di questa dualità pasquale: l'inevitabile annientamento di ciò che in ognuno di noi è il peccato e il suo retaggio e la possibilità di rinascere ogni giorno a un bene più profondo, nascosto nell'anima umana. Questo bene si manifesta sotto l'azione della grazia, alla quale la pratica della castità, della povertà e dell'obbedienza rende particolarmente sensibile l'anima dell'uomo. L'intera economia della redenzione si realizza proprio mediante questa sensibilità alla misteriosa azione dello Spirito Santo che è l'artefice diretto di ogni santità. Su questa via la professione dei consigli evangelici schiude in ognuno e in ognuna di voi, cari fratelli e sorelle, un ampio spazio alla «creatura nuova», che emerge nel vostro «io» umano proprio dall'economia della redenzione e, attraverso questo «io» umano, anche nelle dimensioni interpersonali e sociali. Al tempo stesso, pertanto, emerge nell'umanità, quale parte del mondo creato da Dio: di quel mondo, che il Padre amò «di nuovo» nel Figlio eterno, Redentore del mondo.

Di questo Figlio dice san Paolo che «pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). La caratteristica dell'annientamento contenuta nella pratica dei consigli evangelici, dunque, è caratteristica completamente cristocentrica. E perciò anche il Maestro di Nazaret indica esplicitamente la croce come condizione per seguire le sue orme. Colui che un giorno disse a ognuno e a ognuna di voi «Seguimi», ha detto anche: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (= cammini sulle mie orme). E ciò diceva a tutti i suoi ascoltatori, non solo ai discepoli. La legge della rinuncia appartiene, dunque, all'essenza stessa della vocazione cristiana. Tuttavia, essa in modo speciale appartiene all'essenza della vocazione legata alla professione dei consigli evangelici. A coloro che si trovano sulla via di questa vocazione parleranno con un linguaggio comprensibile anche quelle difficili espressioni, che leggiamo nella lettera ai Filippesi: per lui «ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui» (Fil 3,8-9).

Rinuncia, quindi - riflesso del mistero del Calvario -, per «trovarsi» più pienamente in Cristo crocifisso e risorto; rinuncia, per riconoscere in lui fino in fondo il mistero della propria umanità e confermarlo sulla via di quel mirabile processo, del quale lo stesso apostolo scrive in un altro luogo: «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 19,11). In questo modo l'economia della redenzione trasferisce la potenza del mistero pasquale sul terreno dell'umanità, docile alla chiamata di Cristo alla vita in castità, in povertà e in obbedienza, ossia alla vita secondo i consigli evangelici.

V.

CASTITA'-POVERTA'-OBBEDIENZA

Castità

11. Il profilo pasquale di questa chiamata si fa riconoscere sotto vari punti di vista, in rapporto ad ogni singolo consiglio. E', infatti, secondo la misura dell'economia della redenzione che bisogna giudicare e praticare quella castità, che ognuno e ognuna di voi ha promesso con voto insieme con la povertà e l'obbedienza. E' contenuta in ciò la risposta alle parole di Cristo, che sono al tempo stesso un invito: «E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca». Precedentemente Cristo aveva sottolineato che «non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso». Queste ultime parole mettono chiaramente in evidenza che tale invito è un consiglio. A ciò anche l'apostolo Paolo ha dedicato un'apposita riflessione nella prima lettera ai Corinzi. Questo consiglio è rivolto in modo particolare all'amore del cuore umano. Esso mette maggiormente in risalto il carattere sponsale di questo amore, mentre la povertà e ancor più l'obbedienza sembrano porre in rilievo, prima di tutto, l'aspetto dell'amore redentivo contenuto nella consacrazione religiosa. Si tratta qui - come si sa - della castità nel senso «del farsi eunuchi per il regno dei cieli»; si tratta, cioè, della verginità come espressione dell'amore sponsale per il Redentore stesso. In questo senso l'apostolo insegna che «fa bene» colui che sceglie il matrimonio, e «fa meglio» colui che sceglie la verginità. «Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore», e «la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito» (1Cor 7,38.32.34).

Non è contenuta - nelle parole di Cristo né in quelle di Paolo - alcuna disistima del matrimonio. Il consiglio evangelico della castità è solo un'indicazione di quella particolare possibilità che per il cuore umano, sia dell'uomo sia della donna, costituisce l'amore sponsale di Cristo stesso, di Gesù «Signore». Il «farsi eunuchi per il regno dei cieli», infatti, non è solo una libera rinuncia al matrimonio e alla vita di famiglia, ma è una scelta carismatica di Cristo come sposo esclusivo. Tale scelta non solo permette specificamente di «preoccuparsi delle cose del Signore», ma - fatta «per il regno dei cieli» - avvicina questo regno escatologico di Dio alla vita di tutti gli uomini nelle condizioni della temporalità e lo rende, in un certo modo, presente in mezzo al mondo.

Mediante ciò le persone consacrate realizzano l'interiore finalità dell'intera economia della redenzione. Questa finalità si esprime, infatti, nell'avvicinare il regno di Dio nella sua dimensione definitiva, escatologica. Per mezzo del voto di castità le persone consacrate partecipano all'economia della redenzione con la libera rinuncia alle gioie temporali della vita matrimoniale e familiare; e, d'altra parte, proprio nel loro «farsi eunuchi per il regno dei cieli», esse portano in mezzo al mondo che passa l'annuncio della risurrezione futura e della vita eterna: della vita in unione con Dio stesso mediante la visione beatifica e l'amore che contiene in sé e intimamente pervade tutti gli altri amori del cuore umano.

Povertà

12. Quanto sono espressive in materia di povertà le parole della seconda lettera ai Corinzi, che costituiscono una concisa sintesi di tutto ciò che su questo tema sentiamo nel Vangelo! «Conoscete, infatti, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, egli si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Secondo queste parole la povertà entra nella struttura interiore della stessa grazia redentrice di Gesù Cristo. Senza la povertà non è possibile comprendere il mistero della donazione della divinità all'uomo, donazione che si è compiuta proprio in Gesù Cristo. Anche per questo essa si trova al centro stesso del Vangelo, all'inizio del messaggio delle otto beatitudini: «Beati i poveri in spirito». La povertà evangelica schiude davanti agli occhi dell'anima umana la prospettiva dell'intero mistero, «nascosto da secoli nella mente di Dio». Solamente coloro che sono in questo modo «poveri» sono anche interiormente capaci di comprendere la povertà di colui che è infinitamente ricco. La povertà di Cristo nasconde in sé questa infinita ricchezza di Dio; essa ne è anzi un'espressione infallibile. Una ricchezza, infatti, qual è la divinità stessa, non si sarebbe potuta esprimere adeguatamente in nessun bene creato. Essa può esprimersi solamente nella povertà. Perciò, può essere compresa in modo giusto solamente dai poveri, dai poveri in spirito. Cristo, uomo-Dio, è il primo di essi: colui che, «da ricco che era, si è fatto povero» non solo è il maestro, ma è anche il portavoce e il garante di quella povertà salvifica, che corrisponde all'infinita ricchezza di Dio e all'inesauribile potenza della sua grazia.

E perciò è pure vero - come scrive l'Apostolo - che «per mezzo della sua povertà noi diventiamo ricchi». E' il maestro e il portavoce della povertà che arricchisce. Proprio per questo egli dice al giovane nei Vangeli sinottici: «Vendi quello che possiedi... dallo... e avrai un tesoro nel cielo» (Mt 19,21). C'è in queste parole una chiamata ad arricchire gli altri per mezzo della propria povertà; ma nel profondo di questa chiamata è nascosta la testimonianza dell'infinita ricchezza di Dio che, trasferita all'anima umana nel mistero della grazia, crea nell'uomo stesso, appunto mediante la povertà, una sorgente per arricchire gli altri non comparabile con alcun'altra risorsa di beni materiali, una sorgente per gratificare gli altri a somiglianza di Dio stesso. Questa elargizione si realizza nell'ambito del mistero di Cristo, il quale «ci ha reso ricchi per mezzo della sua povertà». Vediamo come questo processo di arricchimento si svolge nelle pagine del Vangelo, trovando il suo culmine nell'evento pasquale: Cristo, il più povero nella morte di croce, è insieme colui che ci arricchisce infinitamente con la pienezza della vita nuova, mediante la risurrezione.

Cari fratelli e sorelle, poveri in spirito mediante la professione evangelica, accogliete in tutta la vostra vita questo profilo salvifico della povertà di Cristo. Cercate giorno per giorno la sua sempre maggiore maturazione! Cercate soprattutto «il regno di Dio e la sua giustizia», e le altre cose «vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Che in voi e per mezzo vostro si compia la beatitudine evangelica che è riservata ai poveri, ai poveri in spirito!

Obbedienza

13. Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

Tocchiamo qui, in queste parole della lettera di Paolo ai Filippesi, l'essenza stessa della redenzione. In questa realtà è inscritta in modo primario e costitutivo l'obbedienza di Gesù Cristo. Confermano tale dato anche le altre parole dell'apostolo, tratte questa volta dalla lettera ai Romani: «Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).

Il consiglio evangelico dell'obbedienza è la chiamata che scaturisce da questa obbedienza di Cristo «fino alla morte». Coloro che accolgono questa chiamata, espressa con la parola «seguimi», decidono - come dice il Concilio - di seguire Cristo, «che redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte di croce» («Perfectae Caritatis», 1). Nell'attuare il consiglio evangelico dell'obbedienza, essi raggiungono l'essenza profonda dell'intera economia della redenzione. Nell'adempiere questo consiglio, essi desiderano conseguire una speciale partecipazione all'obbedienza di quell'«uno solo», mediante l'obbedienza del quale tutti «saranno costituiti giusti».

Si può dire, dunque, che coloro che decidono di vivere secondo il consiglio dell'obbedienza, si collocano in modo singolare tra il mistero del peccato e il mistero della giustificazione e della grazia salvifica. Si trovano in questo «luogo» con tutto il sottofondo peccaminoso della propria natura umana, con tutta l'eredità «della superbia della vita», con tutta l'egoistica tendenza a dominare e non a servire, e proprio mediante il voto di obbedienza si decidono a trasformarsi a somiglianza di Cristo, il quale «redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza». Nel consiglio dell'obbedienza essi desiderano trovare il proprio ruolo nella redenzione di Cristo e la propria via di santificazione.

E' questa la via che Cristo ha tracciato nel Vangelo, parlando molte volte del compimento della volontà di Dio, dell'incessante ricerca di essa. «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato a compiere la sua opera». «Perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». «Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite». «Perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». Questo compimento costante della volontà del Padre fa pensare anche a quella confessione messianica del salmista dell'antica alleanza: «Sul rotolo del libro di me è scritto: che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore» (Gv 4,34; 5,30; 6,38).

Tale obbedienza del Figlio - piena di gioia - raggiunge il suo zenit di fronte alla passione e alla croce: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Sin dalla preghiera nel Getsemani la disponibilità di Cristo a compiere la volontà del Padre si riempie fino all'orlo di sofferenza, diventa quell'obbedienza «fino alla morte e alla morte di croce», di cui parla san Paolo.

Mediante il voto di obbedienza le persone consacrate decidono di imitare con umiltà in modo particolare l'obbedienza del Redentore. Benché, infatti, la sottomissione alla volontà di Dio e l'obbedienza alla sua legge siano per ogni stato condizione di vita cristiana, tuttavia nello «stato religioso», nello «stato di perfezione», il voto di obbedienza stabilisce nel cuore di ciascuno e di ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, il dovere di uno speciale riferimento a Cristo «obbediente fino alla morte». E poiché questa obbedienza di Cristo costituisce il nucleo essenziale dell'opera della redenzione, come risulta dalle parole sopra citate dell'Apostolo, perciò anche nell'adempiere il consiglio evangelico dell'obbedienza si deve scorgere un momento particolare di quell'«economia della redenzione», che pervade tutta la vostra vocazione nella Chiesa.

Di qui scaturisce quella «disponibilità totale allo Spirito Santo», che agisce innanzitutto nella Chiesa, come si esprime il mio predecessore Paolo VI nell'esortazione apostolica «Evangelica Testificatio», ma che si manifesta, altresì, nelle costituzioni dei vostri istituti. Di qui scaturisce quella religiosa sottomissione, che in spirito di fede le persone consacrate dimostrano ai propri superiori legittimi, che tengono il posto di Dio. Nella lettera agli Ebrei troviamo su questo tema un'indicazione molto significativa: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, come chi ha da renderne conto». E l'autore della lettera aggiunge: «Obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi» (Eb 13,17).

I superiori, d'altra parte, memori di dover esercitare in spirito di servizio la potestà loro conferita per il tramite del ministero della Chiesa, si mostreranno disponibili all'ascolto dei propri fratelli per discernere meglio quanto il Signore richiede da ciascuno, ferma restando l'autorità loro propria di decidere e di comandare ciò che riterranno opportuno.

Di pari passo con la sottomissione-obbedienza così concepita va l'atteggiamento di servizio, che informa tutta la vostra vita ad esempio del Figlio dell'uomo, il quale «non venne per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). E la sua Madre, nel momento decisivo dell'annunciazione-incarnazione, penetrando sin dall'inizio in tutta l'economia salvifica della redenzione, disse: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).

Ricordate anche, cari fratelli e sorelle, che l'obbedienza a cui vi siete impegnati, consacrandovi senza riserva a Dio mediante la professione dei consigli evangelici, è una particolare espressione della libertà interiore, così come definitiva espressione della libertà di Cristo fu la sua obbedienza «fino alla morte»: «Io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Gv 10,17-18).

VI.

AMORE ALLA CHIESA

Testimonianza

14. Nell'anno giubilare della redenzione la Chiesa intera desidera rinnovare il suo amore verso Cristo, Redentore dell'uomo e del mondo, suo Signore e insieme suo Sposo divino. E perciò in questo anno santo essa guarda con singolare attenzione a voi, cari fratelli e sorelle, che, come persone consacrate, occupate un posto speciale sia nella comunità universale del popolo di Dio, sia in ogni comunità locale. Se la Chiesa desidera che mediante la grazia del giubileo straordinario si rinnovi anche il vostro amore verso Cristo, al tempo stesso essa è pienamente consapevole che questo amore costituisce un bene speciale dell'intero popolo di Dio. La Chiesa è consapevole che, nell'amore che Cristo riceve dalle persone consacrate, l'amore dell'intero corpo viene indirizzato in modo speciale ed eccezionale verso lo sposo, che in pari tempo è capo di questo corpo. La Chiesa vi esprime, cari fratelli e sorelle, la sua gratitudine per la consacrazione e per la professione dei consigli evangelici, che sono una particolare testimonianza d'amore. Essa, nello stesso tempo, riconferma la sua grande fiducia in voi, che avete scelto uno stato di vita che è un dono speciale di Dio alla sua Chiesa. Essa conta sulla vostra collaborazione completa e generosa, affinché, come fedeli amministratori di così prezioso dono, voi «sentiate con la Chiesa» e sempre collaboriate con essa, in conformità con gli insegnamenti e con le direttive del magistero di Pietro e dei pastori in comunione con lui, coltivando, a livello personale e comunitario, una rinnovata coscienza ecclesiale. E contemporaneamente essa prega per voi, affinché la vostra testimonianza d'amore non venga mai meno, e vi chiede anche di accogliere con questo spirito il presente messaggio dell'anno giubilare della redenzione.

Proprio così pregava l'Apostolo nella sua lettera ai Filippesi: «che la vostra carità si arricchisca sempre più... in ogni genere di discernimento, perché possiate sempre distinguere il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi del frutto di giustizia» (Fil 1,9-11).

Per opera della redenzione di Cristo «l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato». Chiedo incessantemente allo Spirito Santo di concedere a ciascuno e a ciascuna di voi, «secondo il proprio dono», di dare una particolare testimonianza di quest'amore. Vinca in voi, in modo degno della vostra vocazione, «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù...», quella legge che ci ha «liberato dalla legge...della morte». Vivete, dunque, di questa vita nuova a misura della vostra consacrazione e anche a misura dei diversi doni di Dio, che corrispondono alla vocazione delle singole famiglie religiose. La professione dei consigli evangelici indica a ciascuno e a ciascuna di voi in quale modo potete «con l'aiuto dello Spirito Santo far morire» tutto ciò che è contrario alla vita e serve al peccato e alla morte, tutto ciò che si oppone al vero amore di Dio e degli uomini. Il mondo ha bisogno dell'autentica «contraddizione» della consacrazione religiosa, come incessante lievito del rinnovamento salvifico. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 8,2.13; 12,2). Dopo lo speciale periodo di sperimentazione e di aggiornamento, previsto dal motu proprio «Ecclesiae Sanctae», i vostri istituti hanno ricevuto recentemente o si apprestano a ricevere l'approvazione della Chiesa alle costituzioni rinnovate. Che tale dono della Chiesa vi stimoli a conoscerle, ad amarle e, soprattutto, a viverle nella generosità e nella fedeltà, ricordando che l'obbedienza è una manifestazione non equivoca dell'amore.

Proprio di questa testimonianza d'amore hanno bisogno il mondo d'oggi e l'umanità. Essi hanno bisogno della testimonianza della redenzione, così come questa è impressa nella professione dei consigli evangelici. Questi consigli, ognuno nel modo a lui proprio, e tutti insieme nella loro intima connessione, «rendono testimonianza» alla redenzione, che, con la potenza della croce e della risurrezione di Cristo, guida il mondo e l'umanità nello Spirito Santo verso quel compimento definitivo, che l'uomo - e, per mezzo dell'uomo, la creazione intera - trovano in Dio, e solo in Dio. La vostra testimonianza, perciò, è inestimabile. Bisogna adoperarsi con costanza, affinché essa sia pienamente trasparente e pienamente fruttuosa in mezzo agli uomini. A ciò gioverà, altresì, l'osservanza fedele delle norme della Chiesa che riguardano la manifestazione anche esterna della vostra consacrazione e del vostro impegno di povertà.

Apostolato

15. Da tale testimonianza di amore sponsale per Cristo, attraverso la quale diventa particolarmente visibile tra gli uomini l'intera verità salvifica del Vangelo, nasce anche, cari fratelli e sorelle, come propria della vostra vocazione, la partecipazione all'apostolato della Chiesa, alla sua missione universale, la quale si realizza contemporaneamente in mezzo a tutte le nazioni in tanti modi diversi e mediante la molteplicità dei doni elargiti da Dio. La vostra missione specifica va armoniosamente di pari passo con la missione degli apostoli, che il Signore inviò «in tutto il mondo» per «ammaestrare tutte le nazioni», ed è unita, altresì, a questa missione dell'ordine gerarchico. Nell'apostolato, che svolgono le persone consacrate, il loro amore sponsale per Cristo diventa in modo quasi organico amore per la Chiesa come corpo di Cristo, per la Chiesa come popolo di Dio, per la Chiesa che è insieme sposa e madre.

E' difficile descrivere, anzi persino elencare, in quanti modi diversi le persone consacrate realizzino, mediante l'apostolato, il loro amore verso la Chiesa. Esso è sempre nato da quel dono particolare dei vostri Fondatori, che, ricevuto da Dio e approvato dalla Chiesa, è divenuto un carisma per l'intera comunità. Quel dono corrisponde alle diverse necessità della Chiesa e del mondo nei singoli momenti della storia, e a sua volta si prolunga e si consolida nella vita delle comunità religiose come uno degli elementi duraturi della vita e dell'Apostolato della Chiesa. In ognuno di questi elementi, in ogni campo - sia in quello della contemplazione feconda per l'apostolato, sia in quello dell'azione direttamente apostolica - vi accompagna la costante benedizione della Chiesa, e insieme la sua pastorale e materna sollecitudine per quanto riguarda l'identità spirituale della vostra vita e la rettitudine del vostro operare in seno alla grande comunità universale delle vocazioni e dei carismi dell'intero popolo di Dio. Sia per mezzo di ciascuno degli istituti separatamente presi, sia mediante la loro organica integrazione, nel complesso della missione della Chiesa è posta in particolare risalto quell'economia della redenzione, il cui segno profondo ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, porta in sé mediante la consacrazione e la professione dei consigli evangelici.

E perciò, anche se sono estremamente importanti le molteplici opere apostoliche che svolgete, tuttavia l'opera di apostolato veramente fondamentale rimane sempre ciò che (e insieme chi) voi siete nella Chiesa. Di ciascuno e di ciascuna di voi si possono ripetere, a titolo speciale, queste parole dell'Apostolo: «Voi, infatti, siete morti, e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). E al tempo stesso questo «essere nascosti con Cristo in Dio» permette di riferire a voi le parole del Maestro stesso: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16).

Per questa luce, con la quale dovete «risplendere davanti agli uomini», è importante tra voi la testimonianza della reciproca carità, legata allo spirito fraterno di ogni comunità, poiché il Signore ha detto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

La natura fondamentalmente comunitaria della vostra vita religiosa, nutrita della dottrina evangelica, della sacra liturgia e, soprattutto, dell'eucaristia, costituisce un modo privilegiato di realizzare questa dimensione interpersonale e sociale: prevenendovi con premure reciproche, portando i pesi gli uni degli altri, voi manifestate con la vostra unità che il Cristo è vivo in mezzo a voi. E' importante per il vostro apostolato nella Chiesa ogni sensibilità alle necessità e alle sofferenze dell'uomo, quali si mostrano così apertamente e in modo così toccante nel mondo d'oggi. Infatti, l'Apostolo insegna: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo»; e aggiunge che «pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,10).

La vostra missione deve essere visibile! Deve essere profondo, molto profondo il legame che la unisce alla Chiesa! Mediante tutto ciò che fate e, soprattutto, mediante tutto ciò che siete, sia proclamata e riconfermata la verità che «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25), la verità che sta alla base dell'intera economia della redenzione. Che da Cristo, redentore del mondo, zampilli anche l'inesauribile fonte del vostro amore per la Chiesa!

VII.

CONCLUSIONE

Illuminati gli occhi della mente

16. Questa esortazione, che vi indirizzo nella solennità dell'Annunciazione dell'anno giubilare della redenzione, vuol essere espressione di quell'amore, che la Chiesa nutre per i religiosi e per le religiose. Voi, infatti, cari fratelli e sorelle, siete un bene speciale della Chiesa. E questo bene diventa ancor più comprensibile mediante la meditazione della realtà della redenzione, per la quale il corrente anno santo offre una costante occasione e un felice incoraggiamento. Riconoscete, dunque, in questa luce, la vostra identità e la vostra dignità. Che lo Spirito Santo - per opera della croce e della risurrezione di Cristo - «possa davvero illuminare gli occhi della vostra mente, per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,18).

Questi «occhi illuminati della mente» la Chiesa chiede incessantemente per ciascuno e ciascuna di voi, che già siete entrati nella via della professione dei consigli evangelici. Gli stessi «occhi illuminati» la Chiesa, insieme con voi, chiede per tanti cristiani, specialmente per la gioventù maschile e femminile, affinché essi possano scoprire questa via e non abbiano paura di intraprenderla, affinché - anche in mezzo alle avverse circostanze della vita d'oggi - possano udire il «seguimi» di Cristo. Voi pure dovete adoperarvi a questo fine con la vostra preghiera e anche con la testimonianza di quell'amore, per il quale «Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1Gv 4,12). Che questa testimonianza diventi dappertutto presente e universalmente leggibile. Che l'uomo dei nostri tempi, spiritualmente affaticato, trovi in essa sostegno e speranza. Servite perciò i fratelli con la gioia, che sgorga da un cuore abitato da Cristo. «Possa il mondo del nostro tempo... ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati... ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» («Evangelii Nuntiandi», 80).

La Chiesa, nel suo amore per voi, non cessa «di piegare le ginocchia davanti al Padre», perché operi in voi «il rafforzamento dell'uomo interiore», e come in voi, così lo operi anche in tanti altri nostri fratelli e sorelle battezzati, specialmente giovani, affinché trovino la stessa via alla santità, che nella storia hanno percorso tante generazioni insieme con Cristo - redentore del mondo e sposo delle anime -, lasciando spesso dietro di sé l'alone intenso della luce di Dio sullo sfondo di grigiore e di tenebre dell'umana esistenza.

A tutti voi, che percorrete questa strada nella presente fase della storia della Chiesa e del mondo, si rivolge questo fervido augurio nell'anno giubilare della redenzione, affinché «radicati e fondati nella carità siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio».

Messaggio della solennità dell'annunciazione del Signore

17. Nella festività dell'Annunciazione di quest'anno santo depongo la presente esortazione nel cuore della Vergine immacolata. Tra tutte le persone consacrate senza riserva a Dio, ella è la prima. Ella - la Vergine di Nazaret - è anche la più pienamente consacrata a Dio, consacrata nel modo più perfetto. Il suo amore sponsale raggiunge il vertice nella maternità divina per la potenza dello Spirito Santo. Ella, che come Madre porta Cristo sulle braccia, al tempo stesso realizza nel modo più perfetto la sua chiamata: «seguimi». E lo segue - ella, la Madre - come suo maestro in castità, in povertà e in obbedienza.

Quanto fu povera nella notte di Betlemme, e quanto povera sul Calvario! Quanto fu obbediente durante l'annunciazione, e poi - ai piedi della croce - obbediente fino a consentire alla morte del Figlio, il quale si era fatto obbediente «fino alla morte»! Quanto fu dedita in tutta la sua vita terrena alla causa del regno dei cieli per castissimo amore!

Se la Chiesa intera trova in Maria il suo primo modello, a maggior ragione lo trovate voi, persone e comunità consacrate all'interno della Chiesa! Nel giorno che riporta alla memoria l'inaugurazione del giubileo della redenzione, avvenuta lo scorso anno, mi rivolgo a voi col presente messaggio, per invitarvi a ravvivare la vostra consacrazione religiosa secondo il modello della consacrazione della stessa Genitrice di Dio.

Diletti fratelli e sorelle! «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del figlio suo Gesù Cristo» (1Cor 1,9). Perseverando nella fedeltà a colui che è fedele, sforzatevi di cercare un sostegno specialissimo in Maria! Ella, infatti, è stata chiamata da Dio alla comunione più perfetta col Figlio suo. Sia ella, la Vergine fedele, anche la Madre nella vostra via evangelica: vi aiuti a sperimentare e a dimostrare davanti al mondo quanto infinitamente fedele è Dio stesso!

Con questi voti di gran cuore vi benedico.

Dal Vaticano, il 25 marzo dell'anno giubilare della redenzione 1984, sesto di pontificato.

 

 

Reconciliatio et paenitentia

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POST-SINODALE
RECONCILIATIO ET PAENITENTIA
DI
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA RICONCILIAZIONE E LA PENITENZA
NELLA MISSIONE DELLA CHIESA OGGI

PROEMIO

ORIGINE E SIGNIFICATO DEL DOCUMENTO

1. Parlare di riconciliazione e penitenza è, per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel loro linguaggio, le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesù Cristo volle inaugurare la sua predicazione: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), accogliete, cioè, la lieta novella dell'amore, dell'adozione a figli di Dio e, quindi, della fratellanza.

Perché la Chiesa ripropone questo tema e questo invito? L'ansia di conoscere meglio e di comprendere l'uomo d'oggi e il mondo contemporaneo, di decifrarne l'enigma e di svelarne il mistero, di discernere i fermenti di bene o di male che vi si agitano, da non poco tempo ormai porta molti a rivolgere a questo uomo e a questo mondo uno sguardo interrogativo. E' lo sguardo dello storico e del sociologo, del filosofo e del teologo, dello psicologo e dell'umanista, del poeta e del mistico: è, soprattutto, lo sguardo preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.

Un tale sguardo si rivela in maniera esemplare in ciascuna pagina dell'importante costituzione pastorale del Concilio Vaticano II «Gaudium et Spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, particolarmente nella sua ampia e penetrante introduzione. Esso si rivela, altresì, in taluni documenti emanati dalla sapienza e dalla carità pastorale dei miei venerati predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati dall'evento storico e profetico di quel Concilio ecumenico.

Come gli altri sguardi, anche quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell'umanità del nostro tempo, l'esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.

Un mondo frantumato

2. Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto.

Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt'altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il terrorismo; 6) l'uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione; 7) l'accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l'immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l'iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più. La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.

D'altra parte, poiché la Chiesa, senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l'umana società. Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.

Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell'intimo dell'uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un'eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.

Nostalgia di riconciliazione

3. Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un'essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.

Per taluni si tratta quasi di un'utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per altri, invece, è oggetto di un'ardua conquista e, quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso, l'aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di un'incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale - tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.

Tuttavia, la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato.

Lo sguardo del Sinodo

4. Pertanto, ogni istituzione o organizzazione, volta a servire l'uomo e interessata a salvarlo nelle sue dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante alla riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena portata e trarne le necessarie conseguenze operative.

A questo sguardo non poteva rinunciare la Chiesa di Gesù Cristo. Con dedizione di madre e intelligenza di maestra, essa si applica, premurosa e attenta, a raccogliere dalla società, con i segni della divisione, anche quelli non meno eloquenti e significativi della ricerca di una riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata data la possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso vero, profondamente religioso, e le dimensioni integrali della riconciliazione, contribuendo, già solo per questo, a chiarire i termini essenziali della questione dell'unità e della pace.

I miei predecessori non hanno cessato di predicare la riconciliazione, di invitare ad essa l'intera umanità, nonché ogni ceto e ogni porzione della comunità umana che vedevano lacerata e divisa. E io stesso, per un impulso interiore che obbediva a un tempo - ne son certo - all'ispirazione dall'alto e agli appelli dell'umanità, in due modi diversi, ambedue solenni e impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della riconciliazione: in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro dell'anno giubilare, indetto per celebrare il 1950· anniversario della redenzione. Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato pienamente consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli nell'episcopato, cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in stretto collegamento con quello della penitenza.

Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l'intimo cambiamento del cuore sotto l'influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta l'esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l'ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell'uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all'intera vita del cristiano.

In ciascuno di questi significati la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza soltanto attraverso la trasformazione interiore o conversione, che fruttifica nella vita mediante gli atti di penitenza.

Il documento-base del Sinodo (chiamato anche «Lineamenta»), preparato all'unico scopo di presentare il tema accentuandone alcuni aspetti fondamentali, ha consentito alle comunità ecclesiali, ovunque esistenti nel mondo, di riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una questione - quella della conversione e della riconciliazione - che interessa tutti, e di trarne, altresì, un rinnovato slancio per la vita e l'apostolato cristiano. La riflessione si è ulteriormente approfondita, in preparazione più immediata ai lavori sinodali, grazie all'«Instrumentum laboris», inviato tempestivamente ai vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero, i padri sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all'assise propriamente detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema stesso e le questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal dibattito, dallo studio comune, dall'assidua e accurata ricerca è scaturito un ampio e prezioso tesoro, che le «Propositiones» finali riassumono nella sua sostanza.

Lo sguardo del Sinodo non ignora gli atti di riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi inosservati nella loro quotidianità), che pur in varia misura servono a risolvere le tante tensioni, a superare i tanti conflitti e a vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo l'unità. Ma la preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una riconciliazione, per così dire, «fontale», operante nel cuore e nella coscienza dell'uomo.

Il carisma e, nel contempo, l'originalità della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a qualunque livello sia da effettuare, risiedono nel fatto che essa risale sempre a quella riconciliazione fontale. In forza, infatti, della sua missione essenziale, la Chiesa sente il dovere di giungere fino alle radici della lacerazione primigenia del peccato, per operarvi il risanamento e ristabilirvi, per così dire, una riconciliazione anch'essa primigenia, che sia principio efficace di ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha proposto mediante il Sinodo.

Di questa riconciliazione parla la Sacra Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Cor 5,20); ma dice, altresì, che essa è, anzitutto, un dono misericordioso di Dio all'uomo (Rm 5,11). La storia della salvezza - quella dell'intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi tempo - è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova famiglia di riconciliati.

La riconciliazione si fa necessaria, perché c'è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre forme di rottura nell'intimo dell'uomo e intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue più profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà, o parlare dell'una tacendo dell'altra.

Al tempo stesso, il Sinodo ha parlato della riconciliazione di tutta la famiglia umana e della conversione del cuore di ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo riconoscere e proclamare che l'unione degli uomini non può darsi senza un cambiamento interno di ciascuno. La conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone («Gaudium et Spes»,10). Quando la Chiesa proclama la lieta novella della riconciliazione, o propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un vero ruolo profetico, denunciando i mali dell'uomo nella loro sorgente contaminata, indicando la radice delle divisioni e infondendo la speranza di poter superare le tensioni e i conflitti per giungere alla fratellanza, alla concordia e alla pace a tutti i livelli e in tutti i ceti dell'umana società. Essa cambia una condizione storica di odio e di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a tutti il principio evangelico e sacramentale di quella riconciliazione «fontale», dalla quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione, anche a livello sociale.

Di tale riconciliazione, frutto della conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era accaduto al termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli stessi padri hanno voluto anche questa volta consegnare al vescovo di Roma, pastore universale della Chiesa e capo del collegio episcopale, nella sua qualità di presidente del Sinodo, le conclusioni del loro lavoro. Ho accettato, come un grave e grato dovere del mio ministero, il compito di attingere all'ingente dovizia del Sinodo per offrire al popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un messaggio dottrinale e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione. Tratterò, pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua missione riconciliatrice, nell'opera di conversione dei cuori per il rinnovato abbraccio fra l'uomo e Dio, fra l'uomo e il suo fratello, fra l'uomo e tutto il creato. Nella seconda parte sarà indicata la causa radicale di ogni lacerazione o divisione fra gli uomini e, prima di tutto, nei confronti di Dio: il peccato. Infine, segnalerò quei mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di suscitare la piena riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza, degli uomini fra di loro.

Il documento, che ora consegno ai figli della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad essa guardano con interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa risposta a quanto il Sinodo mi ha chiesto. Ma è anche - tengo a dichiararlo per soddisfare un debito di verità e di giustizia - opera del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste pagine, infatti, proviene da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione, dall'«Instrumentum laboris», dagli interventi nell'aula sinodale e nei «circuli minores» e, soprattutto, dalle sessantatré «Propositiones». Si trova qui il frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico, spirituale e liturgico è così ricco e venerando anche in ordine alla materia che qui ci interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria del Sinodo ha valutato in due importanti sedute i risultati e gli orientamenti dell'assise sinodale appena conclusa, ha messo in evidenza la dinamica delle suddette «Propositiones» e ha tracciato, poi, le linee ritenute più idonee per la stesura del presente documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro, mentre, fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel tesoro dottrinale e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per la vita di tanti uomini in quest'ora magnifica e difficile della storia.

Giova farlo - e risulta quanto mai significativo - mentre è ancor vivo il ricordo dell'anno santo, interamente vissuto nel segno della penitenza, conversione e riconciliazione. Che questa mia esortazione, affidata ai fratelli nell'episcopato e ai loro collaboratori presbiteri e diaconi, ai religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e alle donne di retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede personale, ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del mondo la pace e la fratellanza, la speranza e la gioia, valori che scaturiscono dal Vangelo accolto, meditato e vissuto giorno per giorno sull'esempio di Maria, madre del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose.


PRIMA PARTE
CONVERSIONE E RICONCILIAZIONE COMPITO E IMPEGNO DELLA CHIESA

I.

UNA PARABOLA DELLA RICONCILIAZIONE

5. All'inizio di questa esortazione apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria pagina di san Luca, che ho già cercato di illustrare in un precedente mio documento. Mi riferisco alla parabola del figlio prodigo.

Dal fratello che era perduto...

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta"», racconta Gesù nel mettere a fuoco la drammatica vicenda di quel giovane: l'avventurosa partenza dalla casa paterna, lo sperpero di tutti i suoi beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni tenebrosi della lontananza e della fame, ma, più ancora, della dignità perduta, dell'umiliazione e della vergogna, e infine, la nostalgia della propria casa, il coraggio di ritornarvi, l'accoglienza del padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli aveva conservato intatti l'affetto e la stima. Così l'aveva sempre atteso e ora lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di «colui che era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato».

L'uomo - ogni uomo - è questo figlio prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione; deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo, disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre. Come il padre della parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al suo arrivo e imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col quale si festeggia la riconciliazione.

Ciò che più spicca nella parabola è l'accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che ritorna: segno della misericordia di Dio, sempre pronto al perdono. Diciamolo subito: la riconciliazione è principalmente un dono del Padre celeste.

...al fratello rimasto a casa

6. Ma la parabola mette in scena anche il fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto. Egli rinfaccia al fratello più giovane i suoi sbandamenti e al padre l'accoglienza che gli ha riservato, mentre a lui, temperante e laborioso, fedele al padre e alla casa, non è stato mai concesso - dice - di far festa con gli amici. Segno che egli non capisce la bontà del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di se stesso e dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di rabbia, non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il banchetto non è ancora pienamente la festa dell'incontro e del ritrovamento.

L'uomo - ogni uomo - è anche questo fratello maggiore. L'egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.

La parabola del figlio prodigo è, anzitutto, l'ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio - che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell'evocare, con la figura del fratello maggiore, l'egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l'uomo dalla lontananza all'amicizia filiale con Dio, del quale riconosce l'infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell'altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull'incomprensione e l'ostilità tra fratelli.

Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l'appello in essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.

II.

ALLE FONTI DELLA RICONCILIAZIONE

Nella luce di Cristo riconciliatore

7. Come si deduce dalla parabola del figlio prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua iniziativa. Ma la nostra fede ci insegna che questa iniziativa si concretizza nel mistero di Cristo redentore, riconciliatore, liberatore dell'uomo dal peccato sotto tutte le sue forme. Lo stesso san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione l'incomparabile missione di Gesù di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio fatto uomo.

Anche noi possiamo partire da questo mistero centrale dell'economia della salvezza, punto-chiave della cristologia dell'Apostolo. «Se mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, - egli scrive ai Romani - molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5,10s). Poiché dunque «Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo», Paolo si sente ispirato ad esortare i cristiani di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,18.20).

Di tale missione riconciliatrice mediante la morte sulla croce, parlava in altri termini l'evangelista Giovanni nell'osservare che Cristo doveva morire «per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi» (Gv 11,52).

Ma ancora san Paolo ci consente di allargare la nostra visione dell'opera di Cristo a dimensioni cosmiche, quando scrive che in lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra. Giustamente si può dire di Cristo redentore che «nel tempo dell'ira è stato fatto riconciliazione», e che, se egli è «la nostra pace» (Ef 2,14), è anche la nostra riconciliazione.

Ben a ragione la sua passione e morte, sacramentalmente rinnovate nell'eucaristia, vengono chiamate dalla liturgia «sacrificio di riconciliazione» («Prex Eucharistica III»): riconciliazione con Dio e con i fratelli, se Gesù stesso insegna che la riconciliazione fraterna deve operarsi prima del sacrificio. E' legittimo, dunque, partendo da questi e da altri significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni sull'intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di riconciliatore. E' pertanto da proclamare ancora una volta la fede della Chiesa nell'atto redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, come causa della riconciliazione dell'uomo, nel suo duplice aspetto di liberazione dal peccato e di comunione di grazia con Dio.

E proprio dinanzi al quadro doloroso delle divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra gli uomini, invito a guardare al «mysterium crucis» come al più alto dramma, nel quale Cristo percepisce e soffre fino in fondo il dramma stesso della divisione dell'uomo da Dio, sì da gridare con le parole del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2), e attua, nello stesso tempo, la nostra riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci ricordare sempre quella dimensione «verticale» della divisione e della riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una visione di fede prevale sempre sulla dimensione «orizzontale», cioè sulla realtà della divisione e sulla necessità della riconciliazione tra gli uomini. Noi sappiamo, infatti, che una tale riconciliazione tra loro non è e non può essere che il frutto dell'atto redentivo di Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno del peccato, ristabilire l'alleanza con Dio e abbattere così il muro di separazione, che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.

La Chiesa riconciliatrice

8. Ma - come diceva san Leone Magno parlando della passione di Cristo - «tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell'efficacia di ciò che egli compie al presente». Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua umanità, nell'efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme strumento di salvezza.

Ciò afferma san Paolo, quando scrive che Dio ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla sua opera riconciliatrice. «Dio - egli dice - ci ha affidato il ministero della riconciliazione... e la parola della riconciliazione» (2Cor 5,18s).

Nelle mani e sulla bocca degli apostoli, suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un ministero di riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare, in virtù del potere di agire «in persona Christi». Ma anche a tutta la comunità dei credenti, all'intera compagine della Chiesa è affidata la parola di riconciliazione, il compito cioè di fare quanto è possibile per testimoniare la riconciliazione e per attuarla nel mondo.

Si può dire che anche il Concilio Vaticano II, nel definire la Chiesa come «sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» e nel segnalare come sua funzione quella di ottenere la «piena unità in Cristo» per gli «uomini oggi più strettamente congiunti da vari vincoli» («Lumen Gentium», 1), riconosceva che essa deve tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena riconciliazione. In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel compito per lei centrale della riconciliazione dell'uomo: con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato; e questo in modo permanente, perché - come ho detto altra volta - «la Chiesa è per sua natura sempre riconciliante».

Riconciliatrice è la Chiesa in quanto proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre fatto nella sua storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme fino all'ultimo Sinodo e al recente giubileo della redenzione. L'originalità di questa proclamazione sta nel fatto che per la Chiesa la riconciliazione è strettamente collegata alla conversione del cuore: questa è la via necessaria verso l'intesa fra gli esseri umani.

Riconciliatrice è la Chiesa anche in quanto mostra all'uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta quadruplice riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della conversione del cuore e della vittoria sul peccato, sia questo l'egoismo, l'ingiustizia, la prepotenza o lo sfruttamento altrui, l'attaccamento ai beni materiali o la ricerca sfrenata del piacere. I mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della parola di Dio, della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali eccelle, proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo chiamare il sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul quale ritornerò in seguito.

La Chiesa riconciliata

9. Il mio venerato predecessore Paolo VI ha avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere evangelizzatrice, la Chiesa deve cominciare col mostrarsi essa stessa evangelizzata, aperta cioè al pieno e integrale annuncio della buona novella di Gesù Cristo per ascoltarla e metterla in pratica. Anch'io, raccogliendo in un documento organico le riflessioni della IV assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si catechizza nella misura in cui è operatrice di catechesi.

Non esito ora a riprendere qui il confronto, per quanto si applica al tema che sto trattando, per affermare che la Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare con l'essere una Chiesa riconciliata. Sotto questa semplice e lineare espressione soggiace la convinzione che la Chiesa, per annunciare e proporre sempre più efficacemente al mondo la riconciliazione, deve diventare sempre più una comunità (fosse anche il «piccolo gregge» dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti nell'impegno di convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini nuovi nello spirito e nella pratica della riconciliazione.

Dinanzi ai nostri contemporanei, così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell'opinabile, e cercare invece di essere uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana, secondo l'antica massima: «In dubiis libertas, in necessariis unitas, in omnibus caritas».

Secondo questo stesso criterio, la Chiesa deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per essere interamente riconciliata, essa sa di dover proseguire nella ricerca dell'unità fra coloro che si onorano di chiamarsi cristiani, ma sono separati tra loro, anche come Chiese o Comunioni, e dalla Chiesa di Roma. Questa cerca un'unità che, per esser frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili. L'unità deve essere il risultato di una vera conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo teologico e delle relazioni fraterne, della preghiera, della piena docilità all'azione dello Spirito Santo, che è anche Spirito di riconciliazione.

Infine la Chiesa, per dirsi pienamente riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di più nel portare il Vangelo a tutte le genti, promovendo il «dialogo della salvezza», a quei vasti ambienti dell'umanità nel mondo contemporaneo che non condividono la sua fede e che addirittura, a causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la osteggiano e perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere con san Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

In ogni caso, la Chiesa promuove una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la riconciliazione né l'unità fuori o contro la verità.

III.

L'INIZIATIVA DI DIO E IL MINISTERO DELLA CHIESA

10. Comunità riconciliata e riconciliatrice, la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del suo dono e della sua missione di riconciliazione si trova l'iniziativa, piena di amore compassionevole e di misericordia, di quel Dio che è amore e che per amore ha creato gli uomini: li ha creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di loro.

La riconciliazione viene da Dio

Dio è fedele al suo disegno eterno anche quando l'uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando l'obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l'uomo, invece di rispondere con amore all'amore di Dio, gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell'uomo, Dio rimane fedele nell'amore. Certo, il racconto del giardino dell'Eden ci fa meditare sulle funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel disordine interno all'uomo e nella rottura dell'armonia tra l'uomo e la donna, tra fratello e fratello. Anche la parabola evangelica dei due figli che si allontanano, in diverso modo, dal padre, scavando un abisso fra di loro, è significativa. Il rifiuto dell'amore paterno di Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice delle divisioni dell'umanità.

Ma noi sappiamo che Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola, non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione li imprigiona nell'isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione.

Questa iniziativa di Dio si concretizza e manifesta nell'atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il ministero della Chiesa.

Infatti, secondo la nostra fede, il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra degli uomini, è entrato nella storia del mondo, assumendola e ricapitolandola in sé. Egli ci ha rivelato che Dio è amore e ci ha dato il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) dell'amore, comunicandoci al tempo stesso la certezza che la via dell'amore si dischiude a tutti gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la fratellanza universale. Vincendo, con la sua morte sulla croce, il male e la potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore egli ha portato la salvezza a tutti ed è diventato per tutti «riconciliazione». In lui Dio ha riconciliato l'uomo con sé.

La Chiesa, continuando l'annuncio di riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della Galilea e di tutta la Palestina, non cessa di invitare l'umanità intera a convertirsi e a credere alla buona novella. Essa parla in nome di Cristo, facendo suo l'appello dell'apostolo Paolo, che abbiamo già ricordato: «Noi fungiamo... da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

Chi accetta questo appello entra nell'economia della riconciliazione e fa l'esperienza della verità contenuta in quell'altro annuncio di san Paolo, secondo il quale Cristo «è nostra pace, egli che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e due con Dio» (Ef 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il superamento della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto dell'Antico Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte della nuova alleanza, esso contiene però l'affermazione della nuova universalità spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il sacrificio del suo Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed esclusioni di sorta, per tutti coloro che si convertono e credono a Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a godere i frutti di questa riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni popolo.

La Chiesa, grande sacramento di riconciliazione

11. La Chiesa ha la missione di annunciare questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel mondo. Sacramento, cioè segno e strumento di riconciliazione, è la Chiesa a diversi titoli, di diverso valore, ma tutti convergenti nell'ottenere ciò che la divina iniziativa di misericordia vuol concedere agli uomini.

Lo è, anzitutto, per la sua stessa esistenza di comunità riconciliata, che testimonia e rappresenta nel mondo l'opera di Cristo. Lo è, poi, per il suo servizio di custode e di interprete della Sacra Scrittura, che è lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di generazione in generazione il disegno d'amore di Dio e indica a ciascuno le vie dell'universale riconciliazione in Cristo. Lo è, infine, per i sette sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno «fanno la Chiesa». Infatti, poiché commemorano e rinnovano il mistero della pasqua di Cristo, tutti i sacramenti sono sorgente di vita per la Chiesa e, nelle sue mani, sono strumento di conversione a Dio e di riconciliazione degli uomini.

Altre vie di riconciliazione

12. La missione riconciliatrice è propria di tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa alla piena partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con gli angeli e i santi, i quali contemplano e adorano il Dio tre volte santo. Chiesa del cielo, Chiesa della terra, Chiesa del purgatorio sono misteriosamente unite in questa cooperazione con Cristo nel riconciliare il mondo con Dio.

La prima via di questa azione salvifica è quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di Cristo e della Chiesa, e i santi, giunti ormai alla fine del cammino terreno e in possesso della gloria di Dio, con la loro intercessione sostengono i loro fratelli pellegrini nel mondo, nell'impegno di conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta, di azione per far crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel mistero della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella sua forma più profonda e più fruttuosa per la comune salvezza.

C'è poi un'altra via: quella della predicazione. Discepola dell'unico maestro Gesù Cristo, la Chiesa a sua volta, come madre e maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità della conversione, a invitare e a chiedere agli uomini di «lasciarsi riconciliare». In realtà, è questa la sua missione profetica nel mondo d'oggi, come in quello di ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesù. Come lui, la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l'invito alla speranza, che vengono dalla croce.

C'è, ancora, la via spesso così difficile e aspra dell'azione pastorale per riportare ogni uomo - chiunque sia e dovunque si trovi - sul cammino, a volte lungo, del ritorno al Padre nella comunione con tutti i fratelli.

C'è, infine, la via della testimonianza, quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice consapevolezza della Chiesa: quella di essere in sé «indefettibilmente santa» («Lumen Gentium», 39), ma anche bisognosa di andare «di giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga», giacché, per i nostri peccati, talvolta «il suo volto rifulge meno» agli occhi di chi la guarda. Questa testimonianza non può non assumere due aspetti fondamentali: essere segno di quella carità universale che Gesù Cristo ha lasciato in eredità ai suoi seguaci, come prova dell'appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti sempre nuovi di conversione e di riconciliazione all'interno e all'esterno della Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel mondo intero. Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente per far nascere quella che il mio predecessore Paolo VI chiamava la «civiltà dell'amore».


SECONDA PARTE
L'AMORE PIU' GRANDE DEL PECCATO

Il dramma dell'uomo

13. Come scrive l'apostolo san Giovanni, «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati» (1Gv 1,8s). Queste parole ispirate, scritte agli albori della Chiesa, avviano meglio di qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul peccato, che è strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse colgono il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto parte integrante della verità sull'uomo, ma lo inseriscono subito nell'orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la verità dell'amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta soprattutto col perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san Giovanni scrive poco oltre che «qualunque cosa (il nostro cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Riconoscere il proprio peccato, anzi - andando ancora più a fondo nella considerazione della propria personalità - riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. E' l'esperienza esemplare di Davide, che dopo «aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan, esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto» (Sal 51,5s). Del resto, Gesù mette sulla bocca e nel cuore del figlio prodigo quelle significative parole: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18.21).

In realtà, riconciliarsi con Dio suppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è caduti. Suppone e include, dunque, il fare penitenza nel senso più completo del termine: pentirsi, manifestare il pentimento, assumere l'atteggiamento concreto del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre. Questa è una legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione particolare in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione, infatti, non può essere svolto solo in termini astratti.

Nella condizione concreta dell'uomo peccatore, in cui non può esservi conversione senza riconoscimento del proprio peccato, il ministero di riconciliazione della Chiesa interviene in ogni caso con una finalità schiettamente penitenziale, cioè per riportare l'uomo al «cognoscimento di sé», secondo l'espressione di santa Caterina da Siena, al distacco dal male, al ristabilimento dell'amicizia con Dio, al riordinamento interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l'ambito della Chiesa e dei credenti, il messaggio e il ministero della penitenza sono rivolti a tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno di conversione e di riconciliazione.

Per adempiere adeguatamente tale ministero penitenziale, è necessario anche valutare, con gli «occhi illuminati» della fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo di divisione e di rottura non solo all'interno di ogni uomo, ma anche nelle varie cerchie in cui egli vive: familiare, ambientale, professionale, sociale, come tante volte si può sperimentalmente constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la città di Babele e la sua torre. Intenti a costruire ciò che doveva essere a un tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono più dispersi di prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci di consenso e di convergenza.

Perché fallì l'ambizioso progetto? Perché «si affaticarono invano i costruttori»? Perché gli uomini avevano posto quale segno e garanzia dell'auspicata unità soltanto un'opera delle loro mani, dimentichi dell'azione del Signore. Essi avevano puntato sulla sola dimensione orizzontale del lavoro e della vita sociale, noncuranti di quella verticale, per la quale si sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e protesi verso di lui come fine ultimo del loro cammino.

Ora si può dire che il dramma dell'uomo d'oggi, come dell'uomo di tutti i tempi, consista proprio nel suo carattere babelico.

I.

IL MISTERO DEL PECCATO

14. Se leggiamo la pagina biblica della città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la confrontiamo con l'altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell'iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell'uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell'umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell'uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo.

La disobbedienza a Dio

Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell'Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un'esclusione di Dio per l'opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l'ingannevole pretesa di essere «come lui» (Gen 3,5). Nel racconto di Babele l'esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell'ambito del disegno operativo e associativo dell'uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell'Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l'essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all'uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.

Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo. Disobbedienza dell'uomo, che - con un atto della sua libertà - non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge.

La divisione tra i fratelli

15. Nelle narrazioni bibliche sopra ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i fratelli. Nella descrizione del «primo peccato», la rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell'amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi ci mostrano l'uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore l'uno contro l'altra; poi il fratello che, ostile al fratello, finisce col togliergli la vita. Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già cominciata col primo peccato e ora giunta all'estremo nella sua forma sociale.

Chi vuole indagare il mistero del peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l'atto di disobbedienza di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l'uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l'uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. E' una legge e un fatto oggettivo, che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov'è facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.

Il mistero del peccato si compone di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali.

Peccato personale e peccato sociale

16. Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest'uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa.

Atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l'intelligenza.

A questo punto dobbiamo chiederci a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale. L'espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi significati.

Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. E', questa, l'altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva, eleva il mondo». A questa legge dell'ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un'anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c'è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull'intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.

Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un'aggressione diretta al prossimo e - più esattamente, in base al linguaggio evangelico - al fratello. Essi sono un'offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l'amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». E' egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. E' sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società.

La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l'altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l'espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.

Ciò premesso nel modo più chiaro e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile un'accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in alcuni ambienti, la quale nell'opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a peccato personale, più o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema, la società, le strutture, l'istituzione.

Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l'accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.

Una situazione - e così un'istituzione, una struttura, una società - non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o - come più spesso avviene, purtroppo - per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace - per non dire controproducente -, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione.

Mortale, veniale

17. Ma ecco, nel mistero del peccato, una nuova dimensione, sulla quale l'intelligenza dell'uomo non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. E' una questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato è grave nell'offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull'uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.

Già nell'Antico Testamento, per non pochi peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme di impudicizia, di idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava che il reo doveva essere «eliminato dal suo popolo», ciò che poteva anche significare condannato a morte. Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio.

Anche in riferimento a quei testi la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna, oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesù stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e impressionanti.

In un testo della sua prima lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs thánaton») in contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte («mè pròs thánaton»). Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o «vita eterna», che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio, la comunione e l'intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler accentuare l'incalcolabile gravità di ciò che è l'essenza del peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell'apostasia e nell'idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell'equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi. Ma l'apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di essere «nato da Dio» per la venuta del Figlio: c'è in lui una forza che lo preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo tocca». Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c'è in lui la speranza della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera congiunta dei fratelli.

In un'altra pagina del Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31s), Gesù stesso parla di una «bestemmia contro lo Spirito Santo», la quale è «irremissibile», poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all'amore del Padre delle misericordie.

Si tratta, beninteso, di espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza, per cui l'uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione. E' da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio, il quale, d'altra parte, nel suo amore misericordioso è più grande del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché - come scrive san Tommaso d'Aquino - «non c'è da disperare della salvezza di nessuno in questa vita, considerata l'onnipotenza e la misericordia di Dio».

Ma dinanzi al problema dell'incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti di salutare «timore e tremore», come suggerisce san Paolo; mentre l'ammonimento di Gesù circa il peccato che non è «remissibile» conferma l'esistenza di colpe, che possono attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».

Alla luce di questi e altri testi della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant'Agostino, fra gli altri, parla di «letalia» o «mortifera crimina», opponendoli a «venialia», «levia» o «quotidiana». Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d'Aquino a formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta costante nella Chiesa.

Nel definire e distinguere i peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l'uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall'uomo contro questo principio vitale. E quando, «per mezzo del peccato, l'anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto conseguenza del peccato mortale.

Considerando, inoltre, il peccato sotto l'aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).

Se poi si guarda alla materia del peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l'idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell'azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.

Cogliamo qui il nucleo dell'insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. E' doveroso aggiungere - come è stato anche fatto nel Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.

Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell'Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell'esperienza umana di tutti i tempi. L'uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l'amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell'eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».

Sennonché l'uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un'inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.

Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L'uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l'uomo stesso con un'oscura e potente forza di distruzione.

Durante l'assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.

Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» - come oggi si suol dire - contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.

Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall'altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.

Perdita del senso del peccato

18. Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un'acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. E' ciò che si suol chiamare il senso del peccato.

Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell'uomo e ne è come il termometro. E' legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l'uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato.

Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l'influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. «Abbiamo noi un'idea giusta della coscienza»? - domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli -. «Non vive l'uomo contemporaneo sotto la minaccia di un'eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un'"anestesia" delle coscienze?». Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo» («Gaudium et Spes», 16), è «strettamente legata alla libertà dell'uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell'uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio». E' inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».

Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.

Il «secolarismo», il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell'ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di «perdere la propria anima», non può non minare il senso del peccato. Quest'ultimo si ridurrà tutt'al più a ciò che offende l'uomo. Ma proprio qui si impone l'amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l'uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l'uomo. In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un germe divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell'uomo. E' vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell'uomo e dei valori umani, se manca il senso dell'offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.

Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell'apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un'indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già accennato - con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l'individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull'uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.

Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un'etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l'etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrisecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di valori morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell'etica cristiana», ma «piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell'atteggiamento morale». L'effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l'affermare che il peccato c'è, ma non si sa chi lo commette.

Svanisce, infine, il senso del peccato quando - come può avvenire nell'insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare - esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.

La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l'interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell'obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell'uno o nell'altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l'offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell'aspirazione all'autonomia personale; sia dall'assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell'umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell'ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall'oscuramento dell'idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell'uomo.

Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall'accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.

Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull'uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.

E' lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell'alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della penitenza.

II.

«MYSTERIUM PIETATIS»

19. Per conoscere il peccato era necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla rivelazione dell'economia della salvezza; esso è «mysterium iniquitatis». Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che - usando una bella e suggestiva espressione di san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell'uomo.

Troviamo questa espressione in una delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi per un'ispirazione irrompente. L'apostolo, infatti, in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per spiegare il significato dell'ordinamento della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella «chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: «E' senza dubbio grande il mistero della pietà...» (1Tm 3,15s).

Senza tradire minimamente il senso letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica dell'apostolo a una più completa visione del ruolo che la verità da lui annunciata ha nell'economia della salvezza. «E' grande davvero - ripetiamo con lui - il mistero della pietà», perché vince il peccato.

Ma che cos'è nella concezione paolina questa «pietà»?

E' il Cristo stesso

20. E' profondamente significativo che, per presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno cristologico, che - secondo la sentenza di autorevoli studiosi - era usato nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell'inno, dense di contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli angeli, fatto più grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.

Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell'incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell'inno, ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell'insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell'infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell'anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.

Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare. Non si tratta, dunque, di un'impeccabilità acquisita per virtù propria o, addirittura, insita nell'uomo, come pensavano gli gnostici. E' un risultato dell'azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: «Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come propongono alcuni commentatori - Gesù, il Figlio di Dio, allora possiamo dire che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di pietà.

Lo sforzo del cristiano

21. Ma c'è nel «mysterium pietatis» un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà («eusébeia») significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale.

Anche in questo senso possiamo affermare con san Paolo che «è grande il mistero della pietà». Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l'iniquità e il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette peccato»; ma l'espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del Cristo, come da un'interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente «nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.

Verso una vita riconciliata

22. Così la parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l'intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità, anche gli uomini d'oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a ciascuno personalmente, l'ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (1Gv 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato nell'iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.

Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla disperazione, gli uomini d'oggi possono sentirsi sollevati dalla divina promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.

Il mistero della pietà, da parte di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo ripeto ancora - è infinitamente ricco. Come ho detto nell'enciclica dedicata al tema della divina misericordia, essa è un amore più potente del peccato, più forte della morte. Quando ci accorgiamo che l'amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora più premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel riconoscimento: «Sì, il Signore è ricco di misericordia», e diciamo perfino: «Il Signore è misericordia». Il mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata.


TERZA PARTE
LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

Promozione della penitenza e della riconciliazione

23. Suscitare nel cuore dell'uomo la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell'opera redentrice del suo fondatore divino. E', questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.

A questo ministero, fondato e illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa che l'uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l'uomo segnato dal peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama: «Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,5); ma prega anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della divina misericordia: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non morirai» (2Sam 12,13).

La Chiesa si trova, dunque, di fronte all'uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e da esso toccato in ciò che possiede di più intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.

La funzione riconciliatrice della Chiesa deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell'umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione fra l'uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione.

Non c'è bisogno di ripetere quanto ho già detto circa l'importanza di questo «ministero della riconciliazione», e della relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.

Parlare di pastorale della penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all'insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Più concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti - pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e preghiera -, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce così nel cammino della piena riconciliazione.

I padri del Sinodo, come rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi più pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell'esortazione apostolica l'apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.

Ritengo, pertanto, di mettere in luce l'essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione rilevandone, con l'assemblea del Sinodo, i due punti seguenti: 1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione; 2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.

I.

MEZZI E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

24. Per promuovere la penitenza e la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo chiamare il metodo del dialogo.

Il dialogo

25. Il dialogo per la Chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che «la Chiesa, in virtù della missione che ha di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo», aggiunge che essa deve essere capace di «stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes», 92), come anche di «stabilire un dialogo con l'umana società» («Christus Dominus», 13).

Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam suam», in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza. La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini - quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e quelli che le sono estranei - alla conversione e alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza, operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L'autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini del nostro tempo.

Il dialogo pastorale in vista della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.

Alla base di tale dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all'interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di carità; ma è, altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che rischiano di diventare fattori di divisione.

L'invito accorato e fermo, già rivolto dal mio predecessore in vista dell'anno santo 1975, vale anche per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sì che le normali tensioni non risultino dannose all'unità della Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell'interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce l'ascolto reciproco, il rispetto e l'astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che all'interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. E' chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di riconciliazione, senza l'attenzione al magistero e l'accettazione di esso.

Così impegnata fattivamente nella ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l'appello alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo - alle altre Chiese, con le quali non c'è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.

Alla luce del Concilio e del magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera comune e nella comune docilità all'unico Signore - permette di rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell'azione ecumenica; dall'altra, la convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell'ora voluta dalla divina provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l'avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell'unità e con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione preliminare almeno all'incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza della vita eterna per l'anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l'ascolto della Parola, lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.

Nella misura in cui la Chiesa è capace di generare la concordia attiva - l'unità nella varietà - al suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l'espressiva definizione di sant'Agostino, «mondo riconciliato». Allora potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.

Nella consapevolezza della smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l'equilibrio e l'armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la ricomposizione della concordia.

E' un complesso e delicato dialogo di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l'opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per interessi occulti - poiché non ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria», mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che come «nella guerra due parti insorgono l'una contro l'altra», così «nella questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare», e in ciò «si trova il vero senso del dialogo per la pace».

Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell'indispensabile dialogo e proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia (...) della vita internazionale», sono chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.

Resta da ribadire che da parte della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga - e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore analogico - non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso dell'intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l'annuncio della verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la catechesi e la penitenza.

La Catechesi

26. Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un'adeguata catechesi circa le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle «Propositiones» conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.

Alla radice della raccomandazione del Sinodo, così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l'azione pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?

Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull'insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l'alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l'offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni concrete.

Dai pastori della Chiesa si attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco «metanoia», che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il «rientrare in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e sociali.

E' un primo valore della penitenza che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della «metanoia» appaiono nella significativa consegna data da Gesù: «Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu gli perdonerai» (Lc 17,3s). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto la conversione, lungi dall'essere un sentimento superficiale, è un vero capovolgimento dell'anima.

Un terzo valore è contenuto nella penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di pentimento si manifestano all'esterno: è il fare penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine «metanoia», come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici. Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l'equilibrio e l'armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.

Insomma, una catechesi sulla penitenza, la più completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento sociale sono così in contrasto col triplice valore, già illustrato: l'uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. E' chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata dall'amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l'«uomo vecchio», perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della povertà, della pazienza, dell'austerità e, si può dire, della vita penitente.

Dai pastori della Chiesa si attende ancora - come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l'io più intimo dell'uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e sulla libertà religiosa. Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell'uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene», ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi «una forza distruttrice dell'umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».

Anche su altri punti di non minore rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.

  • Sul senso del peccato, che, come ho detto, si è non poco attenuato nel nostro mondo.
  • Sulla tentazione e le tentazioni: lo stesso Signore Gesù, Figlio di Dio, «provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), volle esser tentato dal maligno, per indicare che, come lui, anche i suoi sarebbero sottoposti alla tentazione, nonché per mostrare come bisogna comportarsi nella tentazione. Per chi supplica il Padre di non esser tentato al di sopra delle proprie forze e di non soccombere alla tentazione, per chi non si espone alle occasioni, l'esser sottoposto a tentazione non significa aver peccato, ma è, piuttosto, occasione per crescere nella fedeltà e nella coerenza attraverso l'umiltà e la vigilanza.
  • Sul digiuno: che può praticarsi in forme antiche e nuove, come segno di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà con gli affamati e i sofferenti.
  • Sull'elemosina: che è mezzo per render concreta la carità, condividendo ciò di cui si dispone con colui che soffre le conseguenze della povertà.
  • Sul nesso intimo, che collega il superamento delle divisioni nel mondo alla comunione piena con Dio e fra gli uomini, scopo escatologico della Chiesa.
  • Sulle circostanze concrete, in cui si deve operare la riconciliazione (nella famiglia, nella comunità civile, nelle strutture sociali) e, particolarmente, sulle quattro riconciliazioni che riparano le quattro fratture fondamentali: riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato.

Né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell'uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l'uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l'aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un'eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.

Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare, l'importanza e l'efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.

Per la grande rilevanza che ha la riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.

I sacramenti

27. Il secondo mezzo di istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, così ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.

Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico, che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). E' morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto. E' dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall'eliminare, arricchisce l'elemento penitenziale già presente nel battesimo, che Gesù stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»: un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.

Parimenti la cresima, anche in quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all'età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.

La definizione, che sant'Agostino dà dell'eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis», mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale («pietas») e di riconciliazione comunitaria («unitas» e «caritas»), che derivano dall'essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. E' necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole di peccato grave, può ricevere l'eucaristia prima di aver ottenuto il perdono di Dio. Come si legge nell'istruzione «Eucharisticum mysterium», la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l'insegnamento del Concilio Tridentino: «L'eucaristia sia proposta ai fedeli anche «come antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il precetto: L'uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».

Il sacramento dell'ordine è destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di dispersione.

Il sacramento del matrimonio, esaltazione dell'amore umano sotto l'azione della grazia, è segno, sì, dell'amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e distruggono l'amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.

L'unzione degli infermi, infine, nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell'ora finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema riconciliazione col Padre.

Tuttavia, fra i sacramenti ce n'è uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell'accusa dei peccati che in esso vien fatta, più propriamente può ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l'importanza che ha in ordine alla riconciliazione.

II.

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

28. In tutte le fasi e a tutti i livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall'atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza.

Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha tenuto conto dell'affermazione pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un'approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell'umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all'intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.

Giova rinnovare e riaffermare questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d'ombra e di silenzio, minacciata com'è dalla già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della confessione, da un lato, l'oscuramento della coscienza morale e religiosa, l'attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall'altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l'abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.

Conviene, pertanto, ricordare le principali dimensioni di questo grande sacramento.

«A chi rimetterete»

29. Il primo dato fondamentale ci è offerto dai libri santi dell'Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che più spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio dell'Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo. Così, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell'Esodo, rievoca l'azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38s).

Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, venendo come l'Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo, appare come colui che ha il potere sia di giudicare sia di perdonare i peccati, e che è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare.

Ora, questo potere di rimettere i peccati Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi stessi all'insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22; Mt 18,18). E', questa, una delle più formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come trasmissibile - così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori - ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del Vangelo e di ministri dell'opera redentrice di Cristo.

Qui si rivela in tutta la sua grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.

Come all'altare dove celebra l'eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera «in persona Christi». Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell'uomo, pontefice misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.

Questo è, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute, valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere l'azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, «celebrare» la sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole «D'ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

Per l'efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresì, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell'orazione vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.

Tutto questo corredo di doti umane, di virtù cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le scienze dell'uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all'appuntamento con i fedeli al confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e pastorali!

A questo proposito non posso non evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli più noti che la Chiesa ha iscritto nell'albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all'innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.

Il Sacramento del perdono

30. Dalla rivelazione del valore di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa - quale dono della sua benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti - uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo.

La pratica di questo sacramento, per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di sviluppo, come attestano i più antichi sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l'insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell'assoluzione sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro conversione con la carità, con l'esempio e la preghiera» («Lumen Gentium», 11). E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.

La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo «Rito della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo.

Alcune convinzioni fondamentali

31. Le menzionate verità, ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones», possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.

I. La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e deve servire, secondo l'intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione più profonda della natura del sacramento della penitenza; verso un'accoglienza di esso più nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso dall'amore misericordioso del Signore.

II. La seconda convinzione riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è, secondo la più antica tradizionale concezione, una specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, più che di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore gli impone e ne riceve l'assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall'antichità cristiana, «medicina salutis». «Io voglio curare, non accusare», diceva sant'Agostino riferendosi all'esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l'esperienza del peccato non degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto medicinale del sacramento, al quale l'uomo contemporaneo è forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell'intimo del peccatore, per poterlo giudicare edassolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l'accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d'essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.

III. La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all'integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell'intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l'esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c'è», ma «io ho peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l'atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un'ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.

Ma l'atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l'amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l'anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae», 6c).

Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.

Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l'accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell'incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L'accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E' il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l'accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall'ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.

L'altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l'assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell'antico e nel nuovo «Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l'imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. E' il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l'innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia più forte della colpa e dell'offesa», come ebbi a definirla nell'enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può perdonare. Perciò, l'assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell'intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.

La soddisfazione è l'atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l'assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano - vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell'impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un'esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l'idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l'assoluzione rimane nel cristiano una zona d'ombra, dovuta alle ferite del peccato, all'imperfezione dell'amore nel pentimento, all'indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell'umile, ma sincera soddisfazione.

IV. Resta da fare un breve accenno ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è più personale e intimo di questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C'è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide, rimproverato dal profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui: tutto ha luogo soltanto fra l'uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l'intera Chiesa - quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del sacramento l'individualità e l'ecclesialità, che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente quella dell'«Ordo paenitentiae» promulgata da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere più significativi nella sua celebrazione.

V. E' da sottolineare, poi, che il frutto più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato - un mondo riconciliato!

VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare un'ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure - e dobbiamo esserne - i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza. La celebrazione dell'eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità, di cui egli è pastore.

Ma aggiungo pure che, persino per essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti. Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.

A sua volta, l'esperienza diventa e deve diventare oggi uno stimolo all'esercizio diligente, regolare, paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli nell'episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi è stata data» mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.

Le forme della celebrazione

32. Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, l'«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma - riconciliazione dei singoli penitenti - costituisce l'unico modo normale e ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o essere trascurata. La seconda - riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari del sacramento, raggiunge la prima forma nell'atto sacramentale culminante, che è la confessione e l'assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La terza, invece - riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale - riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un'apposita disciplina.

La prima forma consente la valorizzazione degli aspetti più propriamente personali - ed essenziali - che son compresi nell'itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l'insieme stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di «soddisfazione», ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale più rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e riammissione all'amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. E' certo, dunque, che la decisione e l'impegno personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima forma.

La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero sufficiente di confessori.

E' naturale, pertanto, che i criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.

Sarà bene anche ricordare che, per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.

Pur sapendo e insegnando che i peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali -, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro «l'occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito» («Ordo Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.

La cura dell'aspetto celebrativo, con particolare riferimento all'importanza della parola di Dio, letta, richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l'altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali il pastore d'anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi ricorre a lui.

La celebrazione del sacramento con assoluzione generale

33. Nel nuovo ordinamento liturgico e, più recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico («Codex Iuris Canonici», can. 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al «rito della riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale». Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo di interpretazione arbitraria.

E' opportuno riflettere in maniera più approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesù, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha ribadito in una delle sue «Propositiones» l'immutato insegnamento, che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con cui essa ha codificato l'antica prassi penitenziale: la confessione individuale e integra dei peccati con l'assoluzione egualmente individuale costituisce l'unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell'insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.

Vi è, poi, una motivazione di ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave necessità», fermo restando l'obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un'altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell'ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l'uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un'autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l'uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all'abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori rimane l'obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima. Per i fedeli l'uso della terza forma di celebrazione comporta l'obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l'esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all'assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell'obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell'assoluzione.

Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell'incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre - ripeto - sono le une e le altre - i sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità.

Questa è la ragione della legge della Chiesa.

Alcuni casi più delicati

34. Ritengo di dover fare a questo punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto trattare - per quanto gli era possibile farlo -, contemplandolo anche in una delle «Propositiones». Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.

Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L'altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste.

Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell'esortazione apostolica «Familiaris Consortio», per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che convivono irregolarmente.

Al tempo stesso, sento il vivo dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell'ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell'ora che solo la Provvidenza conosce.


AUSPICIO CONCLUSIVO

35. Al termine di questo documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l'esortazione che il primo vescovo di Roma, in un'ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare «ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili». L'apostolo raccomandava: «Siate tutti concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione». E concludeva con una parola di incoraggiamento e di speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?».

Oso riallacciare la mia esortazione, in un'ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui «presiedette alla carità» di fronte al mondo intero. Anch'io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: «Siate tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene». E aggiungeva: «E' meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1Pt 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua «lieta novella»: il nuovo comandamento dell'amore vicendevole; l'anelito e l'impegno all'unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle offese; l'amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e trascendente dell'etica cristiana o, meglio e più profondamente, della spiritualità dell'alleanza nuova in Gesù Cristo.

Affido al Padre, ricco di misericordia, affido al Figlio di Dio, fatto uomo come nostro redentore e riconciliatore, affido allo Spirito Santo, sorgente di unità e di pace, questo mio appello di padre e di pastore alla penitenza e alla riconciliazione. Voglia la Trinità santissima e adorabile far germinare nella Chiesa e nel mondo il piccolo seme, che in quest'ora consegno alla terra generosa di tanti cuori umani.

Perché ne provengano in un giorno non lontano copiosi frutti, vi invito tutti a rivolgervi con me al cuore di Cristo, segno eloquente della divina misericordia, «propiziazione per i nostri peccati», «nostra pace e riconciliazione», per attingervi la spinta interiore verso la detestazione del peccato e la conversione a Dio, e trovarvi la benignità divina che risponde amorosamente al pentimento umano.

Vi invito pure a rivolgervi con me al cuore immacolato di Maria, madre di Gesù, nella quale «si è operata la riconciliazione di Dio con l'umanità (...), si è compiuta l'opera della riconciliazione, perché ella ha ricevuto da Dio la pienezza della grazia in virtù del sacrificio redentore di Cristo». In verità, Maria è diventata «l'alleata di Dio», in virtù della sua maternità divina, nell'opera della riconciliazione.

Alle mani di questa Madre, il cui «fiat» segnò l'inizio di quella «pienezza dei tempi», nella quale fu attuata da Cristo la riconciliazione dell'uomo con Dio, e al suo cuore immacolato - al quale abbiamo ripetutamente affidato l'intera umanità, turbata dal peccato e straziata da tante tensioni e conflitti - affido ora in special modo questa intenzione: che, per la sua intercessione, l'umanità stessa scopra e percorra la via della penitenza, l'unica che potrà condurla alla piena riconciliazione.

A tutti voi, che con spirito di ecclesiale comunione nell'obbedienza e nella fede, vorrete accogliere le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell'anno 1984, settimo del mio Pontificato.

 

 

Pastores dabo vobis

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POST-SINODALE
PASTORES DABO VOBIS
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA FORMAZIONE DEI SACERDOTI
NELLE CIRCOSTANZE ATTUALI

 

Venerati Fratelli e diletti Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione

INTRODUZIONE

« Vi darò Pastori secondo il mio cuore ».1

Con queste parole del profeta Geremia Dio promette al suo popolo di non lasciarlo mai privo di pastori che lo radunino e lo guidino: « Costituirò sopra di esse (ossia sulle mie pecore) pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi ».2

La Chiesa, popolo di Dio, sperimenta sempre la realizzazione di questo annuncio profetico e nella gioia continua a rendere grazie al Signore. Essa sa che Gesù Cristo stesso è il compimento vivo, supremo e definitivo della promessa di Dio: « Io sono il buon pastore ».3

Egli, « il Pastore grande delle pecore »,4 ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio.5 In particolare, senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l'obbedienza al comando di Gesù: « Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » 6 e « Fate questo in memoria di me »,7 ossia il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo.

Nella fede sappiamo che la promessa del Signore non può venir meno. Proprio questa promessa è la ragione e la forza che fa gioire la Chiesa di fronte alla fioritura e alla crescita numerica delle vocazioni sacerdotali, che oggi si registrano in alcune parti del mondo, così come rappresenta il fondamento e lo stimolo per un suo atto di fede più grande e di speranza più viva di fronte alla grave scarsità di sacerdoti, che pesa in altre parti del mondo.

Tutti siamo chiamati a condividere la fiducia piena nell'ininterrotto compiersi della promessa di Dio, che i Padri sinodali hanno voluto testimoniare in modo chiaro e forte: « Il Sinodo con piena fiducia nella promessa di Cristo che ha detto: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" 8 e consapevole dell'attività costante dello Spirito Santo nella Chiesa, intimamente crede che non mancheranno mai completamente nella Chiesa i sacri ministri... Anche se in varie regioni si dà scarsità di clero, tuttavia l'azione del Padre, che suscita le vocazioni, non cesserà mai nella Chiesa ».9

Come ho detto a conclusione del Sinodo, di fronte alla crisi delle vocazioni sacerdotali « la prima risposta che la Chiesa dà sta in un atto di fiducia totale nello Spirito Santo. Siamo profondamente convinti che questo fiducioso abbandono non deluderà, se peraltro restiamo fedeli alla grazia ricevuta ».10

2. Restare fedeli alla grazia ricevuta! Infatti, il dono di Dio non annulla la libertà dell'uomo, ma la suscita, la sviluppa e la esige.

Per questo la fiducia totale nell'incondizionata fedeltà di Dio alla sua promessa si accompagna nella Chiesa alla grave responsabilità di cooperare all'azione di Dio che chiama, di contribuire a creare e a mantenere le condizioni nelle quali il buon seme, seminato da Dio, possa mettere radici e dare frutti abbondanti. La Chiesa non può mai cessare di pregare il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe,11 di rivolgere una limpida e coraggiosa proposta vocazionale alle nuove generazioni, di aiutarle a discernere la verità della chiamata di Dio e a corrispondervi con generosità, di riservare una cura particolare per la formazione dei candidati al presbiterato.

In realtà la formazione dei futuri sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, e l'assidua cura, protratta lungo tutto il corso della vita, per la loro santificazione personale nel ministero e per l'aggiornamento costante del loro impegno pastorale, sono considerate dalla Chiesa come uno dei compiti di massima delicatezza e importanza per il futuro dell'evangelizzazione dell'umanità.

Quest'opera formativa della Chiesa è una continuazione nel tempo dell'opera di Cristo, che l'evangelista Marco indica con le parole: « Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì 12 che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».12

Si può affermare che nella sua storia, la Chiesa ha sempre rivissuto, sia pure con intensità e in modalità diverse, questa pagina del Vangelo mediante l'opera formativa riservata ai candidati al presbiterato e ai sacerdoti stessi. Oggi però la Chiesa si sente chiamata a rivivere quanto il Maestro ha fatto con i suoi apostoli con un impegno nuovo, sollecitata com'è dalle profonde e rapide trasformazioni delle società e delle culture del nostro tempo, dalla molteplicità e diversità dei contesti nei quali essa annuncia e testimonia il Vangelo, dal favorevole andamento numerico delle vocazioni sacerdotali che si registra in diverse diocesi, dall'urgenza di una nuova verifica dei contenuti e dei metodi della formazione sacerdotale, dalla preoccupazione dei Vescovi e delle loro comunità per la persistente scarsità di clero, dall'assoluta necessità che la « nuova evangelizzazione » abbia nei sacerdoti i suoi primi « nuovi evangelizzatori ».

Proprio in questo contesto storico e culturale si è collocata l'ultima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata a « La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali », con l'intento, a distanza di 25 anni dalla fine del Concilio, di portare a compimento la dottrina conciliare su questo argomento e di renderla più attuale e incisiva nelle circostanze odierne.13

3. In continuità con i testi del Concilio Vaticano II circa l'ordine dei presbiteri e la loro formazione,14 e nell'intento di applicarne in concreto alle varie situazioni la ricca ed autorevole dottrina, la Chiesa ha affrontato più volte i problemi della vita, del ministero e della formazione dei sacerdoti.

Le occasioni più solenni sono stati i Sinodi dei Vescovi. Fin dalla prima Assemblea generale, svoltasi nell'ottobre del 1967, il Sinodo dedicò 5 congregazioni generali al tema del rinnovamento dei seminari. Questo lavoro diede impulso decisivo all'elaborazione del documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica: « Norme fondamentali per la formazione sacerdotale ».15

Fu soprattutto la seconda Assemblea generale ordinaria del 1971 a impegnare la metà dei suoi lavori sul sacerdozio ministeriale. I frutti di questo lungo confronto sinodale, ripresi e condensati in alcune « raccomandazioni » sottomesse al mio Predecessore, Papa Paolo VI, e lette in apertura del Sinodo del 1974, riguardavano principalmente la dottrina sul sacerdozio ministeriale ed alcuni aspetti della spiritualità e del ministero sacerdotale.

Anche in molte altre occasioni il Magistero della Chiesa ha continuato a testimoniare la sua sollecitudine per la vita e per il ministero dei sacerdoti. Si può dire che negli anni del post-Concilio non ci sia stato intervento magisteriale che in qualche misura non abbia riguardato, in modo esplicito o implicito, il senso della presenza dei sacerdoti nella comunità, il loro ruolo e la loro necessità per la Chiesa e per la vita del mondo.

In questi anni più recenti e da più parti è stata avvertita la necessità di ritornare sul tema del sacerdozio, affrontandolo da un punto di vista relativamente nuovo e più adatto alle presenti circostanze ecclesiali e culturali. L'attenzione si è spostata dal problema dell'identità del prete ai problemi connessi con l'itinerario formativo al sacerdozio e con la qualità di vita dei sacerdoti. In realtà le nuove generazioni di chiamati al sacerdozio ministeriale presentano caratteristiche notevolmente diverse rispetto a quelle dei loro immediati predecessori e vivono in un mondo per tanti aspetti nuovo e in continua e rapida evoluzione. E di tutto ciò non si può non tener conto nella programmazione e nella realizzazione degli itinerari educativi al sacerdozio ministeriale.

I sacerdoti poi, già inseriti da un tempo più o meno lungo nell'esercizio del ministero, sembrano oggi soffrire di eccessiva dispersione nelle sempre crescenti attività pastorali e, di fronte alle difficoltà della società e della cultura contemporanea, si sentono costretti a ripensare i loro stili di vita e le priorità degli impegni pastorali, mentre avvertono sempre più la necessità di una formazione permanente.

Ora all'incremento delle vocazioni al presbiterato, alla loro formazione perché i candidati conoscano e seguano Gesù preparandosi a celebrare e a vivere il sacramento dell'Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, Servo e Sposo della Chiesa, all'individuazione di itinerari di formazione permanente capaci di sostenere in modo realistico ed efficace il ministero e la vita spirituale dei sacerdoti sono state dedicate le preoccupazioni e le riflessioni del Sinodo dei Vescovi 1990.

Questo stesso Sinodo intendeva anche rispondere a una richiesta fatta dal precedente Sinodo sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo. I laici stessi avevano sollecitato l'impegno dei sacerdoti alla formazione per essere opportunamente aiutati nel compimento della comune missione ecclesiale. E in realtà, « più si sviluppa l'apostolato dei laici e più fortemente viene percepito il bisogno di avere dei sacerdoti che siano ben formati. Così la vita stessa del popolo di Dio manifesta l'insegnamento del Concilio Vaticano II sul rapporto tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico: infatti nel mistero della Chiesa la gerarchia ha un carattere ministeriale.16 Più si approfondisce il senso della vocazione propria dei laici, più si evidenzia ciò che è proprio del sacerdozio ».17

4. Nell'esperienza ecclesiale tipica del Sinodo, quella cioè di « una singolare esperienza di comunione episcopale nell'universalità, che rafforza il senso della Chiesa universale, la responsabilità dei Vescovi verso la Chiesa universale e la sua missione, in comunione affettiva ed effettiva attorno a Pietro »,18 si è fatta sentire, limpida ed accurata, la voce delle diverse Chiese particolari — e in questo Sinodo, per la prima volta, di alcune Chiese dell'Est —, le Chiese hanno proclamato la loro fede nel compimento della promessa di Dio: « Vi darò pastori secondo il mio cuore »,19 e hanno rinnovato il loro impegno pastorale per la cura delle vocazioni e per la formazione dei sacerdoti, nella consapevolezza che da queste dipendono l'avvenire della Chiesa, il suo sviluppo e la sua missione universale di salvezza.

Riprendendo ora il ricco patrimonio delle riflessioni, degli orientamenti e delle indicazioni che hanno preparato e accompagnato i lavori dei Padri sinodali, con questa Esortazione Apostolica post-sinodale unisco alla loro la mia voce di Vescovo di Roma e di Successore di Pietro e la rivolgo al cuore di tutti i fedeli e di ciascuno di essi, in particolare al cuore dei sacerdoti e di quanti sono impegnati nel delicato ministero della loro formazione. Sì, con tutti i sacerdoti e con ciascuno di loro, sia diocesani sia religiosi, desidero incontrarmi mediante questa Esortazione.

Con le labbra e il cuore dei Padri sinodali faccio mie le parole e i sentimenti del « Messaggio finale del Sinodo al popolo di Dio »: « Con animo riconoscente e pieno di ammirazione ci rivolgiamo a voi che siete i nostri primi cooperatori nel servizio apostolico. La vostra opera nella Chiesa è veramente necessaria e insostituibile. Voi sostenete il peso del ministero sacerdotale e avete il contatto quotidiano con i fedeli. Voi siete i ministri dell'Eucaristia, i dispensatori della misericordia divina nel Sacramento della Penitenza, i consolatori delle anime, le guide dei fedeli tutti nelle tempestose difficoltà della vita.

« Vi salutiamo con tutto il cuore, vi esprimiamo la nostra gratitudine e vi esortiamo a perseverare in questa via con animo lieto e pronto. Non cedete allo scoraggiamento. La nostra opera non è nostra ma di Dio.

« Colui che ci ha chiamati e che ci ha inviati rimane con noi per tutti i giorni della nostra vita. Noi infatti operiamo per mandato di Cristo ».20

CAPITOLO I

PRESO FRA GLI UOMINI

5. « Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio ».21

La Lettera agli Ebrei afferma chiaramente l'« umanità » del ministro di Dio: egli viene dagli uomini ed è al servizio degli uomini, imitando Gesù Cristo « lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato ».22

Dio chiama i suoi sacerdoti sempre da determinati contesti umani ed ecclesiali, dai quali sono inevitabilmente connotati e ai quali sono mandati per il servizio del Vangelo di Cristo.

Per questo il Sinodo ha contestualizzato l'argomento dei sacerdoti, collocandolo nell'oggi della società e della Chiesa e aprendolo alle prospettive del terzo millennio, come del resto risulta dalla stessa formulazione del tema: « La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali ».

Certamente « c'è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta: il sacerdote di domani infatti, non meno di quello di oggi, dovrà assomigliare a Cristo. Quando viveva sulla terra, Gesù offrì in se stesso il volto definitivo del presbitero, realizzando un sacerdozio ministeriale di cui gli apostoli furono i primi ad essere investiti; esso è destinato a durare, a riprodursi incessantemente in tutti i periodi della storia. Il presbitero del terzo millennio sarà, in questo senso, il continuatore dei presbiteri che, nei precedenti millenni, hanno animato la vita della Chiesa. Anche nel Duemila la vocazione sacerdotale continuerà ad essere la chiamata a vivere l'unico e permanente sacerdozio di Cristo ».23 Altrettanto certamente la vita e il ministero del sacerdote devono anche « adattarsi a ogni epoca e ad ogni ambiente di vita... Da parte nostra dobbiamo perciò cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea, riconoscere i bisogni spirituali più profondi, determinare i compiti concreti più importanti, i metodi pastorali da adottare, e così rispondere in modo adeguato alle attese umane ».24

Dovendo coniugare la permanente verità del ministero presbiterale con le istanze e le caratteristiche dell'oggi, i Padri Sinodali hanno cercato di rispondere ad alcune domande necessarie: quali problemi e, nello stesso tempo, quali stimoli positivi l'attuale contesto socio-culturale ed ecclesiale suscita nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani che devono maturare, per tutta l'esistenza, un progetto di vita sacerdotale? Quali difficoltà e quali nuove possibilità offre il nostro tempo per l'esercizio di un ministero sacerdotale coerente col dono del Sacramento ricevuto e con l'esigenza di una vita spirituale corrispondente?

Ripresento ora alcuni elementi dell'analisi della situazione che i Padri sinodali hanno sviluppato, ben consapevole però che la grande varietà delle circostanze socio-culturali ed ecclesiali presenti nei diversi paesi consiglia di segnalare solo i fenomeni più profondi e più diffusi, in particolare quelli che si rapportano ai problemi educativi e alla formazione sacerdotale.

6. Molteplici fattori sembrano favorire negli uomini d'oggi una più matura coscienza della dignità della persona e una nuova apertura ai valori religiosi, al Vangelo e al ministero sacerdotale.

Nell'ambito della società troviamo, nonostante tante contraddizioni, una più diffusa e forte sete di giustizia e di pace, un senso più vivo della cura dell'uomo per il creato e per il rispetto della natura, una ricerca più aperta della verità e della tutela della dignità umana, l'impegno crescente, in molte fasce della popolazione mondiale, per una più concreta solidarietà internazionale e per un nuovo ordine planetario, nella libertà e nella giustizia. Cresce anche, mentre si sviluppa sempre più il potenziale di energie offerto dalle scienze e dalle tecniche e si diffondono l'informazione e la cultura, una nuova domanda etica, la domanda, cioè, di senso e quindi di un'oggettiva scala di valori che permetta di stabilire le possibilità e i limiti del progresso.

Nel campo più propriamente religioso e cristiano, cadono pregiudizi ideologici e chiusure violente all'annuncio dei valori spirituali e religiosi, mentre sorgono nuove e insperate possibilità per l'evangelizzazione e la ripresa della vita ecclesiale in molte parti del mondo. Si notano così una crescente diffusione della conoscenza delle Sacre Scritture; una vitalità e forza espansiva di molte Chiese giovani con un ruolo sempre più rilevante nella difesa e nella promozione dei valori della persona e della vita umana; una splendida testimonianza del martirio da parte delle Chiese del Centro-Est europeo, come anche della fedeltà e del coraggio di altre Chiese, che ancora sono costrette a subire persecuzioni e tribolazioni per la fede.25

Il desiderio di Dio e di un rapporto vivo e significativo con Lui si presenta oggi tanto forte da favorire, là dove manca l'autentico e integrale annuncio del Vangelo di Gesù, la diffusione di forme di religiosità senza Dio e di molteplici sette. La loro espansione, anche in alcuni ambienti tradizionalmente cristiani, è sì per tutti i figli della Chiesa, e per i sacerdoti in particolare, un costante motivo di esame di coscienza sulla credibilità della loro testimonianza al Vangelo, ma insieme anche un segno di quanto sia tuttora profonda e diffusa la ricerca di Dio.

7. Ma con questi e con altri fattori positivi si trovano intrecciati molti elementi problematici o negativi.

Ancora molto diffuso si presenta il razionalismo, che, in nome di una concezione riduttiva di scienza, rende insensibile la ragione umana all'incontro con la Rivelazione e con la trascendenza divina.

È da registrarsi poi una difesa esasperata della soggettività della persona, che tende a chiuderla nell'individualismo, incapace di vere relazioni umane. Così molti, soprattutto tra i ragazzi e i giovani, cercano di compensare questa solitudine con surrogati di varia natura, con forme più o meno acute di edonismo, di fuga dalle responsabilità; prigionieri dell'attimo fuggente, cercano di « consumare » esperienze individuali il più possibile forti e gratificanti sul piano delle emozioni e delle sensazioni immediate, trovandosi però inevitabilmente indifferenti e come paralizzati di fronte all'appello di un progetto di vita che includa una dimensione spirituale e religiosa e un impegno di solidarietà.

Si diffonde, inoltre, in ogni parte del mondo, anche dopo la caduta delle ideologie che avevano fatto del materialismo un dogma e del rifiuto della religione un programma, una sorta di ateismo pratico ed esistenziale, che coincide con una visione secolarista della vita e del destino dell'uomo. Quest'uomo « tutto occupato di sé, quest'uomo che si fa non soltanto centro di ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni realtà »,26 si trova sempre più impoverito di quel supplemento d'anima che gli è tanto più necessario quanto più una larga disponibilità di beni materiali e di risorse lo illude di autosufficienza. Non c'è più bisogno di combattere Dio, si pensa di poter fare semplicemente a meno di lui.

In questo quadro, si devono notare, in particolare, la disgregazione della realtà familiare e l'oscuramento o il travisamento del vero senso della sessualità umana: sono fenomeni che incidono in modo fortemente negativo sull'educazione dei giovani e sulla loro disponibilità ad ogni vocazione religiosa. Si devono notare, inoltre, l'aggravarsi delle ingiustizie sociali e il concentrarsi della ricchezza nelle mani di pochi, come frutto di un capitalismo disumano,27 che allarga sempre più la distanza tra popoli opulenti e popoli indigenti: vengono così introdotte nella convivenza umana tensioni e inquietudini che turbano profondamente la vita delle persone e delle comunità.

Anche nell'ambito ecclesiale, si registrano fenomeni preoccupanti e negativi, che hanno diretto influsso sulla vita e sul ministero dei sacerdoti. Così l'ignoranza religiosa che permane in molti credenti; la scarsa incidenza della catechesi, soffocata dai più diffusi e più suadenti messaggi dei mezzi di comunicazione di massa; il malinteso pluralismo teologico, culturale e pastorale che, pur partendo a volte da buone intenzioni, finisce per rendere difficile il dialogo ecumenico e per attentare alla necessaria unità della fede; il persistere di un senso di diffidenza e quasi di insofferenza per il magistero gerarchico; le spinte unilaterali e riduttive della ricchezza del messaggio evangelico, che trasformano l'annuncio e la testimonianza della fede in un esclusivo fattore di liberazione umana e sociale oppure in un alienante rifugio nella superstizione e nella religiosità senza Dio.28

Un fenomeno di grande rilievo, anche se relativamente recente in molti paesi di antica tradizione cristiana, è la presenza in uno stesso territorio di consistenti nuclei di razze diverse e di diverse religioni. Si sviluppa così sempre più la società multirazziale e multireligiosa. Se questo può essere occasione, da un lato, di un esercizio più frequente e fruttuoso del dialogo, di un'apertura di mentalità, di esperienze di accoglienza e di giusta tolleranza, dall'altro lato può essere causa di confusione e di relativismo, soprattutto in persone e popolazioni dalla fede meno matura.

A questi fattori, e in stretto collegamento con la crescita dell'individualismo, si aggiunge il fenomeno della soggettivizzazione della fede. Si registra cioè, da parte di un numero crescente di cristiani, una minore sensibilità all'insieme globale ed oggettivo della dottrina della fede, per un'adesione soggettiva a ciò che piace, che corrisponde alla propria esperienza, che non scomoda le proprie abitudini. Anche l'appello all'inviolabilità della coscienza individuale, in se stesso legittimo, non manca di assumere, in questo contesto, pericolosi caratteri di ambiguità.

Di qui deriva anche il fenomeno delle appartenenze alla Chiesa sempre più parziali e condizionate, che esercitano un influsso negativo sul nascere di nuove vocazioni al sacerdozio, sulla stessa autocoscienza del sacerdote e sul suo ministero nella comunità.

Infine, in molte realtà ecclesiali è, ancora oggi, la scarsa presenza e disponibilità di forze sacerdotali a creare i problemi più gravi. I fedeli sono spesso abbandonati per lunghi periodi, senza adeguato sostegno pastorale: ne soffrono così la crescita della loro vita cristiana nel suo complesso e, ancor più, la loro capacità di farsi ulteriormente promotori di evangelizzazione.

8. Le numerose contraddizioni e potenzialità di cui sono segnate le nostre società e culture e, nello stesso tempo, le comunità ecclesiali sono percepite, vissute e sperimentate con una intensità del tutto particolare dal mondo dei giovani, con ripercussioni immediate e quanto mai incisive sul loro cammino educativo. In tal senso il sorgere e lo svilupparsi della vocazione sacerdotale nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani incontrano continuamente ad un tempo ostacoli e sollecitazioni.

Quanto mai forte è sui giovani il fascino della cosiddetta « società dei consumi », che li fa succubi e prigionieri di un'interpretazione individualista, materialista ed edonista dell'esistenza umana. Il benessere materialmente inteso tende ad imporsi come unico ideale di vita, un benessere da ottenersi a qualsiasi condizione e prezzo: di qui il rifiuto di tutto ciò che sa di sacrificio e la rinuncia alla fatica di cercare e di vivere i valori spirituali e religiosi. La « preoccupazione » esclusiva per l'avere soppianta il primato dell'essere, con la conseguenza di interpretare e di vivere i valori personali e interpersonali non secondo la logica del dono e della gratuità, bensì secondo quella del possesso egoistico e della strumentalizzazione dell'altro.

Questo si riflette, in particolare, sulla visione della sessualità umana, che viene fatta decadere dalla sua dignità di servizio alla comunione e alla donazione tra le persone per essere semplicemente ricondotta ad un bene di consumo. Così l'esperienza affettiva di molti giovani si risolve non in una crescita armoniosa e gioiosa della propria personalità che si apre all'altro nel dono di sé, ma in una grave involuzione psicologica ed etica, che non potrà non avere i suoi pesanti condizionamenti sul loro domani.

Alla radice di queste tendenze si dà per non pochi giovani un'esperienza distorta della libertà: lungi dall'essere obbedienza alla verità oggettiva e universale, la libertà è vissuta come assenso cieco alle forze istintive e alla volontà di potenza del singolo. Si fanno allora in qualche modo naturali, sul piano della mentalità e del comportamento, lo sgretolarsi del consenso intorno ai principii etici, e, sul piano religioso, se non sempre il rifiuto esplicito di Dio, una larga indifferenza e comunque una vita che, anche nei suoi momenti più significativi e nelle sue scelte più decisive, viene vissuta come se Dio non esistesse. In un simile contesto si fa difficile non solo la realizzazione ma la stessa comprensione del senso di una vocazione al sacerdozio, che è una specifica testimonianza del primato dell'essere sull'avere, è riconoscimento del senso della vita come dono libero e responsabile di sé agli altri, come disponibilità a porsi interamente al servizio del Vangelo e del Regno di Dio in quella particolare forma.

Anche nell'ambito della comunità ecclesiale il mondo dei giovani costituisce, non poche volte, un « problema ». In realtà, se nei giovani, ancor più che negli adulti, sono presenti una forte tendenza alla soggettivizzazione della fede cristiana e un'appartenenza solo parziale e condizionata alla vita e alla missione della Chiesa, nella comunità ecclesiale fatica, per una serie di ragioni, a decollare una pastorale giovanile aggiornata e coraggiosa: i giovani rischiano di essere lasciati a se stessi, in balìa della loro fragilità psicologica, insoddisfatti e critici di fronte ad un mondo di adulti che, non vivendo in modo coerente e maturo la fede, non si presentano loro come modelli credibili.

Si fa allora evidente la difficoltà di proporre ai giovani un'esperienza integrale e coinvolgente di vita cristiana ed ecclesiale e di educarli ad essa. Così la prospettiva della vocazione al sacerdozio rimane lontana dagli interessi concreti e vivi dei giovani.

9. Non mancano però situazioni e stimoli positivi, che suscitano e alimentano nel cuore degli adolescenti e dei giovani una nuova disponibilità, nonché una vera e propria ricerca di valori etici e spirituali, che per loro natura offrono il terreno propizio per un cammino vocazionale verso il dono totale di sé a Cristo e alla Chiesa nel sacerdozio.

È da rilevare, anzitutto, come si siano attenuati alcuni fenomeni, che in un recente passato avevano provocato non pochi problemi, quali la contestazione radicale, le spinte libertarie, le rivendicazioni utopiche, le forme indiscriminate di socializzazione, la violenza.

Si deve riconoscere, inoltre, che anche i giovani d'oggi, con la forza e la freschezza tipiche dell'età, sono portatori degli ideali che si fanno strada nella storia: la sete della libertà, il riconoscimento del valore incommensurabile della persona, il bisogno dell'autenticità e della trasparenza, un nuovo concetto e stile di reciprocità nei rapporti tra uomo e donna, la ricerca convinta e appassionata di un mondo più giusto, più solidale, più unito, l'apertura e il dialogo con tutti, l'impegno per la pace.

Lo sviluppo, così ricco e vivace in tanti giovani del nostro tempo, di numerose e varie forme di volontariato rivolto alle situazioni più dimenticate e disagiate della nostra società, rappresenta oggi una risorsa educativa particolarmente importante, perché stimola e sostiene i giovani ad uno stile di vita più disinteressato e più aperto e solidale con i poveri. Questo stile di vita può facilitare la comprensione, il desiderio e l'accoglienza di una vocazione al servizio stabile e totale verso gli altri anche sulla strada della piena consacrazione a Dio con una vita sacerdotale.

Il recente crollo delle ideologie, il modo fortemente critico di porsi di fronte al mondo degli adulti che non sempre offrono una testimonianza di vita affidata a valori morali e trascendenti, la stessa esperienza di compagni che cercano evasioni nella droga e nella violenza, contribuiscono non poco a rendere più acuta ed ineludibile la fondamentale domanda circa i valori che sono veramente capaci di dare pienezza di significato alla vita, alla sofferenza e alla morte. In tanti giovani si fanno più espliciti la domanda religiosa e il bisogno di spiritualità: di qui il desiderio di esperienze di deserto e di preghiera, il ritorno ad una lettura più personale e abituale della Parola di Dio e allo studio della teologia.

E come già nell'ambito del volontariato sociale, così in quello della comunità ecclesiale i giovani si fanno sempre più attivi e protagonisti, soprattutto con la partecipazione alle varie aggregazioni, da quelle tradizionali ma rinnovate a quelle più recenti: l'esperienza di una Chiesa « sollecitata alla nuova evangelizzazione » dalla fedeltà allo Spirito che la anima e dalle esigenze del mondo lontano da Cristo ma bisognoso di Lui, come pure l'esperienza di una Chiesa sempre più solidale con l'uomo e con i popoli nella difesa e nella promozione della dignità personale e dei diritti umani di tutti e di ciascuno aprono il cuore e la vita dei giovani a ideali quanto mai affascinanti e impegnativi, che possono trovare la loro concreta realizzazione nella sequela di Cristo e nel sacerdozio.

È naturale che da questa situazione umana ed ecclesiale, caratterizzata da forte ambivalenza, non si potrà affatto prescindere non solo nella pastorale delle vocazioni e nell'opera di formazione dei futuri sacerdoti, ma anche nell'ambito della vita e del ministero dei sacerdoti e della loro formazione permanente. Così, se si possono comprendere le varie forme di « crisi » alle quali vanno soggetti i sacerdoti d'oggi nell'esercizio del ministero, nella loro vita spirituale ed anche nella stessa interpretazione della natura e del significato del sacerdozio ministeriale, si devono pure registrare, con gioia e con speranza, le nuove possibilità positive che il momento storico attuale offre ai sacerdoti per il compimento della loro missione.

10. La complessa situazione attuale, rapidamente evocata per cenni e in modo esemplificativo, chiede di essere non solo conosciuta, ma anche e soprattutto interpretata. Solo così si potrà rispondere in modo adeguato alla fondamentale domanda: Come formare sacerdoti che siano veramente all'altezza di questi tempi, capaci di evangelizzare il mondo di oggi?.29

È importante la conoscenza della situazione. Non basta una semplice rilevazione dei dati; occorre un'indagine « scientifica » con la quale delineare un quadro preciso e concreto delle reali circostanze socio-culturali ed ecclesiali.

Ancor più importante è l'interpretazione della situazione. Essa è richiesta dall'ambivalenza e talvolta dalla contraddittorietà di cui è segnata la situazione, che registra profondamente intrecciati tra loro difficoltà e potenzialità, elementi negativi e ragioni di speranza, ostacoli e aperture, come il campo evangelico nel quale sono seminati e « convivono » il buon grano e la zizzania.30

Non è sempre facile una lettura interpretativa, che sappia distinguere tra bene e male, tra segni di speranza e minacce. Nella formazione dei sacerdoti non si tratta solo e semplicemente di accogliere i fattori positivi e di contrastare frontalmente quelli negativi. Si tratta di sottoporre gli stessi fattori positivi ad attento discernimento, perché non si isolino l'uno dall'altro e non vengano in contrasto tra loro, assolutizzandosi e combattendosi a vicenda. Altrettanto si dica dei fattori negativi: non sono da respingere in blocco e senza distinzioni, perché in ciascuno di essi può nascondersi un qualche valore, che attende di essere liberato e ricondotto alla sua verità piena.

Per il credente l'interpretazione della situazione storica trova il principio conoscitivo e il criterio delle scelte operative conseguenti in una realtà nuova e originale, ossia nel discernimento evangelico; è l'interpretazione che avviene nella luce e nella forza del Vangelo, del Vangelo vivo e personale che è Gesù Cristo, e con il dono dello Spirito Santo. In tal modo il discernimento evangelico coglie nella situazione storica e nelle sue vicende e circostanze non un semplice « dato » da registrare con precisione, di fronte al quale è possibile rimanere nell'indifferenza o nella passività, bensì un « compito », una sfida alla libertà responsabile sia della singola persona che della comunità. È una « sfida » che si collega ad un « appello », che Dio fa risuonare nella stessa situazione storica: anche in essa e attraverso di essa Dio chiama il credente, e prima ancora la Chiesa, a far sì che « il Vangelo della vocazione e del sacerdozio » esprima la sua verità perenne nelle mutevoli circostanze della vita. Anche alla formazione dei sacerdoti sono da applicarsi le parole del Concilio Vaticano II: « È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ogni generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche ».31

Questo discernimento evangelico si fonda sulla fiducia nell'amore di Gesù Cristo, che sempre e instancabilmente si prende cura della sua Chiesa,32 Lui che è il Signore e il Maestro, chiave di volta, centro e fine di tutta la storia umana;33 si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo, che suscita ovunque e in ogni circostanza l'obbedienza della fede, il coraggio gioioso della sequela di Gesù, il dono della sapienza che tutto giudica e non è giudicata da nessuno;34 riposa sulla fedeltà del Padre alle sue promesse.

In questo modo la Chiesa sente di poter affrontare le difficoltà e le sfide di questo nuovo periodo della storia e di poter assicurare anche per il presente e per il futuro sacerdoti ben formati, che siano convinti e ferventi ministri della « nuova evangelizzazione », servitori fedeli e generosi di Gesù Cristo e degli uomini.

Non ci nascondiamo le difficoltà. Non sono né poche né leggere. Ma a vincerle sono la nostra speranza, la nostra fede nell'indefettibile amore di Cristo, la nostra certezza della insostituibilità del ministero sacerdotale per la vita della Chiesa e del mondo.

CAPITOLO II

MI HA CONSACRATO CON L'UNZIONE E MI HA MANDATO
La natura e la missione del sacerdozio ministeriale

11. « Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui ».35 Quanto dice l'evangelista Luca di coloro che erano presenti quel sabato nella sinagoga di Nazareth in ascolto del commento, che Gesù avrebbe fatto del rotolo del profeta Isaia da lui stesso letto, può applicarsi a tutti i cristiani, sempre chiamati a riconoscere in Gesù di Nazareth il definitivo compimento dell'annuncio profetico: « Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi" ».36 E la « scrittura » era questa: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore ».37 Gesù, dunque, si autopresenta come ripieno di Spirito, « consacrato con l'unzione », « mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio »: è il Messia, il Messia sacerdote, profeta e re.

È questo il volto di Cristo sul quale gli occhi della fede e dell'amore dei cristiani devono stare fissi. Proprio a partire da e in riferimento a questa « contemplazione » i Padri sinodali hanno riflettuto sul problema della formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali. Tale problema non può trovare risposta senza una previa riflessione sulla meta alla quale è ordinato il cammino formativo: la meta è il sacerdozio ministeriale, più precisamente il sacerdozio ministeriale come partecipazione nella Chiesa del sacerdozio stesso di Gesù Cristo. La conoscenza della natura e della missione del sacerdozio ministeriale è il presupposto irrinunciabile, e nello stesso tempo la guida più sicura e lo stimolo più incisivo, per sviluppare nella Chiesa l'azione pastorale di promozione e di discernimento delle vocazioni sacerdotali e di formazione dei chiamati al ministero ordinato.

La retta e approfondita conoscenza della natura e della missione del sacerdozio ministeriale è la via da seguire, e il Sinodo di fatto l'ha seguita, per uscire dalla crisi sull'identità del sacerdote: « Questa crisi — dicevo nel Discorso al termine del Sinodo — era nata negli anni immediatamente successivi al Concilio. Si fondava su un'errata comprensione, talvolta persino volutamente tendenziosa, della dottrina del magistero conciliare. Qui indubbiamente sta una delle cause del gran numero di perdite subite allora dalla Chiesa, perdite che hanno gravemente colpito il servizio pastorale e le vocazioni al sacerdozio, in particolare le vocazioni missionarie. È come se il Sinodo del 1990, riscoprendo, attraverso tanti interventi che abbiamo ascoltato in quest'aula, tutta la profondità dell'identità sacerdotale, fosse venuto a infondere la speranza dopo queste perdite dolorose. Questi interventi hanno manifestato la coscienza del legame ontologico specifico che unisce il sacerdote a Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore. Questa identità sottende alla natura della formazione che deve essere impartita in vista del sacerdozio, e quindi lungo tutta la vita sacerdotale. Era questo lo scopo proprio del Sinodo ».38

Per questo il Sinodo ha ritenuto necessario richiamare, in modo sintetico e fondamentale, la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, così come la fede della Chiesa le ha riconosciute lungo i secoli della sua storia e come il Concilio Vaticano II le ha ripresentate agli uomini del nostro tempo.39

12. « L'identità sacerdotale — hanno scritto i Padri sinodali —, come ogni identità cristiana, ha la sua fonte nella Santissima Trinità »,40 che si rivela e si autocomunica agli uomini in Cristo, costituendo in Lui e per mezzo dello Spirito la Chiesa come « germe e inizio del Regno ».41 L'Esortazione « Christifideles Laici », sintetizzando l'insegnamento conciliare, presenta la Chiesa come mistero, comunione e missione: essa « è mistero perché l'amore e la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono il dono assolutamente gratuito offerto a quanti sono nati dall'acqua e dallo Spirito,42 chiamati a rivivere la comunione stessa di Dio e a manifestarla e comunicarla nella storia (missione) ».43

È all'interno del mistero della Chiesa, come mistero di comunione trinitaria in tensione missionaria, che si rivela ogni identità cristiana, e quindi anche la specifica identità del sacerdote e del suo ministero. Il presbitero, infatti, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell'Ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo.44

Si può così comprendere la connotazione essenzialmente « relazionale » dell'identità del presbitero: mediante il sacerdozio, che scaturisce dalle profondità dell'ineffabile mistero di Dio, ossia dall'amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell'unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il Vescovo e con gli altri presbiteri,45 per servire il Popolo di Dio che è la Chiesa e attrarre tutti a Cristo, secondo la preghiera del Signore: « Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi... Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato ».46

Non si può allora definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell'unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano.47 In questo contesto l'ecclesiologia di comunione diventa decisiva per cogliere l'identità del presbitero, la sua originale dignità, la sua vocazione e missione nel Popolo di Dio e nel mondo. Il riferimento alla Chiesa è, perciò, necessario, anche se non prioritario nella definizione dell'identità del presbitero. In quanto mistero, infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: di Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa. È il « segno » e il « memoriale » vivo della sua permanente presenza e azione fra noi e per noi. Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una derivazione, una partecipazione specifica ed una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta « novità » nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali.

13. Gesù Cristo ha manifestato in se stesso il volto perfetto e definitivo del sacerdozio della nuova Alleanza:48 questo ha fatto in tutta la sua vita terrena, ma soprattutto nell'evento centrale della sua passione, morte e risurrezione.

Come scrive l'autore della Lettera agli Ebrei, Gesù, essendo uomo come noi e insieme il Figlio unigenito di Dio, è nel suo stesso essere mediatore perfetto tra il Padre e l'umanità,49 Colui che ci dischiude l'accesso immediato a Dio, grazie al dono dello Spirito: « Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre! ».50

Gesù porta a piena attuazione il suo essere mediatore attraverso l'offerta di Se stesso sulla croce, con la quale ci apre, una volta per tutte, l'accesso al santuario celeste, alla casa del Padre.51 Al confronto di Gesù, Mosè e tutti i mediatori dell'Antico Testamento tra Dio e il suo popolo — i re, i sacerdoti e i profeti — si presentano solo come figure ed ombre dei beni futuri e non come la realtà stessa.52

Gesù è il Buon Pastore preannunciato,53 Colui che conosce le sue pecore una ad una, che offre la sua vita per loro e che tutti vuol raccogliere in un solo gregge con un solo pastore.54 È il pastore venuto « non per essere servito, ma per servire »,55 che, nell'atto pasquale della lavanda dei piedi,56 lascia ai suoi il modello del servizio che dovranno avere gli uni verso gli altri e che si offre liberamente come agnello innocente immolato per la nostra redenzione.57

Con l'unico e definitivo sacrificio della croce, Gesù comunica a tutti i suoi discepoli la dignità e la missione di sacerdoti della nuova ed eterna Alleanza. Si adempie così la promessa che Dio ha fatto a Israele: « Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa ».58 È tutto il popolo della nuova Alleanza — scrive San Pietro — ad essere costituito come « un edificio spirituale », « un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo ».59 Sono i battezzati le « pietre vive », che costruiscono l'edificio spirituale stringendosi a Cristo « pietra viva... scelta e preziosa davanti a Dio ».60 Il nuovo popolo sacerdotale che è la Chiesa, non solo ha in Cristo la propria autentica immagine, ma anche da Lui riceve una partecipazione reale e ontologica al suo eterno e unico sacerdozio, al quale deve conformarsi con tutta la sua vita.

14. A servizio di questo sacerdozio universale della nuova Alleanza, Gesù chiama a sé, nel corso della sua missione terrena, alcuni discepoli 61 e con un mandato specifico e autorevole chiama e costituisce i Dodici, affinché « stessero con lui e anche per mandarli a predicare, e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».62

Per questo, già durante il suo ministero pubblico 63 e poi in pienezza dopo la morte e risurrezione,64 Gesù conferisce a Pietro e ai Dodici poteri del tutto particolari nei confronti della futura comunità e per l'evangelizzazione di tutte le genti. Dopo averli chiamati alla sua sequela, li tiene accanto a sé e vive con loro, impartendo con l'esempio e con la parola il suo insegnamento di salvezza e, infine, li manda a tutti gli uomini. E per il compimento di questa missione Gesù conferisce agli apostoli, in virtù di una specifica effusione pasquale dello Spirito Santo, la stessa autorità messianica che gli viene dal Padre e che gli è conferita in pienezza con la risurrezione: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo ».65

Gesù stabilisce così uno stretto collegamento tra il ministero affidato agli apostoli e la sua propria missione: « Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato »;66 « Chi ascolta voi ascolta me, chi di- sprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato ».67 Anzi, il quarto vangelo, nella luce dell'evento pasquale della morte e della risurrezione, afferma con grande forza e chiarezza: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi ».68 Come Gesù ha una missione che gli viene direttamente da Dio e che concretizza l'autorità stessa di Dio,69 così gli apostoli hanno una missione che viene loro da Gesù. E come « il Figlio non può fare nulla da se stesso »,70 sicché la sua dottrina non è sua ma di colui che lo ha mandato,71 così agli apostoli Gesù dice: « Senza di me non potete far nulla »:72 la loro missione non è loro, ma è la stessa missione di Gesù. E ciò è possibile non a partire dalle forze umane, ma solo con il « dono » di Cristo e del suo Spirito, con il « sacramento »: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi ».73 Così, non per qualche loro merito particolare, ma soltanto per la gratuita partecipazione alla grazia di Cristo, gli apostoli prolungano nella storia, sino alla consumazione dei tempi, la stessa missione di salvezza di Gesù a favore degli uomini.

Segno e presupposto dell'autenticità e della fecondità di questa missione è l'unità degli apostoli con Gesù e, in Lui, tra di loro e col Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione.74

15. A loro volta, gli apostoli costituiti dal Signore assolveranno via via alla loro missione chiamando, in forme diverse ma alla fine convergenti, altri uomini, come Vescovi, come presbiteri e come diaconi, per adempiere al mandato di Gesù risorto che li ha inviati a tutti gli uomini di tutti i tempi.

Il Nuovo Testamento è unanime nel sottolineare che è lo stesso Spirito di Cristo a introdurre nel ministero questi uomini, scelti di mezzo ai fratelli. Attraverso il gesto dell'imposizione delle mani,75 che trasmette il dono dello Spirito, essi sono chiamati e abilitati a continuare lo stesso ministero di riconciliare, di pascere il gregge di Dio e di insegnare.76

Pertanto i presbiteri sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato. Come scrive in modo chiaro e preciso la prima Lettera di Pietro: « Esorto i presbiteri che sono tra voi, quale com-presbitero, testimone della sofferenza di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo: non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce ».77

I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l'Eucaristia, ne esercitano l'amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge, che raccolgono nell'unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito. In una parola, i presbiteri esistono ed agiscono per l'annuncio del Vangelo al mondo e per l'edificazione della Chiesa in nome e in persona di Cristo Capo e Pastore.78

Questo è il modo tipico e proprio con il quale i ministri ordinati partecipano all'unico sacerdozio di Cristo. Lo Spirito Santo mediante l'unzione sacramentale dell'Ordine li configura, ad un titolo nuovo e specifico, a Gesù Cristo Capo e Pastore, li conforma ed anima con la sua carità pastorale e li pone nella Chiesa nella condizione autorevole di servi dell'annuncio del Vangelo ad ogni creatura e di servi della pienezza della vita cristiana di tutti i battezzati.

La verità del presbitero quale emerge dalla Parola di Dio, ossia da Gesù Cristo stesso e dal suo disegno costitutivo della Chiesa, viene così cantata con gioiosa gratitudine dalla Liturgia nel Prefazio della Messa del Crisma: « Con l'unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l'imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti. Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all'immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso ».

16. Il sacerdote ha come sua relazione fondamentale quella con Gesù Cristo Capo e Pastore: egli, infatti, partecipa, in modo specifico e autorevole, alla « consacrazioneunzione » e alla « missione » di Cristo.79 Ma, intimamente intrecciata con questa relazione, sta quella con la Chiesa. Non si tratta di « relazioni » semplicemente accostate tra loro, ma interiormente unite in una specie di mutua immanenza. Il riferimento alla Chiesa è iscritto nell'unico e medesimo riferimento del sacerdote a Cristo, nel senso che è la « rappresentanza sacramentale » di Cristo a fondare e ad animare il riferimento del sacerdote alla Chiesa.

In questo senso i Padri sinodali hanno scritto: « In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non soltanto nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla Parola di Dio e ai segni sacramentali di cui è al servizio, appartiene agli elementi costitutivi della Chiesa. Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa; è per la promozione dell'esercizio del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è ordinato non solo alla Chiesa particolare, ma anche alla Chiesa universale,80 in comunione con il Vescovo, con Pietro e sotto Pietro. Mediante il sacerdozio del Vescovo, il sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella struttura apostolica della Chiesa. Così il presbitero come gli apostoli funge da ambasciatore per Cristo.81 In questo si fonda l'indole missionaria di ogni sacerdote ».82

Il ministero ordinato sorge dunque con la Chiesa ed ha nei Vescovi, e in riferimento e comunione con essi nei presbiteri, un particolare rapporto al ministero originario degli apostoli, al quale realmente succede, anche se rispetto ad esso assume modalità diverse di esistenza.

Non si deve allora pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio.

La relazione del sacerdote con Gesù Cristo e, in Lui, con la sua Chiesa si situa nell'essere stesso del sacerdote, in forza della sua consacrazioneunzione sacramentale, e nel suo agire, ossia nella sua missione o ministero. In particolare « il sacerdote ministro è servitore di Cristo presente nella Chiesa mistero, comunione e missione. Per il fatto di partecipare all'"unzione" e alla "missione" di Cristo, egli può prolungare nella Chiesa la sua preghiera, la sua parola, il suo sacrificio, la sua azione salvifica. È dunque servitore della Chiesa mistero perché attua i segni ecclesiali e sacramentali della presenza di Cristo risorto. È servitore della Chiesa comunione perché — unito al Vescovo e in stretto rapporto con il presbiterio — costruisce l'unità della comunità ecclesiale nell'armonia delle diverse vocazioni, carismi e servizi. È, infine, servitore della Chiesa missione perché rende la comunità annunciatrice e testimone del Vangelo ».83

Così, per la sua stessa natura e missione sacramentale, il sacerdote appare, nella struttura della Chiesa, come segno della priorità assoluta e della gratuità della grazia, che alla Chiesa viene donata dal Cristo risorto. Per mezzo del sacerdozio ministeriale la Chiesa prende coscienza, nella fede, di non essere da se stessa, ma dalla grazia di Cristo nello Spirito Santo. Gli apostoli e i loro successori, quali detentori di un'autorità che viene loro da Cristo Capo e Pastore, sono posti — col loro ministero — di fronte alla Chiesa come prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo nel suo stesso stare di fronte alla Chiesa e al mondo, come origine permanente e sempre nuova della salvezza, « lui che è il salvatore del suo corpo ».84

17. Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l'inserimento sacramentale nell'ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale « forma comunitaria » e può essere assolto solo come « un'opera collettiva ».85 Su questa natura comunionale del sacerdozio si è soffermato a lungo il Concilio,86 esaminando distintamente il rapporto del presbitero con il proprio Vescovo, con gli altri presbiteri e con i fedeli laici.

Il ministero dei presbiteri è innanzi tutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del Vescovo, nella sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole Chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il Vescovo un unico presbiterio.

Ciascun sacerdote, sia diocesano che religioso, è unito agli altri membri di questo presbiterio, sulla base del sacramento dell'Ordine, da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. Tutti i presbiteri infatti, sia diocesani sia religiosi, partecipano all'unico sacerdozio di Cristo Capo e Pastore, « lavorano per la stessa causa, cioè per l'edificazione del corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi »,87 e si arricchisce nel corso dei secoli di sempre nuovi carismi.

I presbiteri, infine, poiché la loro figura e il loro compito nella Chiesa non sostituiscono, bensì promuovono il sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio, conducendolo alla sua piena attuazione ecclesiale, si trovano in relazione positiva e promovente con i laici. Della loro fede, speranza e carità sono al servizio. Ne riconoscono e sostengono, come fratelli ed amici, la dignità di figli di Dio e li aiutano ad esercitare in pienezza il loro ruolo specifico nell'ambito della missione della Chiesa.88

Il sacerdozio ministeriale conferito dal sacramento dell'Ordine e quello comune o « regale » dei fedeli, che differiscono tra loro per essenza e non solo per grado,89 sono tra loro coordinati, derivando entrambi — in forme diverse — dall'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio ministeriale, infatti, non significa di per sé un maggiore grado di santità rispetto al sacerdozio comune dei fedeli; ma, attraverso di esso, ai presbiteri è dato da Cristo nello Spirito un particolare dono, perché possano aiutare il Popolo di Dio ad esercitare con fedeltà e pienezza il sacerdozio comune che gli è conferito.90

18. Come sottolinea il Concilio, « il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza sino agli ultimi confini della terra, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli ».91 Per la natura stessa del loro ministero, essi debbono dunque essere penetrati e animati di un profondo spirito missionario e « di quello spirito veramente cattolico che li abitua a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, e ad andare incontro alle necessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo ».92

Inoltre, proprio perché all'interno della vita della Chiesa è l'uomo della comunione, il presbitero dev'essere, nel rapporto con tutti gli uomini, l'uomo della missione e del dialogo. Profondamente radicato nella verità e nella carità di Cristo, e animato dal desiderio e dall'imperativo di annunciare a tutti la sua salvezza, egli è chiamato a intessere rapporti di fraternità, di servizio, di comune ricerca della verità, di promozione della giustizia e della pace, con tutti gli uomini. In primo luogo con i fratelli delle altre Chiese e confessioni cristiane; ma anche con i fedeli delle altre religioni; con gli uomini di buona volontà, in special modo con i poveri e i più deboli, e con tutti coloro che anelano, anche senza saperlo ed esprimerlo, alla verità e alla salvezza di Cristo, secondo la parola di Gesù che ha detto: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori ».93

Oggi, in particolare, il prioritario compito pastorale della nuova evangelizzazione, che investe tutto il Popolo di Dio e postula un nuovo ardore, nuovi metodi e una nuova espressione per l'annuncio e la testimonianza del Vangelo, esige dei sacerdoti radicalmente e integralmente immersi nel mistero di Cristo e capaci di realizzare un nuovo stile di vita pastorale, segnato dalla profonda comunione con il Papa, i Vescovi e tra di loro, e da un feconda collaborazione con i fedeli laici, nel rispetto e nella promozione dei diversi ruoli, carismi e ministeri all'interno della comunità ecclesiale.94

« Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi ».95 Ascoltiamo, ancora una volta, queste parole di Gesù, alla luce del sacerdozio ministeriale che abbiamo presentato nella sua natura e missione. L'« oggi » di cui parla Gesù, proprio perché appartiene alla « pienezza del tempo », ossia al tempo della salvezza piena e definitiva, indica il tempo della Chiesa. La consacrazione e la missione di Cristo: « Lo Spirito del Signore... mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... »,96 sono la radice viva da cui germogliano la consacrazione e la missione della Chiesa, « pienezza » di Cristo:97 con la rigenerazione battesimale, su tutti i credenti si effonde lo Spirito del Signore, che li consacra a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo e li manda a far conoscere i prodigi di Colui che dalle tenebre li ha chiamati all'ammirabile sua luce.98 Il presbitero partecipa alla consacrazione e alla missione di Cristo in modo specifico e autorevole, ossia mediante il sacramento dell'Ordine, in virtù del quale è configurato nel suo essere a Gesù Cristo Capo e Pastore e condivide la missione di « annunciare ai poveri un lieto messaggio » nel nome e nella persona di Cristo stesso.

Nel loro Messaggio finale i Padri sinodali hanno compendiato in poche ma quanto mai ricche parole la « verità », meglio, il « mistero » e il « dono » del sacerdozio ministeriale, dicendo: « La nostra identità ha la sua sorgente ultima nella carità del Padre. Al Figlio da Lui mandato, Sacerdote Sommo e buon Pastore, siamo uniti sacramentalmente con il sacerdozio ministeriale per l'azione dello Spirito Santo. La vita e il ministero del sacerdote sono continuazione della vita e dell'azione dello stesso Cristo. Questa è la nostra identità, la nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia, la certezza della nostra vita ».99

CAPITOLO III

LO SPIRITO DEL SIGNORE E' SOPRA DI ME
La vita spirituale del sacerdote

19. « Lo Spirito del Signore è sopra di me ».100 Lo Spirito non sta semplicemente « sopra » il Messia, ma lo « riempie », lo penetra, lo raggiunge nel suo essere ed operare. Lo Spirito, infatti, è il principio della « consacrazione » e della « missione » del Messia: « per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... ».101 In forza dello Spirito, Gesù appartiene totalmente ed esclusivamente a Dio, partecipa all'infinita santità di Dio che lo chiama, lo elegge e lo manda. Così lo Spirito del Signore si rivela fonte di santità e appello alla santificazione.

Questo stesso « Spirito del Signore » è « sopra » l'intero popolo di Dio, che viene costituito come popolo « consacrato » a Dio e da Dio « mandato » per l'annuncio del Vangelo che salva. Dallo Spirito i membri del Popolo di Dio sono « inebriati » e « segnati » 102 e chiamati alla santità.

In particolare, lo Spirito ci rivela e ci comunica la vocazione fondamentale che il Padre dall'eternità rivolge a tutti: la vocazione ad essere « santi e immacolati al suo cospetto nella carità », in virtù della predestinazione « a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo ».103 Non solo. Rivelandoci e comunicandoci questa vocazione, lo Spirito si fa in noi principio e risorsa della sua realizzazione: lui, lo Spirito del Figlio,104 ci conforma a Cristo Gesù e ci rende partecipi della sua vita filiale, ossia della sua carità verso il Padre e verso i fratelli. « Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito ».105 Con queste parole l'apostolo Paolo ci ricorda che l'esistenza cristiana è « vita spirituale », ossia vita animata e guidata dallo Spirito verso la santità o perfezione della carità.

L'affermazione del Concilio: « Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità » 106 trova una sua particolare applicazione per i presbiteri: essi sono chiamati non solo in quanto battezzati, ma anche e specificamente in quanto presbiteri, ossia ad un titolo nuovo e con modalità originali, derivanti dal sacramento dell'Ordine.

20. Della « vita spirituale » dei presbiteri e del dono e della responsabilità di divenire « santi » il Decreto conciliare sul ministero e sulla vita sacerdotale ci offre una sintesi quanto mai ricca e stimolante: « Con il sacramento dell'Ordine i presbiteri si configurano a Cristo sacerdote come ministri del Capo, allo scopo di far crescere ed edificare tutto il Corpo che è la Chiesa, in qualità di cooperatori dell'ordine episcopale. Già fin dalla consacrazione del Battesimo, essi, come tutti i fedeli, hanno ricevuto il segno e il dono di una vocazione e di una grazia così grande che, pur nell'umana debolezza, possono e devono tendere alla perfezione, secondo quanto ha detto il Signore: "Siate dunque perfetti così come il Padre vostro celeste è perfetto".107 Ma i sacerdoti sono specialmente obbligati a tendere a questa perfezione, poiché essi — che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l'ordinazione — vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha reintegrato con divina efficacia l'intero genere umano. Dato quindi che ogni sacerdote, nel modo che gli è proprio, agisce a nome e nella persona di Cristo stesso, fruisce anche di una grazia speciale, in virtù della quale, mentre è al servizio della gente che gli è affidata e di tutto il Popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Colui del quale è rappresentante, e l'umana debolezza della carne viene sanata dalla santità di Lui, il quale è fatto per noi pontefice "santo, innocente, incontaminato, segregato dai peccatori" 108 ».109

Il Concilio afferma, anzitutto, la vocazione « comune » alla santità. Questa vocazione si radica nel Battesimo, che caratterizza il presbitero come un « fedele » (Christifidelis), come « fratello tra fratelli », inserito e unito con il Popolo di Dio, nella gioia di condividere i doni della salvezza 110 e nell'impegno comune di camminare « secondo lo Spirito », seguendo l'unico Maestro e Signore. Ricordiamo la celebre parola di Sant'Agostino: « Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di un ufficio assunto, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza ».111

Con identica chiarezza il testo conciliare parla anche di una vocazione « specifica » alla santità, più precisamente di una vocazione che si fonda sul sacramento dell'Ordine, quale sacramento proprio e specifico del sacerdote, in forza dunque di una nuova consacrazione a Dio mediante l'ordinazione. A questa vocazione specifica allude ancora Sant'Agostino, che all'affermazione « Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano », fa seguire queste altre parole: « Se dunque mi è causa di maggior gioia l'essere stato con voi riscattato che l'esservi posto a capo, seguendo il comando del Signore, mi dedicherò col massimo impegno a servirvi, per non essere ingrato a chi mi ha riscattato con quel prezzo che mi ha fatto vostro conservo ».112

Il testo del Concilio procede oltre segnalando alcuni elementi necessari a definire il contenuto della « specificità » della vita spirituale dei presbiteri. Sono elementi che si connettono con la « consacrazione » propria dei presbiteri, che li configura a Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa; con la « missione » o ministero tipico degli stessi presbiteri, che li abilita e li impegna ad essere strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote e ad agire « nel nome e nella persona di Cristo stesso »; con la loro intera « vita », chiamata a manifestare e a testimoniare in modo originale il « radicalismo evangelico ».113

21. Mediante la consacrazione sacramentale, il sacerdote è configurato a Gesù Cristo in quanto Capo e Pastore della Chiesa e riceve in dono un « potere spirituale » che è partecipazione all'autorità con la quale Gesù Cristo mediante il suo Spirito guida la Chiesa.114

Grazie a questa consacrazione operata dallo Spirito nell'effusione sacramentale dell'Ordine, la vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e che si compendiano nella sua carità pastorale.

Gesù Cristo è Capo della Chiesa, suo Corpo. È « Capo » nel senso nuovo e originale dell'essere servo, secondo le sue stesse parole: « Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti ».115 Il servizio di Gesù giunge a pienezza con la morte in croce, ossia con il dono totale di sé, nell'umiltà e nell'amore: « Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce... ».116 L'autorità di Gesù Cristo Capo coincide dunque con il suo servizio, con il suo dono, con la sua dedizione totale, umile e amorosa nei riguardi della Chiesa. E questo in perfetta obbedienza al Padre: egli è l'unico vero Servo sofferente del Signore, insieme Sacerdote e Vittima.

Da questo preciso tipo di autorità, ossia dal servizio verso la Chiesa, viene animata e vivificata l'esistenza spirituale di ogni sacerdote, proprio come esigenza della sua configurazione a Gesù Cristo Capo e servo della Chiesa.117 Così Sant'Agostino ammoniva un vescovo nel giorno della sua ordinazione: « Chi è capo del popolo deve per prima cosa rendersi conto che egli è il servo di molti. E non disdegni di esserlo, ripeto, non disdegni di essere il servo di molti, poiché non disdegnò di farsi nostro servo il Signore dei signori ».118

La vita spirituale dei ministri del Nuovo Testamento dovrà essere improntata, dunque, a questo essenziale atteggiamento di servizio al popolo di Dio,119 scevro da ogni presunzione e da ogni desiderio di « spadroneggiare » sul gregge affidato.120 Un servizio fatto di buon animo, secondo Dio e volentieri: in questo modo i ministri, gli « anziani » della comunità, cioè i presbiteri, potranno essere « modello » del gregge, che, a sua volta, è chiamato ad assumere nei confronti del mondo intero questo atteggiamento sacerdotale di servizio alla pienezza della vita dell'uomo e alla sua liberazione integrale.

22. L'immagine di Gesù Cristo Pastore della Chiesa, suo gregge, riprende e ripropone, con nuove e più suggestive sfumature, gli stessi contenuti di quella di Gesù Cristo Capo e servo. Inverando l'annuncio profetico del Messia Salvatore, cantato gioiosamente dal salmista e dal profeta Ezechiele,121 Gesù si autopresenta come il « buon Pastore » 122 non solo di Israele, ma di tutti gli uomini.123 E la sua vita è ininterrotta manifestazione, anzi quotidiana realizzazione della sua « carità pastorale »: sente compassione delle folle, perché sono stanche e sfinite, come pecore senza pastore;124 cerca le smarrite e le disperse 125 e fa festa per il loro ritrovamento, le raccoglie e le difende, le conosce e le chiama ad una ad una,126 le conduce ai pascoli erbosi e alle acque tranquille,127 per loro imbandisce una mensa, nutrendole con la sua stessa vita. Questa vita il buon Pastore offre con la sua morte e risurrezione, come la liturgia romana della Chiesa canta: « È risorto il Pastore buono che ha dato la vita per le sue pecorelle, e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia ».128

Pietro chiama Gesù il « Principe dei pastori »,129 perché la sua opera e missione continuano nella Chiesa attraverso gli apostoli 130 e i loro successori131 e attraverso i presbiteri. In forza della loro consacrazione, i presbiteri sono configurati a Gesù Buon Pastore e sono chiamati a imitare e a rivivere la sua stessa carità pastorale.

Il donarsi di Cristo alla Chiesa, frutto del suo amore, si connota di quella dedizione originale che è propria dello sposo nei riguardi della sposa, come più volte suggeriscono i testi sacri. Gesù è il vero Sposo che offre il vino della salvezza alla Chiesa.132 Lui, che è il « capo della Chiesa... e il salvatore del suo corpo »,133 « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata ».134 La Chiesa è sì il corpo, nel quale è presente e operante Cristo Capo, ma è anche la Sposa, che scaturisce come nuova Eva dal costato aperto del Redentore sulla croce: per questo Cristo sta « davanti » alla Chiesa, « la nutre e la cura » 135 con il dono della sua vita per lei. Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa:136 certamente egli rimane sempre parte della comunità come credente, insieme a tutti gli altri fratelli e sorelle convocati dallo Spirito, ma in forza della sua configurazione a Cristo Capo e Pastore si trova in tale posizione sponsale di fronte alla comunità. « In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ».137 È chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l'amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita dev'essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell'amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di « gelosia » divina,138 con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell'affetto materno, capace di farsi carico dei « dolori del parto » finché « Cristo non sia formato » nei fedeli.139

23. Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero.

Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo. « La carità pastorale è quella virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l'amore di Cristo per il suo gregge. La carità pastorale determina il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di rapportarci alla gente. E risulta particolarmente esigente per noi... ».140

Il dono di sé, radice e sintesi della carità pastorale, ha come destinataria la Chiesa. Così è stato di Cristo che « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei »;141 così dev'essere del sacerdote. Con la carità pastorale che impronta l'esercizio del ministero sacerdotale come « amoris officium »,142 « il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale e, con tale spiritualità concreta, diventa capace di amare la Chiesa universale e quella porzione di essa, che gli è affidata, con tutto lo slancio di uno sposo verso la sposa ».143 Il dono di sé non ha confini, essendo segnato dallo stesso slancio apostolico e missionario di Cristo, del buon Pastore, che ha detto: « E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore ».144

All'interno della comunità ecclesiale, la carità pastorale del sacerdote sollecita ed esige in un modo particolare e specifico il suo rapporto personale con il presbiterio, unito nel e con il Vescovo, come esplicitamente scrive il Concilio: « La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i Vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio ».145

Il dono di sé alla Chiesa la riguarda in quanto essa è il corpo e la sposa di Gesù Cristo. Per questo la carità del sacerdote si riferisce primariamente a Gesù Cristo: solo se ama e serve Cristo Capo e Sposo, la carità diventa fonte, criterio, misura, impulso dell'amore e del servizio del sacerdote alla Chiesa, corpo e sposa di Cristo. È stata questa la coscienza limpida e forte dell'apostolo Paolo, che ai cristiani della Chiesa di Corinto scrive: « Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù ».146 È questo, soprattutto, l'insegnamento esplicito e programmatico di Gesù quando affida a Pietro il ministero di pascere il gregge solo dopo la sua triplice attestazione di amore, anzi di un amore di predilezione: « Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle..." ».147 La carità pastorale, che ha la sua sorgente specifica nel sacramento dell'Ordine, trova la sua espressione piena e il suo supremo alimento nell'Eucaristia: « Questa carità pastorale — leggiamo nel Concilio — scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, cosicché l'anima sacerdotale si studia di rispecchiare in sé ciò che viene realizzato sull'altare ».148 È nell'Eucaristia, infatti, che viene ripresentato, ossia fatto di nuovo presente il sacrificio della croce, il dono totale di Cristo alla sua Chiesa, il dono del suo corpo dato e del suo sangue sparso, quale suprema testimonianza del suo essere Capo e Pastore, Servo e Sposo della Chiesa. Proprio per questo, la carità pastorale del sacerdote non solo scaturisce dall'Eucaristia, ma trova nella celebrazione di questa la sua più alta realizzazione, così come dall'Eucaristia riceve la grazia e la responsabilità di connotare in senso « sacrificale » la sua intera esistenza.

Questa stessa carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote. Grazie ad essa può trovare risposta l'essenziale e permanente esigenza dell'unità tra la vita interiore e le tante azioni e responsabilità del ministero, esigenza quanto mai urgente in un contesto socio-culturale ed ecclesiale fortemente segnato dalla complessità, dalla frammentarietà e dalla dispersività. Solo la concentrazione di ogni istante e di ogni gesto attorno alla scelta fondamentale e qualificante di « dare la vita per il gregge » può garantire questa unità vitale, indispensabile per l'armonia e per l'equilibrio spirituale del sacerdote: « L'unità di vita — ci ricorda il Concilio — può essere raggiunta dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l'esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera... Così, rappresentando il buon Pastore, nello stesso esercizio pastorale della carità troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l'unità nella loro vita e attività ».149

24. Lo Spirito del Signore ha consacrato Cristo e lo ha mandato ad annunciare il Vangelo.150 La missione non è un elemento esteriore e giustapposto alla consacrazione, ma ne costituisce la destinazione intrinseca e vitale: la consacrazione è per la missione. Così, non solo la consacrazione, ma anche la missione sta sotto il segno dello Spirito, sotto il suo influsso santificatore.

Così è stato di Gesù. Così è stato degli apostoli e dei loro successori. Così è dell'intera Chiesa e in essa dei presbiteri: tutti ricevono lo Spirito come dono e appello di santificazione all'interno e attraverso il compimento della missione.151

Esiste dunque un intimo rapporto tra la vita spirituale del presbitero e l'esercizio del suo ministero,152 rapporto che il Concilio così esprime: « Esercitando il ministero dello Spirito e della giustizia essi (presbiteri) vengono consolidati nella vita dello spirito, a condizione però che siano docili agli insegnamenti dello Spirito di Cristo che li vivifica e li conduce. I presbiteri, infatti, sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta unione con il Vescovo e tra di loro. Ma la stessa santità dei presbiteri, a sua volta, contribuisce moltissimo al compimento efficace del loro ministero ».153

« Vivi il mistero che è posto nelle tue mani »! È questo l'invito, il monito che la Chiesa rivolge al presbitero nel rito dell'ordinazione, quando gli vengono consegnate le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Il « mistero », di cui il presbitero è dispensatore,154 è, in definitiva, Gesù Cristo stesso, che nello Spirito è sorgente di santità e appello alla santificazione. Il « mistero » chiede di essere inserito nella vita vissuta del presbitero. Per questo esige grande vigilanza e viva consapevolezza. È ancora il rito dell'ordinazione a far precedere le parole ricordate dalla raccomandazione: « Renditi conto di ciò che farai ». Già Paolo ammoniva il vescovo Timoteo: « Non trascurare il dono spirituale che è in te ».155

Il rapporto tra la vita spirituale e l'esercizio del ministero sacerdotale può trovare una sua spiegazione anche a partire dalla carità pastorale donata dal sacramento dell'Ordine. Il ministero del sacerdote, proprio perché è una partecipazione al ministero salvifico di Gesù Cristo Capo e Pastore, non può non riesprimere e rivivere quella sua carità pastorale che insieme è la sorgente e lo spirito del suo servizio e del suo dono di sé. Nella sua realtà oggettiva il ministero sacerdotale è « amoris officium », secondo la citata espressione di Sant'Agostino: proprio questa realtà oggettiva si pone come fondamento e appello per un ethos corrispondente, che non può essere se non quello di vivere l'amore, come rileva lo stesso Sant'Agostino: « Sit amoris officium pascere dominicum gregem ».156 Tale ethos, e quindi la vita spirituale, altro non è che l'accoglienza nella coscienza e nella libertà, e pertanto nella mente, nel cuore, nelle decisioni e nelle azioni, della « verità » del ministero sacerdotale come « amoris officium ».

25. È essenziale, per una vita spirituale che si sviluppa attraverso l'esercizio del ministero, che il sacerdote rinnovi continuamente e approfondisca sempre più la coscienza di essere ministro di Gesù Cristo in forza della consacrazione sacramentale e della configurazione a Lui Capo e Pastore della Chiesa.

Una simile coscienza non soltanto corrisponde alla vera natura della missione che il sacerdote svolge a favore della Chiesa e dell'umanità, ma decide anche della vita spirituale del sacerdote che compie quella missione. Il sacerdote, infatti, viene scelto da Cristo non come una « cosa », bensì come una « persona »: egli non è uno strumento inerte e passivo ma uno « strumento vivo », come si esprime il Concilio, proprio là dove parla dell'obbligo di tendere alla perfezione.157 È ancora il Concilio a parlare dei sacerdoti come di « soci e collaboratori » di Dio « santo e santificatore ».158

In tale senso nell'esercizio del ministero è profondamente coinvolta la persona cosciente, libera e responsabile del sacerdote. Il legame con Gesù Cristo, che la consacrazione e configurazione del sacramento dell'Ordine assicurano, fonda ed esige nel sacerdote un ulteriore legame che è dato dalla « intenzione », ossia dalla volontà cosciente e libera di fare, mediante il gesto ministeriale, ciò che intende fare la Chiesa. Un simile legame tende, per sua natura, a farsi il più ampio e il più profondo possibile, investendo la mente, i sentimenti, la vita, ossia una serie di « disposizioni » morali e spirituali corrispondenti ai gesti ministeriali che il sacerdote pone.

Non c'è dubbio che l'esercizio del ministero sacerdotale, in specie la celebrazione dei Sacramenti, riceve la sua efficacia di salvezza dall'azione stessa di Gesù Cristo resa presente nei Sacramenti. Ma per un disegno divino, che vuole esaltare l'assoluta gratuità della salvezza facendo dell'uomo un « salvato » e insieme un « salvatore » — sempre e solo con Gesù Cristo —, l'efficacia dell'esercizio del ministero è condizionata anche dalla maggior o minor accoglienza e partecipazione umana.159 In particolare, la maggiore o minore santità del ministro influisce realmente sull'annuncio della Parola, sulla celebrazione dei Sacramenti, sulla guida della comunità nella carità. È quanto afferma con chiarezza il Concilio: « La stessa santità dei presbiteri ... contribuisce moltissimo al compimento efficace del loro ministero: infatti, se è vero che la grazia di Dio può realizzare l'opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, ciò nondimeno Dio, ordinariamente, preferisce manifestare le sue grandezze attraverso coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l'apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e alla santità di vita: "Ormai non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me"160 ».161

La coscienza di essere ministro di Gesù Cristo Capo e Pastore comporta anche la coscienza grata e gioiosa di una singolare grazia ricevuta da Gesù Cristo: la grazia di essere stato scelto gratuitamente dal Signore come « strumento vivo » dell'opera della salvezza. Questa scelta testimonia l'amore di Gesù Cristo per il sacerdote. Proprio quest'amore, come e più d'ogni altro amore, esige la corrispondenza. Dopo la sua risurrezione, Gesù pone a Pietro la fondamentale domanda sull'amore: « Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro? ». E alla risposta di Pietro segue l'affidamento della missione: « Pasci i miei agnelli ».162 Gesù chiede a Pietro se lo ami, prima di e per potergli consegnare il suo gregge. Ma, in realtà, è l'amore libero e preveniente di Gesù stesso a originare la sua richiesta all'apostolo e l'affidamento a lui delle « sue » pecore. Così ogni gesto ministeriale, mentre conduce ad amare e a servire la Chiesa, spinge a maturare sempre più nell'amore e nel servizio a Gesù Cristo Capo, Pastore e Sposo della Chiesa, un amore che si configura sempre come risposta a quello preveniente, libero e gratuito di Dio in Cristo. A sua volta, la crescita dell'amore a Gesù Cristo determina la crescita dell'amore alla Chiesa: « Siamo vostri pastori (pascimus vobis), con voi siamo nutriti (pascimur vobiscum). Il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto da poter morire per voi, o di fatto o col cuore (aut effectu aut affectu) ».163

26. Grazie al prezioso insegnamento del Concilio Vaticano II,164 possiamo cogliere le condizioni e le esigenze, le modalità e i frutti dell'intimo rapporto che esiste tra la vita spirituale del sacerdote e l'esercizio del suo triplice ministero: della Parola, del Sacramento e del servizio della Carità.

Il sacerdote è, anzitutto, ministro della Parola di Dio, è consacrato e mandato ad annunciare a tutti il Vangelo del Regno, chiamando ogni uomo all'obbedienza della fede e conducendo i credenti ad una conoscenza e comunione sempre più profonde del mistero di Dio, rivelato e comunicato a noi in Cristo. Per questo, il sacerdote stesso per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la Parola di Dio: non gli basta conoscerne l'aspetto linguistico o esegetico, che pure è necessario; gli occorre accostare la Parola con cuore docile e orante, perché essa penetri a fondo nei suoi pensieri e sentimenti e generi in lui una mentalità nuova — « il pensiero di Cristo » 165 —, in modo che le sue parole, le sue scelte e i suoi atteggiamenti siano sempre più una trasparenza, un annuncio ed una testimonianza del Vangelo. Solo « rimanendo » nella Parola, il sacerdote diventerà perfetto discepolo del Signore, conoscerà la verità e sarà veramente libero, superando ogni condizionamento contrario od estraneo al Vangelo.166 Il sacerdote dev'essere il primo « credente » alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono « sue », ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del Popolo di Dio. Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato.167 Egli annuncia la Parola nella sua qualità di « ministro », partecipe dell'autorità profetica di Cristo e della Chiesa. Per questo, per avere in se stesso e per dare ai fedeli la garanzia di trasmettere il Vangelo nella sua integrità il sacerdote è chiamato a coltivare una sensibilità, un amore e una disponibilità particolari nei confronti della Tradizione viva della Chiesa e del suo Magistero: questi non sono estranei alla Parola, ma ne servono la retta interpretazione e ne custodiscono il senso autentico.168

È soprattutto nella celebrazione dei Sacramenti e nella celebrazione della Liturgia delle Ore che il sacerdote è chiamato a vivere e a testimoniare l'unità profonda tra l'esercizio del suo ministero e la sua vita spirituale: il dono di grazia offerto alla Chiesa si fa principio di santità e appello di santificazione. Anche per il sacerdote il posto veramente centrale, sia nel ministero sia nella vita spirituale, è dell'Eucaristia, perché in essa « è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo, dà vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire insieme a lui se stessi, le proprie fatiche e tutte le cose create ».169

Dai diversi Sacramenti, e in particolare dalla grazia specifica e propria a ciascuno di essi, la vita spirituale del presbitero riceve connotazioni particolari. Essa, infatti, viene strutturata e plasmata dalle molteplici caratteristiche ed esigenze dei diversi Sacramenti celebrati e vissuti.

Una parola speciale voglio riservare per il Sacramento della Penitenza, del quale i sacerdoti sono i ministri ma devono anche esserne i beneficiari, divenendo testimoni della compassione di Dio per i peccatori. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del Sacramento della Penitenza. Ripropongo quanto ho scritto nell'Esortazione « Reconciliatio et Paenitentia »: « La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del Sacramento della Penitenza. La celebrazione dell'Eucaristia e il ministero degli altri Sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col Vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato d'autentica fede e devozione, al Sacramento della Penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la Comunità, di cui egli è pastore ».170

Infine, il sacerdote è chiamato a rivivere l'autorità e il servizio di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa animando e guidando la comunità ecclesiale, ossia riunendo « la famiglia di Dio come fraternità animata nell'unità » e conducendola « al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo ».171 Questo « munus regendi » è compito molto delicato e complesso, che include, oltre all'attenzione alle singole persone e alle diverse vocazioni, la capacità di coordinare tutti i doni e i carismi che lo Spirito suscita nella comunità, verificandoli e valorizzandoli per l'edificazione della Chiesa sempre in unione con i Vescovi. Si tratta di un ministero che richiede al sacerdote una vita spirituale intensa, ricca di quelle qualità e virtù che sono tipiche della persona che « presiede » e « guida » una comunità, dell'« anziano » nel senso più nobile e ricco del termine: tali sono la fedeltà, la coerenza, la saggezza, l'accoglienza di tutti, l'affabile bontà, l'autorevole fermezza sulle cose essenziali, la libertà da punti di vista troppo soggettivi, il disinteresse personale, la pazienza, il gusto dell'impegno quotidiano, la fiducia nel lavoro nascosto della grazia che si manifesta nei semplici e nei poveri.172

27. « Lo Spirito del Signore è sopra di me ».173 Lo Spirito Santo effuso dal sacramento dell'Ordine è fonte di santità e appello alla santificazione, non solo perché configura il sacerdote a Cristo Capo e Pastore della Chiesa e gli affida la missione profetica, sacerdotale e regale da compiere nel nome e nella persona di Cristo, ma anche perché anima e vivifica la sua esistenza quotidiana, arricchendola di doni e di esigenze, di virtù e di impulsi, che si compendiano nella carità pastorale. Una simile carità è sintesi unificante dei valori e delle virtù evangeliche e insieme forza che sostiene il loro sviluppo sino alla perfezione cristiana.174

Per tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello di Cristo a seguirlo e ad imitarlo, in forza dell'intima comunione di vita con lui operata dallo Spirito.175 Questa stessa esigenza si ripropone per i sacerdoti, non solo perché sono « nella » Chiesa, ma anche perché sono « di fronte » alla Chiesa, in quanto sono configurati a Cristo Capo e Pastore, abilitati e impegnati al ministero ordinato, vivificati dalla carità pastorale. Ora, all'interno e come manifestazione del radicalismo evangelico si ritrova una ricca fioritura di molteplici virtù ed esigenze etiche che sono decisive per la vita pastorale e spirituale del sacerdote, come, ad esempio, la fede, l'umiltà di fronte al mistero di Dio, la misericordia, la prudenza. Espressione privilegiata del radicalismo sono i diversi « consigli evangelici », che Gesù propone nel Discorso della Montagna 176 e tra questi i consigli, intimamente coordinati tra loro,d'obbedienza, castità e povertà: 177 il sacerdote è chiamato a viverli secondo quelle modalità, e più profondamente secondo quelle finalità e quel significato originale, che derivano dall'identità propria del presbitero e la esprimono.

28. « Tra le virtù che più sono necessarie nel ministero dei presbiteri, va ricordata quella disposizione d'animo per cui sempre sono pronti a cercare non la propria volontà, ma il compimento della volontà di colui che li ha inviati 178 ».179 È l'obbedienza, che nel caso della vita spirituale del sacerdote si riveste di alcune caratteristiche peculiari.

Essa è, anzitutto, un'obbedienza « apostolica », nel senso che riconosce, ama e serve la Chiesa nella sua struttura gerarchica. Non si dà, infatti, ministero sacerdotale se non nella comunione con il sommo Pontefice e con il Collegio episcopale, in particolare con il proprio Vescovo diocesano, ai quali sono da riservarsi « il filiale rispetto e l'obbedienza » promessi nel rito dell'ordinazione. Questa « sottomissione » a quanti sono rivestiti dell'autorità ecclesiale non ha nulla di umiliante, ma deriva dalla libertà responsabile del presbitero, che accoglie non solo le esigenze di una vita ecclesiale organica e organizzata, ma anche quella grazia di discernimento e di responsabilità nelle decisioni ecclesiali, che Gesù ha garantito ai suoi apostoli e ai loro successori, perché sia custodito con fedeltà il mistero della Chiesa e perché la compagine della comunità cristiana venga servita nel suo unitario cammino verso la salvezza.

L'obbedienza cristiana autentica, rettamente motivata e vissuta senza servilismi, aiuta il presbitero ad esercitare con evangelica trasparenza l'autorità che gli è affidata nei confronti del Popolo di Dio: senza autoritarismi e senza scelte demagogiche. Solo chi sa obbedire in Cristo, sa come richiedere, secondo il Vangelo, l'obbedienza altrui.

L'obbedienza presbiterale presenta inoltre un'esigenza « comunitaria »: non è l'obbedienza di un singolo che individualmente si rapporta con l'autorità, ma è invece profondamente inserita nell'unità del presbiterio, che come tale è chiamato a vivere la concorde collaborazione con il Vescovo e, per suo tramite, con il successore di Pietro.180

Questo aspetto dell'obbedienza del sacerdote richiede una notevole ascesi, sia nel senso di un'abitudine a non legarsi troppo alle proprie preferenze o ai propri punti di vista, sia nel senso di lasciare spazio ai confratelli perché possano valorizzare i loro talenti e le loro capacità, al di fuori di ogni gelosia, invidia e rivalità. Quella del sacerdote è un'obbedienza solidale, che parte dalla sua appartenenza all'unico presbiterio e che sempre all'interno di esso e con esso esprime orientamenti e scelte corresponsabili.

Infine, l'obbedienza sacerdotale ha un particolare carattere di « pastorali- tà ». È vissuta, cioè, in un clima di costante disponibilità a lasciarsi afferrare, quasi « mangiare », dalle necessità e dalle esigenze del gregge. Queste ultime devono avere una giusta razionalità, e talvolta vanno selezionate e sottoposte a verifica, ma è innegabile che la vita del presbitero è « occupata » in modo pieno dalla fame di Vangelo, di fede, di speranza e di amore di Dio e del suo mistero, la quale più o meno consapevolmente è presente nel Popolo di Dio a lui affidato.

29. Tra i consigli evangelici — scrive il Concilio — « eccelle questo prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni 181 di votarsi a Dio solo più facilmente e con un cuore senza divisioni 182 nella verginità e nel celibato. Questa perfetta continenza per il Regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, come un segno e uno stimolo della carità e come una speciale sorgente di fecondità nel mondo ».183 Nella verginità e nel celibato la castità mantiene il suo significato originario, quello cioè di una sessualità umana vissuta come autentica manifestazione e prezioso servizio all'amore di comunione e di donazione interpersonale. Questo significato sussiste pienamente nella verginità, che realizza, pur nella rinuncia al matrimonio, il « significato sponsale » del corpo mediante una comunione e una donazione personale a Gesù Cristo e alla sua Chiesa che prefigurano e anticipano la comunione e la donazione perfette e definitive dell'al di là: « Nella verginità l'uomo è in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi integralmente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni a questa nella piena verità della vita eterna ».184

In questa luce si possono più facilmente comprendere e apprezzare i motivi della scelta plurisecolare che la Chiesa di Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l'ordine presbiterale solo a uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel celibato assoluto e perpetuo.

I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un'importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita: « Ferma restante la disciplina delle Chiese Orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto da Dio il dono della vocazione alla castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo, per il quale si dà eccezione nell'enciclica di Paolo VI, « Sacerdotalis Caelibatus »). Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all'ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale, come dono prezioso dato da Dio alla sua Chiesa e come segno del Regno che non è di questo mondo, segno dell'amore di Dio verso questo mondo nonché dell'amore indiviso del sacerdote verso Dio e il Popolo di Dio, così che il celibato sia visto come arricchimento positivo del sacerdozio ».185

È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore.

Per un'adeguata vita spirituale del sacerdote occorre che il celibato sia considerato e vissuto non come un elemento isolato o puramente negativo, ma come un aspetto di un orientamento positivo, specifico e caratteristico del sacerdote: egli, lasciando il padre e la madre, segue Gesù buon Pastore, in una comunione apostolica, a servizio del Popolo di Dio. Il celibato è dunque da accogliere con libera e amorosa decisione da rinnovare continuamente, come dono inestimabile di Dio, come « stimolo della carità pastorale »,186 come singolare partecipazione alla paternità di Dio e alla fecondità della Chiesa, come testimonianza al mondo del Regno escatologico. Per vivere tutte le esigenze morali, pastorali e spirituali del celibato sacerdotale è assolutamente necessaria la preghiera umile e fiduciosa, come ci avverte il Concilio: « Al mondo d'oggi, quanto più la perfetta continenza viene considerata impossibile da tante persone, con tanta maggiore umiltà e perseveranza debbono i presbiteri implorare insieme alla Chiesa la grazia della fedeltà che mai è negata a chi la richiede, ricorrendo allo stesso tempo ai mezzi soprannaturali e naturali di cui tutti dispongono ».187 Sarà ancora la preghiera, unita ai Sacramenti della Chiesa e all'impegno ascetico, ad infondere speranza nelle difficoltà, perdono nelle mancanze, fiducia e coraggio nella ripresa del cammino.

30. Della povertà evangelica i Padri sinodali hanno dato una descrizione quanto mai concisa e profonda, presentandola come « sottomissione di tutti i beni al Bene supremo di Dio e del suo Regno ».188 In realtà, solo chi contempla e vive il mistero di Dio quale unico e sommo Bene, quale vera e definitiva Ricchezza, può capire e realizzare la povertà, che non è certamente disprezzo e rifiuto dei beni materiali, ma è uso grato e cordiale di questi beni ed insieme lieta rinuncia ad essi con grande libertà interiore, ossia in ordine a Dio e ai suoi disegni.

La povertà del sacerdote, in forza della sua configurazione sacramentale a Cristo Capo e Pastore, assume precise connotazioni « pastorali », sulle quali, riprendendo e sviluppando l'insegnamento conciliare,189 si sono soffermati i Padri sinodali. Scrivono tra l'altro: « I sacerdoti, sull'esempio di Cristo che da ricco come era si è fatto povero per nostro amore,190 devono considerare i poveri e più deboli come loro affidati in una maniera speciale e devono essere capaci di testimoniare la povertà con una vita semplice e austera, essendo già abituati a rinunciare generosamente alle cose superflue 191 ».192

È vero che « l'operaio è degno della sua mercede » e che « il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo »,193 ma è altrettanto vero che questo diritto dell'apostolo non può assolutamente confondersi con qualsiasi pretesa di piegare il servizio del Vangelo e della Chiesa ai vantaggi e agli interessi che ne possono derivare. Solo la povertà assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell'apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad « andare », senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro.194

Personalmente inserito nella vita della comunità e responsabile di essa, il sacerdote deve offrire anche la testimonianza di una totale « trasparenza » nell'amministrazione dei beni della comunità stessa, che egli non tratterà mai come fossero un patrimonio proprio, ma come cosa di cui deve rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri. La coscienza poi di appartenere all'unico presbiterio spingerà il sacerdote ad impegnarsi per favorire sia una più equa distribuzione dei beni tra i confratelli, sia un certo uso in comune dei beni.195

La libertà interiore, che la povertà evangelica custodisce e alimenta, abilita il prete a stare accanto ai più deboli, a farsi solidale con i loro sforzi per l'instaurazione d'una società più giusta, ad essere più sensibile e più capace di comprensione e di discernimento dei fenomeni riguardanti l'aspetto economico e sociale della vita, a promuovere la scelta preferenziale dei poveri: questa, senza escludere nessuno dall'annuncio e dal dono della salvezza, sa chinarsi sui piccoli, sui peccatori, sugli emarginati di ogni specie, secondo il modello dato da Gesù nello svolgimento del suo ministero profetico e sacerdotale.196

Né va dimenticato il significato profetico della povertà sacerdotale, particolarmente urgente nelle società opulente e consumiste: « Il sacerdote veramente povero è di certo un segno concreto della separazione, della rinuncia e non della sottomissione alla tirannia del mondo contemporaneo che ripone ogni sua fiducia nel denaro e nella sicurezza materiale ».197

Gesù Cristo, che sulla croce conduce a perfezione la sua carità pastorale con un'abissale spogliazione esteriore e interiore, è il modello e la fonte delle virtù di obbedienza, castità e povertà, che il sacerdote è chiamato a vivere come espressione del suo amore pastorale per i fratelli. Secondo quanto Paolo scrive ai cristiani di Filippi, il sacerdote deve avere gli « stessi sentimenti » di Gesù, spogliandosi del proprio « io », per trovare, nella carità obbediente, casta e povera, la via maestra dell'unione con Dio e dell'unità con i fratelli.198

31. Come ogni vita spirituale autenticamente cristiana, anche quella del sacerdote possiede un'essenziale e irrinunciabile dimensione ecclesiale: è partecipazione alla santità della Chiesa stessa, che nel Credo professiamo quale « Comunione dei Santi ». La santità del cristiano deriva da quella della Chiesa, la esprime e nello stesso tempo l'arricchisce. Questa dimensione ecclesiale riveste modalità, finalità e significati particolari nella vita spirituale del presbitero, in forza del suo specifico rapporto con la Chiesa, sempre a partire dalla sua configurazione a Cristo Capo e Pastore, dal suo ministero ordinato, dalla sua carità pastorale.

In questa prospettiva occorre considerare come valore spirituale del presbitero la sua appartenenza e la sua dedicazione alla Chiesa particolare. Queste, in realtà, non sono motivate soltanto da ragioni organizzative e disciplinari. Al contrario, il rapporto con il Vescovo nell'unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del Popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale. In questo senso la incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fisionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero.

È necessario che il sacerdote abbia la coscienza che il suo « essere in una Chiesa particolare » costituisce, di sua natura, un elemento qualificante per vivere la spiritualità cristiana. In tal senso il presbitero trova proprio nella sua appartenenza e dedicazione alla Chiesa particolare una fonte di significati, di criteri di discernimento e di azione, che configurano sia la sua missione pastorale sia la sua vita spirituale.

Al cammino verso la perfezione possono contribuire anche altre ispirazioni o riferimenti ad altre tradizioni di vita spirituale, capaci di arricchire la vita sacerdotale dei singoli e di animare il presbiterio di preziosi doni spirituali. È questo il caso di molte aggregazioni ecclesiali antiche e nuove, che accolgono nel proprio ambito anche sacerdoti: dalle società di vita apostolica agli istituti secolari presbiterali, dalle varie forme di comunione e di condivisione spirituale ai movimenti ecclesiali. I sacerdoti, che appartengono ad ordini e a congregazioni religiose, sono una ricchezza spirituale per l'intero presbiterio diocesano, al quale offrono il contributo di specifici carismi e di ministeri qualificati, stimolando con la loro presenza la Chiesa particolare a vivere più intensamente la sua apertura universale.199

L'appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l'edificazione della Chiesa « nella persona » di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un'esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa.200

Perché l'abbondanza dei doni dello Spirito venga accolta nella gioia e fatta fruttificare a gloria di Dio per il bene della Chiesa intera, si esige da parte di tutti, in primo luogo, la conoscenza ed il discernimento dei carismi propri ed altrui, e un loro esercizio accompagnato sempre dall'umiltà cristiana, dal coraggio dell'autocritica, dall'intenzione, prevalente su ogni altra preoccupazione, di giovare all'edificazione dell'intera comunità al cui servizio è posto ogni carisma particolare. Si chiede, inoltre, a tutti un sincero sforzo di reciproca stima, di rispetto vicendevole e di coordinata valorizzazione di tutte le positive e legittime diversità presenti nel presbiterio. Anche tutto questo fa parte della vita spirituale e della continua ascesi del sacerdote.

32. L'appartenenza e la dedicazione alla Chiesa particolare non rinchiudono in essa l'attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare 201 sia del ministero sacerdotale. Il Concilio scrive al riguardo: « Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli ultimi confini della terra",202 dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli ».203

Ne deriva che la vita spirituale dei sacerdoti dev'essere profondamente segnata dall'anelito e dal dinamismo missionario. Tocca loro, nell'esercizio del ministero e nella testimonianza della vita, plasmare la comunità loro affidata come comunità autenticamente missionaria. Come ho scritto nell'enciclica « Redemptoris Missio », « tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la Chiesa per tutta l'umanità ».204

Se questo spirito missionario animerà generosamente la vita dei sacerdoti, sarà facilitata la risposta a quell'esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero. In questo senso già il Concilio è stato quanto mai preciso e forte: « Ricordino i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le Chiese. Pertanto i presbiteri di quelle diocesi che hanno maggior abbondanza di vocazioni si mostrino disposti ad esercitare volentieri il proprio ministero, previo il consenso o l'invito del proprio ordinario, in quelle regioni, missioni o opere che soffrano di scarsezza di clero ».205

33. « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato, e mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio... ».206 Gesù fa risuonare anche oggi nel nostro cuore di sacerdoti le parole che ha pronunciato nella sinagoga di Nazaret. La nostra fede, infatti, ci rivela la presenza operante dello Spirito di Cristo nel nostro essere, nel nostro agire e nel nostro vivere così come l'ha configurato, abilitato e plasmato il sacramento dell'Ordine.

Sì, lo Spirito del Signore è il grande protagonista della nostra vita spirituale. Egli crea il « cuore nuovo », lo anima e lo guida con la « legge nuova » della carità, della carità pastorale. Per lo sviluppo della vita spirituale è decisiva la consapevolezza che non manca mai al sacerdote la grazia dello Spirito Santo, come dono totalmente gratuito e come compito responsabilizzante. La coscienza del dono infonde e sostiene l'incrollabile fiducia del sacerdote nelle difficoltà, nelle tentazioni, nelle debolezze che s'incontrano sul cammino spirituale.

Ripropongo a tutti i sacerdoti quanto dissi a tanti di loro in altra occasione: « La vocazione sacerdotale è essenzialmente una chiamata alla santità, nella forma che scaturisce dal sacramento dell'Ordine. La santità è intimità con Dio, è imitazione di Cristo, povero, casto e umile; è amore senza riserve alle anime e donazione al loro vero bene; è amore alla Chiesa che è santa e ci vuole santi, perché tale è la missione che Cristo le ha affidato. Ciascuno di voi deve essere santo anche per aiutare i fratelli a seguire la loro vocazione alla santità.

Come non riflettere... sul ruolo essenziale che lo Spirito Santo svolge nella specifica chiamata alla santità, che è propria del ministero sacerdotale? Ricordiamo le parole del rito dell'Ordinazione sacerdotale, che sono ritenute centrali nella formula sacramentale: "Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato. Rinnova in loro l'effusione del tuo Spirito di santità; adempiano fedelmente, o Signore, il ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto e con il loro esempio guidino tutti a un'integra condotta di vita".

Mediante l'Ordinazione, carissimi, avete ricevuto lo stesso Spirito di Cristo, che vi rende simili a Lui, perché possiate agire nel suo nome e vivere in voi i suoi stessi sentimenti. Questa intima comunione con lo Spirito di Cristo, mentre garantisce l'efficacia dell'azione sacramentale che voi ponete "in persona Christi", chiede anche di esprimersi nel fervore della preghiera, nella coerenza della vita, nella carità pastorale di un ministero instancabilmente proteso alla salvezza dei fratelli. Chiede, in una parola, la vostra personale santificazione ».207

CAPITOLO IV

VENITE E VEDRETE
La vocazione sacerdotale nella pastorale della Chiesa

34. « Venite e vedrete ».208 Così Gesù risponde ai due discepoli di Giovanni il Battista, che gli chiedevano dove abitasse. In queste parole troviamo il significato della vocazione.

Ecco come l'evangelista racconta la chiamata di Andrea e di Pietro: « Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: "Ecco l'agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbi (che significa maestro), dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».209

Questa pagina di Vangelo è una delle tante del Libro Sacro nelle quali si descrive il « mistero » della vocazione, nel nostro caso il mistero della vocazione ad essere apostoli di Gesù. La pagina di Giovanni, che ha un significato anche per la vocazione cristiana come tale, riveste un valore emblematico per la vocazione sacerdotale. La Chiesa, quale comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata a fissare il suo sguardo su questa scena che, in qualche modo, si rinnova continuamente nella storia. È invitata ad approfondire il senso originale e personale della vocazione alla sequela di Cristo nel ministero sacerdotale e l'inscindibile legame tra la grazia divina e la responsabilità umana, racchiuso e rivelato nei due termini che più volte troviamo nel Vangelo: vieni e seguimi.210 È sollecitata a decifrare e a percorrere il dinamismo proprio della vocazione, il suo svilupparsi graduale e concreto nelle fasi del cercare Gesù, del seguirlo e del rimanere con lui.

La Chiesa coglie in questo « Vangelo della vocazione » il paradigma, la forza e l'impulso della sua pastorale vocazionale, ossia della sua missione destinata a curare la nascita, il discernimento e l'accompagnamento delle vocazioni, in particolare delle vocazioni al sacerdozio. Proprio perché « la mancanza di sacerdoti è certamente la tristezza di ogni Chiesa »,211 la pastorale vocazionale esige, oggi soprattutto, di essere assunta con un nuovo, vigoroso e più deciso impegno da parte di tutti i fedeli, nella consapevolezza che essa non è un elemento secondario o accessorio, né un momento isolato o settoriale, quasi una semplice parte, per quanto rilevante, della pastorale globale della Chiesa: è piuttosto, come hanno ripetutamente affermato i Padri sinodali, un'attività intimamente inserita nella pastorale generale di ogni Chiesa,212 una cura che dev'essere integrata e pienamente identificata con la « cura delle anime » cosiddetta ordinaria,213 una dimensione connaturale ed essenziale della pastorale della Chiesa, ossia della sua vita e della sua missione.214

Sì, la dimensione vocazionale è connaturale ed essenziale alla pastorale della Chiesa. La ragione sta nel fatto che la vocazione definisce, in un certo senso, l'essere profondo della Chiesa, prima ancora che il suo operare. Nel medesimo nome della Chiesa, Ecclesia, è indicata la sua intima fisionomia vocazionale, perché essa è veramente « convocazione », assemblea dei chiamati: « Dio ha convocato l'assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica ».215

Una lettura propriamente teologica della vocazione sacerdotale e della pastorale che la riguarda può scaturire solo dalla lettura del mistero della Chiesa come mysterium vocationis.

35. Ogni vocazione cristiana trova il suo fondamento nell'elezione gratuita e preveniente da parte del Padre « che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà ».216

Ogni vocazione cristiana viene da Dio, è dono di Dio. Essa però non viene mai elargita fuori o indipendentemente dalla Chiesa, ma passa sempre nella Chiesa e mediante la Chiesa, perché, come ci ricorda il Concilio Vaticano II, « piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse ».217

La Chiesa non solo raccoglie in sé tutte le vocazioni che Dio le dona nel suo cammino di salvezza, ma essa stessa si configura come mistero di vocazione, quale luminoso e vivo riflesso del mistero della Trinità santissima. In realtà la Chiesa, « popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo »,218 porta in sé il mistero del Padre che, non chiamato e non inviato da nessuno,219 tutti chiama a santificare il suo nome e a compiere la sua volontà; custodisce in sé il mistero del Figlio che dal Padre è chiamato e mandato ad annunciare a tutti il Regno di Dio e che tutti chiama alla sua sequela; ed è depositaria del mistero dello Spirito Santo che consacra per la missione quelli che il Padre chiama mediante il Figlio suo Gesù Cristo.

La Chiesa, che per nativa costituzione è « vocazione », è generatrice ed educatrice di vocazioni. Lo è nel suo essere di « sacramento », in quanto « segno » e « strumento » in cui risuona e si compie la vocazione di ogni cristiano; e lo è nel suo operare, ossia nello svolgimento del suo ministero di annuncio della Parola, di celebrazione dei Sacramenti e di servizio e testimonianza della carità.

Si può cogliere ora l'essenziale dimensione ecclesiale della vocazione cristiana: non solo essa deriva « dalla » Chiesa e dalla sua mediazione, non solo si fa riconoscere e si compie « nella » Chiesa, ma si configura — nel fondamentale servizio a Dio — anche e necessariamente come servizio « alla » Chiesa. La vocazione cristiana, in ogni sua forma, è un dono destinato all'edificazione della Chiesa, alla crescita del Regno di Dio nel mondo.220

Ciò che diciamo di ogni vocazione cristiana trova una sua specifica realizzazione nella vocazione sacerdotale: questa è chiamata, mediante il sacramento dell'Ordine ricevuto nella Chiesa, a porsi al servizio del Popolo di Dio con una peculiare appartenenza e configurazione a Gesù Cristo e con l'autorità di agire nel nome e nella persona di lui Capo e Pastore della Chiesa.

In questa prospettiva si comprende quanto scrivono i Padri sinodali: « La vocazione di ciascun presbitero sussiste nella Chiesa e per la Chiesa: per essa una simile vocazione si compie. Ne segue che ogni presbitero riceve la vocazione dal Signore attraverso la Chiesa come un dono grazioso, una gratia gratis data (charisma). È proprio del Vescovo o del superiore competente non solo sottoporre ad esame l'idoneità e la vocazione del candidato, ma anche riconoscerla. Un simile elemento ecclesiastico inerisce alla vocazione al ministero presbiterale come tale. Il candidato al presbiterato deve ricevere la vocazione non imponendo le proprie personali condizioni ma accettando anche le norme e le condizioni che la Chiesa stessa, per la sua parte di responsabilità, pone ».221

36. La storia di ogni vocazione sacerdotale, come peraltro di ogni vocazione cristiana, è la storia di un ineffabile dialogo tra Dio e l'uomo, tra l'amore di Dio che chiama e la libertà dell'uomo che nell'amore risponde a Dio. Questi due aspetti indissociabili della vocazione, il dono gratuito di Dio e la libertà responsabile dell'uomo, emergono in modo splendido e quanto mai efficace nelle brevissime parole con le quali l'evangelista Marco presenta la vocazione dei dodici: Gesù « salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui ».222 Da un lato sta la decisione assolutamente libera di Gesù, dall'altro l'« andare » dei dodici, ossia il loro « seguire » Gesù.

È questo il paradigma costante, il dato irrinunciabile di ogni vocazione: quella dei profeti, degli apostoli, dei sacerdoti, dei religiosi, dei fedeli laici, di ogni persona.

Ma del tutto prioritario, anzi preveniente e decisivo è l'intervento libero e gratuito di Dio che chiama. Sua è l'iniziativa del chiamare. È questa, ad esempio, l'esperienza del profeta Geremia: « Mi fu rivolta la parola del Signore: "Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni" ».223 È la stessa verità presentata dall'apostolo Paolo, che radica ogni vocazione nell'eterna elezione in Cristo, fatta « prima della creazione del mondo e secondo il beneplacito della sua volontà ».224 L'assoluto primato della grazia nella vocazione trova la sua perfetta proclamazione nella parola di Gesù: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga ».225

Se la vocazione sacerdotale testimonia in modo inequivocabile il primato della grazia, la libera e sovrana decisione di Dio di chiamare l'uomo domanda assoluto rispetto, non può minimamente essere forzata da qualsiasi pretesa umana, non può essere sostituita da qualsiasi decisione umana. La vocazione è un dono della grazia divina e mai un diritto dell'uomo, così che « non si può mai considerare la vita sacerdotale come una promozione semplicemente umana, né la missione del ministro come un semplice progetto personale ».226 È così escluso in radice ogni vanto e ogni presunzione da parte dei chiamati.227 L'intero spazio spirituale del loro cuore è per una gratitudine ammirata e commossa, per una fiducia ed una speranza incrollabili, perché i chiamati sanno di essere fondati non sulle proprie forze, ma sull'incondizionata fedeltà di Dio che chiama.

« Chiamò quelli che volle ed essi andarono da lui ».228 Questo « andare », che s'identifica con il « seguire » Gesù, esprime la risposta libera dei 12 alla chiamata del Maestro. Così è stato di Pietro e di Andrea: « E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono ».229 Identica è stata l'esperienza di Giacomo e di Giovanni.230 Così sempre: nella vocazione risplendono insieme l'amore gratuito di Dio e l'esaltazione più alta possibile della libertà dell'uomo: quella dell'adesione alla chiamata di Dio e dell'affidamento a lui.

In realtà, grazia e libertà non si oppongono tra loro. Al contrario, la grazia anima e sostiene la libertà umana, liberandola dalla schiavitù del peccato,231 sanandola ed elevandola nelle sue capacità di apertura e di accoglienza del dono di Dio. E se non si può attentare all'iniziativa assolutamente gratuita di Dio che chiama, neppure si può attentare all'estrema serietà con la quale l'uomo è sfidato nella sua libertà. Così al « vieni e seguimi » di Gesù il giovane ricco oppone un rifiuto, segno — sia pure negativo — della sua libertà: « Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni ».232

La libertà, dunque, è essenziale alla vocazione, una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale profonda, come donazione d'amore, o meglio come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama, come oblazione. « La chiamata — diceva Paolo VI — si commisura con la risposta. Non vi possono essere vocazioni, se non libere; se esse non sono cioè offerte spontanee di sé, coscienti, generose, totali... Oblazioni, diciamo: qui sta praticamente il vero problema... È la voce umile e penetrante di Cristo, che dice, oggi come ieri, più di ieri: vieni. La libertà è posta al suo supremo cimento: quello appunto dell'oblazione, della generosità, del sacrificio ».233

L'oblazione libera, che costituisce il nucleo intimo e più prezioso della risposta dell'uomo a Dio che chiama, trova il suo incomparabile modello, anzi la sua radice viva nell'oblazione liberissima di Gesù Cristo, il primo dei chiamati, alla volontà del Padre: « Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà" ».234

In intima comunione con Cristo, Maria, la Vergine Madre, è stata la creatura che più di tutte ha vissuto la piena verità della vocazione, perché nessuno come lei ha risposto con un amore così grande all'amore immenso di Dio.235

37. « Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni ».236 Il giovane ricco del Vangelo, che non segue la chiamata di Gesù, ci ricorda gli ostacoli che possono bloccare o spegnere la risposta libera dell'uomo: non soltanto i beni materiali possono chiudere il cuore umano ai valori dello spirito e alle radicali esigenze del Regno di Dio, ma anche alcune condizioni sociali e culturali del nostro tempo possono presentare non poche minacce e imporre visioni distorte e false circa la vera natura della vocazione, rendendone difficili, se non impossibili, l'accoglienza e la stessa comprensione.

Molti hanno di Dio un'idea così generica e confusa da sconfinare in forme di religiosità senza Dio, nelle quali la volontà di Dio è concepita come un destino immutabile e ineluttabile, al quale l'uomo deve solo adeguarsi e rassegnarsi in piena passività. Ma non è questo il volto di Dio che Gesù Cristo è venuto a rivelarci: Dio, infatti, è il Padre che con amore eterno e preveniente chiama l'uomo e lo costituisce in un meraviglioso e permanente dialogo con lui, invitandolo a condividere, da figlio, la sua stessa vita divina. È certo che con una visione errata di Dio l'uomo non può riconoscere neppure la verità di se stesso, sicché la vocazione non può essere né percepita né vissuta nel suo autentico valore: può essere sentita soltanto come un peso imposto e insopportabile.

Anche talune idee distorte sull'uomo, spesso sostenute da pretestuosi argomenti filosofici o « scientifici », inducono talvolta l'uomo a interpretare la propria esistenza e la propria libertà come totalmente determinate e condizionate da fattori esterni, di ordine educativo, psicologico, culturale o ambientale. Altre volte la libertà viene intesa in termini di assoluta autonomia, pretende di essere l'unica e insindacabile fonte delle scelte personali, si qualifica come affermazione di sé ad ogni costo. Ma in tal modo si preclude la strada per intendere e vivere la vocazione quale libero dialogo d'amore, che nasce dalla comunicazione di Dio all'uomo e si conclude nel dono sincero di se stesso. Nel contesto attuale non manca anche la tendenza a pensare in modo individualistico e intimistico il rapporto dell'uomo con Dio, come se la chiamata di Dio raggiungesse la singola persona per via diretta, senza alcuna mediazione comunitaria, e avesse di mira un vantaggio, o la stessa salvezza, del singolo chiamato e non la dedizione totale a Dio nel servizio della comunità. Incontriamo così un'altra più profonda ed insieme sottile minaccia, che rende impossibile riconoscere e accettare con gioia la dimensione ecclesiale iscritta nativamente in ogni vocazione cristiana, ed in quella presbiterale in specie: infatti, come ci ricorda il Concilio, il sacerdozio ministeriale acquista il suo autentico significato e realizza la piena verità di se stesso nel servire e nel far crescere la comunità cristiana e il sacerdozio comune dei fedeli.237

Il contesto culturale ora ricordato, il cui influsso non è assente tra gli stessi cristiani e specialmente tra i giovani, aiuta a comprendere il diffondersi della crisi delle stesse vocazioni sacerdotali, originate e accompagnate da più radicali crisi di fede. Lo hanno dichiarato esplicitamente i Padri sinodali, riconoscendo che la crisi delle vocazioni al presbiterato ha profonde radici nell'ambiente culturale e nella mentalità e prassi dei cristiani.238

Di qui l'urgenza che la pastorale vocazionale della Chiesa punti decisamente e in modo prioritario sulla ricostruzione della « mentalità cristiana », quale è generata e sostenuta dalla fede. È più che mai necessaria una evangelizzazione che non si stanchi di presentare il vero volto di Dio, il Padre che in Gesù Cristo chiama ciascuno di noi, e il senso genuino della libertà umana quale principio e forza del dono responsabile di se stessi. Solo così saranno poste le basi indispensabili perché ogni vocazione, compresa quella sacerdotale, possa essere percepita nella sua verità, amata nella sua bellezza e vissuta con dedizione totale e con gioia profonda.

38. Certamente la vocazione è un mistero imperscrutabile, che coinvolge il rapporto che Dio instaura con l'uomo nella sua unicità e irripetibilità, un mistero che viene percepito e sentito come un appello che attende una risposta nel profondo della coscienza, in quel « sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria ».239 Ma ciò non elimina la dimensione comunitaria, ed ecclesiale in specie, della vocazione: anche la Chiesa è realmente presente e operante nella vocazione di ogni sacerdote.

Nel servizio alla vocazione sacerdotale e al suo itinerario, ossia alla nascita, al discernimento e all'accompagnamento della vocazione, la Chiesa può trovare un modello in Andrea, uno dei primi due discepoli che si pongono al seguito di Gesù. È lui stesso a raccontare al fratello ciò che gli era accaduto: « Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo) ».240 E il racconto di questa « scoperta » apre la strada all'incontro: « E lo condusse da Gesù ».241 Nessun dubbio sull'iniziativa assolutamente libera e sulla decisione sovrana di Gesù. È Lui che chiama Simone e gli dà un nuovo nome: « Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».242 Ma pure Andrea ha avuto la sua iniziativa: ha sollecitato l'incontro del fratello con Gesù.

« E lo condusse da Gesù ». Sta qui, in un certo senso, il cuore di tutta la pastorale vocazionale della Chiesa, con la quale essa si prende cura della nascita e della crescita delle vocazioni, servendosi dei doni e delle responsabilità, dei carismi e del ministero ricevuti da Cristo e dal suo Spirito. La Chiesa, come popolo sacerdotale, profetico e regale, è impegnata a promuovere e a servire il sorgere e il maturare delle vocazioni sacerdotali con la preghiera e con la vita sacramentale, con l'annuncio della Parola e con l'educazione alla fede, con la guida e la testimonianza della carità.

La Chiesa, nella sua dignità e responsabilità di popolo sacerdotale, ha nella preghiera e nella celebrazione della liturgia i momenti essenziali e primari della pastorale vocazionale. La preghiera cristiana, infatti, nutrendosi della Parola di Dio, crea lo spazio ideale perché ciascuno possa scoprire la verità del proprio essere e l'identità del personale e irripetibile progetto di vita che il Padre gli affida. È necessario, quindi, educare in particolare i ragazzi e i giovani perché siano fedeli alla preghiera e alla meditazione della Parola di Dio: nel silenzio e nell'ascolto potranno percepire la chiamata del Signore al sacerdozio e seguirla con prontezza e generosità.

La Chiesa deve accogliere ogni giorno l'invito suadente ed esigente di Gesù, che chiede di « pregare il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe ».243 Obbedendo al comando di Cristo, la Chiesa compie, prima di ogni altra cosa, un'umile professione di fede: pregando per le vocazioni, mentre ne avverte tutta l'urgenza per la sua vita e per la sua missione, riconosce che esse sono un dono di Dio e, come tali, sono da invocarsi con una supplica incessante e fiduciosa. Questa preghiera, cardine di tutta la pastorale vocazionale, deve però impegnare non solo i singoli ma anche le intere comunità ecclesiali. Nessuno dubita dell'importanza delle singole iniziative di preghiera, dei momenti speciali riservati a questa invocazione, a cominciare dall'annuale Giornata Mondiale per le Vocazioni, e dell'impegno esplicito di persone e di gruppi particolarmente sensibili al problema delle vocazioni sacerdotali. Ma oggi l'attesa orante di nuove vocazioni deve diventare sempre più un'abitudine costante e largamente condivisa nell'intera comunità cristiana e in ogni realtà ecclesiale. Così si potrà rivivere l'esperienza degli apostoli che nel cenacolo, uniti con Maria, attendono in preghiera l'effusione dello Spirito,244 il quale non mancherà di suscitare ancora nel Popolo di Dio « degni ministri dell'altare, annunziatori forti e miti della parola che ci salva ».245

Culmine e fonte della vita della Chiesa 246 e, in particolare, di ogni preghiera cristiana, anche la liturgia ha un ruolo indispensabile e un'incidenza privilegiata nella pastorale delle vocazioni. Essa, infatti, costituisce un'esperienza viva del dono di Dio e una grande scuola della risposta alla sua chiamata. Come tale, ogni celebrazione liturgica, e innanzitutto quella eucaristica, ci svela il vero volto di Dio, ci fa comunicare al mistero della Pasqua, ossia all'« ora » per la quale Gesù è venuto nel mondo e verso la quale si è liberamente e volontariamente incamminato in obbedienza alla chiamata del Padre,247 ci manifesta il volto della Chiesa quale popolo di sacerdoti e comunità ben compaginata nella varietà e complementarità dei carismi e delle vocazioni. Il sacrificio redentore di Cristo, che la Chiesa celebra nel mistero, dona un valore particolarmente prezioso alla sofferenza vissuta in unione con il Signore Gesù. I Padri sinodali ci hanno invitato a non dimenticare mai che « attraverso l'offerta delle sofferenze, così frequenti nella vita degli uomini, il cristiano ammalato offre se stesso come vittima a Dio, ad immagine di Cristo, che per tutti noi ha consacrato se stesso »248 e che « l'offerta delle sofferenze secondo tale intenzione è di grande giovamento per la promozione delle vocazioni ».249

39. Nell'esercizio della sua missione profetica, la Chiesa sente incombente e irrinunciabile il compito di annunciare e di testimoniare il senso cristiano della vocazione, potremmo dire « il Vangelo della vocazione ». Avverte, anche in questo campo, l'urgenza delle parole dell'apostolo: « Guai a me se non evangelizzassi! ».250 Tale ammonimento risuona innanzitutto per noi pastori e riguarda, insieme con noi, tutti gli educatori nella Chiesa. La predicazione e la catechesi devono sempre manifestare la loro intrinseca dimensione vocazionale: la Parola di Dio illumina i credenti a valutare la vita come risposta alla chiamata di Dio e li accompagna ad accogliere nella fede il dono della vocazione personale.

Ma tutto questo, che pure è importante ed essenziale, non basta: occorre una « predicazione diretta sul mistero della vocazione nella Chiesa, sul valore del sacerdozio ministeriale, sulla sua urgente necessità per il Popolo di Dio ».251 Una catechesi organica e offerta a tutte le componenti della Chiesa, oltre a dissipare dubbi e a contrastare idee unilaterali o distorte sul ministero sacerdotale, apre i cuori dei credenti all'attesa del dono e crea condizioni favorevoli per la nascita di nuove vocazioni. È giunto il tempo di parlare coraggiosamente della vita sacerdotale come di un valore inestimabile e come di una forma splendida e privilegiata di vita cristiana. Gli educatori, e specialmente i sacerdoti, non devono temere di proporre in modo esplicito e forte la vocazione al presbiterato come una reale possibilità per quei giovani che mostrano di avere i doni e le doti ad essa corrispondenti. Non si deve aver alcuna paura di condizionarli o di limitarne la libertà; al contrario, una proposta precisa, fatta al momento giusto, può essere decisiva per provocare nei giovani una risposta libera e autentica. Del resto, la storia della Chiesa e quella di tante vocazioni sacerdotali, sbocciate anche in tenera età, attestano ampiamente la provvidenzialità della vicinanza e della parola di un prete: non solo della parola, ma anche della vicinanza, cioè di una testimonianza concreta e gioiosa, capace di far sorgere interrogativi e di condurre a decisioni anche definitive.

40. Come popolo regale, la Chiesa si riconosce radicata e animata dalla « legge dello Spirito che dà vita »,252 che è essenzialmente la legge regale della carità 253 o la legge perfetta della libertà.254 Essa, perciò, adempie la sua missione quando guida ogni fedele a scoprire e a vivere la propria vocazione nella libertà e a portarla a compimento nella carità.

Nel suo compito educativo, la Chiesa mira, con attenzione privilegiata, a suscitare nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani il desiderio e la volontà di una sequela integrale e avvincente di Gesù Cristo. L'opera educativa, che pure riguarda la comunità cristiana come tale, deve rivolgersi alla singola persona: Dio, infatti, con la sua chiamata raggiunge il cuore di ciascun uomo e lo Spirito, che dimora nell'intimo di ogni discepolo,255 si dona a ciascun cristiano con carismi diversi e con manifestazioni particolari. Ciascuno, dunque, dev'essere aiutato a cogliere il dono che proprio a lui, come a persona unica e irripetibile, è affidato e ad ascoltare le parole che lo Spirito di Dio gli rivolge singolarmente.

In questa prospettiva, la cura delle vocazioni al sacerdozio saprà esprimersi anche in una ferma e persuasiva proposta di direzione spirituale. È necessario riscoprire la grande tradizione dell'accompagnamento spirituale personale, che ha sempre portato tanti e preziosi frutti nella vita della Chiesa: esso può essere aiutato in determinati casi e a precise condizioni, ma non sostituito, da forme di analisi o di aiuto psicologico.256 I ragazzi, gli adolescenti e i giovani siano invitati a scoprire e ad apprezzare il dono della direzione spirituale, a ricercarlo e a sperimentarlo, a chiederlo con fiduciosa insistenza ai loro educatori nella fede. I sacerdoti, per parte loro, siano i primi a dedicare tempo ed energie a quest'opera di educazione e di aiuto spirituale personale: non si pentiranno mai di aver trascurato o messo in secondo piano tante altre cose, pure belle e utili, se questo era inevitabile per mantenere fede al loro ministero di collaboratori dello Spirito nell'illuminazione e nella guida dei chiamati.

Fine dell'educazione del cristiano è di giungere, sotto l'influsso dello Spirito, alla « piena maturità di Cristo ».257 Ciò si verifica quando, imitandone e condividendone la carità, si fa di tutta la propria vita un servizio d'amore,258) offrendo a Dio un culto spirituale a lui gradito 259 donandosi ai fratelli. Il servizio d'amore è il senso fondamentale di ogni vocazione, che trova una realizzazione specifica nella vocazione del sacerdote: egli, infatti, è chiamato a rivivere, nella forma più radicale possibile, la carità pastorale di Gesù, l'amore cioè del buon Pastore che « offre la vita per le pecore ».260

Per questo un'autentica pastorale vocazionale non si stancherà mai di educare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani al gusto dell'impegno, al senso del servizio gratuito, al valore del sacrificio, alla donazione incondizionata di sé. Si fa allora particolarmente utile l'esperienza del volontariato, verso cui sta crescendo la sensibilità di tanti giovani: se sarà un volontariato evangelicamente motivato, capace di educare al discernimento dei bisogni, vissuto con dedizione e fedeltà ogni giorno, aperto all'eventualità di un impegno definitivo nella vita consacrata, nutrito di preghiera, esso saprà più sicuramente sostenere una vita di impegno disinteressato e gratuito e renderà più sensibile chi ad esso si dedica alla voce di Dio che lo può chiamare al sacerdozio. Diversamente dal giovane ricco, il volontario potrebbe accettare l'invito, colmo d'amore, che Gesù gli rivolge;261 e lo potrebbe accettare perché gli unici suoi beni consistono già nel donarsi agli altri e nel « perdere » la sua vita.

41. La vocazione sacerdotale è un dono di Dio, che costituisce certamente un grande bene per colui che ne è il primo destinatario. Ma è anche un dono per l'intera Chiesa, un bene per la sua vita e per la sua missione. La Chiesa, dunque, è chiamata a custodire questo dono, a stimarlo e ad amarlo: essa è responsabile della nascita e della maturazione delle vocazioni sacerdotali. Di conseguenza la pastorale vocazionale ha come soggetto attivo, come protagonista la comunità ecclesiale come tale, nelle sue diverse espressioni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare e, analogamente, da questa alla parrocchia e a tutte le componenti del Popolo di Dio.

È quanto mai urgente, oggi soprattutto, che si diffonda e si radichi la convinzione che tutti i membri della Chiesa, nessuno escluso, hanno la grazia e la responsabilità della cura delle vocazioni. Il Concilio Vaticano II è stato quanto mai esplicito nell'affermare che « il dovere di dare incremento alle vocazioni sacerdotali spetta a tutta la comunità cristiana, che è tenuta ad assolvere questo compito anzitutto con una vita perfettamente cristiana ».262 Solo sulla base di questa convinzione la pastorale vocazionale potrà manifestare il suo volto veramente ecclesiale, sviluppare un'azione concorde, servendosi anche di organismi specifici e di adeguati strumenti di comunione e di corresponsabilità.

La prima responsabilità della pastorale orientata alle vocazioni sacerdotali è del Vescovo,263 che è chiamato a viverla in prima persona, anche se potrà e dovrà suscitare molteplici collaborazioni. Egli è padre e amico nel suo presbiterio, ed è anzitutto sua la sollecitudine di « dare continuità » al carisma e al ministero presbiterale, associandovi nuove forze con l'imposizione delle mani. Egli sarà sollecito che la dimensione vocazionale sia sempre presente in tutto l'ambito della pastorale ordinaria, anzi sia pienamente integrata e quasi identificata con essa. A lui spetta il compito di promuovere e di coordinare le varie iniziative vocazionali.264

Il Vescovo sa di poter contare anzitutto sulla collaborazione del suo presbiterio. Tutti i sacerdoti sono con lui solidali e corresponsabili nella ricerca e nella promozione delle vocazioni presbiterali. Infatti, come afferma il Concilio, « spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori della fede, di curare che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione specifica ».265 È questa « una funzione che fa parte della stessa missione sacerdotale, in virtù della quale il presbitero partecipa della sollecitudine per la Chiesa intera, affinché nel Popolo di Dio qui sulla terra non manchino mai gli operai ».266 La vita stessa dei presbiteri, la loro dedizione incondizionata al gregge di Dio, la loro testimonianza di amorevole servizio al Signore e alla sua Chiesa — una testimonianza segnata dalla scelta della croce accolta nella speranza e nella gioia pasquale —, la loro concordia fraterna e il loro zelo per l'evangelizzazione del mondo sono il primo e il più persuasivo fattore di fecondità vocazionale.267

Una responsabilità particolarissima è affidata alla famiglia cristiana, che in virtù del Sacramento del Matrimonio partecipa in modo proprio e originale alla missione educativa della Chiesa maestra e madre. Come hanno scritto i Padri sinodali, « la famiglia cristiana, che è veramente "come chiesa domestica",268 ha sempre offerto e continua ad offrire le condizioni favorevoli per la nascita delle vocazioni. Poiché oggi l'immagine della famiglia cristiana è in pericolo, grande importanza dev'essere attribuita alla pastorale familiare, così che le famiglie stesse, accogliendo generosamente il dono della vita umana, costituiscano "come il primo seminario",269 nel quale i figli possano acquisire dall'inizio il senso della pietà e della preghiera e l'amore verso la Chiesa ».270 In continuità e in sintonia con l'opera dei genitori e della famiglia deve porsi la scuola, la quale è chiamata a vivere la sua identità di « comunità educante » anche con una proposta culturale capace di far luce sulla dimensione vocazionale come valore nativo e fondamentale della persona umana. In tal senso, se opportunamente arricchita di spirito cristiano (sia attraverso significative presenze ecclesiali nella scuola statale, secondo i vari ordinamenti nazionali, sia soprattutto nel caso della scuola cattolica), può infondere « nell'animo dei ragazzi e dei giovani il desiderio di compiere la volontà di Dio nello stato di vita più idoneo a ciascuno, senza mai escludere la vocazione al ministero sacerdotale ».271

Anche i fedeli laici, in particolare i catechisti, gli insegnanti, gli educatori, gli animatori della pastorale giovanile, ciascuno con le risorse e modalità proprie, hanno una grande importanza nella pastorale delle vocazioni sacerdotali: quanto più approfondiranno il senso della loro vocazione e missione nella Chiesa, tanto più potranno riconoscere il valore e l'insostituibilità della vocazione e della missione sacerdotale.

Nell'ambito delle comunità diocesane e parrocchiali sono da stimare e promuovere quei gruppi vocazionali, i cui membri offrono il loro contributo di preghiera e di sofferenza per le vocazioni sacerdotali e religiose, nonché di sostegno morale e materiale.

Sono qui da ricordare anche i numerosi gruppi, movimenti e associazioni di fedeli laici che lo Spirito Santo fa sorgere e crescere nella Chiesa in ordine ad una presenza cristiana più missionaria nel mondo. Queste diverse aggregazioni di laici si stanno rivelando come un campo particolarmente fertile alla manifestazione di vocazioni consacrate, veri e propri luoghi di proposta e di crescita vocazionale. Non pochi giovani, infatti, proprio nell'ambito e grazie a queste aggregazioni hanno avvertito la chiamata del Signore a seguirlo sulla via del sacerdozio ministeriale 272 e hanno risposto con confortante generosità. Sono, quindi, da valorizzare perché, in comunione con tutta la Chiesa e per la sua crescita, diano il loro specifico contributo allo sviluppo della pastorale vocazionale.

Le varie componenti e i diversi membri della Chiesa impegnati nella pastorale vocazionale renderanno tanto più efficace la loro opera quanto più stimole ranno la comunità ecclesiale come tale, a cominciare dalla parrocchia, a sentire che il problema delle vocazioni sacerdotali non può minimamente essere delegato ad alcuni "incaricati" (i sacerdoti in genere, i sacerdoti del seminario in specie) perché, essendo "un problema vitale che si colloca nel cuore stesso della Chiesa", 273 deve stare al centro dell'amore di ogni cristiano verso la Chiesa.

CAPITOLO V

NE COSTITUI' DODICI CHE STESSERO CON LUI
La formazione dei candidati al sacerdozio

Vivere al seguito di Cristo come gli apostoli

42. « Salì sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».274

« Che stessero con lui »: in queste parole non è difficile leggere « l'accompagnamento vocazionale » degli apostoli da parte di Gesù. Dopo averli chiamati e prima di mandarli, anzi per poterli mandare a predicare, Gesù chiede loro un « tempo » di formazione destinato a sviluppare un rapporto di comunione e di amicizia profonde con se stesso. Ad essi egli riserva una catechesi più approfondita rispetto a quella della gente 275 e li vuole testimoni della sua silenziosa preghiera al Padre.276

Nella sua sollecitudine nei riguardi delle vocazioni sacerdotali la Chiesa di tutti i tempi si ispira all'esempio di Cristo. Sono state, e in parte lo sono tuttora, molto diverse le forme concrete secondo cui la Chiesa si è impegnata nella pastorale vocazionale, destinata non solo a discernere ma anche ad « accompagnare » le vocazioni al sacerdozio. Ma lo spirito, che le deve animare e sostenere, rimane identico: quello di portare al sacerdozio solo coloro che sono stati chiamati e di portarli adeguatamente formati, ossia con una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la loro persona a Gesù Cristo che chiama all'intimità di vita con lui e alla condivisione della sua missione di salvezza. In questo senso il seminario nelle sue diverse forme e in modo analogo la « casa » di formazione dei sacerdoti religiosi, prima che essere un luogo, uno spazio materiale, rappresenta uno spazio spirituale, un itinerario di vita, un'atmosfera che favorisce ed assicura un processo formativo così che colui che è chiamato da Dio al sacerdozio possa divenire, con il sacramento dell'Ordine, un'immagine vivente di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa. Nel loro Messaggio finale i Padri sinodali hanno colto in modo immediato e profondo il significato originale e qualificante della formazione dei candidati al sacerdozio, dicendo che « vivere in seminario, scuola del Vangelo, significa vivere al seguito di Cristo come gli apostoli; è lasciarsi iniziare da lui al servizio del Padre e degli uomini, sotto la guida dello Spirito Santo; è lasciarsi configurare al Cristo buon Pastore per un migliore servizio sacerdotale nella Chiesa e nel mondo. Formarsi al sacerdozio significa abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale di Cristo: "Mi ami tu?". La risposta per il futuro sacerdote non può essere che il dono totale della propria vita ».277

Si tratta di tradurre questo spirito, che non potrà mai venir meno nella Chiesa, nelle condizioni sociali, psicologiche, politiche e culturali del mondo attuale, peraltro così varie oltre che complesse, come hanno testimoniato i Padri sinodali in rapporto alle diverse Chiese particolari. Gli stessi Padri, con accenti carichi di pensosa preoccupazione ma anche di grande speranza, hanno potuto conoscere e riflettere a lungo sullo sforzo di ricerca e di aggiornamento dei metodi di formazione dei candidati al sacerdozio in atto in tutte le loro Chiese.

Questa Esortazione intende raccogliere il frutto dei lavori sinodali, stabilendo alcuni punti acquisiti, mostrando alcune mete irrinunciabili, mettendo a disposizione di tutti la ricchezza di esperienze e di itinerari formativi già positivamente sperimentati. In questa Esortazione si considera distintamente la formazione « iniziale » e la formazione « permanente », senza però mai dimenticare il profondo legame che le unisce e che deve fare delle due un unico organico percorso di vita cristiana e sacerdotale. L'Esortazione si sofferma sulle diverse dimensioni della formazione, umana, spirituale, intellettuale e pastorale, come pure sugli ambienti e sui soggetti responsabili della formazione stessa dei candidati al sacerdozio.

I. Le dimensioni della formazione sacerdotale

43. « Senza un'opportuna formazione umana l'intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento ».278 Quest'affermazione dei Padri sinodali esprime non soltanto un dato quotidianamente suggerito dalla ragione e confermato dall'esperienza, ma un'esigenza che trova la sua motivazione più profonda e specifica nella natura stessa del presbitero e del suo ministero.

Il presbitero, chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa, deve cercare di riflettere in sé, nella misura del possibile, quella perfezione umana che risplende nel Figlio di Dio fatto uomo e che traspare con singolare efficacia nei suoi atteggiamenti verso gli altri, così come gli evangelisti li presentano. Il ministero poi del sacerdote è sì di annunciare la Parola, celebrare il Sacramento, guidare nella carità la comunità cristiana « nel nome e nella persona di Cristo », ma questo rivolgendosi sempre e solo a uomini concreti: « Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio ».279 Per questo la formazione umana del sacerdote rivela la sua particolare importanza in rapporto ai destinatari della sua missione: proprio perché il suo ministero sia umanamente il più credibile ed accettabile, occorre che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da renderla ponte e non ostacolo per gli altri nell'incontro con Gesù Cristo Redentore dell'uomo; è necessario che, sull'esempio di Gesù che « sapeva quello che c'è in ogni uomo »,280 il sacerdote sia capace di conoscere in profondità l'animo umano, di intuire difficoltà e problemi, di facilitare l'incontro e il dialogo, di ottenere fiducia e collaborazione, di esprimere giudizi sereni e oggettivi.

Non solo, dunque, per una giusta e doverosa maturazione e realizzazione di sé, ma anche in vista del ministero i futuri presbiteri devono coltivare una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere, capaci di portare il peso delle responsabilità pastorali. Occorre allora l'educazione all'amore per la verità, alla lealtà, al rispetto per ogni persona, al senso della giustizia, alla fedeltà alla parola data, alla vera compassione, alla coerenza e, in particolare, all'equilibrio di giudizio e di comportamento.281 Un programma semplice e impegnativo per questa formazione umana è proposto dall'apostolo Paolo ai Filippesi: « Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri ».282 È interessante rilevare come Paolo, proprio in queste qualità profondamente umane, presenti se stesso come modello ai suoi fedeli: « Ciò che avete imparato — prosegue immediatamente —, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare ».283

Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere « uomo di comunione ». Questo esige che il sacerdote non sia né arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore,284 prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente, e di suscitar in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare.285 L'umanità di oggi, spesso condannata a situazioni di massificazione e di solitudine, soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane, si fa sempre più sensibile al valore della comunione: questo è oggi uno dei segni più eloquenti ed una delle vie più efficaci del messaggio evangelico.

In questo contesto si inserisce, come momento qualificante e decisivo, la formazione del candidato al sacerdozio alla maturità affettiva, quale esito dell'educazione all'amore vero e responsabile.

44. La maturazione affettiva suppone la consapevolezza della centralità dell'amore nell'esistenza umana. In realtà, come ho scritto nell'enciclica « Redemptor Hominis », « l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente ».286

Si tratta di un amore che coinvolge l'intera persona, nelle sue dimensioni e componenti fisiche, psichiche e spirituali, e che si esprime nel « significato sponsale » del corpo umano, grazie al quale la persona dona se stessa all'altra e la accoglie. Alla comprensione e alla realizzazione di questa « verità » dell'amore umano tende l'educazione sessuale rettamente intesa. Si deve, infatti, registrare una situazione sociale e culturale diffusa « che "banalizza" in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico ».287 Spesso le stesse situazioni familiari, dalle quali provengono le vocazioni sacerdotali, presentano al riguardo non poche carenze e talvolta anche gravi squilibri.

In un simile contesto si fa più difficile, ma diventa più urgente, un'educazione alla sessualità che sia veramente e pienamente personale e che, pertanto, faccia posto alla stima e all'amore per la castità, quale « virtù che sviluppa l'autentica maturità della persona e la rende capace di rispettare e di promuovere il "significato sponsale" del corpo ».288

Ora l'educazione all'amore responsabile e la maturazione affettiva della persona risultano del tutto necessarie per chi, come il presbitero, è chiamato al celibato, ossia ad offrire, con la grazia dello Spirito e con la libera risposta della propria volontà, la totalità del suo amore e della sua sollecitudine a Gesù Cristo e alla Chiesa. In vista dell'impegno celibatario la maturità affettiva deve saper includere, all'interno di rapporti umani di serena amicizia e di profonda fraternità, un grande amore, vivo e personale, nei riguardi di Gesù Cristo. Come hanno scritto i Padri sinodali, « è di massima importanza nel suscitare la maturità affettiva l'amore di Cristo, prolungato in una dedizione universale. Così il candidato, chiamato al celibato, troverà nella maturità affettiva un fermo fulcro per vivere la castità nella fedeltà e nella gioia ».289

Poiché il carisma del celibato, anche quando è autentico e provato, lascia intatte le inclinazioni dell'affettività e le pulsioni dell'istinto, i candidati al sacerdozio hanno bisogno di una maturità affettiva capace di prudenza, di rinuncia a tutto ciò che può insidiarla, di vigilanza sul corpo e sullo spirito, di stima e di rispetto nelle relazioni interpersonali con uomini e donne. Un aiuto prezioso può essere dato da un'adeguata educazione alla vera amicizia, ad immagine dei vincoli di fraterno affetto che Cristo stesso ha vissuto nella sua esistenza.290

La maturità umana, e quella affettiva in particolare, esigono una formazione limpida e forte ad una libertà che si configura come obbedienza convinta e cordiale alla « verità » del proprio essere, al « significato » del proprio esistere, ossia al « dono sincero di sé » quale via e fondamentale contenuto dell'autentica realizzazione di sé.291 Così intesa, la libertà esige che la persona sia veramente padrona di sé stessa, decisa a combattere e a superare le diverse forme di egoismo e di individualismo che insidiano la vita di ciascuno, pronta ad aprirsi agli altri, generosa nella dedizione e nel servizio al prossimo. Ciò è importante per la risposta da darsi alla vocazione, e a quella sacerdotale in specie, e per la fedeltà ad essa e agli impegni che vi sono connessi, anche nei momenti difficili. In questo itinerario educativo verso una matura libertà responsabile un aiuto può venire dalla vita comunitaria del Seminario.292

Intimamente congiunta con la formazione alla libertà responsabile è l'educazione della coscienza morale: questa, mentre sollecita dall'intimo del proprio « io » l'obbedienza alle obbligazioni morali, rivela il significato profondo di tale obbedienza, quello di essere una risposta cosciente e libera, e dunque per amore, alle richieste di Dio e del suo amore. « La maturità umana del sacerdote — scrivono i Padri sinodali — deve includere specialmente la formazione della sua coscienza. Il candidato infatti, perché possa fedelmente assolvere alle sue obbligazioni verso Dio e la Chiesa e perché possa sapientemente guidare le coscienze dei fedeli, deve abituarsi ad ascoltare la voce di Dio, che gli parla nel cuore, e ad aderire con amore e fermezza alla sua volontà ».293

45. La stessa formazione umana, se sviluppata nel contesto di un'antropologia che accoglie l'intera verità dell'uomo, si apre e si completa nella formazione spirituale. Ogni uomo, creato da Dio e redento dal sangue di Cristo, è chiamato ad essere rigenerato « dall'acqua e dallo Spirito »294 e a divenire « figlio nel Figlio ». Sta in questo disegno efficace di Dio il fondamento della dimensione costitutivamente religiosa dell'essere umano, peraltro intuita e riconosciuta dalla semplice ragione: l'uomo è aperto al trascendente, all'assoluto; possiede un cuore che è inquieto sino a che non riposa nel Signore.295

È da questa fondamentale e insopprimibile esigenza religiosa che parte e si snoda il processo educativo di una vita spirituale intesa come rapporto e comunione con Dio. Secondo la rivelazione e l'esperienza cristiana, la formazione spirituale possiede l'inconfondibile originalità che proviene dalla « novità » evangelica. Infatti, « essa è opera dello Spirito e impegna la persona nella sua totalità; introduce nella comunione profonda con Gesù Cristo, buon Pastore; conduce a una sottomissione di tutta la vita allo Spirito, in un atteggiamento filiale nei confronti del Padre e in un attaccamento fiducioso alla Chiesa. Essa si radica nell'esperienza della croce per poter introdurre, in una comunione profonda, alla totalità del mistero pasquale ».296

Come si vede, si tratta di una formazione spirituale che è comune a tutti i fedeli, ma che chiede di strutturarsi secondo quei significati e quelle connotazioni che derivano dall'identità del presbitero e del suo ministero. E come per ogni fedele la formazione spirituale deve dirsi centrale e unificante in rapporto al suo essere e al suo vivere da cristiano, ossia da creatura nuova in Cristo che cammina nello Spirito, così per ogni presbitero la formazione spirituale costituisce il cuore che unifica e vivifica il suo essere prete e il suo fare il prete. In tal senso, i Padri del Sinodo affermano che « senza la formazione spirituale la formazione pastorale procederebbe senza fondamento »297 e che la formazione spirituale costituisce « come l'elemento di massima importanza nell'educazione sacerdotale ».298

Il contenuto essenziale della formazione spirituale in un preciso itinerario verso il sacerdozio è bene espresso dal decreto conciliare « Optatam Totius »: « La formazione spirituale ... sia impartita in modo tale che gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito Santo. Destinati a configurarsi a Cristo sacerdote per mezzo della sacra ordinazione, si abituino anche a vivere intimamente uniti a lui, come amici, in tutta la loro vita. Vivano il mistero pasquale di Cristo in modo da sapervi iniziare un giorno il Popolo che sarà loro affidato. Si insegni loro a cercare Cristo nella fedele meditazione della Parola di Dio; nell'attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della Chiesa, soprattutto nell'Eucaristia e nell'ufficio divino; nel Vescovo che li manda e negli uomini ai quali sono inviati, specialmente nei poveri, nei piccoli, negli infermi, nei peccatori e negli increduli. Con fiducia filiale amino e venerino la Beatissima Vergine Maria che fu data come madre da Gesù morente in croce al suo discepolo ».299

46. Il testo conciliare merita un'accurata e amorosa meditazione, dalla quale si possono facilmente enucleare alcuni fondamentali valori ed esigenze del cammino spirituale del candidato al sacerdozio.

S'impone, innanzitutto, il valore e l'esigenza di « vivere intimamente uniti » a Gesù Cristo. L'unione al Signore Gesù, fondata sul Battesimo e alimentata con l'Eucaristia, domanda di esprimersi, rinnovandola radicalmente, nella vita di ogni giorno. L'intima comunione con la Santissima Trinità, ossia la vita nuova della grazia che rende figli di Dio, costituisce la « novità » del credente: una novità che coinvolge l'essere e l'operare. Costituisce il « mistero » dell'esistenza cristiana che sta sotto l'influsso dello Spirito: deve costituire, di conseguenza, l'« ethos » della vita del cristiano. Gesù ci ha insegnato questo meraviglioso contenuto della vita cristiana, che è anche il cuore della vita spirituale, con l'allegoria della vite e dei tralci: « Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo... Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla ».300

Nella cultura attuale non mancano, certo, dei valori spirituali e religiosi e l'uomo, nonostante ogni apparenza contraria, rimane instancabilmente un affamato e un assetato di Dio. Ma spesso la religione cristiana rischia di essere considerata una religione fra le tante o di essere ridotta ad una pura etica sociale a servizio dell'uomo. Così non sempre emerge la sua sconvolgente novità nella storia: essa è « mistero », è l'evento del Figlio di Dio che si fa uomo e dà a quanti l'accolgono il « potere di diventare figli di Dio »,301 è l'annuncio, anzi il dono di un'alleanza personale di amore e di vita di Dio con l'uomo. Solo se i futuri sacerdoti, attraverso un'adeguata formazione spirituale, avranno fatto conoscenza profonda ed esperienza crescente di questo « mistero », potranno comunicare agli altri tale sorprendente e beatificante annuncio.302

Il testo conciliare, pur consapevole dell'assoluta trascendenza del mistero cristiano, connota l'intima comunione dei futuri presbiteri con Gesù con la sfumatura dell'amicizia. Non è, questa, un'assurda pretesa dell'uomo. È semplicemente il dono inestimabile di Cristo, che ai suoi apostoli ha detto: « Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi ».303

Il testo conciliare prosegue indicando un secondo grande valore spirituale: la ricerca di Gesù. « Si insegni loro a cercare Cristo ». È questo, insieme al quaerere Deum, un tema classico della spiritualità cristiana, che trova una sua specifica applicazione proprio nell'ambito della vocazione degli apostoli. Giovanni, nel raccontare la sequela di Gesù da parte dei primi due discepoli, mette in luce il posto occupato da questa « ricerca ». È Gesù stesso che pone la domanda: « Che cercate? ». E i due rispondono: « Rabbì, dove abiti? ». L'evangelista prosegue: « Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui ».304 In un certo senso la vita spirituale di chi si prepara al sacerdozio è dominata da questa ricerca: da questa e dal « trovare » il Maestro, per seguirlo, per stare in comunione con lui. Anche nel ministero e nella vita sacerdotale questa « ricerca » dovrà continuare, tanto è inesauribile il mistero dell'imitazione e della partecipazione alla vita di Cristo. Così come dovrà continuare questo « trovare » il Maestro, in ordine ad additarlo agli altri, meglio ancora in ordine a suscitare negli altri il desiderio di cercare il Maestro. Ma ciò è veramente possibile se agli altri viene proposta una « esperienza » di vita, un'esperienza che meriti di essere condivisa. È stata questa la strada seguita da Andrea per condurre il fratello Simone da Gesù: Andrea, scrive l'evangelista Giovanni, « incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù ».305 E così anche Simone sarà chiamato, come apostolo, alla sequela del Messia: « Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».306

Ma che significa, nella vita spirituale, cercare Cristo? e dove trovarlo? « Rabbì, dove abiti? ». Il decreto conciliare « Optatam Totius » sembra indicare una triplice strada da percorrere: la fedele meditazione della Parola di Dio, l'attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della Chiesa, il servizio della carità ai « piccoli ». Sono tre grandi valori ed esigenze che definiscono ulteriormente il contenuto della formazione spirituale del candidato al sacerdozio.

47. Elemento essenziale della formazione spirituale è la lettura meditata e orante della Parola di Dio (lectio divina), è l'ascolto umile e pieno d'amore di Colui che parla. È, infatti, nella luce e nella forza della Parola di Dio che può essere scoperta, compresa, amata e seguita la propria vocazione e compiuta la propria missione, al punto che l'intera esistenza trova il suo significato unitario e radicale nell'essere il termine della Parola di Dio che chiama l'uomo e il principio della parola dell'uomo che risponde a Dio. La familiarità con la Parola di Dio faciliterà l'itinerario della conversione, non solo nel senso di distaccarsi dal male per aderire al bene, ma anche nel senso di alimentare nel cuore i pensieri di Dio, così che la fede, quale risposta alla Parola, diventi il nuovo criterio di giudizio e di valutazione degli uomini e delle cose, degli avvenimenti e dei problemi.

Purché la Parola di Dio sia accostata e accolta nella sua vera natura: essa, infatti, fa incontrare Dio stesso, Dio che parla all'uomo; fa incontrare Cristo, il Verbo di Dio, la Verità che insieme è anche Via e Vita.307 Si tratta di leggere le « scritture » ascoltando le « parole », la « Parola » di Dio, come ci ricorda il Concilio: « Le Sacre Scritture contengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio ».308

E ancora lo stesso Concilio: « Con questa rivelazione infatti Dio invisibile309 nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici310 e si intrattiene con essi,311 per invitarli e ammetterli alla comunione con sé ».312

La conoscenza amorosa e la familiarità orante con la Parola di Dio rivestono un significato specifico per il ministero profetico del sacerdote, per il cui adeguato svolgimento diventano una condizione imprescindibile soprattutto nel contesto della « nuova evangelizzazione », alla quale la Chiesa oggi è chiamata. Il Concilio ammonisce: « È necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi "vano predicatore della Parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta di dentro"313 ».314

La prima e fondamentale forma di risposta alla Parola è la preghiera, che costituisce senz'alcun dubbio un valore ed un'esigenza primari della formazione spirituale. Questa deve condurre i candidati al sacerdozio a conoscere e a sperimentare il senso autentico della preghiera cristiana, quello di essere un incontro vivo e personale col Padre per mezzo del Figlio unigenito sotto l'azione dello Spirito, un dialogo che si fa partecipazione del colloquio filiale che Gesù ha col Padre. Un aspetto non certo secondario della missione del sacerdote è quello di essere « educatore di preghiera ». Ma solo se il sacerdote è stato formato e continua a formarsi alla scuola di Gesù orante, potrà formare gli altri a questa stessa scuola. Questo chiedono al sacerdote gli uomini: « Il sacerdote è l'uomo di Dio, colui che appartiene a Dio e fa pensare a Dio. Quando la Lettera agli Ebrei parla di Cristo, lo presenta come un "sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio" 315... I cristiani sperano di trovare nel sacerdote non solo un uomo che li accoglie, che li ascolta volentieri e testimonia loro una sincera simpatia, ma anche e soprattutto un uomo che li aiuta a guardare Dio, a salire verso di lui. Occorre dunque che il sacerdote sia formato a una profonda intimità con Dio. Coloro che si preparano al sacerdozio devono comprendere che tutto il valore della loro vita sacerdotale dipenderà dal dono che essi sapranno fare di se stessi a Cristo e, per mezzo di Cristo, al Padre ».316

In un contesto di agitazione e di rumore, come quello della nostra società, una necessaria pedagogia alla preghiera è l'educazione al senso umano profondo e al valore religioso del silenzio, quale atmosfera spirituale indispensabile per percepire la presenza di Dio e per lasciarsene conquistare.317

48. Il vertice della preghiera cristiana è l'Eucaristia, che a sua volta si pone come « culmine e fonte » dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore. E per la formazione spirituale di ogni cristiano, e in specie di ogni sacerdote, è del tutto necessaria l'educazione liturgica, nel senso pieno di un inserimento vitale nel mistero pasquale di Gesù Cristo morto e risorto, presente e operante nei sacramenti della Chiesa. La comunione con Dio, fulcro dell'intera vita spirituale, è dono e frutto dei sacramenti; e nello stesso tempo è compito e responsabilità che i sacramenti affidano alla libertà del credente, affinché viva questa stessa comunione nelle decisioni, scelte, atteggiamenti e azioni della sua quotidiana esistenza. In tal senso, la « grazia » che fa « nuova » la vita cristiana è la grazia di Gesù Cristo morto e risorto, che continua ad effondere il suo Spirito santo e santificatore nei sacramenti; così come la « legge nuova » che deve guidare e normare l'esistenza del cristiano è scritta dai sacramenti nel « cuore nuovo ». Ed è legge di carità verso Dio e i fratelli, quale risposta e prolungamento della carità di Dio verso l'uomo significata e comunicata dai sacramenti. Si può immediatamente comprendere il valore di una partecipazione « piena, consapevole e attiva »318 alle celebrazioni sacramentali per il dono e il compito di quella « carità pastorale » che costituisce l'anima del ministero sacerdotale.

Ciò vale soprattutto nella partecipazione all'Eucaristia, memoriale della morte sacrificale di Cristo e della sua gloriosa risurrezione, « sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità »,319 convito pasquale nel quale « ci nutriamo di Cristo, ... l'anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria ».320 Ora i sacerdoti, nella loro qualità di ministri delle cose sacre, sono soprattutto i ministri del Sacrificio della Messa:321 il loro ruolo è del tutto insostituibile, perché senza sacerdote non vi può essere offerta eucaristica.

Questo spiega l'importanza essenziale dell'Eucaristia per la vita e per il ministero sacerdotale e, conseguentemente, nella formazione spirituale dei candidati al sacerdozio. Con grande semplicità e all'insegna della massima concretezza ripeto: « Converrà pertanto che i seminaristi partecipino ogni giorno alla celebrazione eucaristica, di modo che, in seguito, assumano come regola della loro vita sacerdotale questa celebrazione quotidiana. Essi saranno inoltre educati a considerare la celebrazione eucaristica come il momento essenziale della loro giornata, al quale parteciperanno attivamente, mai accontentandosi di una assistenza soltanto abitudinaria. Infine, i candidati al sacerdozio saranno formati alle intime disposizioni che l'Eucaristia promuove: la riconoscenza per i benefici ricevuti dall'alto, poiché Eucaristia è azione di grazie; l'atteggiamento oblativo che li spinge a unire all'offerta eucaristica di Cristo la propria offerta personale; la carità nutrita da un sacramento che è segno di unità e di condivisione; il desiderio di contemplazione e di adorazione davanti a Cristo realmente presente sotto le specie eucaristiche ».322

Doveroso e quanto mai urgente è il richiamo a riscoprire, all'interno della formazione spirituale, la bellezza e la gioia del Sacramento della Penitenza. In una cultura che, con rinnovate e più sottili forme di auto-giustificazione, rischia di perdere fatalmente il « senso del peccato » e, di conseguenza, la gioia consolante della richiesta di perdono323 e dell'incontro con Dio « ricco di misericordia »,324 urge educare i futuri presbiteri alla virtù della penitenza, che è sapientemente alimentata dalla Chiesa nelle sue celebrazioni e nei tempi dell'anno liturgico e che trova la sua pienezza nel Sacramento della Riconciliazione. Di qui scaturiscono il senso dell'ascesi e della disciplina interiore, lo spirito di sacrificio e di rinuncia, l'accettazione della fatica e della croce. Si tratta di elementi della vita spirituale, che spesso si rivelano particolarmente ardui per molti candidati al sacerdozio cresciuti in condizioni relativamente comode e agiate e resi meno inclini e sensibili a questi stessi elementi dai modelli di comportamento e dagli ideali veicolati dai mezzi di comunicazione sociale, anche nei paesi dove più povere sono le condizioni di vita e più austera la situazione giovanile. Per questo, ma soprattutto per realizzare sull'esempio di Cristo buon Pastore la « radicale donazione di sé » propria del sacerdote, i Padri sinodali hanno scritto: « È necessario inculcare il senso della croce, che sta al cuore del mistero pasquale. Grazie a questa identificazione con Cristo crocifisso, in quanto servo, il mondo può ritrovare il valore dell'austerità, del dolore ed anche del martirio, dentro l'attuale cultura imbevuta di secolarismo, di avidità e di edonismo ».325

49. La formazione spirituale comporta anche di cercare Cristo negli uomini. La vita spirituale, infatti, è sì vita interiore, vita d'intimità con Dio, vita di preghiera e di contemplazione. Ma proprio l'incontro con Dio, e con il suo amore di Padre di tutti, pone l'esigenza indeclinabile dell'incontro con il prossimo, del dono di sé agli altri, nel servizio umile e disinteressato che Gesù ha proposto a tutti come programma di vita con la lavanda dei piedi agli apostoli: « Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi ».326

La formazione al dono generoso e gratuito di sé, favorito anche dalla forma comunitaria normalmente assunta dalla preparazione al sacerdozio, rappresenta una condizione irrinunciabile per chi è chiamato a farsi epifania e trasparenza del buon Pastore che dà la vita.327 Sotto questo aspetto la formazione spirituale possiede e deve sviluppare la sua intrinseca dimensione pastorale o caritativa, e può utilmente servirsi anche di una giusta, ossia forte e tenera, devozione al Cuore di Cristo, come hanno sottolineato i Padri del Sinodo: « Formare i futuri sacerdoti nella spiritualità del Cuore del Signore implica condurre una vita che corrisponde all'amore e all'affetto di Cristo Sacerdote e buon Pastore: al suo amore verso il Padre nello Spirito Santo, al suo amore verso gli uomini sino a donare nell'immolazione la sua vita ».328

Il sacerdote è, dunque, l'uomo della carità, ed è chiamato ad educare gli altri all'imitazione di Cristo e al comandamento nuovo dell'amore fraterno.329 Ma ciò esige che lui stesso si lasci continuamente educare dallo Spirito alla carità di Cristo. In tal senso la preparazione al sacerdozio non può non implicare una seria formazione alla carità, in particolare all'amore preferenziale per i « poveri » nei quali la fede scopre la presenza di Gesù 330 e all'amore misericordioso per i peccatori.

Nella prospettiva della carità, che consiste nel dono di sé per amore, trova il suo posto nella formazione spirituale del futuro sacerdote l'educazione all'obbedienza, al celibato e alla povertà.331 In questo senso sta l'invito del Concilio: « In modo ben chiaro gli alunni sappiano di non essere destinati né al dominio né agli onori, ma di dover mettersi al completo servizio di Dio e del ministero pastorale. Con particolare sollecitudine vengano educati all'obbedienza sacerdotale, a un tenore di vita povera, allo spirito di abnegazione di sé, in modo da abituarsi a rinunziare prontamente anche alle cose per sé lecite ma non convenienti e a vivere in conformità con Cristo crocifisso ».332

50. La formazione spirituale di chi è chiamato a vivere il celibato deve riservare un'attenzione particolare a preparare il futuro sacerdote a conoscere, stimare, amare e vivere il celibato nella sua vera natura e nelle sue vere finalità, quindi nelle sue motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali. Presupposto e contenuto di questa preparazione è la virtù della castità, che qualifica tutte le relazioni umane e che conduce « a sperimentare e a manifestare... un amore sincero, umano, fraterno, personale e capace di sacrifici, sull'esempio di Cristo, verso tutti e verso ciascuno ».333

Il celibato dei sacerdoti connota la castità di alcune caratteristiche, grazie alle quali essi « rinunziando alla vita coniugale per il regno dei cieli,334 possono aderire a Dio con un amore indivisibile rispondente intimamente alla nuova legge, danno testimonianza della futura risurrezione 335 e ricevono un aiuto grandissimo per l'esercizio continuo di quella perfetta carità che li renderà capaci nel ministero sacerdotale di farsi tutto a tutti ».336 In tal senso il celibato sacerdotale non è da considerarsi come semplice norma giuridica, né come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all'ordinazione, bensì come un valore profondamente connesso con l'ordinazione sacra, che configura a Gesù Cristo buon Pastore e Sposo della Chiesa, e quindi come la scelta di un amore più grande e senza divisioni per Cristo e per la sua Chiesa nella disponibilità piena e gioiosa del cuore per il ministero pastorale. Il celibato è da considerare come una grazia speciale, come un dono: « Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso ».337 Certamente una grazia che non dispensa, ma esige con singolare forza la risposta cosciente e libera da parte di chi la riceve. Questo carisma dello Spirito racchiude anche la grazia perché colui che lo riceve rimanga fedele per tutta la vita e compia con generosità e con gioia gli impegni che vi sono connessi. Nella formazione al celibato sacerdotale dovrà essere assicurata la coscienza del « prezioso dono di Dio »,338 che condurrà alla preghiera e alla vigilanza perché il dono sia custodito da tutto ciò che lo può minacciare.

Vivendo il suo celibato il sacerdote potrà meglio compiere il suo ministero nel Popolo di Dio. In particolare, mentre testimonierà il valore evangelico della verginità, potrà sostenere gli sposi cristiani a vivere in pienezza il « grande sacramento » dell'amore di Cristo Sposo per la Chiesa sua sposa, così come la sua fedeltà nel celibato sarà di aiuto per la fedeltà degli sposi.339

L'importanza e la delicatezza della preparazione al celibato sacerdotale, specialmente nelle attuali situazioni sociali e culturali, hanno portato i Padri sinodali ad una serie di richieste, la cui validità permanente è peraltro confermata dalla saggezza della Chiesa madre. Le ripropongo autorevolmente come criteri da seguirsi nella formazione alla castità nel celibato: « I Vescovi insieme ai rettori e ai direttori spirituali dei seminari stabiliscano principii, offrano criteri e diano aiuti per il discernimento in questa materia. Di massima importanza per la formazione alla castità nel celibato sono la sollecitudine del Vescovo e la vita fraterna tra i sacerdoti. In seminario, durante il periodo di formazione, il celibato deve essere presentato con chiarezza, senza alcuna ambiguità e in modo positivo. Il seminarista deve avere un adeguato grado di maturità psichica e sessuale, nonché una vita assidua ed autentica di preghiera, e deve porsi sotto la direzione di un padre spirituale. Il direttore spirituale deve aiutare il seminarista perché egli stesso giunga ad una decisione matura e libera, che sia fondata nella stima dell'amicizia sacerdotale e dell'autodisciplina, come pure nell'accettazione della solitudine e in un retto stato personale fisico e psicologico. Per questo i seminaristi conoscano bene la dottrina del Concilio Vaticano II, l'enciclica « Sacerdotalis Caelibatus » e l'Istruzione per la formazione al celibato sacerdotale edita dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica nel 1974. Perché il seminarista possa abbracciare con decisione libera il celibato sacerdotale per il Regno dei cieli è necessario che conosca la natura cristiana e veramente umana nonché il fine della sessualità nel matrimonio e nel celibato. È necessario anche istruire ed educare i fedeli laici circa le motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali proprie del celibato sacerdotale così che aiutino i presbiteri con l'amicizia, la comprensione e la collaborazione ».340

51. La formazione intellettuale, pur avendo una sua specificità, si connette profondamente, sino a costituirne un'espressione necessaria, con la formazione umana e quella spirituale: si configura, infatti, come un'esigenza insopprimibile dell'intelligenza con la quale l'uomo « partecipa della luce della mente di Dio » 341 e cerca di acquisire una sapienza, che a sua volta, si apre e punta sulla conoscenza e sull'adesione a Dio.

La formazione intellettuale dei candidati al sacerdozio trova la sua specifica giustificazione nella natura stessa del ministero ordinato e manifesta la sua urgenza attuale di fronte alla sfida della « nuova evangelizzazione » alla quale il Signore chiama la Chiesa alle soglie del terzo millennio. « Se già ogni cristiano — scrivono i Padri sinodali — deve essere pronto a difendere la fede e a rendere ragione della speranza che vive in noi,342 molto di più i candidati al sacerdozio e i presbiteri devono avere diligente cura del valore della formazione intellettuale nell'educazione e nell'attività pastorale, dal momento che per la salvezza dei fratelli e delle sorelle devono cercare una più profonda conoscenza dei misteri divini ».343 La situazione attuale poi, pesantemente segnata dall'indifferenza religiosa e insieme da una sfiducia diffusa nei riguardi della reale capacità della ragione di raggiungere la verità oggettiva e universale, e da problemi e interrogativi inediti provocati dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, esige con forza un livello eccellente di formazione intellettuale, tale cioè da rendere i sacerdoti capaci di annunciare, proprio in un simile contesto, l'immutabile Vangelo di Cristo e di renderlo credibile di fronte alle legittime esigenze della ragione umana. Si aggiunga, inoltre, che l'attuale fenomeno del pluralismo quanto mai accentuato, nell'ambito non solo della società umana ma anche della stessa comunità ecclesiale, chiede una particolare attitudine al discernimento critico: è un ulteriore motivo che dimostra la necessità di una formazione intellettuale quanto mai seria.

Questa motivazione « pastorale » della formazione intellettuale riconferma quanto già detto sull'unità del processo educativo nelle sue diverse dimensioni. L'impegno di studio, che occupa non poca parte della vita di chi si prepara al sacerdozio, non è affatto una componente esteriore e secondaria della sua crescita umana, cristiana, spirituale e vocazionale: in realtà attraverso lo studio, soprattutto della teologia, il futuro sacerdote aderisce alla Parola di Dio, cresce nella sua vita spirituale e si dispone a compiere il suo ministero pastorale. È questo il molteplice e unitario scopo dello studio teologico indicato dal Concilio 344 e riproposto dall'Instrumentum laboris del Sinodo: « Affinché possa essere pastoralmente efficace, la formazione intellettuale va integrata in un cammino spirituale segnato dall'esperienza personale di Dio, in modo tale da superare una pura scienza nozionistica e pervenire a quella intelligenza del cuore che sa "vedere" prima ed è in grado poi di comunicare il mistero di Dio ai fratelli ».345

52. Un momento essenziale della formazione intellettuale è lo studio della filosofia, che conduce ad una più profonda comprensione e interpretazione della persona, della sua libertà, delle sue relazioni con il mondo e con Dio. Essa si rivela di grande urgenza, non solo per il legame che esiste tra gli argomenti filosofici e i misteri della salvezza studiati in teologia alla luce superiore della fede 346 ma anche di fronte ad una situazione culturale quanto mai diffusa che esalta il soggettivismo come criterio e misura della verità: solo una sana filosofia può aiutare i candidati al sacerdozio a sviluppare una coscienza riflessa del rapporto costitutivo che esiste tra lo spirito umano e la verità, quella verità che si rivela a noi pienamente in Gesù Cristo. Né è da sottovalutare l'importanza della filosofia per garantire quella « certezza di verità » che, sola, può stare alla base della donazione personale totale a Gesù e alla Chiesa. Non è difficile capire come alcune questioni molto concrete, quali l'identità del sacerdote e il suo impegno apostolico e missionario, sono profondamente legate alla questione, tutt'altro che astratta, della verità: se non si è certi della verità, come è possibile mettere in gioco l'intera propria vita ed avere la forza per interpellare sul serio la vita degli altri?

La filosofia aiuta non poco il candidato ad arricchire la sua formazione intellettuale del « culto della verità », cioè di una specie di venerazione amorosa della verità, la quale conduce a riconoscere che la verità stessa non è creata e misurata dall'uomo ma all'uomo è data in dono dalla Verità suprema, Dio; che, sia pure con limiti e a volte con difficoltà, la ragione umana può raggiungere la verità oggettiva e universale, anche quella riguardante Dio e il senso radicale dell'esistenza; che la fede stessa non può prescindere dalla ragione e dalla fatica di « pensare » i suoi contenuti, come testimoniava la grande mente di Agostino: « Ho desiderato vedere con l'intelletto ciò che ho creduto, e ho molto disputato e faticato ».347

Per una più profonda comprensione dell'uomo e dei fenomeni e delle linee evolutive della società, in ordine all'esercizio il più possibile « incarnato » del ministero pastorale, di non poca utilità possono essere le cosiddette « scienze dell'uomo », come la sociologia, la psicologia, la pedagogia, la scienza dell'economia e della politica, la scienza della comunicazione sociale. Sia pure nell'ambito ben preciso delle scienze positive o descrittive, queste aiutano il futuro sacerdote a prolungare la « contemporaneità » vissuta da Cristo. « Cristo, diceva Paolo VI, si è fatto contemporaneo ad alcuni uomini e ha parlato nel loro linguaggio. La fedeltà a lui chiede che questa contemporaneità continui ».348

53. La formazione intellettuale del futuro sacerdote si basa e si costruisce soprattutto sullo studio della sacra doctrina, della teologia. Il valore e l'autenticità della formazione teologica dipendono dal rispetto scrupoloso della natura propria della teologia, che i Padri sinodali hanno così compendiato: « La vera teologia proviene dalla fede e intende condurre alla fede ».349 È questa la concezione che la Chiesa cattolica, e il suo Magistero in specie, hanno costantemente proposto. È questa la linea seguita dai grandi teologi, che hanno arricchito il pensiero della Chiesa cattolica lungo i secoli. San Tommaso è oltremodo esplicito, quando afferma che la fede è come l'habitus della teologia, ossia il suo principio operativo permanente,350 e che tutta la teologia è ordinata a nutrire la fede.351

Il teologo è, dunque, anzitutto un credente, un uomo di fede.

Ma è un credente che s'interroga sulla propria fede (fides quaerens intellectum), che s'interroga al fine di raggiungere una comprensione più profonda della fede stessa. I due aspetti, la fede e la riflessione matura, sono profondamente connessi, intrecciati: proprio la loro intima coordinazione e compenetrazione decide della vera natura della teologia, e conseguentemente decide dei contenuti, delle modalità e dello spirito secondo cui la sacra doctrina va elaborata e studiata.

Poiché poi la fede, punto di partenza e di arrivo della teologia, opera un rapporto personale del credente con Gesù Cristo nella Chiesa, anche la teologia possiede delle intrinseche connotazioni cristologiche ed ecclesiali, che il candidato al sacerdozio deve consapevolmente assumere, non solo per le implicazioni che riguardano la sua vita personale ma anche per quelle che toccano il suo ministero pastorale. Se è accoglienza della Parola di Dio, la fede si risolve in un « sì » radicale del credente a Gesù Cristo, Parola piena e definitiva di Dio al mondo.352 Di conseguenza, la riflessione teologica trova il suo centro nell'adesione a Gesù Cristo, Sapienza di Dio: la stessa riflessione matura deve dirsi una partecipazione al « pensiero » di Cristo 353 nella forma umana di una scienza (scientia fidei). Nello stesso tempo, la fede inserisce il credente nella Chiesa e lo rende partecipe della vita della Chiesa, quale comunità di fede. Di conseguenza, la teologia possiede una dimensione ecclesiale, perché è una riflessione matura sulla fede della Chiesa e da parte del teologo che è membro della Chiesa.354

Queste prospettive cristologiche ed ecclesiali, che sono connaturali alla teologia, aiutano a sviluppare nei candidati al sacerdozio, insieme al rigore scientifico, un grande e vivo amore a Gesù Cristo e alla sua Chiesa: quest'amore, mentre nutre la loro vita spirituale, li orienta al generoso compimento del loro ministero. Proprio questo era, in definitiva, l'intento del Concilio Vaticano II che sollecitava il riordinamento degli studi ecclesiastici disponendo meglio le varie discipline filosofiche e teologiche e facendole « convergere concordemente alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo, il quale compenetra tutta la storia del genere umano, agisce continuamente nella Chiesa e opera principalmente attraverso il ministero sacerdotale ».355

Formazione intellettuale teologica e vita spirituale, in particolare vita di preghiera, s'incontrano e si rafforzano a vicenda, senza nulla togliere né alla serietà della ricerca né al sapore spirituale della preghiera. San Bonaventura ci avverte: « Nessuno creda che gli basti la lettura senza l'unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l'osservazione senza l'esultanza, l'attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio senza la grazia divina, l'indagine senza la sapienza dell'ispirazione divina ».356

54. La formazione teologica è opera quanto mai complessa e impegnativa. Essa deve condurre il candidato al sacerdozio a possedere una visione delle verità rivelate da Dio in Gesù Cristo e dell'esperienza di fede della Chiesa che sia completa e unitaria: di qui la duplice esigenza di conoscere « tutte » le verità cristiane, senza operare delle scelte arbitrarie, e di conoscerle in modo organico. Ciò esige che l'alunno sia aiutato ad operare una sintesi che sia il frutto degli apporti delle diverse discipline teologiche, la cui specificità acquista autentico valore solo nella loro profonda coordinazione.

Nella sua riflessione matura sulla fede, la teologia si muove in due direzioni. La prima è quella dello studio della Parola di Dio: la parola scritta nel Libro sacro, celebrata e vissuta nella Tradizione viva della Chiesa, autorevolmente interpretata dal Magistero della Chiesa. Di qui lo studio della Sacra Scrittura, « che deve essere come l'anima di tutta la teologia »,357 dei Padri della Chiesa e della liturgia, come pure della storia della Chiesa e dei pronunciamenti del Magistero. La seconda direzione è quella dell'uomo, interlocutore di Dio: l'uomo chiamato a « credere », a « vivere », a « comunicare » agli altri la fides e l'ethos cristiani. Di qui lo studio della dommatica, della teologia morale, della teologia spirituale, del diritto canonico e della teologia pastorale.

Il riferimento all'uomo credente conduce la teologia ad avere una particolare attenzione, da un lato, all'istanza fondamentale e permanente del rapporto fede-ragione, dall'altro, ad alcune esigenze più collegate con la situazione sociale e culturale d'oggi. Dal primo punto di vista, si ha lo studio della teologia fondamentale, che ha per oggetto il fatto della rivelazione cristiana e la sua trasmissione nella Chiesa. Dall'altro punto di vista, si impongono discipline che hanno conosciuto e conoscono un più deciso sviluppo come risposte a problemi oggi fortemente sentiti. Così lo studio della dottrina sociale della Chiesa, che « appartiene... al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale » 358 e che è da annoverarsi tra le « componenti essenziali » della « nuova evangelizzazione », di cui costituisce uno strumento.359 Così lo studio della missione, dell'ecumenismo, del giudaismo, dell'Islam e delle altre religioni non cristiane.

55. La formazione teologica attuale deve prestare attenzione ad alcuni problemi che non poche volte sollevano difficoltà, tensioni, confusioni all'interno della vita della Chiesa. Si pensi al rapporto tra i pronunciamenti del Magistero e le discussioni teologiche, un rapporto che non sempre si configura come dovrebbe essere, all'insegna cioè della collaborazione. Certamente « il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio nella verità che libera e farne così la "luce delle nazioni". Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il Magistero. Quest'ultimo insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l'autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un'intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di chiarire l'insegnamento della Rivelazione di fronte all'istanza della ragione, ed infine gli dà una forma organica e sistematica ».360 Quando però, per una serie di motivi, questa collaborazione viene meno, occorre non prestarsi a equivoci e a confusioni, sapendo distinguere accuratamente « la dottrina comune della Chiesa dalle opinioni dei teologi e dalle tendenze che presto passano (le cosiddette "mode") ».361 Non si dà un magistero « parallelo », perché l'unico magistero è quello di Pietro e degli apostoli, del Papa e dei vescovi.362

Un altro problema, avvertito soprattutto là dove gli studi seminaristici sono affidati ad istituzioni accademiche, riguarda il rapporto tra il rigore scientifico della teologia e la sua destinazione pastorale, e pertanto la natura pastorale della teologia. Si tratta, in realtà, di due caratteristiche della teologia e del suo insegnamento che non solo non si oppongono tra loro, ma che concorrono, sia pure sotto profili diversi, alla più completa intelligenza della fede. Infatti la pastoralità della teologia non significa una teologia meno dottrinale o addirittura destituita della sua scientificità; significa, invece, che essa abilita i futuri sacerdoti ad annunciare il messaggio evangelico attraverso i modi culturali del loro tempo e a impostare l'azione pastorale secondo un'autentica visione teologica. E così, da un lato, uno studio rispettoso della scientificità rigorosa delle singole discipline teologiche contribuirà alla più completa e profonda formazione del pastore d'anime come maestro della fede; dall'altro lato, l'adeguata sensibilità alla destinazione pastorale renderà veramente formativo per i futuri presbiteri lo studio serio e scientifico della teologia.

Un ulteriore problema è dato dall'esigenza, oggi fortemente sentita, dell'evangelizzazione delle culture e dell'inculturazione del messaggio della fede. È questo un problema eminentemente pastorale, che deve entrare con maggiore ampiezza e sensibilità nella formazione dei candidati al sacerdozio: « Nelle attuali circostanze nelle quali, in varie regioni del mondo, la religione cristiana è considerata come qualcosa di estraneo alle culture sia antiche sia moderne, è di grande importanza che in tutta la formazione intellettuale e umana si ritenga come necessaria ed essenziale la dimensione dell'inculturazione ».363 Ma ciò preesige una teologia autentica, ispirata ai principii cattolici circa l'inculturazione. Questi principii si collegano con il mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio e con l'antropologia cristiana e illuminano il senso autentico dell'inculturazione: questa, di fronte alle più diverse e talvolta contrapposte culture, presenti nelle varie parti del mondo, vuole essere un'obbedienza al comando di Cristo di predicare il Vangelo a tutte le genti sino agli estremi confini della terra. Una simile obbedienza non significa né sincretismo né semplice adattamento dell'annuncio evangelico, ma che il Vangelo penetra vitalmente nelle culture, si incarna in esse, superandone gli elementi culturali incompatibili con la fede e con la vita cristiana ed elevandone i valori al mistero della salvezza che proviene da Cristo.364 Il problema dell'inculturazione può avere un interesse specifico quando i candidati al sacerdozio provengono essi stessi da antiche culture: avranno bisogno, allora, di vie adeguate di formazione, sia per superare il pericolo di essere meno esigenti e di sviluppare un'educazione più debole ai valori umani, cristiani e sacerdotali, sia per valorizzare gli elementi buoni e autentici delle loro culture e tradizioni.365

56. Seguendo l'insegnamento e gli orientamenti del Concilio Vaticano II e le indicazioni applicative della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, si è determinato nella Chiesa un vasto aggiornamento dell'insegnamento delle discipline filosofiche e soprattutto teologiche nei seminari. Pur bisognoso in alcuni casi di ulteriori emendamenti e sviluppi, questo aggiornamento ha contribuito nel suo insieme a qualificare sempre più la proposta educativa nell'ambito della formazione intellettuale. Al riguardo « i Padri sinodali hanno nuovamente affermato, con frequenza e con chiarezza, la necessità, anzi l'urgenza che venga applicato nei seminari e nelle case di formazione il piano fondamentale degli studi, sia universale che delle singole nazioni o Conferenze episcopali ».366

È necessario contrastare con decisione la tendenza a ridurre la serietà e l'impegno degli studi, che si manifesta in alcuni contesti ecclesiali, come conseguenza anche di una preparazione di base insufficiente e lacunosa degli alunni che iniziano il curricolo filosofico e teologico. È la stessa situazione contemporanea ad esigere sempre più dei maestri che siano veramente all'altezza della complessità dei tempi e siano in grado di affrontare, con competenza e con chiarezza e profondità di argomentazioni, le domande di senso degli uomini d'oggi, alle quali solo il Vangelo di Gesù Cristo dà la piena e definitiva risposta.

57. L'intera formazione dei candidati al sacerdozio è destinata a disporli in un modo più particolare a comunicare alla carità di Cristo, buon Pastore. Questa formazione, dunque, nei suoi diversi aspetti, deve avere un carattere essenzialmente pastorale. Lo affermava chiaramente il decreto conciliare « Optatam Totius » in rapporto ai seminari maggiori: « L'educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare veri pastori d'anime sull'esempio di nostro Signore Gesù Cristo maestro, sacerdote e pastore. Gli alunni perciò vengano preparati: al ministero della parola, in modo da penetrare sempre meglio la Parola di Dio rivelata, rendersela propria con la meditazione e saperla esprimere con la parola e con la vita; al ministero del culto e della santificazione, in modo che pregando e celebrando le azioni liturgiche sappiano esercitare l'opera della salvezza per mezzo del Sacrificio eucaristico e dei Sacramenti; al servizio di pastore, per essere in grado di rappresentare agli uomini Cristo, il quale "non venne per essere servito, ma per servire e dare la sua vita a redenzione di molti" 367 e di guadagnare molti, facendosi servi di tutti 368 ».369

Il testo conciliare insiste sulla profonda coordinazione che esiste tra i diversi aspetti della formazione umana, spirituale, intellettuale e, nello stesso tempo, sulla loro specifica finalizzazione pastorale. In tal senso il fine pastorale assicura alla formazione umana, spirituale e intellettuale determinati contenuti e precise caratteristiche, così come unifica e specifica l'intera formazione dei futuri sacerdoti.

Come ogni altra formazione, anche quella pastorale si sviluppa attraverso la riflessione matura e l'applicazione operativa, e affonda le sue radici vive in uno spirito, che di tutto costituisce il fulcro e la forza di impulso e di sviluppo.

Si esige, dunque, lo studio di una vera e propria disciplina teologica: la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla Chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia; sulla Chiesa, quindi, come « sacramento universale di salvezza »,370 come segno e strumento vivo della salvezza di Gesù Cristo nella Parola, nei Sacramenti e nel servizio della Carità. La pastorale non è soltanto un'arte né un complesso di esortazioni, di esperienze, di metodi; possiede una sua piena dignità teologica, perché riceve dalla fede i principii e i criteri dell'azione pastorale della Chiesa nella storia, di una Chiesa che « genera » ogni giorno la Chiesa stessa, secondo la felice espressione di S. Beda il Venerabile: « Nam et Ecclesia quotidie gignit Ecclesiam ».371 Tra questi principii e criteri si dà quello particolarmente importante del discernimento evangelico della situazione socio-culturale ed ecclesiale entro cui si sviluppa l'azione pastorale.

Lo studio della teologia pastorale deve illuminare l'applicazione operativa mediante la dedizione ad alcuni servizi pastorali che i candidati al sacerdozio, con necessaria gradualità e sempre in armonia con gli altri impegni formativi, devono assolvere: si tratta di « esperienze » pastorali, che possono confluire in un vero e proprio « tirocinio pastorale », che può durare anche per diverso tempo e che chiede di essere verificato in maniera metodica.

Ma lo studio e l'attività pastorali rimandano ad una sorgente interiore, che la formazione avrà cura di custodire e di valorizzare: è la comunione sempre più profonda con la carità pastorale di Gesù, la quale, come ha costituito il principio e la forza del suo agire salvifico, così, grazie all'effusione dello Spirito Santo nel sacramento dell'Ordine, deve costituire il principio e la forza del ministero del presbitero. Si tratta di una formazione destinata non soltanto ad assicurare una competenza pastorale scientifica e un'abilità operativa, ma anche e soprattutto a garantire la crescita di un modo di essere in comunione con i medesimi sentimenti e comportamenti di Cristo, buon Pastore: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ».372

58. Così intesa, la formazione pastorale non può certo ridursi ad un semplice apprendistato, rivolto a familiarizzarsi con qualche tecnica pastorale. La proposta educativa del seminario si fa carico di una vera e propria iniziazione alla sensibilità del pastore, all'assunzione consapevole e matura delle sue responsabilità, all'abitudine interiore di valutare i problemi e di stabilire le priorità e i mezzi di soluzione, sempre in base a limpide motivazioni di fede e secondo le esigenze teologiche della pastorale stessa.

Attraverso l'iniziale e graduale sperimentazione nel ministero, i futuri sacerdoti potranno essere inseriti nella viva tradizione pastorale della loro Chiesa particolare, impareranno ad aprire l'orizzonte della loro mente e del loro cuore alla dimensione missionaria della vita ecclesiale, si eserciteranno in alcune prime forme di collaborazione tra loro e con i presbiteri accanto ai quali saranno mandati. A questi ultimi compete, in collegamento con la proposta del seminario, una responsabilità educativa pastorale di non poca importanza.

Nella scelta dei luoghi e dei servizi adatti all'esercizio pastorale si dovrà avere particolare riguardo per la parrocchia,373 cellula vitale delle esperienze pastorali settoriali e specializzate, nella quale essi verranno a trovarsi di fronte ai problemi particolari del loro futuro ministero. I Padri sinodali hanno offerto una serie di esempi concreti, come la visita ai malati; la cura degli emigrati, degli esiliati e dei nomadi; lo zelo della carità che si traduce in diverse opere sociali. In particolare essi scrivono: « È necessario che il presbitero sia testimone della carità di Cristo stesso che è passato facendo del bene;374 il presbitero deve anche essere il segno visibile della sollecitudine della Chiesa che è Madre e Maestra. E poiché l'uomo oggi è colpito da tante disgrazie, specialmente l'uomo che è travolto da una povertà disumana, dalla cieca violenza e dall'ingiusto potere, è necessario che l'uomo di Dio ben preparato ad ogni opera buona 375 rivendichi i diritti e la dignità dell'uomo. Si guardi però dall'aderire a false ideologie e dal dimenticare, mentre intende promuoverne la perfezione, che il mondo è redento dalla sola croce di Cristo ».376

L'insieme di queste ed altre attività pastorali educa il futuro sacerdote a vivere come « servizio » la propria missione di autorità nella comunità, allontanandosi da ogni atteggiamento di superiorità o di esercizio di un potere che non sia sempre e solo giustificato dalla carità pastorale.

Per un'adeguata formazione è necessario che le diverse esperienze dei candidati al sacerdozio assumano un chiaro carattere ministeriale, restando intimamente collegate con tutte le esigenze che sono proprie della preparazione al presbiterato e (non, certo, a scapito dello studio) in riferimento ai servizi dell'annuncio della Parola, del culto e della presidenza. Questi servizi possono diventare la traduzione concreta dei ministeri del Lettorato, dell'Accolitato e del Diaconato.

59. Poiché l'azione pastorale è destinata per sua natura ad animare la Chiesa, che è essenzialmente « mistero », « comunione », « missione », la formazione pastorale dovrà conoscere e vivere queste dimensioni ecclesiali nell'esercizio del ministero.

Fondamentale risulta essere la coscienza che la Chiesa è « mistero », opera divina, frutto dello Spirito di Cristo, segno efficace della grazia, presenza della Trinità nella comunità cristiana: una simile coscienza, mentre non attenuerà il senso di responsabilità proprio del pastore, lo renderà convinto che la crescita della Chiesa è opera gratuita dello Spirito e che il suo servizio — dalla stessa grazia divina affidato alla libera responsabilità umana — è quello evangelico del servo inutile.377

La coscienza poi della Chiesa quale « comunione » preparerà il candidato al sacerdozio a realizzare una pastorale comunitaria, in cordiale collaborazione con i diversi soggetti ecclesiali: sacerdoti e Vescovo, sacerdoti diocesani e religiosi, sacerdoti e laici. Ma una simile collaborazione presuppone la conoscenza e la stima dei diversi doni e carismi, delle varie vocazioni e responsabilità che lo Spirito offre ed affida ai membri del Corpo di Cristo; esige un senso vivo e preciso della propria e dell'altrui identità nella Chiesa; chiede mutua fiducia, pazienza, dolcezza, capacità di comprensione e di attesa; si radica soprattutto su di un amore alla Chiesa più grande dell'amore a se stessi e alle aggregazioni alle quali si appartiene. Di particolare importanza è preparare i futuri sacerdoti alla collaborazione con i laici. « Siano pronti — dice il Concilio — ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell'attività umana, in modo da poter assieme a loro riconoscere i segni dei tempi ».378 Anche il recente Sinodo ha insistito sulla sollecitudine pastorale verso i laici: « Occorre che l'alunno diventi capace di proporre e di introdurre i fedeli laici, soprattutto i giovani, alle diverse vocazioni (al matrimonio, ai servizi sociali, all'apostolato, ai ministeri e alle responsabilità nell'assumere l'attività pastorale, alla vita consacrata, a guidare la vita politica e sociale, alla ricerca scientifica, all'insegnamento). Soprattutto è necessario insegnare e sostenere i laici e la loro vocazione a permeare e a trasformare il mondo con la luce del Vangelo, riconoscendo il loro compito e rispettandolo ».379

Infine, la coscienza della Chiesa quale comunione « missionaria », aiuterà il candidato al sacerdozio ad amare e a vivere l'essenziale dimensione missionaria della Chiesa e delle diverse attività pastorali; ad essere aperto e disponibile a tutte le possibilità oggi offerte all'annuncio del Vangelo, senza dimenticare il prezioso servizio che al riguardo può e deve essere dato dai mezzi della comunicazione sociale;380 a prepararsi ad un ministero che gli potrà chiedere la concreta disponibilità allo Spirito Santo e al Vescovo per essere mandato a predicare il Vangelo oltre i confini del suo paese.381

II. Gli ambienti della formazione sacerdotale

60. La necessità del Seminario Maggiore — e dell'analoga Casa religiosa — per la formazione dei candidati al sacerdozio, autorevolmente affermata dal Concilio Vaticano II,382 è stata riaffermata dal Sinodo con queste parole: « L'istituzione del Seminario Maggiore, come luogo ottimo di formazione, è certamente da riaffermarsi quale normale spazio, anche materiale, di una vita comunitaria e gerarchica, anzi quale casa propria per la formazione dei candidati al sacerdozio, con superiori veramente consacrati a questo ufficio. Questa istituzione ha dato moltissimi frutti lungo i secoli e continua a darli in tutto il mondo ».383

Il seminario si presenta sì come un tempo e uno spazio; ma si presenta soprattutto come una comunità educativa in cammino: è la comunità promossa dal Vescovo per offrire a chi è chiamato dal Signore a servire come gli apostoli la possibilità di rivivere l'esperienza formativa che il Signore ha riservato ai Dodici. In realtà, una prolungata e intima consuetudine di vita con Gesù viene presentata nei Vangeli come necessaria premessa al ministero apostolico. Essa richiede ai Dodici di realizzare in modo particolarmente chiaro e specifico il distacco, in qualche misura proposto a tutti i discepoli, dall'ambiente di origine, dal lavoro consueto, dagli affetti anche più cari.384 Più volte abbiamo riportato la tradizione di Marco che sottolinea il legame profondo che unisce gli apostoli con Cristo e tra di loro: prima di essere mandati a predicare e a guarire, sono chiamati a « stare con lui ».385

L'identità profonda del seminario è di essere, a suo modo, una continuazione nella Chiesa della comunità apostolica stretta intorno a Gesù, in ascolto della sua Parola, in cammino verso l'esperienza della Pasqua, in attesa del dono dello Spirito per la missione. Una simile identità costituisce l'ideale normativo che stimola il seminario, nelle più diverse forme e nelle molteplici vicissitudini, che in quanto istituzione umana registra nella storia, a trovare una concreta realizzazione, fedele ai valori evangelici ai quali si ispira e capace di rispondere alle situazioni e necessità dei tempi.

Il seminario è, in se stesso, un'esperienza originale della vita della Chiesa: in esso il Vescovo si rende presente attraverso il ministero del rettore e il servizio di corresponsabilità e di comunione da lui animato con gli altri educatori, per la crescita pastorale e apostolica degli alunni. I vari membri della comunità del seminario, riuniti dallo Spirito in un'unica fraternità, collaborano, ciascuno secondo il proprio dono, alla crescita di tutti nella fede e nella carità, perché si preparino adeguatamente al sacerdozio e quindi a prolungare nella Chiesa e nella storia la presenza salvifica di Gesù Cristo, il buon Pastore.

Già sotto un profilo umano, il Seminario Maggiore deve tendere a diventare « una comunità compaginata da una profonda amicizia e carità, così da poter essere considerata una vera famiglia che vive nella gioia ».386 Sotto il profilo cristiano, il seminario si deve configurare, continuano i Padri sinodali, come « comunità ecclesiale », come « comunità dei discepoli del Signore nella quale si celebra la stessa Liturgia (che permea la vita di spirito di preghiera), formata ogni giorno nella lettura e nella meditazione della Parola di Dio e con il sacramento dell'Eucaristia e nell'esercizio della carità fraterna e della giustizia, una comunità nella quale, nel progresso della vita comunitaria e nella vita di ciascun suo membro, risplendono lo Spirito di Cristo e l'amore verso la Chiesa ».387 A conferma e a sviluppo concreto dell'essenziale dimensione ecclesiale del seminario, i Padri sinodali continuano: « Come comunità ecclesiale, sia diocesana che interdiocesana, sia anche religiosa, il seminario alimenti il senso della comunione dei candidati con il loro Vescovo e con il loro presbiterio, così che partecipino alla loro speranza e alle loro angosce e sappiano estendere questa apertura alle necessità della Chiesa universale ».388 È essenziale per la formazione dei candidati al sacerdozio e al ministero pastorale, che per sua natura è ecclesiale, che il seminario sia sentito non in un modo esteriore e superficiale, ossia come un semplice luogo di abitazione e di studio, ma in un modo interiore e profondo: come una comunità, una comunità specificamente ecclesiale, una comunità che rivive l'esperienza del gruppo dei Dodici uniti a Gesù.389

61. Il seminario è, dunque, una comunità ecclesiale educativa, anzi una particolare comunità educante. Ed è il fine specifico a determinarne la fisionomia, ossia l'accompagnamento vocazionale dei futuri sacerdoti, e pertanto il discernimento della vocazione, l'aiuto a corrispondervi e la preparazione a ricevere il sacramento dell'Ordine con le grazie e le responsabilità proprie, per le quali il sacerdote è configurato a Gesù Cristo Capo e Pastore ed è abilitato e impegnato a condividerne la missione di salvezza nella Chiesa e nel mondo.

In quanto comunità educante, l'intera vita del seminario, nelle sue più diverse espressioni, è impegnata nella formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei futuri presbiteri: è una formazione che, pur avendo tanti aspetti comuni con la formazione umana e cristiana di tutti i membri della Chiesa, presenta contenuti, modalità e caratteristiche che discendono in modo specifico dal fine perseguito di preparare al sacerdozio.

Ora i contenuti e le forme dell'opera educativa esigono che il seminario abbia una sua precisa programmazione, un programma di vita cioè che si caratterizzi, sia per la sua organicità-unità, sia per la sua sintonia o corrispondenza con l'unico fine che giustifica l'esistenza del seminario: la preparazione dei futuri presbiteri.

In questo senso i Padri sinodali scrivono: « In quanto comunità educativa, (il seminario) deve servire ad un programma chiaramente definito che, come nota caratteristica, abbia l'unità della direzione manifestata nella figura del Rettore e dei collaboratori, nella coerenza dell'ordinamento di vita, dell'attività formativa e delle esigenze fondamentali della vita comunitaria, la quale comporta anche gli aspetti essenziali del compito formativo. Questo programma deve essere al servizio, senza esitazione e indeterminazione, della finalità specifica che sola giustifica l'esistenza del seminario, la formazione cioè dei futuri presbiteri, pastori della Chiesa ».390 E perché la programmazione sia veramente adatta ed efficace occorre che le grandi linee programmatiche si traducano più concretamente in dettaglio, mediante alcune norme particolari destinate ad ordinare la vita comunitaria, stabilendo alcuni strumenti e alcuni ritmi temporali precisi.

Un altro aspetto è qui da sottolineare: l'opera educativa, per sua natura, è l'accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l'adesione a determinati ideali di vita. Proprio per questo l'opera educativa deve saper armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di camminare con serietà verso la meta stessa, l'attenzione al « viandante », ossia al soggetto concreto impegnato in questa avventura, e dunque ad una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di ritmi diversificati di cammino e di crescita. Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso né sui valori né sull'impegno cosciente e libero, ma amore vero e rispetto sincero per chi, nelle sue condizioni personali, sta camminando verso il sacerdozio. Questo vale non solo in rapporto alla singola persona, ma anche in rapporto ai diversi contesti sociali e culturali entro cui vivono i seminari e alla diversa storia che essi hanno. In questo senso l'opera educativa esige un continuo rinnovamento. I Padri l'hanno rilevato con forza anche in rapporto alla configurazione dei seminari: « Salva la validità delle forme classiche del seminario, il Sinodo desidera che il lavoro di consultazione delle Conferenze episcopali sulle necessità attuali della formazione prosegua come si è stabilito nel decreto "Optatam Totius" 391 e nel Sinodo del 1967. Si rivedano opportunamente le Rationes delle singole nazioni o riti, sia in occasione delle richieste fatte dalle Conferenze episcopali, sia nelle visite apostoliche nei seminari delle diverse nazioni, per integrare in esse diverse forme di formazione collaudate che devono rispondere alle necessità dei popoli di cultura cosiddetta indigena, delle vocazioni di uomini adulti, delle vocazioni per le missioni, ecc. ».392

62. La finalità e la configurazione educativa specifica del Seminario Maggiore esigono che i candidati al sacerdozio vi entrino con una qualche preparazione previa. Una simile preparazione non poneva problemi particolari, almeno sino a qualche decennio fa, allorquando i candidati al sacerdozio provenivano abitualmente dai seminari minori e la vita cristiana delle comunità ecclesiali offriva facilmente a tutti, indistintamente, una discreta istruzione ed educazione cristiana.

La situazione è in molte parti cambiata. Si dà una forte discrepanza tra lo stile di vita e la preparazione di base dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani, anche se cristiani e talvolta impegnati nella vita della Chiesa, da un lato, e dall'altro lo stile di vita del seminario e le sue esigenze formative. In questo contesto, in comunione con i Padri sinodali, chiedo che vi sia un periodo adeguato di preparazione che preceda la formazione del seminario: « È utile che ci sia un periodo di preparazione umana, cristiana, intellettuale e spirituale per i candidati al Seminario Maggiore. Questi candidati devono però presentare determinate qualità: la retta intenzione, un grado sufficiente di maturità umana, una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede, una qualche introduzione ai metodi di preghiera e costumi conformi alla tradizione cristiana. Abbiano anche attitudini proprie delle loro regioni, mediante le quali viene espresso lo sforzo di trovare Dio e la fede ».393

« Una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede », di cui parlano i Padri sinodali, è richiesta prima della teologia: non si può sviluppare una « intellegentia fidei », se non si conosce la « fides » nel suo contenuto. Una simile lacuna potrà essere più facilmente colmata dal prossimo Catechismo universale.

Mentre si fa comune la convinzione della necessità di una simile preparazione previa al Seminario Maggiore, si dà una diversa valutazione dei suoi contenuti e delle sue caratteristiche, ossia dello scopo prevalente, se di formazione spirituale per il discernimento vocazionale o di formazione intellettuale e culturale. D'altra parte, non si possono dimenticare le molte e profonde diversità che esistono, non solo in rapporto ai singoli candidati, ma anche in rapporto alle varie regioni e paesi. Ciò suggerisce una fase ancora di studio e di sperimentazione, perché si possano definire in modo più opportuno e significativo i diversi elementi di questa preparazione previa o « periodo propedeutico »: il tempo, il luogo, la forma, i temi di questo periodo, che peraltro è da coordinarsi con gli anni successivi della formazione nel seminario.

In questo senso assumo e ripropongo alla Congregazione per l'Educazione Cattolica la richiesta formulata dai Padri sinodali: « Il Sinodo chiede che la Congregazione per l'Educazione Cattolica raccolga tutte le informazioni sulle esperienze iniziali fatte o che si stanno facendo. A tempo opportuno, la Congregazione comunichi alle Conferenze episcopali le informazioni su questo argomento ».394

63. Come attesta una larga esperienza, la vocazione sacerdotale ha un suo primo momento di manifestazione spesso negli anni della preadolescenza o nei primissimi anni della gioventù. Ed anche in soggetti che arrivano a decidere l'ingresso in seminario più avanti nel tempo non è raro costatare la presenza della chiamata di Dio in periodi molto precedenti. La storia della Chiesa è una testimonianza continua di chiamate che il Signore rivolge anche in tenera età. San Tommaso, ad esempio, spiega la predilezione di Gesù verso l'apostolo Giovanni « per la sua tenera età » e ne trae la seguente conclusione: « Questo ci fa capire come Dio ami in modo speciale coloro che si danno al suo servizio fin dalla prima giovinezza ».395

La Chiesa si prende cura di questi germi di vocazione seminati nei cuori dei fanciulli, curandone, attraverso l'istituzione dei Seminari Minori, un premuroso, benché iniziale, discernimento e accompagnamento. In varie parti del mondo, questi seminari continuano a svolgere una preziosa opera educativa, finalizzata a custodire e a far sviluppare i germi della vocazione sacerdotale, affinché gli alunni la possano più facilmente riconoscere e siano resi più capaci di corrispondervi. La loro proposta educativa tende a favorire in modo tempestivo e graduale quella formazione umana, culturale e spirituale che condurrà il giovane a intraprendere il cammino nel Seminario Maggiore con una base adeguata e solida.

« Prepararsi a seguire Cristo Redentore con animo generoso e cuore puro »: questo è lo scopo del Seminario Minore indicato dal Concilio nel decreto « Optatam Totius », che così ne delinea il volto educativo: gli alunni « sotto la guida paterna dei superiori, coadiuvati opportunamente dai genitori, conducano un tenore di vita conveniente all'età, allo spirito e allo sviluppo degli adolescenti e in piena armonia con le norme della sana psicologia, senza trascurare una conveniente esperienza delle cose umane e i rapporti con la propria famiglia ».396

Il Seminario Minore potrà essere nella Diocesi anche un punto di riferimento della pastorale vocazionale, con opportune forme di accoglienza e offerta di occasioni informative per quegli adolescenti che sono alla ricerca della vocazione o che, già determinati a seguirla, sono costretti a procrastinare l'ingresso in seminario per diverse circostanze, familiari o scolastiche.

64. Dove il Seminario Minore — che in molte regioni sembra necessario e molto utile — non trova possibilità di attuazione, occorre provvedere a costituire altre « istituzioni »,397 come potrebbero essere i gruppi vocazionali per adolescenti e per giovani. Pur non essendo permanenti, questi gruppi potranno offrire, in un contesto comunitario, una guida sistematica per la verifica e la crescita vocazionale. Pur vivendo in famiglia e frequentando la comunità cristiana che li aiuta nel loro cammino formativo, questi ragazzi e questi giovani non devono essere lasciati soli. Essi hanno bisogno di un gruppo particolare o di una comunità di riferimento cui appoggiarsi per compiere quello specifico itinerario vocazionale che il dono dello Spirito Santo ha iniziato in loro.

Come è sempre avvenuto nella storia della Chiesa, e con qualche caratteristica di confortante novità e frequenza nelle attuali circostanze, va registrato il fenomeno di vocazioni sacerdotali che si verificano in età adulta, dopo una più o meno lunga esperienza di vita laicale e di impegno professionale. Non è sempre possibile, e spesso non è neppure conveniente, invitare gli adulti a seguire l'itinerario educativo del Seminario Maggiore. Si deve piuttosto provvedere, dopo un accurato discernimento dell'autenticità di queste vocazioni, a programmare una qualche forma specifica di accompagnamento formativo così da assicurare, mediante opportuni adattamenti, la necessaria formazione spirituale e intellettuale.398 Un giusto rapporto con gli altri candidati al sacerdozio e periodi di presenza nella comunità del Seminario maggiore potranno garantire il pieno inserimento di queste vocazioni nell'unico presbiterio e la loro intima e cordiale comunione con esso.

III. I protagonisti della formazione sacerdotale

65. Poiché la formazione dei candidati al sacerdozio appartiene alla pastorale vocazionale della Chiesa, si deve dire che è la Chiesa come tale il soggetto comunitario che ha la grazia e la responsabilità di accompagnare quanti il Signore chiama a divenire suoi ministri nel sacerdozio.

In tal senso proprio la lettura del mistero della Chiesa ci aiuta a precisare meglio il posto e il compito che i suoi diversi membri, sia come singoli sia come membri di un corpo, hanno nella formazione dei candidati al presbiterato.

Ora la Chiesa è per sua intima natura la « memoria », il « sacramento » della presenza e dell'azione di Gesù Cristo in mezzo a noi e per noi. È alla sua presenza salvifica che si deve la chiamata al sacerdozio: non solo la chiamata, ma anche l'accompagnamento perché il chiamato possa riconoscere la grazia del Signore e possa darle risposta con libertà e con amore. È lo Spirito di Gesù che fa luce e dona forza nel discernimento e nel cammino vocazionale. Non si dà, allora, autentica opera formativa al sacerdozio senza l'influsso dello Spirito di Cristo. Ogni formatore umano deve esserne pienamente cosciente. Come non vedere una « risorsa » totalmente gratuita e radicalmente efficace, che ha il suo « peso » decisivo nell'impegno formativo verso il sacerdozio? E come non gioire di fronte alla dignità di ogni formatore umano, che si configura, in un certo senso, quale visibile rappresentante di Cristo per il candidato al sacerdozio? Se la formazione al sacerdozio è essenzialmente la preparazione del futuro « pastore » ad immagine di Gesù Cristo buon Pastore, chi meglio di Gesù stesso, mediante l'effusione del suo Spirito, può donare e portare a maturità quella carità pastorale che egli ha vissuto sino al dono totale di sé 399 e che vuole sia rivissuta da tutti i presbiteri?

Primo rappresentante di Cristo nella formazione sacerdotale è il Vescovo. Si potrebbe dire del Vescovo, di ogni Vescovo, quanto l'evangelista Marco ci dice nel testo più volte citato: « Chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli... ».400 In realtà la chiamata interiore dello Spirito ha bisogno di essere riconosciuta come autentica chiamata dal Vescovo. Se tutti possono « andare » dal Vescovo perché Pastore e Padre di tutti, lo possono in una maniera particolare i suoi presbiteri per la comune partecipazione al medesimo sacerdozio e ministero: il Vescovo, dice il Concilio, deve considerarli e trattarli come « fratelli e amici ».401 E questo, in modo analogico, si può dire di quanti si preparano al sacerdozio. A proposito dello stare con lui, con il Vescovo, risulta già quanto mai significativo della sua responsabilità formativa nei riguardi dei candidati al sacerdozio che il Vescovo li visiti spesso e in qualche modo « stia » con loro.

La presenza del Vescovo ha un valore particolare, non solo perché aiuta la comunità del seminario a vivere il suo inserimento nella Chiesa particolare e la sua comunione con il Pastore che la guida, ma anche perché autentica e stimola quella finalità pastorale che costituisce lo specifico dell'intera formazione dei candidati al sacerdozio. Soprattutto, con la sua presenza e con la condivisione con i candidati al sacerdozio di tutto ciò che riguarda il cammino pastorale della Chiesa particolare, il Vescovo offre un apporto fondamentale alla formazione del « senso della Chiesa », quale valore spirituale e pastorale centrale nell'esercizio del ministero sacerdotale.

66. La comunità educativa del seminario si articola attorno a diversi formatori: il rettore, il direttore o padre spirituale, i superiori e i professori. Questi devono sentirsi profondamente uniti al Vescovo, che a diverso titolo e in vario modo lo rappresentano, e devono essere tra loro in convinta e cordiale comunione e collaborazione: questa unità degli educatori non solo rende possibile un'adeguata realizzazione del programma educativo, ma anche e soprattutto offre ai candidati al sacerdozio l'esempio significativo e la concreta introduzione a quella comunione ecclesiale che costituisce un valore fondamentale della vita cristiana e del ministero pastorale.

È evidente che gran parte dell'efficacia formativa dipende dalla personalità matura e forte dei formatori sotto il profilo umano ed evangelico. Per questo diventano particolarmente importanti, da un lato, la scelta accurata dei formatori e, dall'altro, lo stimolo ai formatori perché si rendano costantemente sempre più idonei al compito loro affidato. Consapevoli che proprio nella scelta e nella formazione dei formatori risiede l'avvenire della preparazione dei candidati al sacerdozio, i Padri sinodali si sono soffermati a lungo nel precisare l'identità degli educatori. In particolare hanno scritto: « Il compito della formazione dei candidati al sacerdozio certamente esige non solo una qualche preparazione speciale dei formatori, che sia veramente tecnica, pedagogica, spirituale, umana e teologica, ma anche lo spirito di comunione e di collaborazione nell'unità per sviluppare il programma, così che sempre sia salvata l'unità nell'azione pastorale del seminario sotto la guida del rettore. Il gruppo dei formatori dia testimonianza di una vita veramente evangelica e di totale dedizione al Signore. È opportuno che goda di una qualche stabilità ed abbia residenza abituale nella comunità del seminario. Sia intimamente congiunto con il Vescovo, quale primo responsabile della formazione dei sacerdoti ».402

I Vescovi per primi devono sentire la loro grave responsabilità circa la formazione di coloro che saranno incaricati dell'educazione dei futuri presbiteri. Per questo ministero devono essere scelti sacerdoti di vita esemplare, in possesso di diverse qualità: « la maturità umana e spirituale, l'esperienza pastorale, la competenza professionale, la stabilità nella propria vocazione, la capacità alla collaborazione, la preparazione dottrinale nelle scienze umane (specialmente la psicologia) corrispondente all'ufficio, la conoscenza dei modi per lavorare in gruppo ».403

Fatte salve la distinzione tra foro interno e foro esterno, l'opportuna libertà di scelta dei confessori e la prudenza e discrezione che convengono al ministero del direttore spirituale, la comunità presbiterale degli educatori si senta solidale nella responsabilità di educare i candidati al sacerdozio. Ad essa, sempre in riferimento all'autorevole valutazione sintetica del Vescovo e del rettore, spetta in primo luogo il compito di promuovere e verificare l'idoneità dei candidati quanto alle doti spirituali, umane e intellettuali, soprattutto in riferimento allo spirito di preghiera, all'assimilazione profonda della dottrina della fede, alla capacità di autentica fraternità e al carisma del celibato.404

Tenendo presenti — come i Padri sinodali hanno pure ricordato — le indicazioni dell'Esortazione « Christifideles Laici » e della Lettera Apostolica « Mulieris Dignitatem »,405 che rilevano l'utilità di un sano influsso della spiritualità laicale e del carisma della femminilità su ogni itinerario educativo, è opportuno coinvolgere, in forme prudenti e adattate ai vari contesti culturali, la collaborazione anche dei fedeli laici, uomini e donne, nell'opera formativa dei futuri sacerdoti. Sono da scegliersi con cura, nel quadro delle leggi della Chiesa e secondo i loro particolari carismi e le loro provate competenze. Dalla loro collaborazione, opportunamente coordinata e integrata alle responsabilità educative primarie dei formatori dei futuri presbiteri, è lecito attendersi benefici frutti per una crescita equilibrata del senso della Chiesa e per una percezione più precisa della propria identità sacerdotale da parte dei candidati al presbiterato.406

67. Quanti introducono e accompagnono i futuri sacerdoti nella sacra doctrina con l'insegnamento teologico hanno una particolare responsabilità educativa, che l'esperienza dice essere spesso più decisiva, nello sviluppo della personalità presbiterale, di quella degli altri educatori.

La responsabilità degli insegnanti di teologia, prima che riguardare il rapporto di docenza che devono instaurare con i candidati al sacerdozio, riguarda la concezione che essi stessi devono avere della natura della teologia e del ministero sacerdotale, come pure lo spirito e lo stile secondo cui devono sviluppare l'insegnamento teologico. In questo senso i Padri sinodali hanno giustamente affermato che « il teologo deve rimanere consapevole che con il suo insegnamento non si autorizza da sé, ma deve aprire e comunicare l'intelligenza della fede ultimamente nel nome del Signore e della Chiesa. In questo modo, il teologo, pur utilizzando tutte le possibilità scientifiche, esercita il suo compito su mandato della Chiesa e collabora con il Vescovo nel compito di insegnare. Poiché i teologi e i Vescovi sono al servizio della stessa Chiesa nel promuovere la fede, devono sviluppare e coltivare una reciproca fiducia e in questo spirito superare anche le tensioni e i conflitti 407 ».408

L'insegnante di teologia, come ogni altro educatore, deve rimanere in comunione e collaborare cordialmente con tutte le altre persone impegnate nella formazione dei futuri sacerdoti e presentare con rigore scientifico, generosità, umiltà e passione il suo contributo originale e qualificato, che non è solo la semplice comunicazione di una dottrina — sia pure la sacra doctrina —, ma è soprattutto l'offerta della prospettiva che unifica nel disegno di Dio tutti i diversi saperi umani e le varie espressioni di vita.

In particolare, la specificità e l'incisività formativa degli insegnanti di teologia si misura sul loro essere, anzitutto, « uomini di fede e pieni di amore per la Chiesa, convinti che il soggetto adeguato della conoscenza del mistero cristiano resta la Chiesa come tale, persuasi pertanto che il loro compito d'insegnare è un autenico ministero ecclesiale, ricchi di senso pastorale per discernere non solo i contenuti ma anche le forme adatte nell'esercizio di questo ministero. In particolare, dagli insegnanti è richiesta la fedeltà piena al Magistero. Insegnano, infatti, a nome della Chiesa e per questo sono testimoni della fede ».409

68. Le comunità da cui proviene il candidato al sacerdozio, pur con il necessario distacco che la scelta vocazionale comporta, continuano ad esercitare un influsso non indifferente sulla formazione del futuro sacerdote. Devono allora essere coscienti della loro specifica parte di responsabilità.

È da ricordare, anzitutto, la famiglia: i genitori cristiani, come anche i fratelli e le sorelle e gli altri membri del nucleo familiare, non dovranno mai cercare di ricondurre il futuro presbitero negli angusti limiti di una logica troppo umana, se non mondana, pur sostenuta da sincero affetto.410 Animati essi stessi dal medesimo proposito di « compiere la volontà di Dio » sapranno, invece, accompagnare il cammino formativo con la preghiera, il rispetto, il buon esempio delle virtù domestiche e l'aiuto spirituale e materiale, soprattutto nei momenti difficili. L'esperienza insegna che, in tanti casi, questo aiuto molteplice si è rivelato decisivo per il candidato al sacerdozio. Anche nel caso di genitori e familiari indifferenti o contrari alla scelta vocazionale, il confronto chiaro e sereno con la loro posizione e gli stimoli che ne derivano possono essere di grande aiuto, perché la vocazione sacerdotale maturi in modo più consapevole e determinato.

In profondo collegamento con le famiglie sta la comunità parrocchiale, e le une e l'altra si integrano sul piano dell'educazione alla fede; spesso poi la parrocchia, con una specifica pastorale giovanile e vocazionale, esercita un ruolo di supplenza nei riguardi della famiglia. Soprattutto, in quanto realizzazione locale più immediata del mistero della Chiesa, la parrocchia offre un contributo originale e particolarmente prezioso alla formazione del futuro sacerdote. La comunità parrocchiale deve continuare a sentire come parte viva di sé il giovane in cammino verso il sacerdozio, lo deve accompagnare con la preghiera, accogliere cordialmente nei periodi di vacanza, rispettare e favorire nel formarsi della sua identità presbiterale, offrendogli occasioni opportune e stimoli forti per provare la sua vocazione alla missione sacerdotale.

Anche le associazioni e i movimenti giovanili, segno e conferma della vitalità che lo Spirito assicura alla Chiesa, possono e devono contribuire alla formazione dei candidati al sacerdozio, in particolare di quelli che escono dall'esperienza cristiana, spirituale e apostolica di queste realtà aggregative. I giovani che hanno ricevuto la loro formazione di base in tali aggregazioni e che si riferiscono ad esse per la loro esperienza di Chiesa, non dovranno sentirsi invitati a sradicarsi dal loro passato ed a interrompere le relazioni con l'ambiente che ha contribuito al determinarsi della loro vocazione, né dovranno cancellare i tratti caratteristici della spiritualità che là hanno imparato e vissuto, in tutto ciò che di buono, edificante ed arricchente essi contengono.411 Anche per loro, questo ambiente d'origine continua ad essere fonte di aiuto e di sostegno nel cammino formativo verso il sacerdozio.

Le occasioni di educazione alla fede e di crescita cristiana ed ecclesiale, che lo Spirito offre a tanti giovani, attraverso molteplici forme di gruppi, movimenti e associazioni di varia ispirazione evangelica, devono essere sentite e vissute come il dono di un'anima alimentatrice dentro l'istituzione e al suo servizio. Un movimento o una spiritualità particolare, infatti, « non è una struttura alternativa all'istituzione. È invece sorgente di una presenza che continuamente ne rigenera l'autenticità esistenziale e storica. Il sacerdote deve perciò trovare in un movimento la luce e il calore che lo rende capace di fedeltà al suo Vescovo, che lo rende pronto alle incombenze dell'istituzione e attento alla disciplina ecclesiastica, così che più fertile sia la vibrazione della sua fede ed il gusto della sua fedeltà ».412

È quindi necessario che, nella nuova comunità del Seminario nella quale sono riuniti dal Vescovo, i giovani provenienti da associazioni e da movimenti ecclesiali imparino « il rispetto delle altre vie spirituali e lo spirito di dialogo e di cooperazione », si riferiscano con coerenza e cordialità alle indicazioni formative del Vescovo e agli educatori del Seminario, affidandosi con schietta fiducia alla loro guida e alle loro valutazioni.413 Questo atteggiamento, infatti, prepara e in qualche modo anticipa la genuina scelta presbiterale di servizio all'intero Popolo di Dio, nella comunione fraterna del presbiterio e in obbedienza al Vescovo.

La partecipazione del seminarista e del presbitero diocesano a particolari spiritualità o aggregazioni ecclesiali è certamente, in se stessa, un fattore benefico di crescita e di fraternità sacerdotale. Ma questa partecipazione non deve ostacolare, bensì aiutare l'esercizio del ministero e la vita spirituale che sono propri del sacerdote diocesano, il quale « resta sempre il pastore dell'insieme. Non solo è il "permanente", disponibile a tutti, ma presiede all'incontro di tutti — in particolare è a capo delle parrocchie — affinché tutti trovino l'accoglienza che sono in diritto di attendere nella comunità e nell'Eucaristia che li riunisce, qualunque sia la loro sensibilità religiosa e il loro impegno pastorale ».414

69. Non si può dimenticare, infine, che lo stesso candidato al sacerdozio deve dirsi protagonista necessario e insostituibile della sua formazione: ogni formazione, anche quella sacerdotale, è ultimamente un'autoformazione. Nessuno, infatti, può sostituirci nella libertà responsabile che abbiamo come singole persone.

Certamente anche il futuro sacerdote, lui per primo, deve crescere nella consapevolezza che il protagonista per antonomasia della sua formazione è lo Spirito Santo che, con il dono del cuore nuovo, configura e assimila a Gesù Cristo buon Pastore: in tal senso il candidato affermerà nella forma più radicale la sua libertà nell'accogliere l'azione formativa dello Spirito. Ma accogliere questa azione significa anche, da parte del candidato al sacerdozio, accogliere le mediazioni umane di cui lo Spirito si serve. Per questo l'azione dei vari educatori risulta veramente e pienamente efficace solo se il futuro sacerdote offre ad essa la sua personale convinta e cordiale collaborazione.

CAPITOLO VI

TI RICORDO DI RAVVIVARE IL DONO DI DIO CHE E' IN TE
La formazione permanente dei sacerdoti

70. « Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te ».415

Le parole dell'Apostolo al vescovo Timoteo si possono legittimamente applicare a quella formazione permanente alla quale sono chiamati tutti i sacerdoti in forza del « dono di Dio » che hanno ricevuto con l'ordinazione sacra. Esse ci introducono a cogliere la verità intera e l'originalità inconfondibile della formazione permanente dei presbiteri. In questo siamo aiutati anche da un altro testo di Paolo, che allo stesso Timoteo scrive: « Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l'imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dedicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano ».416

L'Apostolo chiede a Timoteo di « ravvivare », ossia di riaccendere come si fa per il fuoco sotto la cenere, il dono divino, nel senso di accoglierlo e di viverlo senza mai perdere o dimenticare quella « novità permanente » che è propria di ogni dono di Dio, di Colui che fa nuove tutte le cose,417 e dunque di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza originaria.

Ma quel « ravvivare » non è solo l'esito di un compito affidato alla responsabilità personale di Timoteo, non è solo il risultato di un impegno della sua memoria e della sua volontà. È l'effetto di un dinamismo di grazia intrinseco al dono di Dio: è Dio stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa.

Con l'effusione sacramentale dello Spirito Santo che consacra e manda, il presbitero viene configurato a Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e viene mandato a compiere il ministero pastorale. In tal modo, il sacerdote è segnato per sempre e in modo indelebile nel suo essere come ministro di Gesù e della Chiesa ed è inserito in una condizione permanente e irreversibile di vita ed è incaricato di un ministero pastorale che, radicato nell'essere, coinvolge tutta la sua esistenza, ed è esso pure permanente. Il sacramento dell'Ordine conferisce al sacerdote la grazia sacramentale, che lo rende partecipe non solo del « potere » e del « ministero » salvifici di Gesù, ma anche del suo « amore » pastorale; nello stesso tempo assicura al sacerdote tutte quelle grazie attuali che gli verranno date ogniqualvolta saranno necessarie e utili per il degno e perfetto compimento del ministero ricevuto.

La formazione permanente trova così il suo fondamento proprio e la sua motivazione originale nel dinamismo del sacramento dell'Ordine.

Certo non mancano ragioni anche semplicemente umane che sollecitano il sacerdote a realizzare una formazione permanente. Questa è un'esigenza della sua progressiva realizzazione: ogni vita è un cammino incessante verso la maturità, e questa passa attraverso la continua formazione. È esigenza, inoltre, del ministero sacerdotale, sia pure colto nella sua natura generica e comune alle altre professioni, e quindi come servizio rivolto agli altri: ora non c'è professione o impegno o lavoro che non esiga un continuo aggiornamento, se vuole essere attuale ed efficace. L'esigenza di « tenere il passo » con il cammino della storia è un'altra ragione umana che giustifica la formazione permanente.

Ma queste ed altre ragioni vengono assunte e specificate dalle ragioni teologiche ora ricordate e che si possono ulteriormente approfondire.

Il sacramento dell'Ordine, per la natura di « segno », che è propria di tutti i sacramenti, può considerarsi, come realmente è, Parola di Dio: è Parola di Dio che chiama e manda, è l'espressione più forte della vocazione e della missione del sacerdote. Mediante il sacramento dell'Ordine Dio chiama coram Ecclesia il candidato « al » sacerdozio. Il « vieni e seguimi » di Gesù trova la sua proclamazione piena e definitiva nella celebrazione del sacramento della sua Chiesa: si manifesta e si comunica attraverso la voce della Chiesa, che risuona sulle labbra del Vescovo che prega e impone le mani. E il sacerdote dà risposta, nella fede, alla chiamata di Gesù: « vengo e ti seguo ». Da questo momento ha inizio quella risposta che, come scelta fondamentale, deve riesprimersi e riaffermarsi lungo gli anni del sacerdozio in numerosissime altre risposte, tutte radicate e vivificate dal « sì » dell'Ordine sacro.

In questo senso si può parlare di una vocazione « nel » sacerdozio. In realtà Dio continua a chiamare e a mandare, rivelando il suo disegno salvifico nello sviluppo storico della vita del sacerdote e nelle vicende della Chiesa e della società. E proprio in questa prospettiva emerge il significato della formazione permanente: essa è necessaria in ordine a discernere e a seguire questa continua chiamata o volontà di Dio. Così l'apostolo Pietro è chiamato a seguire Gesù anche dopo che il Risorto gli ha affidato il suo gregge: « Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi" ».418 C'è, dunque, un « seguimi » che accompagna la vita e la missione dell'apostolo. È un « seguimi » che attesta l'appello e l'esigenza della fedeltà sino alla morte,419 un « seguimi » che può significare una sequela Christi con il dono totale di sé nel martirio.420

I Padri sinodali hanno espresso la ragione che giustifica la necessità della formazione permanente e che nello stesso tempo ne rivela la natura profonda, qualificandola come « fedeltà » al ministero sacerdotale e come « processo di continua conversione ».421 È lo Spirito Santo, effuso con il sacramento, che sostiene il presbitero in questa fedeltà e che lo accompagna e lo stimola in questo cammino di incessante conversione. Il dono dello Spirito non dispensa, ma sollecita la libertà del sacerdote, perché cooperi responsabilmente e assuma la formazione permanente come compito che gli è affidato. In tal modo la formazione permanente è espressione ed esigenza della fedeltà del sacerdote al suo ministero, anzi al suo stesso essere. È dunque amore a Gesù Cristo e coerenza con se stessi. Ma è anche atto di amore verso il Popolo di Dio, al cui servizio il sacerdote è posto. Anzi, atto di vera e propria giustizia: egli è debitore verso il Popolo di Dio, essendo chiamato a riconoscerne e a promuoverne il « diritto », quello fondamentale, di essere destinatario della Parola di Dio, dei Sacramenti e del servizio della Carità, che sono il contenuto originale e irrinunciabile del ministero pastorale del sacerdote. La formazione permanente è necessaria perché il sacerdote sia in grado di rispondere, nel modo dovuto, a tale diritto del Popolo di Dio.

Anima e forma della formazione permanente del sacerdote è la carità pastorale: lo Spirito Santo, che infonde la carità pastorale, introduce e accompagna il sacerdote a conoscere sempre più profondamente il mistero di Cristo che è insondabile nella sua ricchezza 422 e, di riflesso, a conoscere il mistero del sacerdozio cristiano. La stessa carità pastorale spinge il sacerdote a conoscere sempre più le attese, i bisogni, i problemi, le sensibilità dei destinatari del suo ministero: destinatari colti nelle loro concrete situazioni personali, familiari, sociali.

A tutto questo tende la formazione permanente intesa come cosciente e libera proposta al dinamismo della carità pastorale e dello Spirito Santo, che ne è la sorgente prima e l'alimento continuo. In questo senso la formazione permanente è un'esigenza intrinseca al dono e al ministero sacramentale ricevuto e si rivela necessaria in ogni tempo. Oggi però risulta essere particolarmente urgente, non solo per il rapido mutarsi delle condizioni sociali e culturali degli uomini e dei popoli entro cui si svolge il ministero presbiterale, ma anche per quella « nuova evangelizzazione » che costituisce il compito essenziale e indilazionabile della Chiesa alla fine del secondo millennio.

71. La formazione permanente dei sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, è la continuazione naturale e assolutamente necessaria di quel processo di strutturazione della personalità presbiterale che si è iniziato e sviluppato in Seminario o nella Casa religiosa con il cammino formativo in vista dell'Ordinazione.

È di particolare importanza avvertire e rispettare l'intrinseco legame che esiste tra la formazione precedente l'ordinazione e quella successiva. Se, infatti, ci fosse una discontinuità o perfino una difformità tra queste due fasi formative, deriverebbero immediatamente gravi conseguenze sull'attività pastorale e sulla comunione fraterna tra i presbiteri, in particolare tra quelli di differente età. La formazione permanente non è una ripetizione di quella acquisita in Seminario, semplicemente riveduta o ampliata con nuovi suggerimenti applicativi. Essa si sviluppa con contenuti e soprattutto attraverso metodi relativamente nuovi, come un fatto vitale unitario che, nel suo progresso — affondando le radici nella formazione seminaristica — richiede adattamenti, aggiornamenti e modifiche, senza però subire rotture o soluzioni di continuità.

E viceversa, fin dal Seminario Maggiore occorre preparare la futura formazione permanente, e aprire ad essa l'animo e il desiderio dei futuri presbiteri, dimostrandone la necessità, i vantaggi e lo spirito, e assicurando le condizioni del suo realizzarsi.

Proprio perché la formazione permanente è una continuazione di quella del Seminario, il suo fine non può essere un puro atteggiamento per così dire professionale, ottenuto con l'apprendimento di alcune tecniche pastorali nuove. Deve essere piuttosto il mantenere vivo un generale e integrale processo di continua maturazione, mediante l'approfondimento sia di ciascuna delle dimensioni della formazione — umana, spirituale, intellettuale e pastorale —, sia del loro intimo e vivo collegamento specifico, a partire dalla carità pastorale e in riferimento ad essa.

72. Un primo approfondimento riguarda la dimensione umana della formazione sacerdotale. Nel contatto quotidiano con gli uomini, nella condivisione della loro vita di ogni giorno, il sacerdote deve crescere e approfondire quella sensibilità umana che gli permette di comprendere i bisogni ed accogliere le richieste, di intuire le domande inespresse, di spartire le speranze e le attese, le gioie e la fatiche del vivere comune; di essere capace di incontrare tutti e di dialogare con tutti. Soprattutto conoscendo e condividendo, cioè facendo propria, l'esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, dall'indigenza alla malattia, dall'emarginazione all'ignoranza, alla solitudine, alle povertà materiali e morali, il sacerdote arricchisce la propria umanità e la rende più autentica e trasparente in un crescente e appassionato amore all'uomo.

Nel portare a maturità la sua formazione umana, il sacerdote riceve un particolare aiuto dalla grazia di Gesù Cristo: la carità del buon Pastore, infatti, si è espressa non solo con il dono della salvezza agli uomini, ma anche con la condivisione della loro vita, della quale il Verbo, che si è fatto « carne »,423 ha voluto conoscere la gioia e la sofferenza, sperimentare la fatica, spartire le emozioni, consolare la pena. Vivendo da uomo fra gli uomini e con gli uomini, Gesù Cristo offre la più assoluta, genuina e perfetta espressione di umanità: lo vediamo far festa alle nozze di Cana, frequentare una famiglia di amici, commuoversi per la folla affamata che lo segue, restituire figli malati o morti ai genitori, piangere la perdita di Lazzaro...

Del sacerdote, maturato sempre più nella sua sensibilità umana, il Popolo di Dio deve poter dire qualcosa di analogo a quanto di Gesù dice la Lettera agli Ebrei: « Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato ».424

La formazione del presbitero nella sua dimensione spirituale è un'esigenza della vita nuova ed evangelica alla quale egli è chiamato in modo specifico dallo Spirito Santo effuso nel sacramento dell'Ordine. Lo Spirito, consacrando il sacerdote e configurandolo a Gesù Cristo Capo e Pastore, crea un legame che, situato nell'essere stesso del sacerdote, chiede di essere assimilato e vissuto in maniera personale, cioè cosciente e libera, mediante una comunione di vita e di amore sempre più ricca e una condivisione sempre più ampia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Gesù Cristo. In questo legame tra il Signore Gesù e il sacerdote, legame ontologico e psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e nello stesso tempo la forza per quella « vita secondo lo Spirito » e per quel « radicalismo evangelico » al quale è chiamato ogni sacerdote e che viene favorito dalla formazione permanente nel suo aspetto spirituale. Questa formazione risulta necessaria anche in ordine al ministero sacerdotale, alla sua autenticità e fecondità spirituale. « Eserciti la cura d'anime? », si chiedeva san Carlo Borromeo. E così rispondeva nel discorso rivolto ai sacerdoti: « Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso. Comprendete, fratelli, che niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni: Canterò, dice il profeta, e mediterò.425 Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate; e "tutto si faccia tra voi nella carità".426 Così potremo superare le difficoltà che incontriamo, e sono innumerevoli, ogni giorno. Del resto ciò è richiesto dal compito affidatoci. Se così faremo avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri ».427

In particolare la vita di preghiera dev'essere continuamente « riformata » nel sacerdote. L'esperienza, infatti, insegna che nell'orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, soprattutto a quelli destinati alla celebrazione della « Liturgia delle Ore » e a quelli lasciati alla scelta personale e non sostenuti da scadenze e orari del servizio liturgico, ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito.

Quanto l'apostolo Paolo dice di tutti i credenti, che devono giungere « a formare l'uomo maturo, al livello di statura che attua la pienezza del Cristo »,428 può essere applicato in modo specifico ai sacerdoti chiamati alla perfezione della carità e quindi alla santità, anche perché il loro stesso ministero pastorale li vuole modelli viventi per tutti i fedeli.

Anche la dimensione intellettuale della formazione chiede di essere continuata e approfondita durante tutta la vita del sacerdote, in particolare mediante lo studio e l'aggiornamento culturale serio ed impegnato. Partecipe della missione profetica di Gesù e inserito nel mistero della Chiesa Maestra di verità, il sacerdote è chiamato a rivelare in Gesù Cristo agli uomini il volto di Dio, e con ciò il vero volto dell'uomo.429 Ma questo esige che il sacerdote stesso ricerchi tale volto e lo contempli con venerazione e amore:430 solo così lo può far conoscere agli altri. In particolare la continuazione dello studio teologico risulta anche necessaria perché il sacerdote possa adempiere con fedeltà il ministero della Parola, annunciandola senza confusioni e ambiguità, distinguendola dalle semplici opinioni umane, anche se rinomate e diffuse. Così potrà porsi veramente al servizio del Popolo di Dio, aiutandolo a rendere ragione, a quanti lo chiedono, della speranza cristiana.431 Inoltre, « il sacerdote, nell'applicarsi con coscienza e costanza allo studio teologico, è in grado di assimilare in forma sicura e personale la genuina ricchezza ecclesiale. Può quindi compiere la missione, che lo impegna nel rispondere alle difficoltà circa l'autentica dottrina cattolica, e superare l'inclinazione, propria e altrui, al dissenso e all'atteggiamento negativo riguardo al Magistero e alla Tradizione ».432

L'aspetto pastorale della formazione permanente è bene espresso dalle parole dell'apostolo Pietro: « Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio ».433 Per vivere ogni giorno secondo la grazia ricevuta occorre che il sacerdote sia sempre più aperto ad accogliere la carità pastorale di Gesù Cristo, donatagli dal suo Spirito con il sacramento ricevuto. Come tutta l'attività del Signore è stata il frutto e il segno della carità pastorale, così deve essere anche per l'operosità ministeriale del sacerdote. La carità pastorale è un dono e, insieme, un compito, una grazia e una responsabilità alla quale occorre essere fedeli: occorre cioè accoglierla e viverne il dinamismo sino alle esigenze più radicali. Questa stessa carità pastorale, come si è detto, spinge e stimola il sacerdote a conoscere sempre meglio la condizione reale degli uomini ai quali è mandato, a discernere nelle circostanze storiche nelle quali è inserito gli appelli dello Spirito, a ricercare i metodi più adatti e le forme più utili per esercitare oggi il suo ministero. Così la carità pastorale anima e sostiene gli sforzi umani del sacerdote per un'operosità pastorale che sia attuale, credibile ed efficace. Ma ciò esige una permanente formazione pastorale.

Il cammino verso la maturità non richiede solo che il sacerdote continui ad approfondire le diverse dimensioni della sua formazione, ma anche e soprattutto che sappia integrare sempre più armonicamente tra loro queste stesse dimensioni, raggiungendone progressivamente l'unità interiore: ciò sarà reso possibile dalla carità pastorale. Questa, infatti, non solo coordina e unifica i diversi aspetti, ma li specifica connotandoli come aspetti della formazione del sacerdote in quanto tale, ossia del sacerdote come trasparenza, immagine viva, ministro di Gesù buon Pastore.

La formazione permanente aiuta il sacerdote a superare la tentazione di ricondurre il suo ministero ad un attivismo fine a se stesso, ad una impersonale prestazione di cose, sia pure spirituali o sacre, ad una funzione impiegatizia al servizio dell'organizzazione ecclesiastica. Solo la formazione permanente aiuta il prete a custodire con vigile amore il « mistero » che porta in sé per il bene della Chiesa e dell'umanità.

73. Le diverse e complementari dimensioni della formanzione permanente ci aiutano a coglierne il significato profondo: essa tende ad aiutare il prete ad essere e a fare il prete nello spirito e secondo lo stile di Gesù buon Pastore.

La verità è da farsi! Così ci ammonisce san Giacomo: « Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi ».434 I sacerdoti sono chiamati a « fare la verità » del loro essere, ossia a vivere « nella carità » 435 la loro identità e il loro ministero nella Chiesa e per la Chiesa. Sono chiamati a prendere coscienza sempre più viva del dono di Dio, a farne continua memoria. È questo l'invito di Paolo a Timoteo: « Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi ».436

Nel contesto ecclesiologico più volte ricordato si può considerare il significato profondo della formazione permanente del sacerdote in ordine alla sua presenza e azione nella Chiesa mysterium, communio et missio.

Entro la Chiesa « mistero » il sacerdote è chiamato, mediante la formazione permanente, a conservare e sviluppare nella fede la coscienza della verità intera e sorprendente del suo essere: egli è ministro di Cristo e amministratore dei misteri di Dio.437 Paolo chiede espressamente ai cristiani che lo considerino secondo questa identità; ma lui stesso, per primo, vive nella consapevolezza del dono sublime ricevuto dal Signore. Così dev'essere di ogni sacerdote, se vuole rimanere nella verità del suo essere. Ma ciò è possibile solo nella fede, solo con lo sguardo e con gli occhi di Cristo.

In questo senso si può dire che la formazione permanente tende a far sì che il prete sia un credente e lo diventi sempre più: che si veda sempre nella sua verità, con gli occhi di Cristo. Egli deve custodire questa verità con amore grato e gioioso. Deve rinnovare la sua fede quando esercita il ministero sacerdotale: sentirsi ministro di Gesù Cristo, sacramento dell'amore di Dio per l'uomo, ogniqualvolta è tramite e strumento vivo del conferimento della grazia di Dio agli uomini. Deve riconoscere questa stessa verità nei confratelli: è il principio della stima e dell'amore verso gli altri sacerdoti.

74. La formazione permanente aiuta il sacerdote, entro la Chiesa « comunione », a maturare la coscienza che il suo ministero è ultimamente ordinato a riunire la famiglia di Dio come fraternità animata dalla carità e a condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.438

Il sacerdote deve crescere nella consapevolezza della profonda comunione che lo lega al Popolo di Dio: non è soltanto « davanti » alla Chiesa, ma anzitutto « nella » Chiesa. È fratello tra fratelli. Con il Battesimo, insignito della dignità e della libertà dei figli di Dio nel Figlio unigenito, il sacerdote è membro dello stesso e unico Corpo di Cristo.439 La coscienza di questa comunione sfocia nel bisogno di suscitare e sviluppare la corresponsabilità nella comune e unica missione di salvezza, con la pronta e cordiale valorizzazione di tutti i carismi e i compiti che lo Spirito offre ai credenti per l'edificazione della Chiesa. È soprattutto nel compimento del ministero pastorale, per sua natura ordinato al bene del Popolo di Dio, che il sacerdote deve vivere e testimoniare la sua profonda comunione con tutti, come scriveva Paolo VI: « Bisogna farsi fratelli degli uomini nell'atto stesso che vogliamo essere loro pastori, padri e maestri. Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio ».440

In modo più specifico il sacerdote è chiamato a maturare la coscienza dell'essere membro della Chiesa particolare nella quale è incardinato, ossia inserito con un legame insieme giuridico, spirituale e pastorale. Una simile coscienza suppone e sviluppa l'amore particolare alla propria Chiesa. Questa, in realtà, è il termine vivo e permanente della carità pastorale che deve accompagnare la vita del prete e che lo conduce a condividere di questa stessa Chiesa particolare la storia o esperienza di vita nelle sue ricchezze e fragilità, nelle sue difficoltà e speranze, a lavorare in essa per la sua crescita. Sentirsi, dunque, insieme arricchiti dalla Chiesa particolare e impegnati attivamente alla sua edificazione, prolungando, ciascun sacerdote e con gli altri, quell'operosità pastorale che ha contraddistinto i confratelli che li hanno preceduti. Un'esigenza insopprimibile della carità pastorale verso la propria Chiesa particolare e il suo domani ministeriale è la sollecitudine che il sacerdote deve avere di trovare, per così dire, qualcuno che lo sostituisca nel sacerdozio.

Il sacerdote deve maturare nella coscienza della comunione che sussiste tra le diverse Chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di Chiese che vivono in loco la Chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale favorirà lo « scambio dei doni », a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti. Di qui la disponibilità, anzi l'impegno generoso per il realizzarsi di una equa distribuzione del clero.441 Tra queste Chiese particolari sono da ricordarsi quelle che « prive di libertà, non possono avere vocazioni proprie », come pure le « Chiese recentemente uscite dalla persecuzione e quelle povere alle quali sono stati dati già per lungo tempo e da parte di molti degli aiuti con animo grande e fraterno, e tuttora vengono dati ».442

All'interno della comunione ecclesiale, il sacerdote è chiamato in particolare a crescere, nella sua formazione permanente, nel e con il proprio presbiterio unito al Vescovo. Il presbiterio nella sua verità piena è un mysterium: infatti è una realtà soprannaturale perché si radica nel sacramento dell'Ordine. Questo è la sua fonte, la sua origine. È il « luogo » della sua nascita e della sua crescita. Infatti, « i presbiteri mediante il sacramento dell'Ordine sono collegati con un vincolo personale e indissolubile con Cristo unico sacerdote. L'Ordine viene conferito ad essi come singoli, ma sono inseriti nella comunione del presbiterio congiunto con il Vescovo 443 ».444

Questa origine sacramentale si riflette e si prolunga nell'ambito dell'esercizio del ministero presbiterale: dal mysterium al ministerium. « L'unità dei presbiteri con il Vescovo e tra di loro non si aggiunge dall'esterno alla natura propria del loro servizio, ma ne esprime l'essenza in quanto è la cura di Cristo sacerdote nei riguardi del Popolo adunato dall'unità della Santissima Trinità ».445 Questa unità presbiterale, vissuta nello spirito della carità pastorale, rende i sacerdoti testimoni di Gesù Cristo, che ha pregato il Padre « perché tutti siano una cosa sola ».446

La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell'Ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali. La fraternità presbiterale non esclude nessuno, ma può e deve avere le sue preferenze: sono quelle evangeliche, riservate a chi ha più grande bisogno di aiuto o di incoraggiamento. Tale fraternità « ha una cura speciale per i giovani presbiteri, tiene un cordiale e fraterno dialogo con quelli di media e maggior età e con quelli che per ragioni diverse sperimentano difficoltà; anche i sacerdoti che hanno abbandonato questa forma di vita o che non la seguono, non solo non li abbandona ma li segue ancor più con fraterna sollecitudine ».447

Dell'unico presbiterio fanno parte, a titolo diverso, anche i presbiteri religiosi residenti e operanti in una Chiesa particolare. La loro presenza costituisce un arricchimento per tutti i sacerdoti e i vari carismi particolari da essi vissuti, mentre sono un richiamo perché i presbiteri crescano nella comprensione del sacerdozio stesso, contribuiscono a stimolare e ad accompagnare la formazione permanente dei sacerdoti. Il dono della vita religiosa, nella compagine diocesana, quando è accompagnato da sincera stima e da giusto rispetto delle particolarità di ogni istituto e di ogni tradizione spirituale, allarga l'orizzonte della testimonianza cristiana e contribuisce in vario modo ad arricchire la spiritualità sacerdotale, soprattutto in riferimento al corretto rapporto e al reciproco influsso tra i valori della Chiesa particolare e quelli dell'universalità del Popolo di Dio. Da parte loro, i religiosi saranno attenti a garantire uno spirito di vera comunione ecclesiale, una partecipazione cordiale al cammino della Diocesi e alle scelte pastorali del Vescovo, mettendo volentieri a disposizione il proprio carisma per l'edificazione di tutti nella carità.448

Infine, nel contesto della Chiesa comunione e del presbiterio si può meglio affrontare il problema della solitudine del sacerdote, sulla quale si sono fermati i Padri sinodali. Si dà una solitudine che fa parte dell'esperienza di tutti e che è qualcosa di assolutamente normale. Ma si dà anche una solitudine che nasce da difficoltà varie e che a sua volta provoca ulteriori difficoltà. In questo senso, « l'attiva partecipazione al presbiterio diocesano, i contatti regolari con il Vescovo e con gli altri sacerdoti, la mutua collaborazione, la vita comune o fraterna tra sacerdoti, come anche l'amicizia e la cordialità con i fedeli laici che sono attivi nelle parrocchie, sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine che alcune volte il sacerdote può sperimentare ».449

La solitudine non crea però solo difficoltà, offre anche opportunità positive per la vita del sacerdote: « Accettata in spirito di offerta e ricercata nell'intimità con Gesù Cristo Signore, la solitudine può essere un'opportunità per l'orazione e lo studio, come pure un aiuto per la santificazione e la crescita umana ».450

Senza dire che una certa forma di solitudine è elemento necessario per la formazione permanente. Gesù sapeva ritirarsi, spesso, da solo a pregare.451 La capacità di reggere una buona solitudine è condizione indispensabile alla cura della vita interiore. Si tratta di una solitudine abitata dalla presenza del Signore, che ci mette in contatto, nella luce dello Spirito, con il Padre. In questo senso, la cura del silenzio e la ricerca di spazi e tempi di « deserto » sono necessari alla formazione permanente sia in campo intellettuale, sia in campo spirituale e pastorale. In questo senso ancora, si può affermare che non è capace di vera e fraterna comunione chi non sa vivere bene la propria solitudine.

75. La formazione permanente è destinata a far crescere nel sacerdote la coscienza della sua partecipazione alla missione salvifica della Chiesa. Nella Chiesa « missione » la formazione permanente del sacerdote entra non solo come necessaria condizione, ma anche come mezzo indispensabile per rimettere costantemente a fuoco il senso della missione e per garantirne una realizzazione fedele e generosa. Con tale formazione il sacerdote è aiutato ad avvertire tutta la gravità, ma nello stesso tempo la splendida grazia, da un lato, di un'obbligazione che non lo può lasciare tranquillo — come Paolo deve poter dire: « Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo! » 452 — e, dall'altro lato, di una richiesta, esplicita o implicita, che prepotente viene dagli uomini, che Dio instancabilmente chiama alla salvezza.

Solo un'adeguata formazione permanente riesce a sostenere il sacerdote in ciò che è essenziale e decisivo per il suo ministero, ossia la fedeltà, come scrive l'apostolo Paolo: « Ora, quanto si richiede negli amministratori (dei misteri di Dio) è che ognuno risulti fedele ».453 Il sacerdote dev'essere fedele, nonostante le più diverse difficoltà incontrate, anche nelle condizioni più disagiate o di comprensibile stanchezza, con tutte le energie di cui dispone, e sino alla fine della vita. La testimonianza di Paolo dev'essere di esempio e di stimolo per ogni sacerdote: « Da parte nostra — scrive ai cristiani di Corinto — non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto ».454

76. La formazione permanente, proprio perché « permanente », deve accompagnare i sacerdoti sempre, quindi in ogni periodo e condizione della loro vita, come pure ad ogni livello di responsabilità ecclesiale: evidentemente con quelle possibilità e caratteristiche che si collegano al variare dell'età, della condizione di vita e dei compiti affidati.

La formazione permanente è dovere, anzitutto, per i giovani sacerdoti: deve avere quella frequenza e quella sistematicità di incontri che, mentre prolungano la serietà e la solidità della formazione ricevuta in seminario, introducono progressivamente i giovani a comprendere e a vivere la singolare ricchezza del « dono » di Dio — il sacerdozio — e ad esprimere le loro potenzialità e attitudini ministeriali, anche mediante un inserimento sempre più convinto e responsabile nel presbiterio, e quindi nella comunione e nella corresponsabilità con tutti i confratelli.

Se si può comprendere un certo senso di « sazietà » che può prendere il giovane prete appena uscito dal seminario di fronte a nuovi momenti di studio e di incontro, si deve respingere come assolutamente falsa e pericolosa l'idea che la formazione presbiterale si concluda con il terminare della presenza in seminario.

Partecipando agli incontri della formazione permanente i giovani sacerdoti potranno offrirsi un reciproco aiuto con lo scambio di esperienze e di riflessioni sulla traduzione concreta di quell'ideale presbiterale e ministeriale che hanno assimilato negli anni del seminario. Nello stesso tempo la loro attiva partecipazione agli incontri formativi del presbiterio potrà essere di esempio e di stimolo agli altri sacerdoti che sono più avanti negli anni, testimoniando così il proprio amore all'intero presbiterio e la propria passione per la Chiesa particolare bisognosa di sacerdoti ben formati.

Per accompagnare i sacerdoti giovani in questa prima delicata fase della loro vita e del loro ministero, è quanto mai opportuno, se non addirittura necessario oggi, creare un'apposita struttura di sostegno, con guide e maestri appropriati, nella quale essi possano trovare, in modo organico e continuativo, gli aiuti necessari ad iniziare bene il loro servizio sacerdotale. In occasione di incontri periodici, sufficientemente lunghi e frequenti, possibilmente condotti in un ambiente comunitario, in modo residenziale, saranno loro garantiti momenti preziosi di riposo, di preghiera, di riflessione e di scambio fraterno. Sarà così per loro più facile dare, fin dall'inizio, un'impostazione evangelicamente equilibrata alla loro vita presbiterale. E se le singole Chiese particolari non potessero offrire questo servizio ai propri giovani sacerdoti, sarà opportuno che si uniscano tra loro le Chiese vicine e insieme investano risorse ed elaborino programmi adatti.

77. La formazione permanente costituisce un dovere anche per i presbiteri di mezza età. In realtà, sono molteplici i rischi che possono correre, proprio in ragione dell'età, come ad esempio un attivismo esagerato e una certa routine nell'esercizio del ministero. Così il sacerdote è tentato di presumere di sé, come se la propria personale esperienza, ormai collaudata, non dovesse più confrontarsi con nulla e con nessuno. Non di rado, il sacerdote adulto soffre di una specie di stanchezza interiore pericolosa, segno di una delusione rassegnata di fronte alle difficoltà e agli insuccessi. La risposta a questa situazione è data dalla formazione permanente, da una continua ed equilibrata revisione di sé e del proprio agire, dalla ricerca costante di motivazioni e di strumenti per la propria missione: così il sacerdote manterrà lo spirito vigile e pronto alle perenni e pure sempre nuove istanze di salvezza che ciascuno pone al prete, « uomo di Dio ».

La formazione permanente deve interessare anche quei presbiteri che per l'età avanzata sono indicati come anziani e che in alcune Chiese sono la parte più numerosa del presbiterio. Questo deve riservare loro gratitudine per il fedele servizio che hanno riservato a Cristo e alla Chiesa e concreta solidarietà per la loro condizione. Per questi presbiteri la formazione permanente non comporterà tanto impegni di studio, di aggiornamento e di dibattito culturale, quanto la conferma serena e rassicurante del ruolo che ancora sono chiamati a svolgere nel presbiterio: non solo per il proseguimento, sia pure in forme diverse, del ministero pastorale, ma anche per la possibilità che essi hanno, grazie alla loro esperienza di vita e di apostolato, di diventare loro stessi validi maestri e formatori di altri sacerdoti.

Anche i sacerdoti, che per le fatiche o le malattie si trovano in una condizione di debilitazione fisica o di stanchezza morale, possono essere aiutati da una formazione permanente che li stimoli a proseguire in modo sereno e forte il loro servizio alla Chiesa, a non isolarsi né dalla comunità né dal presbiterio, a ridurre l'attività esterna per dedicarsi a quegli atti di relazione pastorale e di personale spiritualità capaci di sostenere le motivazioni e la gioia del loro sacerdozio. La formazione permanente li aiuterà, in particolare, a mantenere viva quella convinzione che essi stessi hanno inculcato nei fedeli, la convinzione cioè di continuare ad essere membri attivi nell'edificazione della Chiesa anche e specialmente in forza della loro unione a Gesù Cristo sofferente e a tanti altri fratelli e sorelle che nella Chiesa prendono parte alla Passione del Signore, rivivendo l'esperienza spirituale di Paolo che diceva: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa ».455

78. Le condizioni in cui spesso e in più parti si svolge attualmente il ministero dei presbiteri non rendono facile un impegno serio di formazione: il moltiplicarsi dei compiti e dei servizi, la complessità della vita umana in genere e di quella delle comunità cristiane in particolare, l'attivismo e l'affanno tipico di tante aree della nostra società privano spesso i sacerdoti del tempo e delle energie indispensabili a « vigilare su se stessi ».456

Questo deve far crescere in tutti la responsabilità, cosicché le difficoltà siano superate, anzi diventino una sfida per elaborare e realizzare una formazione permanente che risponda in modo adeguato alla grandezza del dono di Dio e alla gravità delle richieste ed esigenze del nostro tempo.

I responsabili della formazione permanente dei sacerdoti sono da ricercare nella Chiesa « comunione ». In tal senso, è l'intera Chiesa particolare che, sotto la guida del Vescovo, viene investita della responsabilità di stimolare e di curare in vari modi la formazione permanente dei sacerdoti. Questi non sono per se stessi, ma per il Popolo di Dio: per questo, la formazione permanente, mentre assicura la maturità umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei sacerdoti, si risolve in un bene di cui è destinatario lo stesso Popolo di Dio. Del resto, lo stesso esercizio del ministero pastorale conduce ad un continuo e fecondo scambio reciproco tra la vita di fede dei presbiteri e quella dei fedeli. Proprio la condivisione di vita tra il presbitero e la comunità, se sapientemente condotta e utilizzata, costituisce un fondamentale contributo alla formazione permanente, peraltro non riconducibile a qualche episodio o iniziativa isolata, ma estesa e attraversante tutto il ministero e la vita del presbitero.

Infatti, l'esperienza cristiana delle persone semplici e umili, gli slanci spirituali delle persone innamorate di Dio, le applicazioni coraggiose della fede alla vita da parte dei cristiani impegnati nelle varie responsabilità sociali e civili, vengono accolti dal presbitero che, mentre li illumina con il suo servizio sacerdotale, ne ricava un prezioso alimento spirituale. Anche i dubbi, le crisi e i ritardi di fronte alle più svariate condizioni personali e sociali, le tentazioni di rifiuto o di disperazione nel momento del dolore, della malattia, della morte: insomma, tutte le circostanze difficili che gli uomini incontrano sul cammino della fede, vengono fraternamente vissute e sinceramente sofferte nel cuore del presbitero che, nel cercare le risposte per gli altri, è continuamente stimolato a trovarle innanzitutto per sé.

Così l'intero Popolo di Dio, in tutti i suoi membri, può e deve offrire un prezioso aiuto alla formazione permanente dei suoi sacerdoti. In questo senso deve lasciare ai sacerdoti spazi di tempo per lo studio e per la preghiera, chiedere loro ciò per cui sono stati mandati da Cristo e non altro, offrire collaborazione nei vari ambiti della missione pastorale, specialmente in quelli attinenti la promozione umana e il servizio della carità, assicurare rapporti cordiali e fraterni con loro, agevolare nei sacerdoti la coscienza di non essere « padroni della fede » ma « collaboratori della gioia » di tutti i fedeli.457

La responsabilità formativa della Chiesa particolare nei riguardi dei sacerdoti si concretizza e si specifica in rapporto ai diversi membri che la compongono, a cominciare dal sacerdote stesso.

79. In un certo senso, è proprio lui, il singolo sacerdote, il primo responsabile nella Chiesa della formazione permanente: in realtà su ciascun sacerdote incombe il dovere, radicato nel sacramento dell'Ordine, di essere fedele al dono di Dio e al dinamismo di conversione quotidiana che viene dal dono stesso. I regolamenti o le norme dell'autorità ecclesiastica al riguardo, come pure lo stesso esempio degli altri sacerdoti, non bastano a rendere appetibile la formazione permanente, se il singolo non è personalmente convinto della sua necessità e non è determinato a valorizzarne le occasioni, i tempi, le forme. La formazione permanente mantiene la « giovinezza » dello spirito, che nessuno può imporre dall'esterno, ma che ciascuno deve ritrovare continuamente dentro se stesso. Solo chi conserva sempre vivo il desiderio di imparare e di crescere possiede questa « giovinezza ».

Fondamentale è la responsabilità del Vescovo, e con lui del presbiterio. Quella del Vescovo si fonda sul fatto che i presbiteri ricevono attraverso di lui il loro sacerdozio e condividono con lui la sollecitudine pastorale verso il Popolo di Dio. Egli è responsabile di quella formazione permanente che è destinata a far sì che tutti i suoi presbiteri siano generosamente fedeli al dono e al ministero ricevuto, così come il Popolo di Dio li vuole e ha « diritto » di averli. Questa responsabilità conduce il Vescovo, in comunione con il presbiterio, a delineare un progetto e a stabilire una programmazione capaci di configurare la formazione permanente non come qualcosa di episodico, ma come una proposta sistematica di contenuti, che si snoda per tappe e si riveste di modalità precise. Il Vescovo vivrà la sua responsabilità, non soltanto assicurando al suo presbiterio luoghi e momenti di formazione permanente, ma rendendosi presente personalmente e partecipandovi in modo convinto e cordiale. Spesso sarà opportuno, o anche necessario, che i Vescovi di più diocesi confinanti o di una regione ecclesiastica si accordino tra loro ed uniscano le loro forze per poter offrire iniziative più qualificate e veramente stimolanti per la formazione permanente, come sono i corsi di aggiornamento biblico, teologico e pastorale, le settimane residenziali, i cicli di conferenze, i momenti di riflessione e di verifica sul cammino pastorale del presbiterio e della comunità ecclesiale.

Il Vescovo assolverà la sua responsabilità sollecitando anche l'apporto che può venire dalle facoltà e dagli istituti teologici e pastorali, dai seminari, dagli organismi o federazioni che riuniscono persone — sacerdoti, religiosi e fedeli laici — impegnate nella formazione presbiterale.

Nell'ambito della Chiesa particolare un posto significativo è riservato alle famiglie: ad esse, infatti, nella loro dimensione di « chiese domestiche », fa riferimento concreto la vita delle comunità ecclesiali animate e guidate dai sacerdoti. In particolare è da rilevarsi il ruolo della famiglia d'origine. Questa, in unione e in comunione di intenti, può offrire alla missione del figlio un proprio specifico importante contributo. Portando a compimento il piano provvidenziale che l'ha voluta culla del germe vocazionale, indispensabile aiuto per la sua crescita e il suo sviluppo, la famiglia del sacerdote, nel più assoluto rispetto di questo figlio che ha scelto di donarsi a Dio e al prossimo, deve rimanere sempre come fedele, incoraggiante testimone della sua missione, affiancandola e condividendola con dedizione e rispetto.

80. Se ogni momento può essere un « tempo favorevole » 458 nel quale lo Spirito Santo conduce il sacerdote ad una diretta crescita nella preghiera, nello studio e nella coscienza delle proprie responsabilità pastorali, ci sono però momenti « privilegiati », anche se più comuni e prestabiliti.

Sono qui da ricordarsi, anzitutto, gli incontri del Vescovo con il suo presbiterio, siano essi liturgici (in particolare la concelebrazione della Messa Crismale del Giovedì Santo), siano essi pastorali e culturali, in ordine cioè al confronto sull'attività pastorale o allo studio su determinati problemi teologici.

Ci sono poi gli incontri di spiritualità sacerdotale, come gli esercizi spirituali, le giornate di ritiro e di spiritualità, ecc. Sono un'occasione per una crescita spirituale e pastorale, per una preghiera più prolungata e calma, per un ritorno alle radici dell'essere prete, per ritrovare freschezza di motivazioni per la fedeltà e lo slancio pastorale.

Importanti sono anche gli incontri di studio e di riflessione comune: impediscono l'impoverimento culturale e l'arroccamento su posizioni di comodo anche in campo pastorale, frutto di pigrizia mentale; assicurano una sintesi più matura tra i diversi elementi della vita spirituale, culturale e apostolica; aprono la mente e il cuore alle nuove sfide della storia e ai nuovi appelli che lo Spirito rivolge alla Chiesa.

81. Molteplici sono gli aiuti e i mezzi di cui ci si può servire perché la formazione permanente diventi sempre più una preziosa esperienza vitale per i sacerdoti. Tra questi ricordiamo le diverse forme di vita comune tra i sacerdoti, sempre presenti, anche se in modalità e intensità differenti, nella storia della Chiesa: « Oggi non si può non raccomandarle, soprattutto tra coloro che vivono o sono impegnati pastoralmente nello stesso luogo. Oltre che a giovare alla vita e all'azione apostolica, questa vita comune del clero offre a tutti, compresbiteri e laici, un esempio luminoso di carità e di unità ».459

Altro aiuto può essere dato dalle associazioni sacerdotali, in particolare dagli istituti secolari sacerdotali, che presentano come nota specifica la diocesanità, in forza della quale i sacerdoti si uniscono più strettamente al Vescovo e costituiscono « uno stato di consacrazione nel quale i sacerdoti mediante voti o altri legami sacri sono consacrati ad incarnare nella vita i consigli evangelici ».460 Tutte le forme di « fraternità sacerdotale » approvate dalla Chiesa sono utili non solo per la vita spirituale, ma anche per la vita apostolica e pastorale.

Anche la pratica della direzione spirituale contribuisce non poco a favorire la formazione permanente dei sacerdoti. È un mezzo classico, che nulla ha perso di preziosità non solo per assicurare la formazione spirituale, ma anche per promuovere e sostenere una continua fedeltà e generosità nell'esercizio del ministero sacerdotale. Come scriveva il futuro Paolo VI, « la direzione spirituale ha una funzione bellissima e si può dire indispensabile per l'educazione morale e spirituale della gioventù, che voglia interpretare e seguire con assoluta lealtà la vocazione, qualunque essa sia, della propria vita; e conserva sempre importanza benefica per ogni età della vita, quando al lume e alla carità d'un consiglio pio e prudente si chieda la verifica della propria rettitudine ed il conforto al compimento generoso dei propri doveri. È mezzo pedagogico molto delicato, ma di grandissimo valore; è arte pedagogica e psicologica di grave responsabilità in chi la esercita; è esercizio spirituale di umiltà e di fiducia in chi la riceve ».461

CONCLUSIONE

82. « Vi darò pastori secondo il mio cuore ».462

Ancora oggi, questa promessa di Dio è viva e operante nella Chiesa: essa si sente, in ogni tempo, fortunata destinataria di queste parole profetiche; vede il loro realizzarsi quotidiano in tante parti della terra, meglio, in tanti cuori umani, soprattutto di giovani. E desidera, di fronte alle gravi e urgenti necessità proprie e del mondo, che sulle soglie del terzo millennio questa divina promessa si compia in un modo nuovo, più ampio, intenso, efficace: quasi una straordinaria effusione dello Spirito della Pentecoste.

La promessa del Signore suscita nel cuore della Chiesa la preghiera, l'implorazione fiduciosa e ardente nell'amore del Padre che, come ha mandato Gesù il buon Pastore, gli apostoli, i loro successori, una schiera senza numero di presbiteri, così continui a manifestare agli uomini d'oggi la sua fedeltà e la sua bontà.

E la Chiesa è pronta a rispondere a questa grazia. Sente che il dono di Dio esige una risposta corale e generosa: tutto il Popolo di Dio deve instancabilmente pregare e lavorare per le vocazioni sacerdotali; i candidati al sacerdozio devono prepararsi con grande serietà ad accogliere e a vivere il dono di Dio, consapevoli che la Chiesa e il mondo hanno assoluto bisogno di loro; devono innamorarsi di Cristo buon Pastore, modellare sul suo il loro cuore, essere pronti ad uscire per le strade del mondo come sua immagine per proclamare a tutti Cristo Via, Verità e Vita.

Un appello particolare rivolgo alle famiglie: che i genitori, e specialmente le mamme, siano generosi nel donare al Signore, che li chiama al sacerdozio, i loro figli, e collaborino con gioia al loro itinerario vocazionale, consapevoli che in questo modo rendono più grande e profonda la loro fecondità cristiana ed ecclesiale e che possono sperimentare, in un certo senso, la beatitudine della Vergine Madre Maria: « Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo ».463

E ai giovani d'oggi dico: siate più docili alla voce dello Spirito, lasciate risuonare nel profondo del cuore le grandi attese della Chiesa e dell'umanità, non temete di aprire il vostro spirito alla chiamata di Cristo Signore, sentite su di voi lo sguardo d'amore di Gesù e rispondete con entusiasmo alla proposta di una sequela radicale.

La Chiesa risponde alla grazia mediante l'impegno che i sacerdoti assumono per realizzare quella formazione permanente che è richiesta dalla dignità e dalla responsabilità loro conferite dal sacramento dell'Ordine. Tutti i sacerdoti sono chiamati ad avvertire la singolare urgenza della loro formazione nell'ora presente: la nuova evangelizzazione ha bisogno di nuovi evangelizzatori, e questi sono i sacerdoti che si impegnano a vivere il loro sacerdozio come cammino specifico verso la santità.

La promessa di Dio è di assicurare alla Chiesa non pastori qualunque, ma pastori « secondo il suo cuore ». Il « cuore » di Dio si è rivelato a noi pienamente nel cuore di Cristo buon Pastore. E il cuore di Cristo continua oggi ad avere compassione delle folle e a donare loro il pane della verità e il pane dell'amore e della vita,464 e chiede di palpitare in altri cuori — quelli dei sacer- doti —: « Voi stessi date loro da mangiare ».465 La gente ha bisogno di uscire dall'anonimato e dalla paura, ha bisogno di essere conosciuta e chiamata per nome, di camminare sicura sui sentieri della vita, di essere ritrovata se perduta, di essere amata, di ricevere la salvezza come supremo dono dell'amore di Dio: proprio questo fa Gesù, il buon Pastore; Lui e i presbiteri con lui.

Ed ora, al termine di questa Esortazione, volgo lo sguardo alla moltitudine di aspiranti al sacerdozio, di seminaristi e di sacerdoti che, in tutte le parti del mondo, nelle condizioni anche più difficili e qualche volta drammatiche, e sempre nella gioiosa fatica della fedeltà al Signore e dell'instancabile servizio al suo gregge, offrono quotidianamente la propria vita per la crescita della fede, della speranza e della carità nei cuori e nella storia degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Voi, carissimi sacerdoti, lo fate perché il Signore stesso, con la forza del suo Spirito, vi ha chiamati a ripresentare nei vasi di creta della vostra semplice vita il tesoro inestimabile del suo amore di Pastore buono.

In comunione con i Padri sinodali e a nome di tutti i Vescovi del mondo e dell'intera comunità ecclesiale esprimo tutta la riconoscenza che la vostra fedeltà e il vostro servizio si meritano.466

E mentre auguro a tutti voi la grazia di rinnovare ogni giorno il dono di Dio ricevuto con l'imposizione delle mani,467 di sentire il conforto della profonda amicizia che vi lega a Gesù e vi unisce tra voi, di sperimentare la gioia della crescita del gregge di Dio verso un amore sempre più grande a Lui e a ogni uomo, di coltivare la rasserenante persuasione che colui che ha iniziato in voi questa opera buona la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù,468 con tutti e con ciascuno di voi mi rivolgo in preghiera a Maria, madre ed educatrice del nostro sacerdozio.

Ogni aspetto della formazione sacerdotale può essere riferito a Maria come alla persona umana che più di ogni altra ha corrisposto alla vocazione di Dio, che si è fatta serva e discepola della Parola sino a concepire nel suo cuore e nella sua carne il Verbo fatto uomo per donarlo all'umanità, che è stata chiamata all'educazione dell'unico ed eterno sacerdote fattosi docile e sottomesso alla sua autorità materna. Con il suo esempio e la sua intercessione, la Vergine Santissima continua a vigilare sullo sviluppo delle vocazioni e della vita sacerdotale nella Chiesa.

Per questo noi sacerdoti siamo chiamati a crescere in una solida e tenera devozione alla Vergine Maria, testimoniandola con l'imitazione delle sue virtù e con la preghiera frequente.

Madre di Gesù Cristo e Madre dei sacerdoti,
ricevi questo titolo che noi tributiamo a te
per celebrare la tua maternità
e contemplare presso di te il Sacerdozio
del tuo Figlio e dei tuoi figli,
Santa Genitrice di Dio.

Madre di Cristo,
al Messia Sacerdote hai dato il corpo di carne
per l'unzione del Santo Spirito
a salvezza dei poveri e contriti di cuore,
custodisci nel tuo cuore e nella Chiesa i sacerdoti,
Madre del Salvatore.

Madre della fede,
hai accompagnato al tempio il Figlio dell'uomo,
compimento delle promesse date ai Padri,
consegna al Padre per la sua gloria
i sacerdoti del Figlio tuo,
Arca dell'Alleanza.

Madre della Chiesa,
tra i discepoli nel Cenacolo pregavi lo Spirito
per il Popolo nuovo ed i suoi Pastori,
ottieni all'ordine dei presbiteri
la pienezza dei doni,
Regina degli Apostoli.

Madre di Gesù Cristo,
eri con Lui agli inizi della sua vita
e della sua missione,
lo hai cercato Maestro tra la folla,
lo hai assistito innalzato da terra,
consumato per il sacrificio unico eterno,
e avevi Giovanni vicino, tuo figlio,
accogli fin dall'inizio i chiamati,
proteggi la loro crescita,
accompagna nella vita e nel ministero
i tuoi figli,
Madre dei sacerdoti.

Amen!

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1992, decimoquarto del mio Pontificato.

 

 

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