Sabato, 22 Marzo, 2025

REDEMPTORIS MATER

LETTERA ENCICLICA
REDEMPTORIS MATER
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA BEATA VERGINE MARIA
NELLA VITA DELLA CHIESA IN CAMMINO

 

Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!

INTRODUZIONE

1. La Madre del Redentore ha un preciso posto nel piano della salvezza, perché, «quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, Padre» (Gal4,4). Con queste parole dell'apostolo Paolo, che il Concilio Vaticano II riprende all'inizio della trattazione sulla Beata Vergine Maria, desidero anch'io avviare la mia riflessione sul significato che ha Maria nel mistero di Cristo e sulla sua presenza attiva ed esemplare nella vita della Chiesa. Sono parole, infatti, che celebrano congiuntamente l'amore del Padre, la missione del Figlio, il dono dello Spirito, la donna da cui nacque il Redentore, la nostra filiazione divina, nel mistero della «pienezza del tempo». Questa pienezza definisce il momento fissato da tutta l'eternità, in cui il Padre mandò suo Figlio, «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv3,16). Essa denota il momento beato, in cui «il Verbo, che era presso Dio, ...si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv1,1), facendosi nostro fratello. Essa segna il momento, in cui lo Spirito Santo, che già aveva infuso la pienezza di grazia in Maria di Nazareth, plasmò nel suo grembo verginale la natura umana di Cristo. Essa indica il momento in cui, per l'ingresso dell'eterno nel tempo, il tempo stesso viene redento e, riempiendosi del mistero di Cristo, diviene definitivamente «tempo di salvezza». Essa, infine, designa l'inizio arcano del cammino della Chiesa. Nella liturgia, infatti, la Chiesa saluta Maria quale suo esordio, perché nell'evento della concezione immacolata vede proiettarsi, anticipata nel suo membro più nobile, la grazia salvatrice della Pasqua, e soprattutto perché nell'evento dell'incarnazione incontra indissolubilmente congiunti Cristo e Maria: colui che è suo Signore e suo capo e colei che, pronunciando il primo fiat della Nuova Alleanza, prefigura la sua condizione di sposa e di madre.

2. Confortata dalla presenza di Cristo (Mt28,20), la Chiesa cammina nel tempo verso la consumazione dei secoli e muove incontro al Signore che viene; ma in questo cammino - desidero rivelarlo subito - procede ricalcando l'itinerario compiuto dalla Vergine Maria, la quale «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio fino alla Croce». Riprendo queste parole tanto dense ed evocatrici della Costituzione Lumen Gentium, la quale nella parte conclusiva traccia una sintesi efficace della dottrina della Chiesa sul tema della Madre di Cristo, da essa venerata come sua madre amantissima e come sua figura nella fede, nella speranza e nella carità. Poco dopo il Concilio, il mio grande predecessore Paolo VI volle ancora parlare della Vergine Santissima, esponendo nell'Epistola Enciclica Christi Matri e poi nelle Esortazioni Apostoliche Signum magnum e Marialis cultus i fondamenti e i criteri di quella singolare venerazione che la Madre di Cristo riceve nella Chiesa, nonché le varie forme di devozione mariana - liturgiche, popolari, private - rispondenti allo spirito della fede.

3. La circostanza che ora mi spinge a riprendere questo argomento è la prospettiva dell'anno Duemila ormai vicino, nel quale il Giubileo bimillenario della nascita di Gesù Cristo orienta al tempo stesso il nostro sguardo verso la sua madre. In anni recenti si sono levate varie voci per prospettare l'opportunità di far precedere tale ricorrenza da un analogo Giubileo, dedicato alla celebrazione della nascita di Maria. In realtà, se non è possibile stabilire un preciso punto cronologico per fissare la data della nascita di Maria, è costante da parte della Chiesa la consapevolezza che Maria è apparsa prima di Cristo sull'orizzonte della storia della salvezza. È un fatto che, mentre si avvicinava definitivamente la «pienezza del tempo», cioè l'avvento salvifico dell'Emanuele, colei che dall'eternità era destinata ad esser sua madre esisteva già sulla terra. Questo suo «precedere» la venuta di Cristo trova ogni anno un riflesso nella liturgia dell'Avvento. Se dunque gli anni che ci avvicinano alla conclusione del secondo Millennio dopo Cristo e all'inizio del terzo, vengono rapportati a quell'antica attesa storica del Salvatore, diventa pienamente comprensibile che in questo periodo desideriamo rivolgerci in modo speciale a colei, che nella «notte» dell'attesa dell'Avvento cominciò a splendere come una vera «stella del mattino». Infatti, come questa stella insieme con l'«aurora» precede il sorgere del sole, cosi Maria fin dalla sua concezione immacolata ha preceduto la venuta del Salvatore, il sorgere del «sole di giustizia» nella storia del genere umano. La sua presenza in mezzo a Israele - così discreta da passare quasi inosservata agli occhi dei contemporanei - splendeva ben palese davanti all'Eterno, il quale aveva associato questa nascosta «figlia di Sion» (Sof 3,14); (Zc 2,14) al piano salvifico comprendente tutta la storia dell'umanità. A ragione dunque, al termine di questo Millennio, noi cristiani, che sappiamo come il piano provvidenziale della Santissima Trinità sia la realtà centrale della rivelazione e della fede, sentiamo il bisogno di mettere in rilievo la singolare presenza della Madre di Cristo nella storia, specialmente durante questi anni anteriori al Duemila.

4. A tanto ci prepara il Concilio Vaticano II, presentando nel suo magistero la Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa. Se infatti è vero che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo» - come proclama lo stesso Concilio -, bisogna applicare tale principio in modo particolarissimo a quella eccezionale «figlia della stirpe umana», a quella «donna» straordinaria che divenne Madre di Cristo. Solo nel mistero di Cristo si chiarisce pienamente il suo mistero. Così, del resto, sin dall'inizio ha cercato di leggerlo la Chiesa: il mistero dell'incarnazione le ha permesso di penetrare e di chiarire sempre meglio il mistero della Madre del Verbo incarnato. In questo approfondimento ebbe un'importanza decisiva il Concilio di Efeso (a. 431), durante il quale, con grande gioia dei cristiani, la verità sulla divina maternità di Maria fu confermata solennemente come verità di fede della Chiesa. Maria è la Madre di Dio (= Theotókos), poiché per opera dello Spirito Santo ha concepito nel suo grembo verginale e ha dato al mondo Gesù Cristo, il Figlio di Dio consostanziale al Padre. «Il Figlio di Dio..., nascendo da Maria Vergine, si è fatto veramente uno di noi», si è fatto uomo. Così dunque, mediante il mistero di Cristo, sull'orizzonte della fede della Chiesa risplende pienamente il mistero della sua Madre. A sua volta, il dogma della maternità divina di Maria fu per il Concilio Efesino ed è per la Chiesa come un suggello del dogma dell'incarnazione, nella quale il Verbo assume realmente nell'unità della sua persona la natura umana senza annullarla.

5. Presentando Maria nel mistero di Cristo, il Concilio Vaticano II trova anche la via per approfondire la conoscenza del mistero della Chiesa. Come Madre di Cristo, infatti, Maria è unita in modo speciale alla Chiesa, «che il Signore ha costituito come suo corpo». Il testo conciliare avvicina significativamente questa verità sulla Chiesa come corpo di Cristo (secondo l'insegnamento delle Lettere paoline) alla verità che il Figlio di Dio «per opera dello Spirito Santo nacque da Maria Vergine». La realtà dell'incarnazione trova quasi un prolungamento nel mistero della Chiesa-corpo di Cristo. E non si può pensare alla stessa realtà dell'incarnazione senza riferirsi a Maria - Madre del Verbo incarnato. Nelle presenti riflessioni, tuttavia, mi riferisco soprattutto a quella «peregrinazione della fede», nella quale «la Beata Vergine avanzò», serbando fedelmente la sua unione con Cristo. In questo modo quel duplice legame, che unisce la Madre di Dio al Cristo e alla Chiesa, acquista un significato storico. Né si tratta soltanto della storia della Vergine Madre, del suo personale itinerario di fede e della «parte migliore», che ella ha nel mistero della salvezza, ma anche della storia di tutto il popolo di Dio, di tutti coloro che prendono parte alla stessa peregrinazione della fede. Questo esprime il Concilio constatando in un altro passo che Maria «ha preceduto», diventando «figura della Chiesa... nell'ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo». Questo suo «precedere» come figura, o modello, si riferisce allo stesso mistero intimo della Chiesa, la quale adempie la propria missione salvifica unendo in sé - come Maria - le qualità di madre e di vergine. È vergine che «custodisce integra e pura la fede data allo Sposo» e che «diventa essa pure madre, poiché ...genera ad una vita nuova e immortale i figli, concepiti per opera dello Spirito Santo e nati da Dio».

6. Tutto ciò si compie in un grande processo storico e, per così dire, «in un cammino». La peregrinazione della fede indica la storia interiore, come a dire la storia delle anime. Ma questa è anche la storia degli uomini, soggetti su questa terra alla transitorietà, compresi nella dimensione storica. Nelle seguenti riflessioni desideriamo concentrarci prima di tutto sulla fase presente, che di per sé non è ancora storia, e tuttavia incessantemente la plasma, anche nel senso di storia della salvezza. Qui si schiude un ampio spazio, all'interno del quale la beata Vergine Maria continua a «precedere» il popolo di Dio. La sua eccezionale peregrinazione della fede rappresenta un costante punto di riferimento per la Chiesa, per i singoli e le comunità, per i popoli e le nazioni, in un certo senso per l'umanità intera. È davvero difficile abbracciare e misurare il suo raggio. Il Concilio sottolinea che la Madre di Dio è ormai il compimento escatologico della Chiesa: «La Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione, con la quale è senza macchia e senza ruga (Ef 5,27) » - contemporaneamente che «i fedeli si sforzano ancora di crescere nella santità, debellando il peccato; e per questo innalzano i loro occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti». La peregrinazione della fede non appartiene più alla Genitrice del Figlio di Dio: glorificata accanto al Figlio nei cieli, Maria ha ormai superato la soglia tra la fede e la visione «a faccia a faccia» (1Cor13,12). Al tempo stesso, però, in questo compimento escatologico, Maria non cessa di essere la «stella del mare» (Maris Stella) per tutti coloro che ancora percorrono il cammino della fede. Se essi alzano gli occhi verso di lei nei diversi luoghi dell'esistenza terrena, lo fanno perché ella «diede ...alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra molti fratelli (Rm8,29)», ed anche perché «alla rigenerazione e formazione» di questi fratelli e sorelle «coopera con amore di madre».

PARTE I

MARIA NEL MISTERO DI CRISTO

1. Piena di grazia

7. «Benedetto sia Dio, padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (Ef1,3). Queste parole della Lettera agli Efesini rivelano l'eterno disegno di Dio Padre, il suo piano di salvezza dell'uomo in Cristo. E un piano universale, che riguarda tutti gli uomini creati a immagine e somiglianza di Dio (Gn1,26). Tutti, come son compresi «all'inizio» nell'opera creatrice di Dio, così sono anche eternamente compresi nel piano divino della salvezza, che si deve rivelare fino in fondo, nella «pienezza del tempo», con la venuta di Cristo. Difatti, quel Dio, che è «Padre del Signore nostro Gesù Cristo»,- sono le parole successive della medesima Lettera - «in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,4). Il piano divino della salvezza, che ci è stato pienamente rivelato con la venuta di Cristo, è eterno. Esso è anche - secondo l'insegnamento contenuto in quella Lettera e in altre Lettere paoline eternamente legato a Cristo. Esso comprende tutti gli uomini, ma riserva un posto singolare alla «donna» che è la Madre di colui, al quale il Padre ha affidato l'opera della salvezza. Come scrive il Concilio Vaticano II, «ella viene già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in peccato» - secondo il Libro della Genesi (Gn3,15); «parimenti, questa è la Vergine che concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emanuele» - secondo le parole di Isaia (Is7,14). In tal modo l'Antico Testamento prepara quella «pienezza del tempo», in cui Dio «mandò suo Figlio, nato da donna, ... perché ricevessimo l'adozione a figli». La venuta al mondo del Figlio di Dio è l'evento narrato nei primi capitoli dei Vangeli secondo Luca e secondo Matteo.

8. Maria viene definitivamente introdotta nel mistero di Cristo mediante questo evento: l'annunciazione dell'angelo. Esso si verifica a Nazareth, in precise circostanze della storia d'Israele, il popolo primo destinatario delle promesse di Dio. Il messaggero divino dice alla Vergine: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc1,28). Maria «rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» (Lc1,29): che cosa significassero quelle straordinarie parole e, in particolare, l'espressione «piena di grazia» (kecharitoméne). Se vogliamo meditare insieme a Maria su queste parole e, specialmente, sull'espressione «piena di grazia», possiamo trovare un significativo riscontro proprio nel passo sopra citato della Lettera agli Efesini E se dopo l'annuncio del celeste messaggero la Vergine di Nazareth è anche chiamata «la benedetta fra le donne» (Lc1,42), ciò si spiega a causa di quella benedizione di cui «Dio Padre» ci ha colmati «nei cieli, in Cristo». È una benedizione spirituale, che si riferisce a tutti gli uomini e porta in sé la pienezza e l'universalità («ogni benedizione»), quale scaturisce dall'amore che, nello Spirito Santo, unisce al Padre il Figlio consostanziale. Nello stesso tempo, è una benedizione riversata per opera di Gesù Cristo nella storia umana sino alla fine: su tutti gli uomini. A Maria, però, questa benedizione si riferisce in misura speciale ed eccezionale: è stata, infatti, salutata da Elisabetta come «la benedetta fra le donne». La ragione del duplice saluto, dunque, è che nell'anima di questa «figlia di Sion» si è manifestata, in un certo senso, tutta la «gloria della grazia», quella che «il Padre... ci ha dato nel suo Figlio diletto». Il messaggero saluta, infatti, Maria come «piena di grazia»: la chiama così, come se fosse questo il suo vero nome. Non chiama la sua interlocutrice col nome che le è proprio all'anagrafe terrena: Miryam (= Maria), ma con questo nome nuovo: « piena di grazia». Che cosa significa questo nome? Perché l'arcangelo chiama così la Vergine di Nazareth? Nel linguaggio della Bibbia «grazia» significa un dono speciale, che secondo il Nuovo Testamento ha la sua sorgente nella vita trinitaria di Dio stesso, di Dio che è amore (1 Gv 4,8). Frutto di questo amore è l'elezione--quella di cui parla la Lettera agli Efesini Da parte di Dio questa elezione è l'eterna volontà di salvare l'uomo mediante la partecipazione alla sua stessa vita (2 Pt 1,4) in Cristo: è la salvezza nella partecipazione alla vita soprannaturale. L'effetto di questo dono eterno, di questa grazia dell'elezione dell'uomo da parte di Dio è come un germe di santità, o come una sorgente che zampilla nell'anima come dono di Dio stesso, che mediante la grazia vivifica e santifica gli eletti. In questo modo si compie, cioè diventa realtà, quella benedizione dell'uomo «con ogni benedizione spirituale», quell'«essere suoi figli adottivi... in Cristo», ossia in colui che è eternamente il «Figlio diletto» del Padre. Quando leggiamo che il messaggero dice a Maria «piena di grazia», il contesto evangelico, in cui con fluiscono rivelazioni e promesse antiche, ci lascia capire che qui si tratta di una benedizione singolare tra tutte le «benedizioni spirituali in Cristo». Nel mistero di Cristo ella è presente già «prima della creazione del mondo», come colei che il Padre «ha scelto» come Madre del suo Figlio nell'incarnazione--ed insieme al Padre l'ha scelta il Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità. Maria è in modo del tutto speciale ed eccezionale unita a Cristo, e parimenti è amata in questo Figlio diletto eternamente, in questo Figlio consostanziale al Padre, nel quale si concentra tutta «la gloria della grazia». Nello stesso tempo, ella è e rimane aperta perfettamente verso questo «dono dall'alto» (Gc 1,17). Come insegna il Concilio, Maria «primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza».

9. Se il saluto e il nome «piena di grazia» dicono tutto questo, nel contesto dell'annunciazione dell'angelo essi si riferiscono, prima di tutto, all'elezione di Maria come Madre del Figlio di Dio. Ma, nello stesso tempo, la pienezza di grazia indica tutta l'elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo. Se questa elezione è fondamentale per il compimento dei disegni salvifici di Dio nei riguardi dell'umanità; se la scelta eterna in Cristo e la destinazione alla dignità di figli adottivi riguardano tutti gli uomini, l'elezione di Maria è del tutto eccezionale ed unica. Di qui anche la singolarità e unicità del suo posto nel mistero di Cristo.

Il messaggero divino le dice: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo» (Lc 1,30). E quando, turbata da questo saluto straordinario, la Vergine domanda: «Come avverrà questo? Non conosco uomo», riceve dall'angelo la conferma e la spiegazione delle precedenti parole. Gabriele le dice: «Lo Spirito Santo scenderà su di te; su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo.

Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). L'annunciazione, pertanto, è la rivelazione del mistero dell'incarnazione all'inizio stesso del suo compimento sulla terra. La donazione salvifica che Dio fa di sé e della sua vita in qualche modo a tutta la creazione, e direttamente all'uomo, raggiunge nel mistero dell'incarnazione uno dei vertici Questo, infatti, è un vertice tra tutte le donazioni di grazia nella storia dell'uomo e del cosmo. Maria è «piena di grazia», perché l'incarnazione del Verbo, l'unione ipostatica del Figlio di Dio con la natura umana, si realizza e compie proprio in lei.

Come afferma il Concilio, Maria è «Madre del Figlio di Dio, e perciò figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per tale dono di grazia esimia precede di gran lunga tutte le altre creature, celesti e terrestri».

10. La Lettera agli Efesini parlando della «gloria della grazia» che «Dio, Padre ci ha dato nel suo Figlio diletto», aggiunge: «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue» (Ef 1,7). Secondo la dottrina, formulata in solenni documenti della Chiesa, questa «gloria della grazia» si è manifestata nella Madre di Dio per il fatto che ella è stata «redenta in modo più sublime». In virtù della ricchezza della grazia del Figlio diletto, a motivo dei meriti redentivi di colui che doveva diventare suo Figlio, Maria è stata preservata dal retaggio del peccato originale. In questo modo sin dal primo istante del suo concepimento, cioè della sua esistenza, ella appartiene a Cristo, partecipa della grazia salvifica e santificante e di quell'amore che ha il suo inizio nel «Diletto», nel Figlio dell'eterno Padre, che mediante l'incarnazione è divenuto il suo proprio Figlio. Perciò, per opera dello Spirito Santo, nell'ordine della grazia, cioè della partecipazione alla natura divina, Maria riceve la vita da colui al quale ella stessa, nell'ordine della generazione terrena, diede la vita come madre. La liturgia non esita a chiamarla «genitrice del suo Genitore» e a salutarla con le parole che Dante Alighieri pone in bocca a san Bernardo: «figlia del tuo Figlio». E poiché questa «vita nuova» Maria la riceve in una pienezza corrispondente all'amore del Figlio verso la Madre, e dunque alla dignità della maternità divina, l'angelo all'annunciazione la chiama «piena di grazia».

11. Nel disegno salvifico della Santissima Trinità il mistero dell'incarnazione costituisce il compimento sovrabbondante della promessa fatta da Dio agli uomini, dopo il peccato originale, dopo quel primo peccato i cui effetti gravano su tutta la storia dell'uomo sulla terra (Gn 3,15). Ecco, viene al mondo un Figlio, la «stirpe della donna», che sconfiggerà il male del peccato alle sue stesse radici: «Schiaccerà la testa del serpente». Come risulta dalle parole del protoevangelo, la vittoria del Figlio della donna non avverrà senza una dura lotta, che deve attraversare tutta la storia umana. «L'inimicizia», annunciata all'inizio, viene confermata nell'Apocalisse, il libro delle realtà ultime della Chiesa e del mondo, dove torna di nuovo il segno della «donna», questa volta «vestita di sole» (Ap 12,1). Maria, Madre del Verbo incarnato, viene collocata al centro stesso di quella inimicizia, di quella lotta che accompagna la storia dell'umanità sulla terra e la storia stessa della salvezza. In questo posto ella, che appartiene agli «umili e poveri del Signore», porta in sé, come nessun altro tra gli esseri umani, quella «gloria della grazia» che il Padre «ci ha dato nel suo Figlio diletto», e questa grazia determina la straordinaria grandezza e bellezza di tutto il suo essere. Maria rimane così davanti a Dio, ed anche davanti a tutta l'umanità, come il segno immutabile ed inviolabile dell'elezione da parte di Dio, di cui parla la Lettera paolina: «In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo, ... predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (Ef1,4).

Questa elezione è più potente di ogni esperienza del male e del peccato, di tutta quella «inimicizia», da cui è segnata la storia dell'uomo. In questa storia Maria rimane un segno di sicura speranza.

2. Beata colei che ha creduto

12. Subito dopo la narrazione dell'annunciazione, l'evangelista Luca ci guida dietro i passi della Vergine di Nazareth verso «una città di Giuda» (Lc1,39). Secondo gli studiosi questa città dovrebbe essere l'odierna Ain-Karim, situata tra le montagne, non lontano da Gerusalemme. Maria vi giunse «in fretta», per far visita ad Elisabetta, sua parente. Il motivo della visita va cercato anche nel fatto che durante l'annunciazione Gabriele aveva nominato in modo significativo Elisabetta che in età avanzata aveva concepito dal marito Zaccaria un figlio, per la potenza di Dio: «Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio, e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,36). Il messaggero divino si era richiamato all'evento compiutosi in Elisabetta, per rispondere alla domanda di Maria: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Ecco, questo avverrà proprio per la «potenza dell'Altissimo», come e ancor più che nel caso di Elisabetta. Maria dunque, sollecitata dalla carità, si reca nella casa della sua parente. Quando vi entra, Elisabetta, nel rispondere al suo saluto, sentendo sussultare il bambino nel proprio grembo, «piena di Spirito Santo», a sua volta saluta Maria a gran voce: «Benedetta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,40). Questa esclamazione o acclamazione di Elisabetta sarebbe poi entrata nell'Ave Maria, come continuazione del saluto dell'angelo, divenendo così una delle più frequenti preghiere della Chiesa. Ma ancor più significative sono le parole di Elisabetta nella domanda che segue: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Lc 1,43). Elisabetta rende testimonianza a Maria: riconosce e proclama che davanti a lei sta la Madre del Signore, la Madre del Messia. A questa testimonianza partecipa anche il figlio che Elisabetta porta in seno: «Il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44).

Il bambino è il futuro Giovanni Battista, che sul Giordano indicherà in Gesù il Messia. Nel saluto di Elisabetta ogni parola è densa di significato e, tuttavia, ciò che si dice alla fine sembra esser di fondamentale importanza: «E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole si possono affiancare all'appellativo «piena di grazia» del saluto dell'angelo.

In entrambi i testi si rivela un essenziale contenuto mariologico, cioè la verità su Maria, che è diventata realmente presente nel mistero di Cristo proprio perché «ha creduto». La pienezza di grazia, annunciata dall'angelo, significa il dono di Dio stesso; la fede di Maria, proclamata da Elisabetta nella visitazione, indica come la Vergine di Nazareth abbia risposto a questo dono.

13. «A Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede" (Rm 16,26); (Rm 1,5); (2 Cor 10,5), per la quale l'uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente», come insegna il Concilio. Questa descrizione della fede trovò una perfetta attuazione in Maria. Il momento «decisivo» fu l'annunciazione, e le stesse parole di Elisabetta: «E beata colei che ha creduto» si riferiscono in primo luogo proprio a questo momento. Nell'annunciazione, infatti, Maria si è abbandonata a Dio completamente, manifestando «l'obbedienza della fede» a colui che le parlava mediante il suo messaggero e prestando «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà». Ha risposto, dunque, con tutto il suo «io» umano, femminile, ed in tale risposta di fede erano contenute una perfetta cooperazione con «la grazia di Dio che previene e soccorre» ed una perfetta disponibilità all'azione dello Spirito Santo, il quale «perfeziona continuamente la fede mediante i suoi doni». La parola del Dio vivo, annunciata a Maria dall'angelo, si riferiva a lei stessa: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce» (Lc 1,31). Accogliendo questo annuncio, Maria sarebbe diventata la «Madre del Signore» ed in lei si sarebbe compiuto il divino mistero dell'incarnazione: «Volle il Padre delle misericordie che l'accettazione della predestinata madre precedesse l'incarnazione». E Maria dà questo consenso, dopo aver udito tutte le parole del messaggero. Dice: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Questo fiat di Maria - «avvenga di me» - ha deciso dal lato umano il compimento del mistero divino. C'è una piena consonanza con le parole del Figlio, che secondo la Lettera agli Ebrei entrando nel mondo, dice al Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb10,5). Il mistero dell'incarnazione si è compiuto quando Maria ha pronunciato il suo fiat «Avvenga di me quello che hai detto», rendendo possibile, per quanto spettava a lei nel disegno divino l'esaudimento del voto di suo Figlio. Maria ha pronunciato questo fiat mediante la fede. Mediante la fede si è abbandonata a Dio senza riserva ed «ha consacrato totalmente se stessa, quale ancella del Signore, alla persona e all'opera del Figlio suo» E questo figlio - come insegnano i Padri - l'ha concepito prima nella mente che nel grembo: proprio mediante la fede! Giustamente, dunque, Elisabetta loda Maria: «E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore». Queste parole si sono già compiute: Maria di Nazareth si presenta sulla soglia della casa di Elisabetta e di Zaccaria come Madre de Figlio di Dio. È la scoperta gioiosa di Elisabetta: «La madre del mio Signore viene a me»!

14. Pertanto, anche la fede di Maria può essere paragonata a quella di Abramo, chiamato dall'Apostolo «i nostro padre nella fede» (Rm4,12). Nell'economia salvifica della rivelazione divina la fede di Abramo costituisce l'inizio dell'Antica Alleanza; la fede di Maria nell'annunciazione dà inizio alla Nuova Alleanza. Come Abramo «ebbe fede sperando contro ogni speranza che sarebbe diventato padre di molti popoli» (Rm4,18), così Maria, al momento dell'annunciazione, do po aver indicato la sua condizione di vergine («Come avverrà questo? Non conosco uomo»), credette che per la potenza dell'Altissimo, per opera dello Spirito Santo, sarebbe diventata la Madre del Figlio di Dio secondo la rivelazione dell'angelo:. «Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc1,35). Tuttavia le parole di Elisabetta: «E beata colei che ha creduto» non si applicano solo a quel particolare momento dell'annunciazione. Certamente questa rappresenta il momento culminante della fede di Maria in attesa di Cristo, ma è anche il punto di partenza, da cui inizia tutto il suo «itinerario verso Dio», tutto il suo cammino di fede. E su questa via, in modo eminente e davvero eroico - anzi con un sempre maggiore eroismo di fede - si attuerà l'«obbedienza» da lei professata alla parola della divina rivelazione. E questa «obbedienza della fede» da parte di Maria durante tutto il suo cammino avrà sorprendenti analogie con la fede di Abramo. Come il patriarca del popolo di Dio, così anche Maria, lungo il cammino del suo fiat filiale e materno, «ebbe fede sperando contro ogni speranza». Specialmente lungo alcune tappe di questa via la benedizione concessa a «colei che ha creduto», si rivelerà con particolare evidenza. Credere vuol dire «abbandonarsi» alla verità stessa della parola del Dio vivo, sapendo e riconoscendo umilmente «quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie» (Rm 11,33). Maria, che per l'eterna volontà dell'Altissimo si è trovata, si può dire, al centro stesso di quelle «inaccessibili vie» e di quegli «imperscrutabili giudizi» di Dio, vi si conforma nella penombra della fede, accettando pienamente e con cuore aperto tutto ciò che è disposto nel disegno divino.

15. Quando nell'annunciazione sente parlare del Figlio, di cui deve diventare genitrice, ed al quale «darà il nome Gesù» (= Salvatore), Maria viene anche a conoscere che a lui «il Signore darà il trono di Davide suo padre» e che «regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine» (Lc1,32). In questo senso si volgeva la speranza di tutto Israele. Il Messia promesso deve essere «grande», e anche il messaggero celeste annuncia che «sarà grande» - grande sia per il nome di Figlio dell'Altissimo sia per l'assunzione dell'eredità di Davide. Deve dunque essere re, deve regnare «sulla casa di Giacobbe». Maria è cresciuta in mezzo a queste attese del suo popolo: poteva intuire, al momento dell'annunciazione, quale essenziale significato avessero le parole dell'angelo? E come occorre intendere quel «regno», che «non avrà fine»? Benché mediante la fede ella si sia sentita in quell'istante madre del «Messia-re», tuttavia ha risposto: «Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc1,38). Sin dal primo momento Maria ha professato soprattutto l'«obbedienza della fede», abbandonandosi a quel significato che dava alle parole dell'annunciazione colui dal quale provenivano: Dio stesso.

16. Sempre lungo questa via dell'«obbedienza della fede» Maria ode poco più tardi altre parole: quelle pronunciate da Simeone al tempio di Gerusalemme. Si era già al quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, quando, secondo la prescrizione della Legge di Mosè, Maria e Giuseppe «portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore» (Lc2,22). La nascita era avvenuta in condizioni di estrema povertà. Sappiamo, infatti, da Luca che, quando in occasione del censimento della popolazione, ordinato dalle autorità romane, Maria si recò con Giuseppe a Betlemme, non avendo trovato «posto nell'albergo», diede alla luce il suo Figlio in una stalla e «lo depose in una mangiatoia» (Lc2,7). Un uomo giusto e timorato di Dio, di nome Simeone, appare in quell'inizio dell'«itinerario» della fede di Maria. Le sue parole, suggerite dallo Spirito Santo (Lc2,25), confermano la verità dell'annunciazione. Leggiamo, infatti, che egli «prese tra le braccia» il bambino, al quale - secondo il comando dell'angelo - era stato messo nome Gesù (Lc2,21). Il discorso di Simeone è conforme al significato di questo nome, che vuol dire Salvatore: «Dio è la salvezza». Rivolto al Signore, egli dice così: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Lc2,30). Contemporaneamente però, Simeone si rivolge a Maria con le seguenti parole: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori»; ed aggiunge con diretto riferimento a Maria: «E anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc2,34). Le parole di Simeone mettono in una luce nuova l'annuncio che Maria ha udito dall'angelo: Gesù è il Salvatore, è «luce per illuminare» gli uomini. Non è quel che si è manifestato, in certo modo, nella notte del Natale, quando sono venuti nella stalla i pastori? (Lc2,8). Non è quel che doveva manifestarsi ancor più nella venuta dei Magi dall'Oriente? (Mt2,1). Nello stesso tempo, però, già all'inizio della sua vita, il Figlio di Maria, e con lui sua madre, sperimenteranno in se stessi la verità delle altre parole di Simeone: «Segno di contraddizione» (Lc2,34). Quello di Simeone appare come un secondo annuncio a Maria, poiché le indica la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell'incomprensione e nel dolore. Se un tale annuncio, da una parte, conferma la sua fede nell'adempimento delle divine promesse della salvezza, dall'altra le rivela anche che dovrà vivere la sua obbedienza di fede nella sofferenza a fianco del Salvatore sofferente, e che la sua maternità sarà oscura e dolorosa. Ecco, infatti, dopo la visita dei Magi, dopo il loro omaggio («prostratisi lo adorarono»), dopo l'offerta dei doni (Mt2,11), Maria, insieme al bambino, deve fuggire in Egitto sotto la premurosa protezione di Giuseppe, perché «Erode stava cercando il bambino per ucciderlo» (Mt2,13). E fino alla morte di Erode dovranno rimanere in Egitto (Mt2,15).

17. Dopo la morte di Erode, quando la sacra famiglia fa ritorno a Nazareth, inizia il lungo periodo della vita nascosta. Colei che «ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc1,45) vive ogni giorno il contenuto di queste parole. Quotidianamente accanto a lei è il Figlio, a cui ha dato nome Gesù; dunque. Certamente nel contatto con lui ella usa questo nome, che del resto non poteva destare meraviglia in nessuno, essendo in uso da molto tempo in Israele. Tuttavia, Maria sa che colui che porta il nome Gesù è stato chiamato dall'angelo «Figlio dell'Altissimo» (Lc1,32). Maria sa di averlo concepito e dato alla luce «non conoscendo uomo», per opera dello Spirito Santo, con la potenza dell'Altissimo che ha steso la sua ombra su di lei (Lc1,35), così come ai tempi di Mosè e dei padri la nube velava la presenza di Dio (Es24,16); (Es40,34); (1Re8,10). Dunque, Maria sa che il Figlio, da lei dato alla luce verginalmente, è proprio quel «santo», «il Figlio di Dio», di cui le ha parlato l'angelo.

Durante gli anni della vita nascosta di Gesù nella casa di Nazareth, anche la vita di Maria è «nascosta con Cristo in Dio» (Col3,3) mediante la fede. La fede, infatti, è un contatto col mistero di Dio. Maria costantemente, quotidianamente è in contatto con l'ineffabile mistero di Dio che si è fatto uomo, mistero che supera tutto ciò che è stato rivelato nell'Antica Alleanza. Sin dal momento dell'annunciazione, la mente della Vergine-Madre è stata introdotta nella radicale «novità» dell'autorivelazione di Dio e resa consapevole del mistero. Ella è la prima di quei «piccoli», dei quali Gesù dirà un giorno: «Padre, ... hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt11,25). Infatti, «nessuno conosce il Figlio se non il Padre» (Mt11,27). Come può dunque «conoscere il Figlio» Maria? Certamente, non lo conosce come il Padre; eppure, è la prima tra coloro ai quali il Padre «l'ha voluto rivelare» (Mt11,26); (1Cor2,11). Se però sin dal momento dell'annunciazione le è stato rivelato il Figlio, che solo il Padre conosce completamente, come colui che lo genera nell'eterno «oggi» (Sal2,7), Maria, la Madre, è in contatto con la verità del suo Figlio solo nella fede mediante la fede! È dunque beata, perché «ha creduto», e crede ogni giorno tra tutte le prove e contrarietà del periodo dell'infanzia di Gesù e poi durante gli anni della vita nascosta a Nazareth, dove egli «stava loro sottomesso» (Lc2,51): sottomesso a Maria e anche a Giuseppe, perché questi faceva le veci del padre davanti agli uomini; onde lo stesso figlio di Maria era ritenuto dalla gente «il figlio del carpentiere» (Mt13,55). La madre di quel Figlio, dunque, memore di quanto le è stato detto nell'annunciazione e negli avvenimenti successivi, porta in sé la radicale «novità» della fede: l'inizio della Nuova Alleanza. È questo l'inizio del Vangelo, ossia della buona, lieta novella. Non è difficile, però, notare in questo inizio una particolare fatica del cuore, unita a una sorta di «notte della fede» - per usare le parole di san Giovanni della Croce -, quasi un «velo» attraverso il quale bisogna accostarsi all'Invisibile e vivere nell'intimità col mistero. È infatti in questo modo che Maria, per molti anni, rimase nell'intimità col mistero del suo Figlio, e avanzava nel suo itinerario di fede, man mano che Gesù «cresceva in sapienza... e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc2,52). Sempre di più si manifestava agli occhi degli uomini la predilezione che Dio aveva per lui. La prima tra queste creature umane ammesse alla scoperta di Cristo era Maria, che con Giuseppe viveva nella stessa casa a Nazareth. Tuttavia, quando, dopo il ritrovamento nel tempio, alla domanda della madre: «Perché ci hai fatto così?», il dodicenne Gesù rispose: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?», l'evangelista aggiunge: «Ma essi (Giuseppe e Maria) non compresero le sue parole» (Lc2,48). Dunque, Gesù aveva la consapevolezza che «solo il Padre conosce il Figlio» (Mt11,27), tanto che persino colei, alla quale era stato rivelato più a fondo il mistero della filiazione divina, la madre, viveva nell'intimità con questo mistero solo mediante la fede! Trovandosi a fianco del Figlio, sotto lo stesso tetto e «serbando fedelmente la sua unione col Figlio», ella «avanzava nella peregrinazione della fede», come sottolinea il Concilio. E così fu anche durante la vita pubblica di Cristo (Mc3,21) onde di giorno in giorno si adempiva in lei la benedizione pronunciata da Elisabetta nella visitazione: «Beata colei che ha creduto».

18. Tale benedizione raggiunge la pienezza del suo significato, quando Maria sta sotto la Croce di suo Figlio (Gv19,25). Il Concilio afferma che ciò avvenne «non senza un disegno divino»: «Soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da lei generata», in questo modo Maria «serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce»: l'unione mediante la fede, la stessa fede con la quale aveva accolto la rivelazione dell'angelo al momento dell'annunciazione. Allora si era anche sentita dire: «Sarà grande..., il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre..., regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32). Ed ecco, stando ai piedi della Croce, Maria è testimone, umanamente parlando, della completa smentita di queste parole. Il suo Figlio agonizza su quel legno come un condannato. «Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori...; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima»: quasi distrutto (Is53,3). Quanto grande, quanto eroica è allora l'obbedienza della fede dimostrata da Maria di fronte agli «imperscrutabili giudizi» di Dio! Come «si abbandona a Dio» senza riserve, «prestando il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» a colui, le cui «vie sono inaccessibili» (Rm11,33). Ed insieme quanto potente è l'azione della grazia nella sua anima, come penetrante è l'influsso dello Spirito Santo, della sua luce e della sua virtù! Mediante questa fede Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione. Infatti, «Gesù Cristo, ... pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini»: proprio sul Golgota «umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil2,5). Ai piedi della Croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda «kenosi» della fede nella storia dell'umanità. Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata. Sul Golgota Gesù mediante la Croce ha confermato definitivamente di essere il «segno di contraddizione», predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: «E anche a te una spada trafiggerà l'anima».

19. Sì, veramente «beata colei che ha creduto»! Queste parole, pronunciate da Elisabetta dopo l'annunciazione, qui, ai piedi della Croce, sembrano echeggiare con suprema eloquenza, e la potenza in esse racchiusa diventa penetrante. Dalla Croce, come a dire dal cuore stesso del mistero della redenzione, si estende il raggio e si dilata la prospettiva di quella benedizione di fede. Essa risale «fino all'inizio» e, come partecipazione al sacrificio di Cristo, nuovo Adamo, diventa, in certo senso, il contrappeso della disobbedienza e dell'incredulità, presenti nel peccato dei progenitori. Così insegnano i Padri della Chiesa e specialmente sant'Ireneo, citato dalla costituzione Lumen Gentium: «Il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l'obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità la vergine Maria sciolse con la fede». Alla luce di questo paragone con Eva i Padri - come ricorda ancora il Concilio--chiamano Maria «madre dei viventi» e affermano spesso: «La morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria». A ragione, dunque, nell'espressione «Beata colei che ha creduto» possiamo trovare quasi una chiave che ci schiude l'intima realtà di Maria: di colei che l'angelo ha salutato come «piena di grazia». Se come «piena di grazia» ella è stata eternamente presente nel mistero di Cristo, mediante la fede ne divenne partecipe in tutta l'estensione del suo itinerario terreno: «avanzò nella peregrinazione della fede», ed al tempo stesso, in modo discreto ma diretto ed efficace, rendeva presente agli uomini il mistero di Cristo. E ancora continua a farlo. E mediante il mistero di Cristo anch'ella è presente tra gli uomini. Così mediante il mistero del Figlio si chiarisce anche il mistero della Madre.

3. Ecco la tua madre

20. Il vangelo di Luca registra il momento in cui «una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse», rivolgendosi a Gesù: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!» (Lc11,27). Queste parole costituivano una lode per Maria come Madre di Gesù secondo la carne. La Madre di Gesù non era forse conosciuta personalmente da questa donna; infatti, quando Gesù iniziò la sua attività messianica, Maria non lo accompagnava e continuava a rimanere a Nazareth. Si direbbe che le parole di quella donna sconosciuta l'abbiano fatta in qualche modo uscire dal suo nascondimento. Attraverso quelle parole è balenato in mezzo alla folla, almeno per un attimo, il vangelo dell'infanzia di Gesù. È il vangelo in cui Maria è presente come la madre che concepisce Gesù nel suo grembo, lo dà alla luce e lo allatta maternamente: la madre-nutrice, a cui allude quella donna del popolo. Grazie a questa maternità, Gesù - Figlio dell'Altissimo (Lc1,32) - è un vero figlio dell'uomo. È «carne», come ogni uomo: è «il Verbo (che) si fece carne» (Gv1,14). È carne e sangue di Maria! Ma alla benedizione, proclamata da quella donna nei confronti della sua genitrice secondo la carne, Gesù risponde in modo significativo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc11,28). Egli vuole distogliere l'attenzione dalla maternità intesa solo come un legame della carne, per orientarla verso quei misteriosi legami dello spirito, che si formano nell'ascolto e nell'osservanza della parola di Dio. Lo stesso trasferimento nella sfera dei valori spirituali si delinea ancor più chiaramente in un'altra risposta di Gesù, riportata da tutti i Sinottici. Quando viene annunciato a Gesù che «sua madre e i suoi fratelli sono fuori e desiderano vederlo», egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc8,20). Questo disse «girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno», come leggiamo in Marco (Mc3,34) o, secondo Matteo (Mt12,49), «stendendo la mano verso i suoi discepoli». Queste espressioni sembrano collocarsi sulla scia quel che Gesù dodicenne rispose a Maria e a Giuseppe, quando fu ritrovato dopo tre giorni nel tempio di Gerusalemme. Ora, quando Gesù partì da Nazareth e diede inizio alla sua vita pubblica in tutta la Palestina, era ormai completamente ed esclusivamente «occupato nelle cose del Padre» (Lc2,49). Egli annunciava il Regno: «Regno di Dio» e «cose del Padre», che danno anche un; nuova dimensione e un nuovo senso a tutto ciò che è umano e, quindi, ad ogni legame umano, in relazione ai fini e ai compiti assegnati a ogni uomo. In questa nuova dimensione anche un legame, come quello della «fratellanza», significa qualcosa di diverso dalla «fratellanza secondo la carne», derivante dalla comune origine dagli stessi genitori. E persino la «maternità», nella dimensione del Regno di Dio, nel raggio della paternità d Dio stesso, acquista un altro senso. Con le parole riportate da Luca Gesù insegna proprio questo nuovo senso della maternità. Si allontana per questo da colei che è stata la sua genitrice secondo la carne? Vuole forse lasciarla nel l'ombra del nascondimento, che ella stessa ha scelto' Se così può sembrare in base al suono di quelle parole si deve però rilevare che la nuova e diversa maternità di cui parla Gesù ai suoi discepoli, concerne proprio Maria in modo specialissimo. Non è forse Maria la prima tra «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»? E dunque non riguarda soprattutto le quella benedizione pronunciata da Gesù in risposta alle parole della donna anonima? Senza dubbio, Maria è degna di benedizione per il fatto che è divenuta Madre di Gesù secondo la carne («Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte»), ma anche e soprattutto perché già al momento dell'annunciazione ha accolto la parola di Dio, perché vi ha creduto, perché fu obbediente a Dio, perché «serbava» la parola e «la meditava nel suo cuore» (Lc1,45); (Lc2,19) e con tutta la sua vita l'adempiva. Possiamo dunque affermare che la beatitudine proclamata da Gesù non si contrappone, nonostante le apparenze, a quella formulata dalla donna sconosciuta, ma con essa viene a coincidere nella persona di questa Madre-Vergine, che si è chiamata solo «serva del Signore» (Lc1,38). Se è vero che «tutte le generazioni la chiameranno beata» (Lc1,48), si può dire che quell'anonima donna sia stata la prima a confermare inconsapevolmente quel versetto profetico del Magnificat di Maria e a dare inizio al Magnificat dei secoli. Se mediante la fede Maria è divenuta la genitrice del Figlio datole dal Padre nella potenza dello Spirito Santo, conservando integra la sua verginità, nella stessa fede ella ha scoperto ed accolto l'altra dimensione della maternità, rivelata da Gesù durante la sua missione messianica. Si può dire che questa dimensione della maternità apparteneva a Maria sin dall'inizio, cioè dal momento del concepimento e della nascita del Figlio. Fin da allora era «colei che ha creduto». Ma a mano a mano che si chiariva ai suoi occhi e nel suo spirito la missione del Figlio, ella stessa come Madre si apriva sempre più a quella «novità» della maternità, che doveva costituire la sua «parte» accanto al Figlio. Non aveva dichiarato fin dall'inizio: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc1,38)? Mediante la fede Maria continuava ad udire ed a meditare quella parola, nella quale si faceva sempre più trasparente, in un modo «che sorpassa ogni conoscenza» (Ef3,19), l'autorivelazione del Dio vivo. Maria madre diventava così, in un certo senso, la prima «discepola» di suo Figlio, la prima alla quale egli sembrava dire: «Seguimi», ancor prima di rivolgere questa chiamata agli apostoli o a chiunque altro (Gv1,43).

21. Da questo punto di vista, è particolarmente eloquente il testo del Vangelo di Giovanni, che ci presenta Maria alle nozze di Cana. Maria vi appare come Madre di Gesù all'inizio della sua vita pubblica: «Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv2,1). Dal testo risulterebbe che Gesù e i suoi discepoli vennero invitati insieme a Maria, quasi a motivo della presenza di lei a quella festa: il Figlio sembra invitato a motivo della madre.

È noto il seguito degli eventi legata quell'invito, quell'«inizio dei segni» compiuti da Gesù - 'acqua mutata in vino -, che fa dire all'evangelista: Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv2,11). Maria è presente a Cana di Galilea come Madre a Gesù, e in modo significativo contribuisce a quel l'«inizio dei segni», che rivelano la potenza messianica del suo Figlio. Ecco: «Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancor' giunta la mia ora"» (Gv2,3). Nel Vangelo di Giovanni quell'«ora» significa il momento fissato dal Padre nel quale il Figlio compie la sua opera e deve essere glorificato (Gv7,30); (Gv8,20); (Gv12,23); (Gv13,1); (Gv17,1); (Gv19,27). Anche se la risposta di Gesù a sua madre sembra suonare come un rifiuto (soprattutto se si guarda, più che all'interrogativo, a quella recisa affermazione: «Non è ancora giunta la mia ora»), ciononostante Maria si rivolge ai servi e dice loro: «Fate quello che egli vi dirà» (Gv2,5). Allora Gesù ordina ai servi di riempire di acqua le giare, e l'acqua diventa vino, migliore di quello che prima è stato servito agli ospiti del banchetto nuziale. Quale intesa profonda c'è stata tra Gesù e sua madre? Come esplorare il mistero della loro intima unione spirituale? Ma il fatto è eloquente. È certo che in quell'evento si delinea già abbastanza chiaramente la nuova dimensione, il nuovo senso della maternità di Maria. Essa ha un significato che non è racchiuso esclusivamente nelle parole di Gesù e nei vari episodi, riportati dai Sinottici. In questi testi Gesù intende soprattutto contrapporre la maternità, risultante dal fatto stesso della nascita, a ciò che questa «maternità» (come la «fratellanza») deve essere nella dimensione del Regno di Dio, nel raggio salvifico della paternità di Dio. Nel testo giovanneo, invece, dalla descrizione dell'evento di Cana si delinea ciò che concretamente si manifesta come nuova maternità secondo lo spirito e non solo secondo la carne, ossia la sollecitudine di Maria per gli uomini, il suo andare incontro ad essi nella vasta gamma dei loro bisogni e necessità. A Cana di Galilea viene mostrato solo un aspetto concreto dell'indigenza umana, apparentemente piccolo e di poca importanza («Non hanno più vino»). Ma esso ha un valore simbolico: quell'andare incontro ai bisogni dell'uomo significa, al tempo stesso, introdurli nel raggio della missione messianica e della potenza salvifica di Cristo. Si ha dunque una mediazione: Maria si pone tra suo Figlio e gli uomini nella realtà delle loro privazioni, indigenze e sofferenze. Si pone «in mezzo», cioè fa da mediatrice non come un'estranea, ma nella sua posizione di madre, consapevole che come tale può - anzi «ha il diritto» - di far presente al Figlio i bisogni degli uomini. La sua mediazione, dunque, ha un carattere di intercessione: Maria «intercede» per gli uomini. Non solo: come madre desidera anche che si manifesti la potenza messianica del Figlio, ossia la sua potenza salvifica volta a soccorrere la sventura umana, a liberare l'uomo dal male che in diversa forma e misura grava sulla sua vita. Proprio come aveva predetto del Messia il profeta Isaia nel famoso testo, a cui Gesù si è richiamato davanti ai suoi compaesani di Nazareth: «Per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista...» (Lc4,18).

Altro elemento essenziale di questo compito materno di Maria si coglie nelle parole rivolte ai servitori: «Fate quello che egli vi dirà». La Madre di Cristo si presenta davanti agli uomini come portavoce della volontà del Figlio, indicatrice di quelle esigenze che devono essere soddisfatte, affinché la potenza salvifica del Messia possa manifestarsi. A Cana, grazie all'intercessione di Maria e all'ubbidienza dei servitori, Gesù dà inizio alla «sua ora». A Cana Maria appare come credente in Gesù: la sua fede ne provoca il primo «segno» e contribuisce a suscitare la fede dei discepoli.

22. Possiamo dire, pertanto, che in questa pagina del Vangelo di Giovanni troviamo quasi un primo apparire della verità circa la materna sollecitudine di Maria. Questa verità ha trovato espressione anche nel magistero del recente Concilio, ed è importante notare come la funzione materna di Maria sia da esso illustrata nel suo rapporto con la mediazione di Cristo. Infatti, vi leggiamo: «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce l'unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia», perché «uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù» (1Tm2,5). Questa funzione sgorga, secondo il beneplacito di Dio, «dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende ed attinge tutta la sua efficacia». Proprio in questo senso l'evento di Cana di Galilea ci offre quasi un preannuncio della mediazione di Maria, tutta orientata verso il Cristo e protesa alla rivelazione della sua potenza salvifica. Dal testo giovanneo appare che si tratta di una mediazione materna. Come proclama il Concilio: Maria«fu per noi madre nell'ordine della grazia». Questa maternità nell'ordine della grazia è emersa dalla stessa sua maternità divina: perché essendo, per disposizione della divina provvidenza, madre-nutrice del Redentore, è diventata una «compagna generosa in modo del tutto singolare e umile ancella del Signore», che «cooperò... all'opera del Salvatore con l'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità per restaurare la vita soprannaturale delle anime». «E questa maternità di Maria nell'economia della grazia perdura senza soste... fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti».

23. Se il passo del Vangelo di Giovanni sull'evento di Cana presenta la maternità premurosa di Maria all'inizio dell'attività messianica di Cristo, un altro passo dello stesso Vangelo conferma questa maternità nell'economia salvifica della grazia nel suo momento culminante, cioè quando si compie il sacrificio della Croce di Cristo, il suo mistero pasquale. La descrizione di Giovanni è concisa: «Stavano presso la Croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese con sé» (Gv19,25). Senza dubbio, in questo fatto si ravvisa un'espressione della singolare premura del Figlio per la Madre, che egli lasciava in così grande dolore. Tuttavia, sul senso di questa premura il «testamento della Croce» di Cristo dice di più. Gesù mette in rilievo un nuovo legame tra Madre e Figlio, del quale conferma solennemente tutta la verità e realtà. Si può dire che, se già in precedenza la maternità di Maria nei riguardi degli uomini era stata delineata, ora viene chiaramente precisata e stabilita: essa emerge dalla definitiva maturazione del mistero pasquale del Redentore. La Madre di Cristo, trovandosi nel raggio diretto di questo mistero che comprende l'uomo - ciascuno e tutti - , viene data all'uomo - a ciascuno e a tutti - come madre. Quest'uomo ai piedi della Croce è Giovanni, «il discepolo che egli amava». Tuttavia, non è lui solo. Seguendo la Tradizione, il Concilio non esita a chiamare Maria «Madre di Cristo e madre degli uomini»: infatti, ella è «congiunta nella stirpe di Adamo con tutti gli uomini..., anzi è veramente madre delle membra (di Cristo)..., perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa». Dunque, questa «nuova maternità di Maria», generata dalla fede, è frutto del «nuovo» amore, che maturò in lei definitivamente ai piedi della Croce, mediante la sua partecipazione all'amore redentivo del Figlio.

24. Ci troviamo così al centro stesso dell'adempimento della promessa, contenuta nel protoevangelo: «La stirpe della donna schiaccerà la testa del serpente» (Gn3,15). Gesù Cristo, infatti, con la sua morte redentrice vince il male del peccato e della morte alle sue stesse radici. È significativo che, rivolgendosi alla madre dall'alto della Croce, la chiami «donna» e le dica: «Donna, ecco il tuo figlio». Con lo stesso termine, del resto, si era rivolto a lei anche a Cana (Gv2,4). Come dubitare che specialmente ora, sul Golgota, questa frase attinga in profondità il mistero di Maria, raggiungendo il singolare posto che ella ha in tutta l'economia della salvezza? Come insegna il Concilio, con Maria «eccelsa figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura una nuova economia, quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana, per liberare con i misteri della sua carne l'uomo dal peccato». Le parole che Gesù pronuncia dall'alto della Croce significano che la maternità della sua genitrice trova una «nuova» continuazione nella Chiesa e mediante la Chiesa, simboleggiata e rappresentata da Giovanni. In questo modo, colei che, come «la piena di grazia», è stata introdotta nel mistero di Cristo per essere sua madre, cioè la Santa Genitrice di Dio, per il tramite della Chiesa permane in quel mistero come la «donna» indicata dal libro della Genesi (Gn3,15) all'inizio e dall'Apocalisse (Ap12,1) al termine della storia della salvezza. Secondo l'eterno disegno della Provvidenza la maternità divina di Maria deve effondersi sulla Chiesa, come indicano affermazioni della Tradizione, per le quali la maternità di Maria verso la Chiesa è il riflesso e il prolungamento della sua maternità verso il Figlio di Dio. Già il momento stesso della nascita della Chiesa e della sua piena manifestazione al mondo, secondo il Concilio, lascia intravedere questa continuità della maternità di Maria: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare solennemente il mistero della salvezza umana prima di aver effuso lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli Apostoli prima del giorno della Pentecoste "assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di lui" (At1,14), e anche Maria implorante con le sue preghiere il dono dello Spirito, che già l'aveva adombrata nell'annunciazione». Dunque, nell'economia della grazia, attuata sotto l'azione dello Spirito Santo, c'è una singolare corrispondenza tra il momento dell'incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazareth e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della «nascita dallo Spirito». Così colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa - per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo - presente nel mistero della Chiesa. Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna, come indicano le parole pronunciate sulla Croce: «Donna, ecco il tuo figlio»; «Ecco la tua madre».

PARTE II

LA MADRE Dl DIO AL CENTRO DELLA CHIESA IN CAMMINO

1. La Chiesa, Popolo di Dio radicato in tutte le nazioni della terra

25. «La Chiesa "prosegue il suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunciando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (1Cor11,26)». «Come già Israele secondo la carne, pellegrinante nel deserto, viene chiamato Chiesa di Dio (Es13,1); (Nm20,4); (Dt23,1), così il nuovo Israele... si chiama pure Chiesa di Cristo (Mt16,18), avendola egli acquistata col suo sangue (At20,28), riempita del suo spirito e fornita dei mezzi adatti per l'unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli sacramento visibile di questa unità salvifica». Il Concilio Vaticano II parla della Chiesa in cammino, stabilendo un'analogia con Israele dell'Antica Alleanza in cammino attraverso il deserto. Il cammino riveste un carattere anche esterno, visibile nel tempo e nello spazio, in cui esso storicamente si svolge. La Chiesa, infatti, «dovendosi estendere a tutta la terra entra nella storia degli uomini, ma insieme trascende i tempi ed i confini dei popoli». Tuttavia, il carattere essenziale del suo pellegrinaggio è interiore: si tratta di un pellegrinaggio mediante la fede, «per virtù del Signore risuscitato», di un pellegrinaggio nello Spirito Santo, dato alla Chiesa come invisibile Consolatore (parákletos) (Gv14,26); (Gv15,26); (Gv16,7). «Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, promessa del Signore, affinché ... non cessi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la Croce giunga alla luce che non conosce tramonto». Proprio in questo cammino-pellegrinaggio ecclesiale, attraverso lo spazio e il tempo, e ancor più attraverso la storia delle anime, Maria è presente, come colei che è «beata perché ha creduto», come colei che avanzava nella peregrinazione della fede, partecipando come nessun'altra creatura al mistero di Cristo. Dice ancor il Concilio che «Maria ... per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire l riverbera i massimi dati della fede».

Tra tutti i credenti ella è come uno «specchio», in cui si riflettono nel modo più profondo e più limpido «le grandi opere di Dio» (At2,11).

26. Edificata da Cristo sugli apostoli, la Chiesa è di venuta pienamente consapevole di queste grandi opere di Dio il giorno della pentecoste, quando i convenuti nel cenacolo «furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At2,4). Sin da quel momento inizia anche quel cammino di fede, il pellegrinaggio della Chiesa attraverso la storia degli uomini e dei popoli. Si sa che all'inizio di questo cammino presente Maria, che vediamo in mezzo agli apostoli nel cenacolo, «implorante con le sue preghiere il don dello Spirito». Il suo cammino di fede è, in un certo senso, più lungo. Lo Spirito Santo è già sceso su di lei, che è diventata la fedele sua sposa nell'annunciazione, accogliendo il Verbo di Dio vero, prestando «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da lui», anzi, abbandonandosi tutta a Dio mediante «l'obbedienza della fede», per cui rispose all'angelo: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto». Il cammino di fede di Maria, che vediamo orante nel cenacolo, è, dunque, più lungo di quello degli altri ivi riuniti: Maria li «precede», «va innanzi» a loro. Il momento della pentecoste a Gerusalemme è stato preparato, oltre che dalla Croce, dal momento dell'annunciazione a Nazareth. Nel cenacolo l'itinerario di Maria s'incontra col cammino di fede della Chiesa. In qual modo? Tra coloro che nel cenacolo erano assidui nella preghiera, preparandosi per andare «in tutto il mondo» dopo aver ricevuto lo Spirito, alcuni erano stati chiamati da Gesù gradualmente sin dall'inizio della sua missione in Israele. Undici di loro erano stati costituiti apostoli e ad essi Gesù aveva trasmesso la missione che egli stesso aveva ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv20,21), aveva detto agli apostoli dopo la risurrezione. E quaranta giorni dopo, prima di tornare al Padre, aveva aggiunto: quando «lo Spirito Santo scenderà su di voi .... mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra» (At1,8). Questa missione degli Apostoli ha inizio sin dal momento della loro uscita dal cenacolo di Gerusalemme. La Chiesa nasce e cresce allora mediante le testimonianze che Pietro e gli altri apostoli rendono a Cristo crocifisso e risorto (At2,31); (At3,15); (At4,10); (At5,30). Maria non ha ricevuto direttamente questa missione apostolica. Non era tra coloro che Gesù inviò «in tutto il mondo per ammaestrare tutte le nazioni» (Mt28,19), quando conferì loro questa missione.

Era, invece, nel cenacolo, dove gli apostoli si preparavano ad assumere questa missione con la venuta dello Spirito di verità: era con loro. In mezzo a loro Maria era «assidua nella preghiera» come «madre di Gesù» (At1,13), ossia del Cristo crocifisso e risorto. E quel primo nucleo di coloro che nella fede guardavano «a Gesù, autore della salvezza», era consapevole che Gesù era il Figlio di Maria, e che ella era sua Madre, e come tale era, sin dal momento del concepimento e della nascita, una singolare testimone del mistero di Gesù, di quel mistero che davanti ai loro occhi si era espresso e confermato con la Croce e la risurrezione. La Chiesa, dunque, sin dal primo momento, «guardò» Maria attraverso Gesù, come «guardò» Gesù attraverso Maria. Questa fu per la Chiesa di allora e di sempre una singolare testimone degli anni dell'infanzia di Gesù e della sua vita nascosta a Nazareth, quando «serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc2,19); (Lc2,51). Ma nella Chiesa di allora e di sempre Maria è stata ed è soprattutto colei che è «beata perché ha creduto»: ha creduto per prima. Sin dal momento dell'annunciazione del concepimento, sin dal momento della nascita nella grotta di Betlemme, Maria seguiva passo passo Gesù nel suo materno pellegrinaggio di fede. Lo seguiva lungo gli anni della sua vita nascosta a Nazareth, lo seguiva anche nel periodo del distacco esterno, quando egli iniziò a «fare ed insegnare» (At1,1) in mezzo ad Israele, lo seguì soprattutto nella tragica esperienza del Golgota. Ora, mentre Maria si trovava con gli apostoli nel cenacolo di Gerusalemme agli albori della Chiesa, trovava conferma la sua fede, nata dalle parole dell'annunciazione. L'angelo le aveva detto allora: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande..., e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine». I recenti eventi del Calvario avevano avvolto di tenebra quella promessa; eppure, anche sotto la Croce non era venuta meno la fede di Maria. Ella era stata ancora colei che, come Abramo, «ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm4,18). Ed ecco, dopo la risurrezione la speranza aveva svelato il suo vero volto e la promessa aveva cominciato a trasformarsi in realtà. Infatti, Gesù, prima di tornare al Padre, aveva detto agli apostoli: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni ... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt28,19). Così aveva detto colui che con la sua risurrezione si era rivelato come il trionfatore della morte, come il detentore del regno che «non avrà fine», secondo l'annuncio dell'angelo.

27. Ora agli albori della Chiesa, all'inizio del lungo cammino mediante la fede che cominciava con la pentecoste a Gerusalemme, Maria era con tutti coloro che costituivano il germe del «nuovo Israele».

Era presente in mezzo a loro come una testimone eccezionale del mistero di Cristo. E la Chiesa era assidua nella preghiera insieme a lei e, nello stesso tempo, «la contemplava alla luce del Verbo fatto uomo». Così sarebbe stato sempre. Infatti, quando la Chiesa «penetra più profondamente nell'altissimo mistero dell'incarnazione», pensa alla Madre di Cristo con profonda venerazione e pietà. Maria appartiene indissolubilmente al mistero di Cristo, ed appartiene anche al mistero della Chiesa sin dall'inizio, sin dal giorno della sua nascita. Alla base di ciò che la Chiesa è sin dall'inizio, di ciò che deve continuamente diventare, di generazione in generazione, in mezzo a tutte le nazioni della terra, si trova colei «che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc1,45). Proprio questa fede di Maria, che segna l'inizio della nuova ed eterna Alleanza di Dio con l'umanità in Gesù Cristo, questa eroica sua fede «precede» la testimonianza apostolica della Chiesa, e permane nel cuore della Chiesa, nascosta come uno speciale retaggio della rivelazione di Dio. Tutti coloro che, di generazione in generazione, accettando la testimonianza apostolica della Chiesa partecipano a quella misteriosa eredità, in un certo senso, partecipano alla fede di Maria. Le parole di Elisabetta «Beata colei che ha creduto») continuano ad accompagnare la Vergine anche nella pentecoste; la seguono di età in età, dovunque si estenda, mediante la testimonianza apostolica e il servizio della Chiesa, la conoscenza del mistero salvifico di Cri sto. Così si adempie la profezia del Magnificat: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto di me l'Onnipotente, e santo è il suo nome» (Lc1,48). Infatti, alla conoscenza del mistero di Cristo consegue la benedizione della madre sua, nella forma di speciale venerazione per la Theotókos. Ma in questa venerazione e sempre inclusa la benedizione della sua fede, perché la Vergine di Nazareth è diventata beata soprattutto mediante questa fede, secondo le parole di Elisabetta. Coloro che in ogni generazione, fra i diversi popoli e nazioni della terra, accolgono con fede il mistero di Cristo, Verbo incarnato e Redentore del mondo, non solo si volgono con venerazione e ricorrono con fiducia a Maria come a sua madre, ma cercano nella fede di lei il sostegno per la propria fede. E appunto questa viva partecipazione alla fede di Maria decide della sua speciale presenza nel pellegrinaggio della Chiesa, quale nuovo popolo di Dio su tutta la terra.

28. Come dice il Concilio, «Maria ... per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza ..., mentre viene predicata e onorata, chiama i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all'amore del Padre».

Perciò in qualche modo la fede di Maria, sulla base della testimonianza apostolica della Chiesa, diventa incessantemente la fede del popolo di Dio in cammino: delle persone e delle comunità, degli ambienti e delle assemblee, e infine dei vari gruppi esistenti nella Chiesa. È una fede che si trasmette ad un tempo mediante la conoscenza e il cuore; si acquista o riacquista continuamente mediante la preghiera. Perciò, «anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a colei che generò Cristo, concepito appunto dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore dei fedeli per mezzo della Chiesa». Oggi che in questo pellegrinaggio di fede ci avviciniamo al termine del secondo Millennio cristiano, la Chiesa, mediante il magistero del Concilio Vaticano II, richiama l'attenzione su ciò che essa vede in se stessa, come «un solo popolo di Dio..., radicato in tutte le nazioni della terra», e sulla verità secondo la quale tutti i fedeli, anche se «sparsi per il mondo, comunicano con gli altri nello Spirito Santo», sicché si può dire che in questa unione si realizza di continuo il mistero della pentecoste. Nello stesso tempo, gli apostoli e i discepoli del Signore in tutte le nazioni della terra sono assidui nella preghiera insieme con Maria, la madre di Gesù» (At1,14). Costituendo di generazione in generazione il «segno del Regno», che non è di questo mondo, essi sono anche consapevoli che in mezzo a questo mondo devono raccogliersi con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (Sal2,8), al quale il Padre ha dato «il trono di Davide, suo padre», sicché egli «regna per sempre sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine». In questo tempo di vigilia Maria, mediante la stessa fede che la rese beata specialmente dal momento dell'annunciazione, è presente nella missione della Chiesa, presente nell'opera della Chiesa che introduce nel mondo il Regno del suo Figlio. Questa presenza di Maria trova molteplici mezzi di espressione al giorno d'oggi come in tutta la storia della Chiesa. Possiede anche un multiforme raggio d'azione: mediante la fede e la pietà dei singoli fedeli, mediante le tradizioni delle famiglie cristiane, o «chiese domestiche», delle comunità parrocchiali e missionarie, degli istituti religiosi, delle diocesi, mediante la forza attrattiva e irradiante dei grandi santuari, nei quali non solo individui o gruppi locali, ma a volte intere nazioni e continenti cercano l'incontro con la Madre del Signore, con colei che è beata perché ha creduto, è la prima tra i credenti e perciò è diventata Madre dell'Emanuele. Questo è il richiamo della Terra di Palestina, patria spirituale di tutti i cristiani, perché patria del Salvatore del mondo e della sua Madre. Questo è il richiamo dei tanti templi che a Roma e nel mondo la fede cristiana ha innalzato lungo i secoli. Questo è il richiamo di centri come Guadalupe, Lourdes, Fatima e degli altri sparsi nei diversi paesi, tra i quali come potrei non ricordare quello della mia terra natale, Jasna Góra? Si potrebbe forse parlare di una specifica «geografia» della fede e della pietà mariana, che comprende tutti questi luoghi di particolare pellegrinaggio del popolo di Dio, il quale cerca l'incontro con la Madre di Dio per trovare, nel raggio della materna presenza di «colei che ha creduto», il consolidamento della propria fede. Infatti, nella fede di Maria, già all'annunciazione e compiutamente ai piedi della Croce, si è riaperto da parte dell'uomo quello spazio interiore, nel quale l'eterno Padre può colmarci «di ogni benedizione spirituale»: lo spazio della «nuova ed eterna Alleanza». Questo spazio sussiste nella Chiesa, che è in Cristo «un sacramento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano». Nella fede, che Maria professò annunciazione come «serva del Signore» e nella quale costantemente «precede» il popolo di Dio in cammino su tutta la terra, la Chiesa «senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità ... in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui».

2. Il cammino della Chiesa e l'unità di tutti i cristiani

29. «Lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo pastore». Il cammino della Chiesa, specialmente nella nostra epoca, è marcato dal segno dell'ecumenismo: i cristiani cercano le vie per ricostruire quell'unità, che Cristo invocava dal Padre per i suoi discepoli il giorno prima della passione: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, o Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv17,21). L'unità dei discepoli di Cristo, dunque, è un grande segno dato per suscitare la fede del mondo, mentre la loro divisione costituisce uno scandalo.

Il movimento ecumenico, sulla base di una più lucida e diffusa consapevolezza dell'urgenza di pervenire all'unità di tutti i cristiani, ha trovato da parte della Chiesa cattolica la sua espressione culminante nell'opera del Concilio Vaticano II: occorre che essi approfondiscano in se stessi ed in ciascuna delle loro comunità quell'«obbedienza della fede», di cui Maria è il primo e più luminoso esempio. E poiché ella «brilla ora innanzi al pellegrinante popolo di Dio, quale segno di sicura speranza e di consolazione», «per il santo Concilio è di grande gioia e consolazione che anche tra i fratelli disuniti ci siano di quelli che tributano il debito onore alla Madre del Signore e Salvatore, specialmente presso gli Orientali».

30. I cristiani sanno che la loro unità sarà veramente ritrovata solo se sarà fondata sull'unità della loro fede. Essi debbono risolvere non lievi discordanze di dottrina intorno al mistero e al ministero della Chiesa e talora anche alla funzione di Maria nell'opera della salvezza. I dialoghi, avviati dalla Chiesa cattolica con le Chiese e le Comunità ecclesiali di Occidente, vanno sempre più concentrandosi su questi due aspetti inseparabili dello stesso mistero della salvezza. Se il mistero del Verbo incarnato ci fa intravedere il mistero della maternità divina e se, a sua volta, la contemplazione della Madre di Dio ci introduce in una più profonda comprensione del mistero dell'incarnazione, lo stesso si deve dire del mistero della Chiesa e della funzione di Maria nell'opera della salvezza. Approfondendo l'uno e l'altro, rischiarando l'uno per mezzo dell'altro, i cristiani desiderosi di fare - come raccomanda ad essi la loro Madre - ciò che Gesù dirà loro (Gv2,5), potranno progredire insieme in quella «peregrinazione della fede», di cui Maria è ancora l'esempio e che deve condurli all'unità voluta dal loro unico Signore e tanto desiderata da coloro che attentamente sono all'ascolto di ciò che oggi «lo Spirito dice alle Chiese» (Ap2,7). È intanto di lieto auspicio che queste Chiese e Comunità ecclesiali convengano con la Chiesa cattolica in punti fondamentali della fede cristiana anche per quanto concerne la Vergine Maria. Esse, infatti, la riconoscono come Madre del Signore e ritengono che ciò faccia parte della nostra fede in Cristo, vero Dio e vero uomo. Esse guardano a lei che ai piedi della Croce accoglie come suo figlio l'amato discepolo, il quale a sua volta l'accoglie come madre. Perché, dunque, non guardare a lei tutti insieme come alla nostra Madre comune, che prega per l'unità della famiglia di Dio e che tutti «precede» alla testa del lungo corteo dei testimoni della fede nell'unico Signore, il Figlio di Dio, concepito nel suo seno verginale per opera dello Spirito Santo?

31. Desidero, d'altra parte, sottolineare quanto la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa e le antiche Chiese orientali si sentano profondamente unite dall'amore dalla lode per la Theotókos. Non solo «i dogmi fondamentali della fede cristiana circa la Trinità ed il Verbo di Dio, incarnato da Maria Vergine, sono stati definiti in concili ecumenici celebrati in Oriente», ma anche nel loro culto liturgico «gli Orientali magnificano con splendidi inni Maria sempre Vergine..., santissima Madre di Dio». I fratelli di queste Chiese hanno conosciuto vicende complesse, ma sempre la loro storia è percorsa da un vivo desiderio di impegno cristiano e di irradiazione apostolica, pur se spesso segnata da persecuzioni anche cruente. È una storia di fedeltà al Signore, un'autentica «peregrinazione della fede» attraverso i luoghi e i tempi, durante i quali i cristiani orientali hanno sempre guardato con illimitata fiducia alla Madre del Signore, l'hanno celebrata con lodi e l'hanno invocata con incessanti preghiere. Nei momenti difficili della loro travagliata esistenza cristiana «essi si sono rifugiati sotto il suo presidio», consapevoli di avere in lei un aiuto potente. Le Chiese che professano la dottrina di Efeso, proclamano la Vergine «vera Madre di Dio», poiché «il Signore nostro Gesù Cristo, nato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, negli ultimi giorni egli stesso, per noi e per la nostra salvezza, fu generato da Maria Vergine Madre di Dio secondo l'umanità».

I Padri greci e la tradizione bizantina, contemplando la Vergine alla luce del Verbo fatto uomo, hanno cercato di penetrare la profondità di quel legame che unisce Maria, in quanto Madre di Dio, a Cristo e alla Chiesa: la Vergine è una presenza permanente in tutta l'estensione del mistero salvifico. Le tradizioni copte ed etiopiche sono state introdotte in tale contemplazione del mistero di Maria da san Cirillo d'Alessandria e, a loro volta, l'hanno celebrato con un'abbondante fioritura poetica. Il genio poetico di sant'Efrem Siro, definito «la cetra dello Spirito Santo», ha cantato instancabilmente Maria, lasciando un'impronta tuttora viva in tutta la tradizione della Chiesa siriaca. Nel suo panegirico della Theotókos, san Gregorio di Narek, una delle più fulgide glorie dell'Armenia, con potente estro poetico approfondisce i diversi aspetti del mistero dell'incarnazione, e ciascuno di essi è per lui un'occasione per cantare ed esaltare la dignità straordinaria e la magnifica bellezza della Vergine Maria, Madre del Verbo incarnato. Non stupisce, pertanto, che Maria occupi un posto privilegiato nel culto delle antiche Chiese orientali con un'incomparabile abbondanza di feste e di inni.

32. Nella liturgia bizantina, in tutte le ore dell'Ufficio divino, la lode della Madre è unita alla lode del Figlio e alla lode che, per mezzo del Figlio, si eleva verso il Padre nello Spirito Santo. Nell'anafora, o preghiera eucaristica, di san Giovanni Crisostomo, subito dopo l'epiclèsi, la comunità adunata canta così la Madre di Dio: «È veramente giusto proclamare beata te, o Deipara, che sei beatissima, tutta pura e Madre del nostro Dio. Noi magnifichiamo te, che sei più onorabile dei cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei serafini. Tu che, senza perdere la tua verginità, hai messo al mondo il Verbo di Dio. Tu che veramente sei la Madre di Dio». Queste lodi, che in ogni celebrazione della liturgia eucaristica si elevano a Maria, hanno forgiato la fede, la pietà e la preghiera dei fedeli. Nel corso dei secoli esse hanno permeato tutto il loro atteggiamento spirituale, suscitando in loro una devozione profonda per la «Tutta Santa Madre di Dio».

33. Ricorre quest'anno il XII centenario del Concilio Ecumenico Niceno II (a. 787), nel quale, a conclusione della nota controversia sul culto delle sacre immagini, fu definito che, secondo il magistero dei santi Padri e la tradizione universale della Chiesa, si potevano proporre alla venerazione dei fedeli, unitamente alla Croce, anche le immagini della Madre di Dio, degli Angeli e dei Santi sia nelle chiese che nelle case e lungo le strade. Quest'uso si è conservato in tutto l'Oriente e anche in Occidente: le immagini della Vergine hanno un posto d'onore nelle chiese e nelle case. Maria vi è raffigurata o come trono di Dio, che porta il Signore e lo dona agli uomini (Theotókos), o come via che conduce a Cristo e lo mostra (Odigitria), o come orante in atteggiamento di intercessione e segno di divina presenza sul cammino dei fedeli fino al giorno del Signore (Deisis), o come protettrice che stende il suo manto sui popoli (Pokrov), o come misericordiosa Vergine della tenerezza (Eleousa). Ella è di solito rappresentata con suo Figlio, il bambino Gesù che porta in braccio: è la relazione col Figlio che glorifica la Madre. A volte ella lo abbraccia con tenerezza (Glykofilousa); altre volte ieratica, ella sembra assorta nella contemplazione di colui che è il Signore della storia (Ap5,9). Conviene anche ricordare l'Icona della Madonna di Vladimir, che ha costantemente accompagnato la peregrinazione nella fede dei popoli dell'antica Rus'. Si avvicina il primo millennio della conversione al cristianesimo di quelle nobili terre: terre di umili, di pensatori e di santi. Le Icone sono venerate tuttora in Ucraina, nella Bielorussia, in Russia con diversi titoli: sono immagini che attestano la fede e lo spirito di preghiera del buon popolo, il quale avverte la presenza e la protezione della Madre di Dio. In esse la Vergine splende come immagine della divina bellezza, dimora dell'eterna Sapienza, figura dell'orante, prototipo della contemplazione, icona della gloria: colei che sin dalla sua vita terrena, possedendo la scienza spirituale inaccessibile ai ragionamenti umani, con la fede ha raggiunto la conoscenza più sublime. Ricordo, ancora, l'Icona della Vergine del cenacolo, in preghiera con gli Apostoli nell'attesa dello Spirito: non potrebbe essa diventare come il segno di speranza per tutti quelli che, nel dialogo fraterno, vogliono approfondire la loro obbedienza della fede?.

34. Tanta ricchezza di lodi, accumulata dalle diverse forme della grande tradizione della Chiesa, potrebbe aiutarci a far sì che questa torni a respirare pienamente con i suoi «due polmoni»: l'Oriente e l'Occidente. Come ho più volte affermato, ciò è oggi più che mai necessario. Sarebbe un valido ausilio per far progredire il dialogo in atto tra la Chiesa cattolica e le Chiese e Comunità ecclesiali di Occidente. Sarebbe anche la via per la Chiesa in cammino di cantare e vivere in modo più perfetto il suo «Magnificat».

3. Il «Magnificat» della Chiesa in cammino

35. Nella presente fase del suo cammino, dunque, la Chiesa cerca di ritrovare l'unione di quanti professano la loro fede in Cristo, per manifestare l'obbedienza al suo Signore, che per questa unità ha pregato prima della passione. Essa «prosegue il suo pellegrinaggio.... annunciando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga». «Procedendo tra le tentazioni e le tribolazioni, la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, promessa dal Signore, affinché per l'umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore e non cessi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la Croce giunga alla luce che non conosce tramonto».

La Vergine Madre è costantemente presente in questo cammino di fede del popolo di Dio verso la luce. Lo dimostra in modo speciale il cantico del «Magnificat», che, sgorgato dal profondo della fede di Maria nella visitazione, non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa. Lo prova la sua recitazione quotidiana nella liturgia dei Vespri ed in tanti altri momenti di devozione sia personale che comunitaria.

«L'anima mia magnifica il Signore,
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni
mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente,
e santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza per sempre». (Lc1,46).

36. Quando Elisabetta salutò la giovane parente che giungeva da Nazareth, Maria rispose col Magnificat. Nel suo saluto Elisabetta prima aveva chiamato Maria «benedetta» a motivo del «frutto del suo grembo», e poi «beata» a motivo della sua fede (Lc1,42). Queste due benedizioni si riferivano direttamente al momento dell'annunciazione. Ora, nella visitazione, quando il saluto di Elisabetta rende testimonianza a quel momento culminante, la fede di Maria acquista una nuova consapevolezza e una nuova espressione. Quel che al momento dell'annunciazione rimaneva nascosto nella profondità dell'«obbedienza della fede», si direbbe che ora si sprigioni come una chiara, vivificante fiamma dello spirito. Le parole usate da Maria sulla soglia della casa di Elisabetta costituiscono un'ispirata professione di questa sua fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con l'elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio. In queste sublimi parole, che sono ad un tempo molto semplici e del tutto ispirate ai testi sacri del popolo di Israele, traspare la personale esperienza di Maria, l'estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l'eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell'uomo. Maria è la prima a partecipare a questa nuova rivelazione di Dio e, in essa, a questa nuova «autodonazione» di Dio. Perciò proclama: «Grandi cose ha fatto in me..., e santo è il suo nome». Le sue parole riflettono la gioia dello spirito, difficile da esprimere: «Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore». Perché «la profonda verità sia su Dio sia sulla salvezza degli uomini... risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione».

Nel suo trasporto Maria confessa di essersi trovata nel cuore stesso di questa pienezza di Cristo.

È consapevole che in lei si compie la promessa fatta ai padri e, prima di tutto, «ad Abramo e alla sua discendenza per sempre»: che dunque in lei, come madre di Cristo, converge tutta l'economia salvifica, nella quale «di generazione in generazione» si manifesta colui che, come Dio dell'Alleanza, «si ricorda della sua misericordia».

37. La Chiesa, che sin dall'inizio conforma il suo cammino terreno su quello della Madre di Dio, ripete costantemente al seguito di lei le parole del Magnificat. Dalla profondità della fede della Vergine nell'annunciazione e nella visitazione, essa attinge la verità sul Dio dell'Alleanza: sul Dio che è onnipotente e fa «grandi cose» all'uomo: «santo è il suo nome». Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il peccato posto all'inizio della storia terrena dell'uomo e della donna il peccato dell'incredulità e della «poca fede» in Dio. Contro il «sospetto» che il «padre della menzogna» ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima donna, Maria che la tradizione usa chiamare «nuova Eva» e vera «madre dei viventi», proclama con forza la non offuscata verità su Dio: il Dio santo e onnipotente, che dall'inizio è la fonte di ogni elargizione, colui che «ha fatto grandi cose». Creando, Dio dona l'esistenza a tutta la realtà. Creando l'uomo, gli dona la dignità dell'immagine e della somiglianza con lui in modo singolare rispetto a tutte le creature terrene. E non arrestandosi nella sua volontà di elargizione nonostante il peccato dell'uomo, Dio si dona nel Figlio: «Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv3,16). Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si attuerà pienamente mediante le opere e le parole (At1,1) del suo Figlio e definitivamente mediante la sua Croce e risurrezione. La Chiesa, che pur «tra le tentazioni e le tribolazioni» non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat, «si sostiene» con la potenza della verità su Dio, proclamata allora con sì straordinaria semplicità e, nello stesso tempo, con questa verità su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie dell'esistenza terrena degli uomini. Il cammino della Chiesa, dunque, al termine ormai del secondo Millennio cristiano, implica un rinnovato impegno nella sua missione. Seguendo colui che disse di sé: «(Dio) mi ha mandato per annunciare ai poveri il lieto messaggio» (Lc4,18), la Chiesa ha cercato di generazione in generazione e cerca anche oggi di compiere la stessa missione. Il suo amore di preferenza per i poveri è inscritto mirabilmente nel Magnificat di Maria. Il Dio dell'Alleanza, cantato nell'esultanza del suo spirito dalla Vergine di Nazareth, è insieme colui che «rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ... ricolma di beni gli affamati, e rimanda i ricchi a mani vuote, ... disperde i superbi ... e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono». Maria è profondamente permeata dello spirito dei «poveri di Iahvé», che nella preghiera dei Salmi attendevano da Dio la loro salvezza, riponendo in lui ogni fiducia (Sal24,1); (Sal30,1); (Sal34,1); (Sal54,1). Ella, invero, proclama l'avvento del mistero della salvezza, la venuta del «Messia dei poveri» (Is11,4); (Is61,1). Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del Magnificat, la Chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva, su Dio che è fonte di ogni elargizione, dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili, il quale, cantato nel Magnificat, si trova poi espresso nelle parole e nelle opere di Gesù. La Chiesa, pertanto, è consapevole - e nella nostra epoca tale consapevolezza si rafforza in modo particolare - non solo che non si possono separare questi due elementi del messaggio contenuto nel Magnificat, ma che si deve, altresì, salvaguardare accuratamente l'importanza che «i poveri» e «l'opzione in favore dei poveri» hanno nella parola del Dio vivo. Si tratta di temi e problemi organicamente connessi col senso cristiano della libertà e della liberazione. «Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l'icona più perfetta della libertà e della liberazione dell'umanità e del cosmo. È a lei che la Chiesa, di cui ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza».

PARTE III

MEDIAZIONE MATERNA

1. Maria, Serva del Signore

38. La Chiesa sa e insegna con san Paolo che uno solo è il nostro mediatore: «Non c'è che un solo Dio, uno solo anche è il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo, che per tutti ha dato se stesso quale riscatto» (1Tm2,5). «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia»: è mediazione in Cristo.

La Chiesa sa e insegna che «ogni salutare influsso della Beata Vergine verso gli uomini... nasce dal beneplacito di Dio e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia; non impedisce minimamente l'immediato contatto dei credenti con Cristo, anzi lo facilita». Questo salutare influsso è sostenuto dallo Spirito Santo, che, come adombrò la Vergine Maria dando in lei inizio alla maternità divina, così ne sostiene di continuo la sollecitudine verso i fratelli del suo Figlio. Effettivamente, la mediazione di Maria è strettamente legata alla sua maternità, possiede un carattere specificamente materno, che la distingue da quello delle altre creature che, in vario modo sempre subordinato, partecipano all'unica mediazione di Cristo, rimanendo anche la sua una mediazione partecipata. Infatti, se «nessuna creatura può mai esser messa alla pari col Verbo incarnato e redentore», al tempo stesso «l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, partecipata da un'unica fonte»; e così «l'unica bontà di Dio si diffonde realmente in vari modi nelle creature». l'insegnamento del Concilio Vaticano II presenta la verità sulla mediazione di Maria come partecipazione a questa unica fonte che è la mediazione di Cristo stesso. Leggiamo infatti: «Questa funzione subordinata di Maria la Chiesa non dubita di riconoscerla apertamente, continuamente la sperimenta e raccomanda all'amore dei fedeli, perché, sostenuti da questo materno aiuto, siano più intimamente congiunti col Mediatore e Salvatore». Tale funzione è, al tempo stesso, speciale e straordinaria. Essa scaturisce dalla sua maternità divina e può esser compresa e vissuta nella fede solo sulla base della piena verità di questa maternità. Essendo Maria, in virtù dell'elezione divina, la Madre del Figlio consostanziale al Padre e «generosa compagna» nell'opera della redenzione, «fu per noi madre nell'ordine della grazia». Questa funzione costituisce una dimensione reale della sua presenza nel mistero salvifico di Cristo e della Chiesa.

39. Da questo punto di vista bisogna ancora una volta considerare l'evento fondamentale nell'economia della salvezza, ossia l'incarnazione del Verbo al momento dell'annunciazione. È significativo che Maria, riconoscendo nella parola del messaggero divino la volontà dell'Altissimo e sottomettendosi alla sua potenza, dica: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc1,38). Il primo momento della sottomissione all'unica mediazione «fra Dio e gli uomini» - quella di Gesù Cristo - è l'accettazione della maternità da parte della Vergine di Nazareth. Maria consente alla scelta di Dio, per diventare per opera dello Spirito Santo la Madre del Figlio di Dio. Si può dire che questo suo consenso alla maternità sia soprattutto frutto della totale donazione a Dio nella verginità. Maria ha accettato l'elezione a Madre del Figlio di Dio, guidata dall'amore sponsale, che «consacra» totalmente a Dio una persona umana. In virtù di questo amore, Maria desiderava di esser sempre e in tutto «donata a Dio», vivendo nella verginità. Le parole: «Eccomi, sono la serva del Signore», esprimono il fatto che sin dall'inizio ella ha accolto ed inteso la propria maternità come totale dono di sé, della sua persona a servizio dei disegni salvifici dell'Altissimo. E tutta la partecipazione materna alla vita di Gesù Cristo, suo Figlio, l'ha vissuta sino alla fine in modo corrispondente alla sua vocazione alla verginità. La maternità di Maria, pervasa fino in fondo dall'atteggiamento sponsale di «serva del Signore», costituisce la prima e fondamentale dimensione di quella mediazione che la Chiesa confessa e proclama nei suoi riguardi, e continuamente «raccomanda all'amore dei fedeli», poiché in essa molto confida. Infatti, bisogna riconoscere che prima di tutti Dio stesso, l'eterno Padre, si è affidato alla Vergine di Nazareth, donandole il proprio Figlio nel mistero dell'incarnazione. Questa sua elezione al sommo ufficio e dignità di Madre del Figlio di Dio, sul piano ontologico, si riferisce alla realtà stessa dell'unione delle due nature nella persona del Verbo (unione ipostatica). Questo fatto fondamentale di esser la Madre del Figlio di Dio, è sin dall'inizio una totale apertura alla persona di Cristo, a tutta la sua opera, a tutta la sua missione. Le parole «Eccomi, sono la serva del Signore» testimoniano questa apertura dello spirito di Maria, che unisce in sé in modo perfetto l'amore proprio della verginità e l'amore caratteristico della maternità, congiunti e quasi fusi insieme. Perciò Maria è diventata non solo la «madre-nutrice» del Figlio dell'uomo, ma anche la «compagna generosa in modo del tutto singolare» del Messia e Redentore. Ella - come ho già detto - avanzava nella peregrinazione della fede e in tale sua peregrinazione fino ai piedi della Croce si è attuata, al tempo stesso, la sua materna cooperazione a tutta la missione del Salvatore con le sue azioni e le sue sofferenze. Lungo la via di questa collaborazione con l'opera del Figlio Redentore, la maternità stessa di Maria conosceva una singolare trasformazione, colmandosi sempre più di «ardente carità» verso tutti coloro a cui era rivolta la missione di Cristo. Mediante tale «ardente carità», intesa a operare in unione con Cristo la restaurazione della «vita soprannaturale nelle anime», Maria entrava in modo del tutto personale nell'unica mediazione «fra Dio e gli uomini», che è la mediazione dell'uomo Cristo Gesù. Se ella stessa per prima ha sperimentato su di sé gli effetti soprannaturali di questa unica mediazione - già all'annunciazione era stata salutata come «piena di grazia», - allora bisogna dire che per tale pienezza di grazia e di vita soprannaturale era particolarmente predisposta alla cooperazione con Cristo, unico mediatore dell'umana salvezza. E tale cooperazione è appunto questa mediazione subordinata alla mediazione di Cristo. Nel caso di Maria si tratta di una mediazione speciale ed eccezionale, fondata sulla sua «pienezza di grazia», che si traduceva nella piena disponibilità della «serva del Signore». in risposta a questa disponibilità interiore di sua madre, Gesù Cristo la preparava sempre più a diventare per gli uomini «madre nell'ordine della grazia». Ciò indicano, almeno in modo indiretto, certi particolari annotati dai Sinottici (Lc11,28); (Lc8,20); (Mc3,32); (Mt12,47) e ancor più dal Vangelo di Giovanni (Gv2,1); (Gv19,25), che ho già messo in luce. A questo riguardo le parole, pronunciate da Gesù sulla Croce in riferimento a Maria e a Giovanni, sono particolarmente eloquenti.

40. Dopo gli eventi della risurrezione e dell'ascensione, Maria, entrando con gli Apostoli nel cenacolo in attesa della pentecoste, era presente come Madre del Signore glorificato. Era non solo colei che «avanzò nella peregrinazione della fede» e serbò fedelmente la sua unione col Figlio «sino alla Croce», ma anche la «serva del Signore», lasciata da suo Figlio come madre in mezzo alla Chiesa nascente: «Ecco la tua madre». Così cominciò a formarsi uno speciale legame tra questa Madre e la Chiesa. La Chiesa nascente era, infatti, frutto della Croce e della risurrezione del suo Figlio. Maria, che sin dall'inizio si era donata senza riserve alla persona e all'opera del Figlio, non poteva non riversare sulla Chiesa, sin dal principio, questa sua donazione materna. Dopo la dipartita del Figlio, la sua maternità permane nella Chiesa come mediazione materna: intercedendo per tutti i suoi figli, la Madre coopera all'azione salvifica del Figlio-Redentore del mondo. Difatti, il Concilio insegna: «La maternità di Maria nell'economia della grazia perdura senza soste... fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti». Con la morte redentrice del suo Figlio, la materna mediazione della serva del Signore ha raggiunto una dimensione universale, perché l'opera della redenzione comprende tutti gli uomini. Così si manifesta in modo singolare l'efficacia dell'unica ed universale mediazione di Cristo «fra Dio e gli uomini». La cooperazione di Maria partecipa, nel suo carattere subordinato, all'universalità della mediazione del Redentore,, unico mediatore. Ciò indica chiaramente il Concilio con le parole sopra riportate. «Difatti, - leggiamo ancora - assunta in cielo, non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci le grazie della salute eterna». Con questo carattere di «intercessione», che si manifestò per la prima volta a Cana di Galilea, la mediazione di Maria continua nella storia della Chiesa e del mondo. Leggiamo che Maria «con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora pellegrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata». In questo modo la maternità di Maria perdura incessantemente nella Chiesa come mediazione che intercede, e la Chiesa esprime la sua fede in questa verità invocando Maria «con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice».

41. Per la sua mediazione subordinata a quella del Redentore, Maria contribuisce in maniera speciale all'unione della Chiesa pellegrinante sulla terra con la realtà escatologica e celeste della comunione dei santi, essendo stata già «assunta in cielo». La verità dell'assunzione, definita da Pio XII, è riaffermata dal Concilio Vaticano II, che così esprime la fede della Chiesa: «Infine, l'immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo, e dal Signore esaltata quale Regina dell'universo, perché fosse più pienamente conformata col Figlio suo, Signore dei dominanti (Ap19,16) e vincitore del peccato e della morte». Con questo insegnamento Pio XII si collegava alla Tradizione, che ha trovato molteplici espressioni nella storia della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente. Col mistero dell'assunzione al Cielo, si sono definitivamente attuati in Maria tutti gli effetti dell'unica mediazione di Cristo Redentore del mondo e Signore risorto «Tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo» (1Cor15,22). Nel mistero dell'assunzione si esprime la fede della Chiesa, secondo la quale Maria è «unita da uno stretto e indissolubile vincolo» a Cristo, perché, se madre-vergine era a lui singolarmente unita nella sua prima venuta, per la sua continuata cooperazione con lui lo sarà anche in attesa della seconda, «redenta in modo più sublime in vista dei meriti del Figlio suo», ella ha anche quel ruolo, proprio della madre, di mediatrice di clemenza nella venuta definitiva, quando tutti coloro che sono di Cristo saranno vivificati, e «l'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor15,26). A tale esaltazione dell'«eccelsa figlia di Sion»"' mediante l'assunzione al Cielo, è connesso il mistero della sua eterna gloria. La Madre di Cristo è, infatti, glorificata quale «Regina dell'universo». Colei che all'annunciazione si è definita «serva del Signore», è rimasta per tutta la vita terrena fedele a ciò che questo nome esprime, confermando così di essere una vera «discepola» di Cristo, il quale sottolineava fortemente il carattere di servizio della propria missione: il Figlio dell'uomo «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt20,28). Per questo, Maria è diventata la prima tra coloro che, «servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducono i loro fratelli al Re, servire al quale è regnare», ed ha conseguito pienamente quello «stato di libertà regale», proprio dei discepoli di Cristo: servire vuol dire regnare! «Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (Fil2,8), è entrato nella gloria del suo Regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (1Cor15,27)». Maria, serva del Signore, ha parte in questo Regno del Figlio. La gloria di servire non cessa di essere la sua esaltazione regale: assunta in Cielo, ella non termina quel suo servizio salvifico, in cui si esprime la mediazione materna, «fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti». Così colei, che qui sulla terra «serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce», continua a rimanere unita con lui, mentre ormai «tutto è sottomesso a lui, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature». Così nella sua assunzione al Cielo, Maria è come avvolta da tutta la realtà della comunione dei santi, e la stessa sua unione col Figlio nella gloria è tutta protesa verso la definitiva pienezza del Regno, quando «Dio sarà tutto in tutti». Anche in questa fase la mediazione materna di Maria non cessa di essere subordinata a colui che è l'unico Mediatore, fino alla definitiva attuazione della « pienezza del tempo», cioè fino a «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef1,10).

2. Maria nella vita della Chiesa e di ogni cristiano

42. Il Concilio Vaticano II, ricollegandosi alla Tradizione, ha gettato nuova luce sul ruolo della Madre di Cristo nella vita della Chiesa. «La beata Vergine per il dono... della divina maternità, che la unisce col Figlio Redentore, e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la Madre di Dio è figura della Chiesa.., cioè nell'ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo». Già in precedenza abbiamo visto come Maria rimane sin dall'inizio con gli apostoli in attesa della pentecoste e come, essendo la «beata che ha creduto», di generazione in generazione è presente in mezzo alla Chiesa pellegrina mediante la fede e quale modello della speranza che non delude (Rm5,5). Maria ha creduto che sarebbe avvenuto quello che le era stato detto dal Signore. Come vergine, ha creduto che avrebbe concepito e dato alla luce un figlio: il «Santo», al quale corrisponde il nome di «Figlio di Dio», il nome di «Gesù» (= Dio che salva). Come serva del Signore, è rimasta perfettamente fedele alla persona e alla missione di questo Figlio. Come madre «per la sua fede ed obbedienza... generò sulla terra lo stesso Figlio del Padre, senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo». Per questi motivi Maria «viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. Già fin dai tempi più antichi... è venerata col titolo di "Madre di Dio" sotto il cui presidio i fedeli imploranti si rifugiano in tutti i pericoli e necessità». Questo culto è del tutto singolare: contiene in sé ed esprime quel profondo legame che esiste tra la Madre di Cristo e la Chiesa. Quale vergine e madre, Maria rimane per la Chiesa un «perenne modello». Si può, dunque, dire che soprattutto sotto questo aspetto, cioè come modello o, piuttosto, come «figura», Maria, presente nel mistero di Cristo rimane costantemente presente anche nel mistero della Chiesa. Anche la Chiesa, infatti, «é chiamata madre e vergine», e questi nomi hanno una profonda giustificazione biblica e teologica.

43. La Chiesa «diventa madre... accogliendo con fedeltà la parola di Dio». Come Maria che ha creduto per prima, accogliendo la parola di Dio a lei rivelata nell'annunciazione, e rimanendo ad essa fedele in tutte le sue prove fino alla Croce, così la Chiesa diventa madre quando, accogliendo con fedeltà la parola di Dio, «con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio». Questa caratteristica «materna» della Chiesa è stata espressa in modo particolarmente vivido dall'Apostolo delle genti, quando scriveva: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal4,19). In queste parole di san Paolo è contenuta una traccia interessante della consapevolezza materna della Chiesa primitiva, legata al suo servizio apostolico tra gli uomini. Tale consapevolezza permetteva e permette costantemente alla Chiesa di vedere il mistero della sua vita e della sua missione sull'esempio della stessa Genitrice del Figlio, che è il «primogenito tra molti fratelli» (Rm8,29). Si può dire che la Chiesa apprenda da Maria anche la propria maternità: essa riconosce la dimensione materna della sua vocazione, legata essenzialmente alla sua natura sacramentale, «contemplando l'arcana santità di lei, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre». Se la Chiesa è segno e strumento dell'intima unione con Dio, lo è a motivo della sua maternità: perché, vivificata dallo Spirito, «genera» figli e figlie dell'umana famiglia a una vita nuova in Cristo. Perché, come Maria è al servizio del mistero dell'incarnazione, così la Chiesa rimane al servizio del mistero dell'adozione a figli mediante la grazia. Al tempo stesso, sull'esempio di Maria, la Chiesa rimane la vergine fedele al proprio sposo: «Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo». La Chiesa è, infatti, la sposa di Cristo, come risulta dalle Lettere paoline (Ef5,21); (2Cor11,2) e dall'appellativo giovanneo: «la sposa dell'Agnello» (Ap21,9). Se la Chiesa come sposa «custodisce la fede data a Cristo», questa fedeltà, benché nell'insegnamento dell'apostolo sia divenuta immagine del matrimonio (Ef5,23), possiede anche il valore di tipo della totale donazione a Dio nel celibato «per il Regno dei cieli», ossia della verginità consacrata a Dio (Mt19,11); (2Cor11,2). Proprio tale verginità, sull'esempio della Vergine di Nazareth, è fonte di una speciale fecondità spirituale: è fonte della maternità nello Spirito Santo. Ma la Chiesa custodisce anche la fede ricevuta da Cristo: sull'esempio di Maria, che serbava e meditava in cuor suo (Lc2,19) tutto ciò che riguardava il suo Figlio divino, essa è impegnata a custodire la Parola di Dio, ad indagarne le ricchezze con discernimento e prudenza, per dame in ogni epoca fedele testimonianza a tutti gli uomini.

44. Stante questo rapporto di esemplarità, la Chiesa si incontra con Maria e cerca di diventare simile a lei: «Ad imitazione della madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità». Maria è, dunque, presente nel mistero della Chiesa come modello. Ma il mistero della Chiesa consiste anche nel generare gli uomini ad una vita nuova ed immortale: è la sua maternità nello Spirito Santo. È qui Maria non solo è modello e figura della Chiesa, ma è molto di più. Infatti, «con amore di madre ella coopera alla rigenerazione e formazione» dei figli e figlie della madre Chiesa. La maternità della Chiesa si attua non solo secondo il modello e la figura della Madre di Dio, ma anche con la sua «cooperazione». La Chiesa attinge copiosamente da questa cooperazione, cioè dalla mediazione materna, che è caratteristica di Maria, in quanto già in terra ella cooperò alla rigenerazione e formazione dei figli e delle figlie della Chiesa come Madre di quel Figlio che Dio ha posto quale primogenito tra molti fratelli». Vi cooperò - come insegna il Concilio Vaticano II - con amore di madre. Si scorge qui il reale valore delle parole dette da Gesù a sua madre nell'ora della Croce: «Donna, ecco il tuo figlio» e al discepolo: «Ecco la tua madre» (Gv19,26). Sono parole che determinano il posto di Maria nella vita dei discepoli di Cristo ed esprimono - come ho già detto - la sua nuova maternità quale Madre del Redentore: la maternità spirituale, nata dall'intimo del mistero pasquale del Redentore del mondo. E una maternità nell'ordine della grazia, perché implora il dono dello Spirito Santo che suscita i nuovi figli di Dio, redenti mediante il sacrificio di Cristo: quello Spirito che insieme alla Chiesa anche Maria ha ricevuto nel giorno di pentecoste. Questa sua maternità è particolarmente avvertita e vissuta dal popolo cristiano nel sacro Convito - celebrazione liturgica del mistero della redenzione -, nel quale si fa presente Cristo, il suo vero corpo nato da Maria Vergine. Ben a ragione la pietà del popolo cristiano ha sempre ravvisato un profondo legame tra la devozione alla Vergine santa e il culto dell'Eucaristia: è, questo, un fatto rilevabile nella liturgia sia occidentale che orientale, nella tradizione delle Famiglie religiose, nella spiritualità dei movimenti contemporanei anche giovanili, nella pastorale dei santuari mariani. Maria guida i fedeli all'Eucaristia.

45. È essenziale della maternità il fatto di riferirsi alla persona. Essa determina sempre un'unica ed irripetibile relazione fra due persone: della madre col figlio e del figlio con la madre. Anche quando una stessa donna è madre di molti figli, il suo personale rapporto con ciascuno di essi caratterizza la maternità nella sua stessa essenza. Ciascun figlio, infatti, è generato in modo unico ed irripetibile, e ciò vale sia per la madre che per il figlio. Ciascun figlio viene circondato nel medesimo modo da quell'amore materno, sul quale si basa la sua formazione e maturazione nell'umanità. Si può dire che la maternità «nell'ordine della grazia» mantenga l'analogia con ciò che «nell'ordine della natura» caratterizza l'unione della madre col figlio. In questa luce diventa più comprensibile perché nel testamento di Cristo sul Golgota la nuova maternità di sua madre sia stata espressa al singolare, in riferimento ad un uomo: «Ecco il tuo figlio».Si può dire, inoltre, che in queste stesse parole venga pienamente indicato il motivo della dimensione mariana della vita dei discepoli di Cristo: non solo di Giovanni, che in quell'ora stava sotto la Croce insieme alla madre del suo Maestro, ma di ogni discepolo di Cristo, di ogni cristiano. Il redentore affida sua madre al discepolo e, nello stesso tempo, gliela dà come madre. La maternità di Maria che diventa eredità dell'uomo è un dono: un dono che Cristo stesso fa personalmente ad ogni uomo. Il Redentore affida Maria a Giovanni in quanto affida Giovanni a Maria. Ai piedi della croce ha inizio quello speciale affidamento dell'uomo alla Madre di Cristo, che nella storia della Chiesa fu poi praticato ed espresso in diversi modi. Quando lo stesso apostolo ed evangelista, dopo aver riportato le parole rivolte da Gesù sulla Croce alla madre ed a lui stesso, aggiunge: «E da quel momento il discepolo la prese con sé» (Gv19,27), questa affermazione certamente vuol dire che al discepolo fu attribuito un ruolo di figlio e che egli si assunse la cura della Madre dell'amato Maestro. E poiché Maria fu data come madre personalmente a lui, l'affermazione indica, sia pure indirettamente, quanto esprime l'intimo rapporto di un figlio con la madre. E tutto questo si può racchiudere nella parola «affidamento». L'affidamento è la risposta all'amore di una persona e, in particolare, all'amore della madre. La dimensione mariana della vita di un discepolo di Cristo si esprime in modo speciale proprio mediante tale affidamento filiale nei riguardi della Madre di Dio, iniziato col testamento del Redentore sul Golgota. Affidandosi filialmente a Maria, il cristiano, come l'apostolo Giovanni, accoglie «fra le sue cose proprie» la Madre di Cristo e la introduce in tutto lo spazio della propria vita interiore, cioè nel suo «io» umano e cristiano: «La prese con sé». Così egli cerca di entrare nel raggio d'azione di quella «materna carità», con la quale la Madre del Redentore «si prende cura dei fratelli del Figlio suo», «alla cui rigenerazione e formazione ella coopera» secondo la misura del dono, propria di ciascuno per la potenza dello Spirito di Cristo. Così anche si esplica quella maternità secondo lo spirito, che è diventata la funzione di Maria sotto la Croce e nel cenacolo.

46. Questo rapporto filiale, questo affidarsi di un figlio alla madre non solo ha il suo inizio in Cristo, ma si può dire che in definitiva sia orientato verso di lui Si può dire che Maria continui a ripetere a tutti le stesse parole, che disse a Cana di Galilea: «Fate quello che egli vi dirà». Infatti è lui, Cristo, l'unico mediatore fra Dio e gli uomini; è lui «la via, la verità e la vita» (Gv14,6); è lui che il Padre ha dato al mondo, affinché l'uomo «non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv3,16). La Vergine di Nazareth è divenuta la prima «testimone» di questo amore salvifico del Padre e desidera anche rimanere la sua umile serva sempre e dappertutto. Nei riguardi di ogni cristiano, di ogni uomo, Maria è colei «che ha creduto» per prima, e proprio con questa sua fede di sposa e di madre vuole agire su tutti coloro, che a lei si affidano come figli. Ed è noto che quanto più questi figli perseverano in tale atteggiamento e in esso progrediscono, tanto più Maria li avvicina alle «imperscrutabili ricchezze di Cristo». E altrettanto essi riconoscono sempre meglio la dignità dell'uomo in tutta la sua pienezza e il definitivo senso della di lui vocazione, perché «Cristo... svela anche pienamente l'uomo all'uomo». Questa dimensione mariana della vita cristiana assume un'accentuazione peculiare in rapporto alla donna ed alla sua condizione. In effetti, la femminilità si trova in una relazione singolare con la Madre del Redentore, argomento che potrà essere approfondito in altra sede. Qui desidero solo rilevare che la figura di Maria di Nazareth proietta luce sulla donna in quanto tale per il fatto stesso che Dio, nel sublime evento dell'incarnazione del Figlio, si è affidato al ministero, libero e attivo, di una donna. Si può, pertanto, affermare che la donna, guardando a Maria, trova in lei il segreto per vivere degnamente la sua femminilità ed attuare la sua vera promozione. Alla luce di Maria, la Chiesa legge sul volto della donna i riflessi di una bellezza, che è specchio dei più alti sentimenti, di cui è capace il cuore umano: la totalità oblativa dell'amore; la forza che sa resistere ai più grandi dolori; la fedeltà illimitata e l'operosità infaticabile; la capacità di coniugare l'intuizione penetrante con la parola di sostegno e di incoraggiamento.

47. Durante il Concilio Paolo VI proclamò solennemente che Maria è Madre della Chiesa, «cioè Madre di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei pastori». Più tardi, nel 1968 nella Professione di fede, conosciuta sotto il nome di «Credo del Popolo di Dio», ribadì tale affermazione in forma ancora più impegnativa con le parole: «Noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo alle membra di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti». Il magistero del Concilio ha sottolineato che la verità sulla Vergine Santissima, Madre di Cristo, costituisce un sussidio efficace per l'approfondimento della verità sulla Chiesa. Lo stesso Paolo VI, prendendo la parola in merito alla costituzione Lumen Gentium, appena approvata dal Concilio, disse: «La conoscenza della vera dottrina cattolica sulla Beata Vergine Maria costituirà sempre una chiave per l'esatta comprensione del mistero di Cristo e della Chiesa». Maria è presente nella Chiesa come Madre di Cristo, ed insieme come quella Madre che Cristo, nel mistero della redenzione, ha dato all'uomo nella persona di Giovanni apostolo. Perciò, Maria abbraccia, con la sua nuova maternità nello Spirito, tutti e ciascuno nella Chiesa, abbraccia anche tutti e ciascuno mediante la Chiesa. In questo senso Maria, Madre della Chiesa, ne è anche modello. La Chiesa infatti - come auspica e chiede Paolo VI - «dalla Vergine Madre di Dio deve trarre la più autentica forma della perfetta imitazione di Cristo». Grazie a questo speciale legame, che unisce la Madre di Cristo con la Chiesa, si chiarisce meglio il mistero di quella «donna», che, dai primi capitoli del Libro della Genesi fino all'Apocalisse, accompagna la rivelazione del disegno salvifico di Dio nei riguardi dell'umanità. Maria, infatti, presente nella Chiesa come Madre del Redentore, partecipa maturamente a quella «dura lotta contro le potenze delle tenebre», che si svolge durante tutta la storia umana. E per questa sua identificazione ecclesiale con la «donna vestita di sole» (Ap12,1), si può dire che «la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione, per la quale è senza macchia e senza ruga»; per questo, i cristiani, innalzando con fede gli occhi a Maria lungo il loro pellegrinaggio terreno, «si sforzano ancora di crescere nella santità». Maria, l'eccelsa figlia di Sion, aiuta tutti i suoi figli - dovunque e comunque essi vivano - a trovare in Cristo la via verso la casa del Padre. Pertanto, la Chiesa, in tutta la sua vita, mantiene con la Madre di Dio un legame che abbraccia, nel mistero salvifico, il passato, il presente e il futuro e la venera come madre spirituale dell'umanità e avvocata di grazia.

3. Il senso dell'Anno Mariano

48. Proprio lo speciale legame dell'umanità con questa Madre mi ha indotto a proclamare nella Chiesa, nel periodo anteriore alla conclusione del secondo Millennio dalla nascita di Cristo, un Anno Mariano. Una simile iniziativa ebbe già luogo in passato, quando Pio XII proclamò il 1954 come Anno Mariano, al fine di mettere in rilievo l'eccezionale santità della Madre di Cristo, espressa nei misteri della sua immacolata concezione (definita esattamente un secolo prima) e della sua assunzione al Cielo. Ora, seguendo la linea del Concilio Vaticano II, desidero far risaltare la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero di Cristo e della sua Chiesa. È questa, infatti, una dimensione fondamentale che sgorga dalla mariologia del Concilio, dalla cui conclusione ci separano ormai più di vent'anni. Il Sinodo straordinario dei Vescovi, che si è svolto nel 1985, ha esortato tutti a seguire fedelmente il magistero e le indicazioni del Concilio. Si può dire che in essi Concilio e Sinodo - sia contenuto ciò che lo Spirito Santo stesso desidera «dire alla Chiesa» nella presente fase della storia. In un tale contesto, l'Anno Mariano dovrà promuovere una nuova ed approfondita lettura anche di ciò che il Concilio ha detto sulla Beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa, a cui si richiamano le considerazioni di questa Enciclica. Si tratta qui non solo della dottrina della fede, ma anche della vita di fede e, dunque, dell'autentica «spiritualità mariana», vista alla luce della Tradizione e, specialmente, della spiritualità alla quale ci esorta il Concilio. Inoltre, la spiritualità mariana, al pari della devozione corrispondente, trova una ricchissima fonte nell'esperienza storica delle persone e delle varie comunità cristiane, viventi tra i diversi popoli e nazioni su tutta la terra. In proposito, mi è caro ricordare, tra i tanti testimoni e maestri di tale spiritualità, la figura di san Luigi Maria Grignion de Montfort, il quale proponeva ai cristiani la consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali. Rilevo con piacere come anche ai nostri giorni non manchino nuove manifestazioni di questa spiritualità e devozione. Ci sono, dunque, sicuri punti di riferimento a cui mirare e ricollegarsi nel contesto di quest'Anno Mariano.

49. Esso avrà inizio nella solennità di pentecoste, il 7 giugno prossimo. Si tratta, infatti, non solo di rammentare che Maria «ha preceduto» l'ingresso di Cristo Signore nella storia dell'umanità, ma di sottolineare, altresì, alla luce di Maria, che sin dal compimento del mistero dell'incarnazione la storia dell'umanità è entrata nella «pienezza del tempo» e che la Chiesa è il segno di questa pienezza. Come popolo di Dio, la Chiesa compie il pellegrinaggio verso l'eternità mediante la fede, in mezzo a tutti i popoli e nazioni, a cominciare dal giorno della pentecoste. La Madre di Cristo, che fu presente all'inizio del «tempo della Chiesa», quando in attesa dello Spirito Santo era assidua nella preghiera in mezzo agli apostoli e ai discepoli del suo Figlio, costantemente «precede» la Chiesa in questo suo cammino attraverso la storia dell'umanità. Ella è anche colei che, proprio come serva del Signore, coopera incessantemente all'opera della salvezza compiuta da Cristo, suo Figlio. Così mediante questo Anno Mariano la Chiesa viene chiamata non solo a ricordare tutto ciò che nel suo passato testimonia la speciale, Materna cooperazione della Madre di Dio all'opera della salvezza in Cristo Signore, ma anche a preparare, da parte sua, per il futuro le vie di questa cooperazione: poiché il termine del secondo Millennio cristiano apre come una nuova prospettiva.

50. Come è già stato ricordato, anche tra i fratelli disuniti molti onorano e celebrano la Madre del Signore, specialmente presso gli orientali. È una luce mariana proiettata sull'ecumenismo. In particolare, desidero ancora ricordare che durante l'Anno Mariano ricorrerà il Millennio del battesimo di san Vladimiro, Gran Principe di Kiev (a. 988), che diede inizio al cristianesimo nei territori della Rus' di allora e, in seguito, in altri territori dell'Europa orientale; e che per questa via, mediante l'opera di evangelizzazione, il cristianesimo si estese anche oltre l'Europa, fino ai territori settentrionali del continente asiatico. Vorremmo, dunque, specialmente durante questo Anno, unirci in preghiera con tutti coloro che celebrano il Millennio di questo battesimo, ortodossi e cattolici, rinnovando e confermando col Concilio quei sentimenti di gioia e di consolazione perché «gli Orientali ...concorrono nel venerare la Madre di Dio, sempre Vergine, con ardente slancio ed animo devoto». Anche se ancora sperimentiamo i dolorosi effetti della separazione, avvenuta alcuni decenni dopo (a. 1054), possiamo dire che davanti alla Madre di Cristo ci sentiamo veri fratelli e sorelle nell'ambito di quel popolo messianico, chiamato ad essere un'unica famiglia di Dio sulla terra, come annunciavo già all'inizio dell'anno nuovo: «Desideriamo riconfermare quest'eredità universale di tutti i figli e le figlie di questa terra». Annunciando l'anno di Maria, precisavo, altresì, che la sua conclusione avverrà l'anno prossimo nella solennità dell'assunzione della Santissima Vergine al Cielo, per mettere in risalto «il segno grandioso nel Cielo», di cui parla l'Apocalisse. In questo modo vogliamo anche adempiere l'esortazione del Concilio, che guarda a Maria come a «segno di sicura speranza e di consolazione per il pellegrinante popolo di Dio». E questa esortazione il Concilio esprime con le seguenti parole: «Tutti i fedeli effondano insistenti suppliche alla Madre di Dio e Madre degli uomini, perché ella, che con le sue preghiere assistette la Chiesa ai suoi inizi, anche ora in Cielo, esaltata sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione di tutti i santi, interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie dei popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità».

CONCLUSIONE

51. Al termine della quotidiana liturgia delle Ore si innalza, tra le altre, questa invocazione della Chiesa a Maria:

«O alma Madre del Redentore,
porta sempre aperta del cielo e stella del mare,
soccorri il tuo popolo, che cade, ma pur anela a risorgere.
Tu che hai generato, nello stupore di tutto il creato, il tuo santo Genitore!».

«Nello stupore di tutto il creato»! Queste parole dell'antifona esprimono quello stupore della fede, che accompagna il mistero della maternità divina di Maria. Lo accompagna, in certo senso, nel cuore di tutto il creato e, direttamente; nel cuore di tutto il popolo di Dio, nel cuore della Chiesa. Quanto mirabilmente lontano si è spinto Dio, creatore e signore di tutte le cose, nella «rivelazione di se stesso» all'uomo! Quanto chiaramente egli ha superato tutti gli spazi di quell'infinita «distanza», che separa il creatore dalla creatura! Se in se stesso rimane ineffabile ed imperscrutabile, ancor più ineffabile ed imperscrutabile è nella realtà dell'incarnazione del Verbo, che si è fatto uomo mediante la Vergine di Nazareth. Se egli ha voluto chiamare eternamente l'uomo ad essere partecipe della natura divina (2Pt1,4), si può dire che ha preordinato la «divinizzazione» dell'uomo secondo le sue condizioni storiche, sicché anche dopo il peccato è disposto a ristabilire a caro prezzo il disegno eterno del suo amore mediante l'«umanizzazione» del Figlio, a lui consostanziale. Tutto il creato e, più direttamente, l'uomo non può non rimanere stupito di fronte a questo dono, di cui è divenuto partecipe nello Spirito Santo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv3,16). Al centro di questo mistero, nel vivo di questo stupore di fede, sta Maria. Alma Madre del Redentore, ella lo ha provato per prima: «Tu che hai generato, nello stupore di tutto il creato, il tuo santo Genitore» !

52. Nelle parole di questa antifona liturgica è espressa anche la verità della «grande svolta», che è determinata per l'uomo dal mistero dell'incarnazione. È una svolta che appartiene a tutta la sua storia, da quell'inizio che ci è rivelato nei primi capitoli della Genesi fino al termine ultimo, nella prospettiva della fine del mondo di cui Gesù non ci ha rivelato «né il giorno né l'ora» (Mt25,13). È una svolta incessante e continua tra il cadere e il risollevarsi, tra l'uomo del peccato e l'uomo della grazia e della giustizia. La liturgia, specie nell'Avvento, si colloca al punto nevralgico di questa svolta e ne tocca l'incessante «oggi e ora», mentre esclama: «Soccorri il tuo popolo, che cade, ma pur sempre anela a risorgere»! Queste parole si riferiscono ad ogni uomo, alle comunità, alle nazioni e ai popoli, alle generazioni e alle epoche della storia umana, alla nostra epoca, a questi anni del Millennio che volge al termine: «Soccorri, sì soccorri il tuo popolo che cade» ! Questa è l'invocazione rivolta a Maria, «alma Madre del Redentore», è l'invocazione rivolta a Cristo, che per mezzo di Maria è entrato nella storia dell'umanità. Di anno in anno, l'antifona si innalza a Maria, rievocando il momento in cui si è compiuta questa essenziale svolta storica, che perdura irreversibilmente: la svolta tra il «cadere» e il «risorgere». L'umanità ha fatto mirabili scoperte e ha raggiunto risultati portentosi nel campo della scienza e della tecnica, ha compiuto grandi opere sulla via del progresso e della civiltà, e nei tempi recenti si direbbe che è riuscita ad accelerare il corso della storia; ma la svolta fondamentale, la svolta che si può dire «originale», accompagna sempre il cammino dell'uomo e, attraverso le diverse vicende storiche, accompagna tutti e ciascuno. È la svolta tra il «cadere» e il «risorgere», tra la morte e la vita. Essa è anche una incessante sfida alle coscienze umane, una sfida a tutta la coscienza storica dell'uomo: la sfida a seguire la via del «non cadere» nei modi sempre antichi e sempre nuovi, e del «risorgere», se è caduto. Mentre con tutta l'umanità si avvicina al confine tra i due millenni, la Chiesa, da parte sua, con tutta la comunità dei credenti e in unione con ogni uomo di buona volontà, raccoglie la grande sfida contenuta nelle parole dell'antifona sul «popolo che cade, ma pur anela a risorgere» e si rivolge congiuntamente al Redentore ed a sua Madre con l'invocazione: «Soccorri». Essa, infatti, vede - e lo attesta questa preghiera - la Beata Madre di Dio nel mistero salvifico di Cristo e nel suo proprio mistero; la vede profondamente radicata nella storia dell'umanità, nell'eterna vocazione dell'uomo, secondo il disegno provvidenziale che Dio ha per lui eternamente predisposto; la vede maturamente presente e partecipe nei molteplici e complessi problemi che accompagnano oggi la vita dei singoli, delle famiglie e delle nazioni; la vede soccorritrice del popolo cristiano nell'incessante lotta tra il bene e il male, perché «non cada» o, caduto, «risorga». Auspico fervidamente che anche le riflessioni, contenute nella presente Enciclica, giovino a! rinnovamento di questa visione nel cuore di tutti i credenti.

Come Vescovo di Roma, io mando a tutti coloro, a cui sono destinate queste considerazioni, il bacio della pace, il saluto e la benedizione in nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo - nella Solennità l'annunciazione del Signore - dell'anno 1987, nono di Pontificato.

 

 

REDEMPTOR HOMINIS



LETTERA ENCICLICA
REDEMPTOR HOMINIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VENERATI FRATELLI NELL'EPISCOPATO
AI SACERDOTI E ALLE FAMIGLIE RELIGIOSE
AI FIGLI E FIGLIE DELLA CHIESA
E A TUTTI GLI UOMINI DI BUONA VOLONTA'
ALL'INIZIO
DEL SUO MINISTERO PONTIFICALE

Venerati Fratelli e carissimi Figli ,
salute e Apostolica Benedizione!

I

EREDITA'

1. Al termine del secondo Millennio

IL REDENTORE DELL'UOMO, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia. A Lui si rivolgono il mio pensiero ed il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l'intera famiglia dell'umanità contemporanea stanno vivendo. Infatti, questo tempo, nel quale Dio per un suo arcano disegno, dopo il prediletto Predecessore Giovanni Paolo I, mi ha affidato il servizio universale collegato con la Cattedra di San Pietro a Roma, è già molto vicino all'anno Duemila. E' difficile dire, in questo momento, che cosa quell'anno segnerà sul quadrante della storia umana, e come esso sarà per i singoli popoli, nazioni, paesi e continenti, benché sin d'ora si tenti di prevedere taluni eventi. Per la Chiesa, per il Popolo di Dio, che si è esteso _ sia pure in modo diseguale _ fino ai più lontani confini della terra, quell'anno sarà l'anno di un gran Giubileo. Ci stiamo ormai avvicinando a tale data che _ pur rispettando tutte le correzioni dovute all'esattezza cronologica _ ci ricorderà e in modo particolare rinnoverà la consapevolezza della verità-chiave della fede, espressa da San Giovanni agli inizi del suo Vangelo: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»(1), e altrove: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna»(2).

Siamo anche noi, in certo modo, nel tempo di un nuovo Avvento, ch'è tempo di attesa. «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio...»(3), per mezzo del Figlio-Verbo, che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria. In questo atto redentivo la storia dell'uomo ha raggiunto nel disegno d'amore di Dio il suo vertice. Dio è entrato nella storia dell'umanità e, come uomo, è divenuto suo «soggetto», uno dei miliardi e, in pari tempo, Unico! Attraverso l'Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all'uomo sin dal suo primo inizio, e l'ha data in maniera definitiva _ nel modo peculiare a Lui solo, secondo il suo eterno amore e la sua misericordia, con tutta la divina libertà _ ed insieme con quella munificenza che, di fronte al peccato originale ed a tutta la storia dei peccati dell'umanità, di fronte agli errori dell'intelletto, della volontà e del cuore umano, ci permette di ripetere con stupore le parole della sacra Liturgia: «O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e grande Redentore!»(4).

2. Prime parole del nuovo Pontificato

A Cristo Redentore ho elevato i miei sentimenti e pensieri il 16 ottobre dello scorso anno, allorché, dopo l'elezione canonica, fu a me rivolta la domanda: «Accetti?». Risposi allora: «Obbedendo nella fede a Cristo, mio Signore, confidando nella Madre di Cristo e della Chiesa, nonostante le così grandi difficoltà, io accetto». Quella mia risposta voglio oggi render nota pubblicamente a tutti, senza alcuna eccezione, manifestando così che alla prima e fondamentale verità dell'Incarnazione, già ricordata, è legato il ministero che, con l'accettazione dell'elezione a Vescovo di Roma ed a Successore dell'apostolo Pietro, è divenuto specifico mio dovere nella stessa sua Cattedra.

Scelsi gli stessi nomi, che aveva scelto il mio amatissimo Predecessore Giovanni Paolo I. Difatti, già il 26 agosto 1978, quando egli dichiarò al Sacro Collegio di volersi chiamare Giovanni Paolo _ un binomio di questo genere era senza precedenti nella storia del Papato _ ravvisai in esso un chiaro auspicio della grazia sul nuovo pontificato. Dato che quel pontificato è durato appena 33 giorni, spetta a me non soltanto di continuarlo, ma, in certo modo, di riprenderlo dallo stesso punto di partenza. Questo precisamente è confermato dalla scelta, da me fatta, di quei due nomi. Scegliendoli, dopo l'esempio del venerato mio Predecessore, desidero come lui esprimere il mio amore per la singolare eredità lasciata alla Chiesa dai Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI, ed insieme la personale mia disponibilità a svilupparla con l'aiuto di Dio.

Attraverso questi due nomi e due pontificati mi riallaccio a tutta la tradizione di questa Sede Apostolica, con tutti i Predecessori nell'arco del ventesimo secolo e dei secoli precedenti, collegandomi via via, secondo le diverse età fino alle più remote, a quella linea della missione e del ministero, che conferisce alla Sede di Pietro un posto del tutto particolare nella Chiesa. Giovanni XXIII e Paolo VI costituiscono una tappa, alla quale desidero riferirmi direttamente come a soglia, dalla quale intendo, in qualche modo insieme con Giovanni Paolo I, proseguire verso l'avvenire, lasciandomi guidare dalla fiducia illimitata e dall'obbedienza allo Spirito, che Cristo ha promesso ed inviato alla sua Chiesa. Egli diceva, infatti, agli Apostoli alla vigilia della sua passione: «E' bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò andato, ve lo manderò»(5). «Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio»(6). «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future»(7).

3. Fiducia nello Spirito di Verità e di Amore

Affidandomi pienamente allo Spirito di verità, entro, dunque, nella ricca eredità dei recenti pontificati. Questa eredità è fortemente radicata nella coscienza della Chiesa in modo del tutto nuovo, non mai prima conosciuto, grazie al Concilio Vaticano II, convocato e inaugurato da Giovanni XXIII e, in seguito, felicemente concluso e con perseveranza attuato da Paolo VI, la cui attività ho potuto io stesso osservare da vicino. Fui sempre stupito dalla sua profonda saggezza e dal suo coraggio, come anche dalla sua costanza e pazienza nel difficile periodo postconciliare del suo pontificato. Come timoniere della Chiesa, barca di Pietro, egli sapeva conservare una tranquillità ed un equilibrio provvidenziali anche nei momenti più critici, quando sembrava che essa fosse scossa dal di dentro, sempre mantenendo un'incrollabile speranza nella sua compattezza. Ciò, infatti, che lo Spirito disse alla Chiesa mediante il Concilio del nostro tempo, ciò che in questa Chiesa dice a tutte le Chiese(8) non può _ nonostante inquietudini momentanee _ servire a nient'altro che ad una ancor più matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica.

Proprio di questa coscienza contemporanea della Chiesa, Paolo VI fece il primo tema della sua fondamentale Enciclica, che inizia con le parole Ecclesiam Suam, ed a questa Enciclica sia a me lecito, innanzitutto, di far riferimento e collegarmi in questo primo e, per così dire, inaugurale documento del presente pontificato. Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo, la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo ministero divino, sia riguardo alla sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane: ed è proprio questa coscienza che è e deve rimanere la prima sorgente dell'amore di questa Chiesa, così come l'amore, da parte sua, contribuisce a consolidare e ad approfondire la coscienza. Paolo VI ci ha lasciato la testimonianza di una tale coscienza, estremamente acuta, della Chiesa. Attraverso le molteplici e spesso sofferte componenti del suo pontificato, egli ci ha insegnato l'intrepido amore verso la Chiesa, la quale _ come afferma il Concilio _ è «sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»(9).

4. Riferimento alla prima Enciclica di Paolo VI

Proprio per tale ragione, la coscienza della Chiesa deve esser congiunta con un'apertura universale, affinché tutti possano trovare in essa «le imperscrutabili ricchezze di Cristo»(10), di cui parla l'Apostolo delle genti. Tale apertura, organicamente unita con la coscienza della propria natura, con la certezza della propria verità, di cui disse Cristo: «La mia parola non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»(11), determina il dinamismo apostolico, cioè missionario, della Chiesa, la quale professa e proclama integralmente tutta quanta la verità trasmessa da Cristo.

Essa deve, in pari tempo, condurre quel dialogo che Paolo VI nella sua Enciclica Ecclesiam Suam chiamò «dialogo della salvezza», differenziando con precisione i singoli cerchi, nell'àmbito dei quali esso dovrebbe esser condotto(12). Mentre oggi mi riferisco a questo documento programmatico del pontificato di Paolo VI, non cesso di ringraziare Dio, perché questo mio grande Predecessore e insieme vero padre, ha saputo _ nonostante le diverse debolezze interne, di cui la Chiesa nel periodo postconciliare ha sofferto _ manifestarne «ad extra», «al di fuori», l'autentico volto. In tal modo, anche gran parte della famiglia umana, nei diversi àmbiti della sua molteplice esistenza, è diventata _ secondo il mio parere _ più cosciente di come sia ad essa veramente necessaria la Chiesa di Cristo, la sua missione e il suo servizio. Questa coscienza si è talvolta dimostrata più forte dei diversi atteggiamenti critici, che attaccavano «ab intra», «dal di dentro», la Chiesa, le sue istituzioni e strutture, gli uomini della Chiesa e la loro attività. Tale crescente critica ha avuto senz'altro diverse cause, e siamo certi, d'altra parte, che essa non è stata sempre priva di un vero amore alla Chiesa. Indubbiamente, si è manifestata in essa, fra l'altro, la tendenza a superare il cosiddetto trionfalismo, di cui spesso si discuteva durante il Concilio. Se è cosa giusta, però, che la Chiesa, seguendo l'esempio del suo Maestro che era «umile di cuore»(13), sia fondata anch'essa sull'umiltà, che abbia il senso critico rispetto a tutto ciò che costituisce il suo carattere e la sua attività umana, che sia sempre molto esigente con se stessa, parimenti anche lo spirito critico deve avere i suoi giusti limiti. In caso contrario, esso cessa di esser costruttivo, non rivela la verità, l'amore e la gratitudine per la grazia, di cui principalmente e pienamente diventiamo partecipi proprio nella Chiesa e mediante la Chiesa. Inoltre, esso non esprime l'atteggiamento di servizio, ma piuttosto la volontà di dirigere l'opinione altrui secondo la propria opinione, alle volte divulgata in modo troppo sconsiderato.

Si deve gratitudine a Paolo VI perché, rispettando ogni particella di verità contenuta nelle varie opinioni umane, ha conservato in pari tempo il provvidenziale equilibrio del timoniere della Barca(14). La Chiesa che, attraverso Giovanni Paolo I e quasi subito dopo di lui ho avuto affidata, non è certamente scevra da diffìcoltà e da tensioni interne. Nello stesso tempo, però, essa è interiormente più premunita contro gli eccessi dell'autocriticismo: si potrebbe dire che è più critica di fronte alle diverse sconsiderate critiche, è più resistente rispetto alle varie «novità», più matura nello spirito di discernimento, più idonea ad estrarre dal suo perenne tesoro «cose nuove e cose antiche»(15), più centrata sul proprio mistero, e, grazie a tutto ciò, più disponibile per la missione della salvezza di tutti: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità»(16).

5. Collegialità e apostolato

Questa Chiesa è _ contro tutte le apparenze _ più unita nella comunione di servizio e nella coscienza dell'apostolato. Tale unione scaturisce da quel principio di collegialità, ricordato dal Concilio Vaticano II, che Cristo stesso innestò nel collegio apostolico dei Dodici con Pietro a capo, e che rinnova continuamente nel collegio dei Vescovi, il quale sempre più cresce su tutta la terra, rimanendo unito col Successore di San Pietro e sotto la sua guida. Il Concilio non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi, ma lo ha immensamente vivificato, fra l'altro auspicando l'istituzione di un Organo permanente che Paolo VI stabilì costituendo il Sinodo dei Vescovi, la cui attività non solo diede una nuova dimensione al suo pontificato, ma, in seguito, si è chiaramente riflessa, fin dai primi giorni, nel pontificato di Giovanni Paolo I ed in quello del suo indegno Successore.

Il principio di collegialità si è dimostrato particolarmente attuale nel difficile periodo postconciliare, quando la comune ed unanime posizione del collegio dei Vescovi _ che soprattutto mediante il Sinodo ha manifestato la sua unione col Successore di Pietro _ contribuiva a dissipare i dubbi e indicava parimenti le giuste vie del rinnovamento della Chiesa, nella sua dimensione universale. Dal Sinodo, infatti, è scaturito fra l'altro quell'impulso essenziale all'evangelizzazione che ha trovato la sua espressione nell'Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi(17), con tanta gioia accolta come programma del rinnovamento di carattere apostolico e insieme pastorale. La stessa linea è stata seguita anche nei lavori dell'ultima sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi, la quale ebbe luogo circa un anno prima della scomparsa del Pontefice Paolo VI, e fu dedicata _ com'è noto _ alla catechesi. I risultati di quei lavori richiedono ancora una sistemazione e una enunciazione da parte della Sede Apostolica.

Poiché stiamo trattando dell'evidente sviluppo delle forme in cui si esprime la collegialità episcopale, occorre almeno ricordare il processo di consolidamento delle Conferenze Episcopali nazionali in tutta la Chiesa e di altre strutture collegiali a carattere internazionale o continentale. Riferendoci poi alla tradizione secolare della Chiesa, conviene sottolineare l'attività dei diversi Sinodi locali. Fu, infatti, idea del Concilio, coerentemente attuata da Paolo VI, che le strutture di questo genere, da secoli sperimentate dalla Chiesa, come anche le altre forme della collaborazione collegiale dei Vescovi, ad esempio la metropolia, per non parlare già di ogni singola diocesi, pulsassero in piena consapevolezza della propria identità ed insieme della propria originalità, nell'unità universale della Chiesa. Lo stesso spirito di collaborazione e di corresponsabilità si sta diffondendo anche tra i sacerdoti, e ciò viene confermato dai numerosi Consigli Presbiterali, che son sorti dopo il Concilio. Questo spirito si è esteso anche tra i laici, confermando non soltanto le organizzazioni dell'apostolato laicale già esistenti, ma creandone delle nuove, aventi spesso un profilo diverso ed una dinamica eccezionale. Inoltre, i laici, consapevoli della loro responsabilità dinanzi alla Chiesa, si sono impegnati volentieri nella collaborazione con i Pastori, con i rappresentanti degli Istituti di vita consacrata, nell'àmbito dei Sinodi diocesani o dei Consigli pastorali nelle parrocchie e nelle diocesi.

E' per me necessario avere in mente tutto questo agli inizi del mio pontificato, per ringraziare Dio, per esprimere un vivo incoraggiamento a tutti i Fratelli e Sorelle, e per ricordare, inoltre, con viva gratitudine l'opera del Concilio Vaticano II ed i miei grandi Predecessori, che hanno dato avvio a questa nuova «ondata» della vita della Chiesa, moto ben più potente dei sintomi di dubbio, di crollo e di crisi.

6. Via all'unione dei cristiani

E che cosa dire di tutte le iniziative scaturite dal nuovo orientamento ecumenico? L'indimenticabile Papa Giovanni XXIII, con evangelica chiarezza, impostò il problema dell'unione dei cristiani, come semplice conseguenza della volontà dello stesso Gesù Cristo, nostro Maestro, affermata più volte ed espressa, in modo particolare, nella preghiera del Cenacolo, alla vigilia della sua morte: «Prego..., Padre..., perché tutti siano una cosa sola»(18). Il Concilio Vaticano II rispose a questa esigenza in forma concisa col Decreto sull'ecumenismo. Il Papa Paolo VI, avvalendosi dell'attività del Segretariato per l'unione dei Cristiani, iniziò i primi difficili passi sulla via del conseguimento di tale unione. Siamo andati lontano su questa strada? Senza voler dare una risposta particolareggiata, possiamo dire che abbiamo fatto dei veri ed importanti progressi. Ed una cosa è certa: abbiamo lavorato con perseveranza e coerenza, ed insieme con noi si sono impegnati anche i rappresentanti di altre Chiese e di altre Comunità cristiane, e di questo siamo loro sinceramente obbligati. E certo, inoltre, che, nella presente situazione storica della cristianità e del mondo, non appare altra possibilità di adempiere la missione universale della Chiesa, per quanto riguarda i problemi ecumenici, che quella di cercare lealmente, con perseveranza, con umiltà e anche con coraggio, le vie di avvicinamento e di unione così come ce ne ha dato il personale esempio Papa Paolo VI. Dobbiamo, pertanto, ricercare l'unione senza scoraggiarci di fronte alle difficoltà, che possono presentarsi o accumularsi lungo tale via; altrimenti, non saremmo fedeli alla parola di Cristo, non realizzeremmo il suo testamento. E lecito correre questo rischio?

Vi sono persone che, trovandosi di fronte alle difficoltà, oppure giudicando negativi i risultati degli iniziali lavori ecumenici, avrebbero voluto indietreggiare. Alcuni esprimono perfino l'opinione che questi sforzi nuocciano alla causa del Vangelo, conducano ad un'ulteriore rottura della Chiesa, provochino confusione di idee nelle questioni della fede e della morale, approdino ad uno specifico indifferentismo. Sarà forse bene che i portavoce di tali opinioni esprimano i loro timori; tuttavia, anche a questo riguardo, bisogna mantenere i giusti limiti. E ovvio che questa nuova tappa della vita della Chiesa esiga da noi una fede particolarmente cosciente, approfondita e responsabile. La vera attività ecumenica significa apertura, avvicinamento, disponibilità al dialogo, comune ricerca della verità nel pieno senso evangelico e cristiano; ma essa non significa assolutamente né può significare rinunciare o recare in qualsiasi modo pregiudizio ai tesori della verità divina, costantemente confessata ed insegnata dalla Chiesa. A tutti coloro che, per qualsiasi motivo, vorrebbero dissuadere la Chiesa dalla ricerca dell'unità universale dei cristiani, bisogna ripetere ancora una volta: E lecito a noi il non farlo? Possiamo _ nonostante tutta la debolezza umana e tutte le deficienze accumulatesi nei secoli passati _ non aver fiducia nella grazia di Nostro Signore, quale si è rivelata, nell'ultimo tempo, mediante la parola dello Spirito Santo, che abbiamo sentito durante il Concilio? Facendo così, negheremmo la verità che concerne noi stessi e che l'Apostolo ha espresso in modo tanto eloquente: «Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana»(19).

Pur se in altro modo e con le dovute differenze, bisogna applicare ciò che è stato detto all'attività che tende all'avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana, i quali _ come ben sappiamo _ non mancano neppure ai membri di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane _ effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico _ possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei princìpi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? E nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere la certezza della propria fede(20), ovvero indebolire i princìpi della morale, la cui mancanza si farà risentire ben presto nella vita di intere società, determinando, fra l'altro, deplorevoli conseguenze.

II

IL MISTERO DELLA REDENZIONE

7. Nel Mistero di Cristo

Se le vie, sulle quali il Concilio del nostro secolo ha avviato la Chiesa, vie che ci ha indicato nella sua prima Enciclica il compianto Papa Paolo VI, rimarranno a lungo esattamente quelle che noi tutti dobbiamo seguire, al tempo stesso in questa nuova tappa possiamo giustamente chiederci: Come? In che modo occorre proseguire? Che cosa occorre fare, affinché questo nuovo Avvento della Chiesa, congiunto con l'ormai prossima fine del secondo Millennio, ci avvicini a Colui che la Sacra Scrittura chiama: «Padre per sempre», Pater futuri saeculi?(21) Questa è la fondamentale domanda che il nuovo Pontefice deve porsi, quando, in ispirito d'obbedienza di fede, accetta la chiamata secondo il comando da Cristo più volte rivolto a Pietro: «Pasci i miei agnelli»(22), che vuol dire: Sii pastore del mio ovile; e poi «... e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli»(23).

E proprio qui, carissimi Fratelli, Figli e Figlie, che s'impone una risposta fondamentale ed essenziale, e cioè: l'unico orientamento dello spirito, l'unico indirizzo dell'intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell'uomo; verso Cristo, Redentore del mondo. A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio, c'è salvezza, rinnovando l'affermazione di Pietro: «Signore, a chi andremo? Tu hai parole di vita eterna»(24).

Attraverso la coscienza della Chiesa, tanto sviluppata dal Concilio, attraverso tutti i gradi di questa coscienza, attraverso tutti i campi di attività in cui la Chiesa si esprime, si ritrova e si conferma, dobbiamo costantemente tendere a Colui «che è il capo»(25), a Colui «in virtù del quale esistono tutte le cose e noi siamo per lui»(26), a Colui il quale è insieme «la via, la verità»(27) e «la risurrezione e la vita»(28), a Colui vedendo il quale vediamo il Padre(29), a Colui che doveva partirsene da noi(30) _ s'intende per la morte sulla Croce e poi per l'Ascensione al Cielo _ affinché il Consolatore venisse a noi e continuamente venga come Spirito di verità(31). In Lui sono «tutti i tesori della sapienza e della scienza»(32), e la Chiesa è il suo Corpo(33). La Chiesa è «in Cristo come un sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»(34), e di ciò è Lui la sorgente! Lui stesso! Lui, il Redentore !

La Chiesa non cessa di ascoltare le sue parole, le rilegge di continuo, ricostruisce con la massima devozione ogni particolare della sua vita. Queste parole sono ascoltate anche dai non cristiani. La vita di Cristo parla, in pari tempo, a tanti uomini che non sono ancora in grado di ripetere con Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»(35). Egli, Figlio del Dio vivente, parla agli uomini anche come Uomo: è la sua vita stessa che parla, la sua umanità, la sua fedeltà alla verità, il suo amore che abbraccia tutti. Parla, inoltre, la sua morte in Croce, cioè l'imperscrutabile profondità della sua sofferenza e dell'abbandono. La Chiesa non cessa mai di riviverne la morte in Croce e la Risurrezione, che costituiscono il contenuto della sua vita quotidiana. Difatti, è per mandato di Cristo stesso, suo Maestro, che la Chiesa celebra incessantemente l'Eucaristia, trovando in essa «la sorgente della vita e della santità»(36), il segno efficace della grazia e della riconciliazione con Dio, il pegno della vita eterna. La Chiesa vive il suo mistero, vi attinge senza stancarsi mai e ricerca continuamente le vie per avvicinare questo mistero del suo Maestro e Signore al genere umano: ai popoli, alle nazioni, alle generazioni che si susseguono, ad ogni uomo in particolare, come se ripetesse sempre secondo l'esempio dell'Apostolo: «Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso»(37). La Chiesa rimane nella sfera del mistero della Redenzione, che è appunto diventato il principio fondamentale della sua vita e della sua missione.

8. Redenzione: rinnovata creazione

Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete più volte: «Dio vide che era cosa buona»(38) Il bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell'Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile, creato da Dio per l'uomo(39) _ quel mondo che, essendovi entrato il peccato, «è stato sottomesso alla caducità»(40) _ riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell'Amore. Infatti, «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»(41). Come nell'uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell'uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato(42). Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell'Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la «creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto»(43) ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»(44), circa la creazione che «è stata sottomessa alla caducità»? L'immenso progresso, non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell'uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme sottomissione «alla caducità»? Basta solo qui ricordare certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell'ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l'uso delle armi atomiche, all'idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che «geme e soffre»(45) ed «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio»?(46)

Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi «del mondo contemporaneo», perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile, l'uomo, scendendo _ come Cristo _ nel profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell'uomo, che nel linguaggio biblico ( ed anche non biblico) si esprime con la parola «cuore». Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico e irrepetibile, nel mistero dell'uomo ed è entrato nel suo «cuore». Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». E poi ancora: «Egli è l'immagine dell'invisibile Iddio (Col 1, 15). Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»(47). Egli, il Redentore dell'uomo!

9. Dimensione divina del mistero della Redenzione

Riflettendo nuovamente su questo stupendo testo del Magistero conciliare, non dimentichiamo, neanche per un momento, che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato la nostra riconciliazione presso il Padre(48). Proprio Lui, solo Lui ha soddisfatto all'eterno amore del Padre, a quella paternità che sin dal principio si è espressa nella creazione del mondo, nella donazione all'uomo di tutta la ricchezza del creato, nel farlo «poco meno degli angeli»(49), in quanto creato «ad immagine ed a somiglianza di Dio»(50); e, egualmente, ha soddisfatto a quella paternità di Dio e a quell'amore, in un certo modo respinto dall'uomo con la rottura della prima Alleanza(51) e di quelle posteriori che Dio «molte volte ha offerto agli uomini»(52). La redenzione del mondo _ questo tremendo mistero dell'amore, in cui la creazione viene rinnovata(53) _ è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia in un Cuore umano: nel Cuore del Figlio primogenito, perché essa possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall'eternità, predestinati a divenire figli di Dio(54) e chiamati alla grazia, chiamati all'amore. La croce sul Calvario, per mezzo della quale Gesù Cristo _ uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazaret _ «lascia» questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell'eterna paternità di Dio, il quale in Lui si avvicina di nuovo all'umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo «Spirito di verità»(55).

Con questa rivelazione del Padre ed effusione dello Spirito Santo, che stampano un sigillo indelebile sul mistero della Redenzione, si spiega il senso della croce e della morte di Cristo. Il Dio della creazione si rivela come Dio della redenzione, come Dio «fedele a se stesso»(56), fedele al suo amore verso l'uomo e verso il mondo, già rivelato nel giorno della creazione. E il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia. E per questo il Figlio «che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore»(57). Se «trattò da peccato» Colui che era assolutamente senza alcun peccato, lo fece per rivelare l'amore che è sempre più grande di tutto il creato, l'amore che è Lui stesso, perché «Dio è amore»(58). E soprattutto l'amore è più grande del peccato, della debolezza, della «caducità del creato»(59), più forte della morte; è amore sempre pronto a sollevare e a perdonare, sempre pronto ad andare incontro al figliol prodigo(60), sempre alla ricerca della «rivelazione dei figli di Dio»(61), che sono chiamati alla gloria futura(62). Questa rivelazione dell'amore viene anche definita misericordia(63), e tale rivelazione dell'amore e della misericordia ha nella storia dell'uomo una forma e un nome: si chiama Gesù Cristo.

10. Dimensione umana del mistero della Redenzione

L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore _ come è stato già detto _ rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso. Questa è _ se così è lecito esprimersi _ la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l'uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»(64). L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo _ non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere _ deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore»(65), se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l'uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna»(66).

In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo _ se così si può dire _ particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione.

Il còmpito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera _ intendiamo _ dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.

11 . Il mistero di Cristo alla base della missione della Chiesa e del Cristianesimo

Il Concilio Vaticano II ha compiuto un lavoro immenso per formare quella piena ed universale coscienza della Chiesa, di cui scriveva Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica. Tale coscienza _ o piuttosto autocoscienza della Chiesa _ si forma «nel dialogo», il quale, prima di diventare colloquio, deve rivolgere la propria attenzione verso «l'altro», cioè verso colui col quale vogliamo parlare. Il Concilio ecumenico ha dato un impulso fondamentale per formare l'autocoscienza della Chiesa, offrendoci, in modo tanto adeguato e competente, la visione dell'orbe terrestre come di una «mappa» di varie religioni. Inoltre, esso ha dimostrato come su questa mappa delle religioni del mondo si sovrapponga a strati _ prima non mai conosciuti e caratteristici del nostro tempo _ il fenomeno dell'ateismo nelle sue varie forme, a cominciare dall'ateismo programmato, organizzato e strutturato in un sistema politico.

Quanto alla religione, si tratta, anzitutto, della religione come fenomeno universale, unito alla storia dell'uomo fin dall'inizio; poi, delle varie religioni non cristiane e, infine, dello stesso cristianesimo Il documento del Concilio dedicato alle religioni non cristiane è, in particolare, pieno di profonda stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell'umanità la sua espressione nella religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura. Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti riflessi di un'unica verità come «germi del Verbo»(67), i quali testimoniano che, quantunque per diverse strade, è rivolta tuttavia in una unica direzione la più profonda aspirazione dello spirito umano, quale si esprime nella ricerca di Dio ed insieme nella ricerca, mediante la tensione verso Dio, della piena dimensione dell'umanità, ossia del pieno senso della vita umana. Il Concilio ha dedicato una particolare attenzione alla religione giudaica, ricordando il grande patrimonio spirituale, comune ai cristiani e agli ebrei, ed ha espresso la sua stima verso i credenti dell'Islam, la cui fede si riferisce anche ad Abramo(68).

Per l'apertura fatta dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo, «mistero nascosto da secoli»(69) in Dio, per esser rivelato nel tempo: nell'uomo Gesù Cristo, e per rivelarsi continuamente, in ogni tempo. In Cristo e per Cristo, Dio si è rivelato pienamente all'umanità e si è definitivamente avvicinato ad essa e, nello stesso tempo, in Cristo e per Cristo, l'uomo ha acquistato piena coscienza della sua dignità, della sua elevazione, del valore trascendente della propria umanità, del senso della sua esistenza.

Occorre, quindi, che noi tutti _ quanti siamo seguaci di Cristo _ ci incontriamo e ci uniamo intorno a Lui stesso. Questa unione, nei diversi settori della vita, della tradizione, delle strutture e discipline delle singole Chiese o Comunità ecclesiali, non può attuarsi senza un valido lavoro, che tenda alla reciproca conoscenza ed alla rimozione degli ostacoli sulla strada di una perfetta unità. Tuttavia, possiamo e dobbiamo già fin d'ora raggiungere e manifestare al mondo la nostra unità: nell'annunciare il mistero di Cristo, nel rivelare la dimensione divina e insieme umana della Redenzione, nel lottare con instancabile perseveranza per la dignità che ogni uomo ha raggiunto e può raggiungere continuamente in Cristo. E' questa la dignità della grazia dell'adozione divina ed insieme la dignità della verità interiore dell'umanità, la quale _ se nella coscienza comune del mondo contemporaneo ha raggiunto un rilievo così fondamentale _ ancora di più risulta per noi alla luce di quella realtà che è Lui: Gesù Cristo.

Gesù Cristo è stabile principio e centro permanente della missione, che Dio stesso ha affidata all'uomo. A questa missione dobbiamo partecipare tutti, in essa dobbiamo concentrare tutte le nostre forze, essendo più che mai necessaria all'umanità del nostro tempo. E se tale missione sembra incontrare nella nostra epoca opposizioni più grandi che in qualunque altro tempo, tale circostanza dimostra pure che essa è nella nostra epoca ancor più necessaria e _ nonostante le opposizioni _ è più attesa che mai. Qui tocchiamo indirettamente quel mistero dell'economia divina, che ha unito la salvezza e la grazia con la croce. Non invano Cristo disse che «il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono»(70); ed inoltre che «i figli di questo mondo (...) sono più scaltri dei figli della luce»(71). Accettiamo volentieri questo rimprovero, per essere come quei «violenti di Dio» che abbiamo tante volte visto nella storia della Chiesa e che scorgiamo ancor oggi, per unirci consapevolmente nella grande missione, e cioè: rivelare Cristo al mondo, aiutare ciascun uomo perché ritrovi se stesso in Lui, aiutare le generazioni contemporanee dei nostri fratelli e sorelle, popoli, nazioni, stati, umanità, paesi non ancora sviluppati e paesi dell'opulenza, tutti insomma, a conoscere le «imperscrutabili ricchezze di Cristo»(72), perché queste sono per ogni uomo e costituiscono il bene di ciascuno.

12. Missione della Chiesa e libertà dell'uomo

In questa unione nella missione, di cui decide soprattutto Cristo stesso, tutti i cristiani debbono scoprire ciò che già li unisce, ancor prima che si realizzi la loro piena comunione. Questa è l'unione apostolica e missionaria, missionaria e apostolica. Grazie a questa unione possiamo insieme avvicinarci al magnifico patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni, come dice la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate(73). Grazie ad essa, ci accostiamo in pari tempo a tutte le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Ci avviciniamo con quella stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli, contrassegnava l'atteggiamento missionario e del missionario. Basta ricordare San Paolo e, ad esempio, il suo discorso davanti all'Areopago di Atene(74). L'atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che «c'è in ogni uomo»(75), per ciò che egli stesso, nell'intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha operato lo Spirito, che «soffia dove vuole»(76). La missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione, anche se nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza a un ideale così elevato. E la conversione, che da essa deve prendere inizio, sappiamo bene che è opera della grazia, nella quale l'uomo deve pienamente ritrovare se stesso.

Perciò, la Chiesa del nostro tempo dà grande importanza a tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha esposto nella Dichiarazione sulla Libertà Religiosa, sia nella prima che nella seconda parte del documento(77). Sentiamo profondamente il carattere impegnativo della verità che Dio ci ha rivelato. Avvertiamo, in particolare, il grande senso di responsabilità per questa verità. La Chiesa, per istituzione di Cristo, ne è custode e maestra, essendo appunto dotata di una singolare assistenza dello Spirito Santo, perché possa fedelmente custodirla ed insegnarla nella sua più esatta integrità(78). Adempiendo questa missione, guardiamo Cristo stesso, Colui che è il primo evangelizzatore(79), e guardiamo anche i suoi Apostoli, Martiri e Confessori. La Dichiarazione sulla Libertà Religiosa ci manifesta, in modo convincente, come Cristo e, in seguito, i suoi Apostoli, nell'annunciare la verità che non proviene dagli uomini, ma da Dio («la mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato»(80), cioè del Padre), pur agendo con tutta la forza dello spirito, conservino una profonda stima per l'uomo, per il suo intelletto, la sua volontà, la sua coscienza e la sua libertà(81). In tal modo, la stessa dignità della persona umana diventa contenuto di quell'annuncio, anche se privo di parole, mediante il comportamento nei suoi riguardi. Tale comportamento sembra corrispondere ai bisogni particolari dei nostri tempi. Siccome non in tutto quello che i vari sistemi ed anche singoli uomini vedono e propagano come libertà è la vera libertà dell'uomo, tanto più la Chiesa, in forza della sua divina missione, diventa custode di questa libertà, la quale è condizione e base della vera dignità della persona umana.

Gesù Cristo va incontro all'uomo di ogni epoca, anche della nostra epoca, con le stesse parole: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi»(82). Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di un'autentica libertà; e l'ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull'uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l'uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell'anima dell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà. Quale stupenda conferma di ciò hanno dato e non cessano di dare coloro che, grazie a Cristo e in Cristo, hanno raggiunto la vera libertà e l'hanno manifestata perfino in condizioni di costrizione esteriore!

E Gesù Cristo stesso, quando comparve prigioniero dinanzi al tribunale di Pilato e fu da lui interrogato circa l'accusa fattagli dai rappresentanti del Sinedrio, non rispose forse: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità»(83)? Con queste parole pronunciate davanti al giudice, nel momento decisivo, era come se confermasse, ancora una volta, la frase già detta in precedenza: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi».

Nel corso di tanti secoli e di tante generazioni, cominciando dai tempi degli Apostoli, non è forse Gesù Cristo stesso che tante volte è comparso accanto ad uomini giudicati a causa della verità, e non è andato forse alla morte con uomini condannati a causa della verità? Cessa Egli forse di essere continuamente portavoce e avvocato dell'uomo, che vive «in spirito e verità»(84)? Proprio come non cessa di esserlo davanti al Padre, così lo è anche nei confronti della storia dell'uomo. E la Chiesa, a sua volta, nonostante tutte le debolezze che fanno parte della sua storia umana, non cessa di seguire Colui che ha detto: «E' giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità»(85).

III

L'UOMO REDENTO E LA SUA SITUAZIONE NEL MONDO CONTEMPORANEO

13. Cristo si è unito ad ogni uomo

Quando, attraverso l'esperienza della famiglia umana in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggiore chiarezza che, alla base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice Paolo VI(86), deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c'è un'unica via: è la via sperimentata da secoli, ed è, insieme, la via del futuro. Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando _ come insegna il Concilio _ «con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»(87). La Chiesa ravvisa, dunque, il suo còmpito fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull'uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell'Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell'amore che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi nella storia, che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell'àmbito di vari sistemi, concezioni ideologiche del mondo e regimi, Gesù Cristo diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell'attività istituzionale della Chiesa. Gesù Cristo diventa presente con la potenza di quella verità e di quell'amore, che si sono espressi in Lui come pienezza unica e irripetibile, benché la sua vita in terra sia stata breve ed ancor più breve la sua attività pubblica.

Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via «alla casa del Padre»(88), ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all'uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata da nessuno. Questa è l'esigenza del bene temporale e del bene eterno dell'uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell'uomo, così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia. Il Concilio Vaticano II, in diversi passi dei suoi documenti, ha espresso questa fondamentale sollecitudine della Chiesa, affinché «la vita nel mondo " sia " più conforme all'eminente dignità dell'uomo»(89) in tutti i suoi aspetti, per renderla «sempre più umana»(90). Questa è la sollecitudine di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine _ come leggiamo nella Costituzione pastorale del Concilio _ «la Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana»(91).

Qui, dunque, si tratta dell'uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell'uomo «astratto», ma reale, dell'uomo «concreto», «storico». Si tratta di «ciascun» uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l'uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L'oggetto di questa premura è l'uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l'immagine e la somiglianza con Dio stesso(92). Il Concilio indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che «l'uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa»(93). L'uomo così com'è «voluto» da Dio, così come è stato da Lui eternamente «scelto», chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio «ogni» uomo, l'uomo «il più concreto», «il più reale»; questo è l'uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre.

14. Tutte le vie della Chiesa conducono all'uomo

La Chiesa non può abbandonare l'uomo, la cui «sorte», cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite al Cristo. E si tratta proprio di ogni uomo su questo pianeta, in questa terra che il Creatore ha dato al primo uomo, dicendo all'uomo e alla donna: «Soggiogatela e dominatela»(94). Ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell'essere e dell'agire, dell'intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L'uomo, nella sua singolare realtà (perché è «persona»), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima. L'uomo che, conformemente all'interiore apertura del suo spirito ed insieme a tanti e così diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo momento della sua esistenza sulla terra, dal momento del suo concepimento e della sua nascita. L'uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale _ nell'àmbito della propria famiglia, nell'àmbito di società e di contesti tanto diversi, nell'àmbito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell'àmbito di tutta l'umanità _ quest'uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'Incarnazione e della Redenzione.

Proprio quest'uomo in tutta la verità della sua vita, nella sua coscienza, nella sua continua inclinazione al peccato ed insieme nella sua continua aspirazione alla verità, al bene, al bello, alla giustizia, all'amore, proprio un tale uomo aveva davanti agli occhi il Concilio Vaticano II allorché, delineando la sua situazione nel mondo contemporaneo, si portava sempre dalle componenti esterne di questa situazione alla verità immanente dell'umanità: «E' proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, egli è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di raro fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società»(95).

Quest'uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l'uomo _ ogni uomo senza eccezione alcuna _ è stato redento da Cristo, perché con l'uomo _ ciascun uomo senza eccezione alcuna _ Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell'uomo non è di ciò consapevole: «Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo» _ ad ogni uomo e a tutti gli uomini _ «... luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione»(96).

Essendo quindi quest'uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui «situazione». Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all'uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché «la vita umana divenga sempre più umana»(97), perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell'uomo. In una parola, dev'essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo.

15. Di che cosa ha paura l'uomo contemporaneo

Conservando quindi viva nella memoria l'immagine che in modo così perspicace e autorevole ha tracciato il Concilio Vaticano II, cercheremo ancora una volta di adattare questo quadro ai «segni dei tempi», nonché alle esigenze della situazione, che continuamente cambia ed evolve in determinate direzioni.

L'uomo d'oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di «alienazione», nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto principale del dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall'inizio all'uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra(98), si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d'inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti?

Questo stato di minaccia per l'uomo, da parte dei suoi prodotti, ha varie direzioni e vari gradi di intensità. Sembra che siamo sempre più consapevoli del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga una razionale ed onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente umanistico, portano spesso con sé la minaccia all'ambiente naturale dell'uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa. L'uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà del Creatore che l'uomo comunicasse con la natura come «padrone» e «custode» intelligente e nobile, e non come «sfruttatore» e «distruttore» senza alcun riguardo.

Lo sviluppo della tecnica e lo sviluppo della civiltà del nostro tempo, che è contrassegnato dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale sviluppo della vita morale e dell'etica. Intanto quest'ultimo sembra, purtroppo, rimanere sempre arretrato. Perciò, quel progresso, peraltro tanto meraviglioso, in cui è difficile non scorgere anche autentici segni della grandezza dell'uomo, i quali, nei loro germi creativi, ci sono rivelati nelle pagine del Libro della Genesi, già nella descrizione della sua creazione(99), non può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda la questione essenziale e fondamentale: questo progresso, il cui autore e fautore è l'uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, «più umana»? La rende più «degna dell'uomo»? Non ci può esser dubbio che, sotto vari aspetti, la renda tale. Quest'interrogativo, però, ritorna ostinatamente per quanto riguarda ciò che è essenziale in sommo grado: se l'uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti.

Questa è la domanda che i cristiani debbono porsi, proprio perché Gesù Cristo li ha così uni versalmente sensibilizzati intorno al problema dell'uomo. E la stessa domanda debbono anche porsi tutti gli uomini, specialmente coloro che appartengono a quegli ambienti sociali, che si dedicano attivamente allo sviluppo ed al progresso nei nostri tempi. Osservando questi processi ed avendo parte in essi, non possiamo lasciarci prendere dall'euforia, né possiamo lasciarci trasportare da un unilaterale entusiasmo per le nostre conquiste, ma tutti dobbiamo porci, con assoluta lealtà, con obiettività e con senso di responsabilità morale, le domande essenziali che riguardano la situazione dell'uomo, oggi e nel futuro. Tutte le conquiste, finora raggiunte, e quelle progettate dalla tecnica per il futuro, vanno d'accordo col progresso morale e spirituale dell'uomo? In questo contesto l'uomo, in quanto uomo, si sviluppa e progredisce, oppure regredisce e si degrada nella sua umanità? Prevale negli uomini, «nel mondo dell'uomo» _ che in se stesso è un mondo di bene e di male morale _ il bene sul male? Crescono davvero negli uomini, fra gli uomini, l'amore sociale, il rispetto dei diritti altrui _ per ogni uomo, nazione, popolo _ o, al contrario, crescono gli egoismi di varie dimensioni, i nazionalismi esagerati, al posto dell'autentico amore di patria, ed anche la tendenza a dominare gli altri al di là dei propri legittimi diritti e meriti, e la tendenza a sfruttare tutto il progresso materiale e tecnico-produttivo esclusivamente allo scopo di dominare sugli altri o in favore di tale o talaltro imperialismo?

Ecco gli interrogativi essenziali, che la Chiesa non può non porsi, perché in modo più o meno esplicito se li pongono miliardi di uomini che vivono oggi nel mondo. Il tema dello sviluppo e del progresso è sulla bocca di tutti ed appare sulle colonne di tutti i giornali e pubblicazioni, in quasi tutte le lingue del mondo contemporaneo. Non dimentichiamo, però, che questo tema non contiene soltanto affermazioni e certezze, ma anche domande e angosciose inquietudini. Queste ultime non sono meno importanti delle prime.

Esse rispondono alla natura della conoscenza umana, ed ancor più rispondono al bisogno fondamentale della sollecitudine dell'uomo per l'uomo, per la stessa sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra. La Chiesa, che è animata dalla fede escatologica, considera questa sollecitudine per l'uomo, per la sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra e, quindi, anche per l'orientamento di tutto lo sviluppo e del progresso, come un elemento essenziale della sua missione, indissolubilmente congiunto con essa. Ed il principio di questa sollecitudine essa lo trova in Gesù Cristo stesso, come testimoniano i Vangeli. Ed è per questo che desidera accrescerla continuamente in Lui, rileggendo la situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo, secondo i più importanti segni del nostro tempo.

16. Progresso o minaccia?

Se, dunque, il nostro tempo, il tempo della nostra generazione, il tempo che si sta avvicinando alla fine del secondo Millennio della nostra èra cristiana, si rivela a noi come tempo di grande progresso, esso appare, altresì, come tempo di multiforme minaccia per l'uomo, della quale la Chiesa deve parlare a tutti gli uomini di buona volontà, ed intorno alla quale deve sempre dialogare con loro. La situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo, infatti, sembra lontana dalle esigenze oggettive dell'ordine morale, come dalle esigenze della giustizia e, ancora più, dell'amore sociale. Non si tratta qui che di ciò che ha trovato la sua espressione nel primo messaggio del Creatore, rivolto all'uomo nel momento in cui gli dava la terra, perché la «soggiogasse»(100). Questo primo messaggio è stato riconfermato, nel mistero della Redenzione, da Cristo Signore. Ciò è espresso dal Concilio Vaticano II in quei bellissimi capitoli del suo insegnamento che riguardano la «regalità» dell'uomo, cioè la sua vocazione a partecipare all'ufficio regale _ il munus regale _ di Cristo stesso(101). Il senso essenziale di questa «regalità» e di questo «dominio» dell'uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come còmpito dallo stesso Creatore, consiste nella priorità dell'etica sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia.

E' per questo che bisogna seguire attentamente tutte le fasi del progresso odierno: bisogna, per cosl dire, fare la radiografia delle sue singole tappe proprio da questo punto di vista. Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si tratta _ come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio _ non tanto di «avere di più», quanto di «essere di più»(102). Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell'uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l'organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L'uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l'uomo a tale schiavitù, pur se talvolta, indubbiamente, ciò avvenga contro le intenzioni e le premesse stesse dei suoi pionieri. Alle radici dell'attuale sollecitudine per l'uomo sta senz'altro questo problema. Non si tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda: chi è l'uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà. Si tratta del senso delle varie iniziative della vita quotidiana e, nello stesso tempo, delle premesse per numerosi programmi di civilizzazione, programmi politici, economici, sociali, statali e molti altri.

Se osiamo definire la situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo come lontana dalle esigenze oggettive dell'ordine morale, lontana dalle esigenze della giustizia e, ancor più, dall'amore sociale, è perché ciò viene confermato dai ben noti fatti e dai raffronti, che più volte hanno già avuto diretta risonanza sulle pagine delle enunciazioni pontificie, conciliari, sinodali(103). La situazione dell'uomo nella nostra epoca non è certamente uniforme, ma differenziata in modo molteplice. Queste differenze hanno le loro cause storiche, ma hanno anche una loro forte risonanza etica. E, infatti, ben noto il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso dei beni necessari all'uomo, alle società intere _ e qui si tratta proprio delle società ricche e molto sviluppate _, mentre le rimanenti società, almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni giorno di denutrizione e di inedia. Di pari passo va per gli uni un certo abuso della libertà, che è legato proprio ad un atteggiamento consumistico non controllato dall'etica, ed esso limita contemporaneamente la libertà degli altri, cioè di coloro che soffrono rilevanti deficienze e vengono spinti verso condizioni di ulteriore miseria ed indigenza.

Questo raffronto, universalmente noto, e il contrasto al quale si sono richiamati, nei documenti del loro magistero, i Pontefici del nostro secolo, più recentemente Giovanni XXIII come anche Paolo VI(104), rappresentano come il gigantesco sviluppo della parabola biblica del ricco epulone e del povero Lazzaro(105). L'ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture e i meccanismi finanziari, monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni politiche, reggono l'economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di riassorbire le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l'uomo alle tensioni da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse materiali ed energetiche, compromettendo l'ambiente geofisico, queste strutture fanno estendere incessantemente le zone di miseria e, con questa, l'angoscia, la frustrazione e l'amarezza(106).

Ci troviamo qui dinanzi ad un grande dramma, che non può lasciare nessuno indifferente. Il soggetto che, da una parte, cerca di trarre il massimo profitto e quello che, dall'altra parte, paga il tributo dei danni e delle ingiurie, è sempre l'uomo. Il dramma viene ancor più esasperato dalla vicinanza con gli strati sociali privilegiati e con i paesi dell'opulenza, che accumulano i beni in grado eccessivo, e la cui ricchezza diventa, molto spesso per abuso, causa di diversi malesseri. Si aggiungano la febbre dell'inflazione e la piaga della disoccupazione: ecco altri sintomi di questo disordine morale, che si fa notare nella situazione mondiale e che richiede, pertanto, risoluzioni audaci e creative, conformi all'autentica dignità dell'uomo(107).

Un tal còmpito non è impossibile da realizzare. Il principio di solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati: si tratti del settore degli scambi, dove bisogna lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze e dei controlli su di esse, affinché i popoli che sono in via di sviluppo economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche progredire gradualmente ed efficacemente.

Su questa difficile strada, sulla strada dell'indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il còmpito richiede l'impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali. Troppo spesso si confonde la libertà con l'istinto dell'interesse individuale o collettivo o, ancora, con l'istinto di lotta e di dominio, qualunque siano i colori ideologici con cui essi son dipinti. E' ovvio che tali istinti esistono ed operano, ma non sarà possibile alcuna economia veramente umana, se essi non vengono assunti, orientati e dominati dalle forze più profonde, che si trovano nell'uomo e che decidono della vera cultura dei popoli. Proprio da queste sorgenti deve nascere lo sforzo, in cui si esprimerà la vera libertà dell'uomo, e che sarà capace di assicurarla anche in campo economico. Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e realizzato all'interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale dei singoli uomini e dei popoli, come ricordava in modo convincente il mio Predecessore Paolo VI nella Populorum Progressio. Senza di ciò, la sola categoria del «progresso economico» diventa una categoria superiore che subordina l'insieme dell'esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l'uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi.

E' possibile assumere questo dovere: lo testimoniano i fatti certi ed i risultati, che è difficile qui enumerare analiticamente. Una cosa, però, è certa: alla base di questo gigantesco campo bisogna stabilire, accettare ed approfondire il senso della responsabilità morale, che l'uomo deve far suo. Ancora e sempre: l'uomo. Per noi cristiani una tale responsabilità diventa particolarmente evidente, quando ricordiamo _ e dobbiamo sempre ricordare _ la scena del giudizio finale, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo(108).

Questa scena escatologica dev'esser sempre «applicata» alla storia dell'uomo, dev'esser sempre fatta «metro» degli atti umani, come uno schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: «Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare...; ero nudo, e non mi avete vestito...; ero in carcere, e non mi avete visitato»(109). Queste parole acquistano una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell'aiuto culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione, posti a servizio di conflitti armati e di guerre, che non sono tanto un'esigenza della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere. Tutti sappiamo bene che le zone di miseria o di fame, che esistono sul nostro globo, avrebbero potuto essere «fertilizzate» in breve tempo, se i giganteschi investimenti per gli armamenti, che servono alla guerra e alla distruzione, fossero stati invece cambiati in investimenti per il nutrimento, che servono alla vita.

Forse questa considerazione rimarrà parzialmente «astratta»; forse offrirà l'occasione all'una e all'altra «parte» per accusarsi reciprocamente, dimenticando ognuna le proprie colpe. Forse provocherà anche nuove accuse contro la Chiesa. Questa, però, non disponendo di altre armi che di quelle dello spirito, della parola e dell'amore, non può rinunciare ad annunziare «la parola ... in ogni occasione opportuna e non opportuna»(110). Per questo, non cessa di pregare ciascuna delle due parti, e di chiedere a tutti nel nome di Dio e nel nome dell'uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!

17. Diritti dell'uomo: «lettera» o «spirito»

Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l'uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali. Certamente, non è facile paragonare sotto questo aspetto epoche e secoli, poiché ciò dipende anche dai criteri storici che cambiano. Nondimeno, senza stabilire questi paragoni, bisogna pur constatare che finora questo secolo è stato un secolo in cui gli uomini hanno preparato a se stessi molte ingiustizie e sofferenze. Questo processo è stato decisamente frenato? In ogni caso, non si può qui non ricordare, con stima e con profonda speranza per il futuro, il magnifico sforzo compiuto per dare vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri ad una rigorosa osservanza di essi. Questo impegno è stato accettato e ratificato da quasi tutti gli Stati del nostro tempo, e ciò dovrebbe costituire una garanzia perché i diritti dell'uomo diventino, in tutto il mondo, principio fondamentale dell'azione per il bene dell'uomo.

La Chiesa non ha bisogno di confermare quanto questo problema sia strettamente collegato con la sua missione nel mondo contemporaneo. Esso, infatti, sta alle basi stesse della pace sociale e internazionale, come hanno dichiarato al riguardo Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e poi Paolo VI in particolareggiati documenti. In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo _ opera di giustizia è la pace _, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni di essi. Se i diritti dell'uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l'uomo, che non può in nessun modo accordarsi con un qualsiasi programma che si autodefinisca «umanistico». E quale programma sociale, economico, politico, culturale potrebbe rinunciare a questa definizione? Nutriamo la profonda convinzione che non c'è nel mondo di oggi alcun programma in cui, perfino sulla piattaforma di opposte ideologie circa la concezione del mondo, non venga messo sempre in primo piano l'uomo.

Ora, se malgrado tali premesse, i diritti dell'uomo vengono in vario modo violati, se in pratica siamo testimoni dei campi di concentramento, della violenza, della tortura, del terrorismo e di molteplici discriminazioni, ciò deve essere una conseguenza delle altre premesse che minano, o spesso annientano quasi l'efficacia delle premesse umanistiche di quei programmi e sistemi moderni. S'impone allora necessariamente il dovere di sottoporre gli stessi programmi ad una continua revisione dal punto di vista degli oggettivi ed inviolabili diritti dell'uomo.

La Dichiarazione di questi diritti, unitamente all'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, non aveva certamente soltanto il fine di distaccarsi dalle orribili esperienze dell'ultima guerra mondiale, ma anche quello di creare una base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio da quest'unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell'uomo _ diciamo della persona nella comunità _ e che, come fattore fondamentale del bene comune, deve costituire l'essenziale criterio di tutti i programmi, sistemi, regimi. In caso contrario, la vita umana, anche in tempo di pace, è condannata a varie sofferenze e, nello stesso tempo, insieme con esse si sviluppano varie forme di dominio, di totalitarismo, di neocolonialismo, di imperialismo, che minacciano anche la convivenza tra le nazioni. Invero, è un fatto significativo e confermato a più riprese dalle esperienze della storia, come la violazione dei diritti dell'uomo vada di pari passo con la violazione dei diritti della nazione, con la quale l'uomo è unito da legami organici, come con una più grande famiglia.

Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui si stavano sviluppando vari totalitarismi di Stato, i quali _ come è noto _ portarono all'orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano per un bene superiore, qual è il bene dello Stato, mentre la storia avrebbe invece dimostrato che quello era solo il bene di un determinato partito, identificatosi con lo Stato(111). In realtà, quei regimi avevano coartato i diritti dei cittadini, negando loro il riconoscimento proprio di quegli inviolabili diritti dell'uomo che, verso la metà del nostro secolo, hanno ottenuto la loro formulazione in sede internazionale. Nel condividere la gioia di questa conquista con tutti gli uomini di buona volontà, con tutti gli uomini che amano veramente la giustizia e la pace, la Chiesa, consapevole che la sola «lettera» può uccidere, mentre soltanto «lo spirito dà vita»(112), deve insieme con questi uomini di buona volontà domandare continuamente se la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e l'accettazione della loro «lettera» significhino dappertutto anche la realizzazione del loro «spirito». Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso siamo ancora lontani da questa realizzazione, e che talvolta lo spirito della vita sociale e pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata «lettera» dei diritti dell'uomo. Questo stato di cose, gravoso per le rispettive società, renderebbe particolarmente responsabili, di fronte a queste società ed alla storia dell'uomo, coloro che contribuiscono a determinarlo.

Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell'esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all'imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell'autorità pubblica(113). Questi sono, quindi, problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell'uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità.

La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all'ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell'uomo. Quel bene comune, che l'autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all'opposizione dei cittadini all'autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. E' così che il principio dei diritti dell'uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici.

Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano II ha ritenuto particolarmente necessaria l'elaborazione di una più ampia Dichiarazione su questo tema. E il documento che s'intitola Dignitatis Humanae(114), nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema, ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè dalla posizione «puramente umana», in base a quelle premesse dettate dall'esperienza stessa dell'uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità. Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce innanzitutto la dignità stessa dell'uomo, indipendentemente dalla religione professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità dell'uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte a una ingiustizia radicale riguardo a ciò che è particolarmente profondo nell'uomo, riguardo a ciò che è autenticamente umano. Difatti, perfino lo stesso fenomeno dell'incredulità, areligiosità e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno della religione e della fede. E' pertanto difficile, anche da un punto di vista «puramente umano», accettare una posizione, secondo la quale solo l'ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati come cittadini di categoria inferiore, e perfino _ il che è già accaduto _ sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza.

Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch'esso rientra nel complesso delle situazioni dell'uomo nel mondo attuale, perché anch'esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall'entrare nei particolari proprio in questo campo, in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo, ciò è soprattutto perché, insieme con tutti coloro che soffrono i tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in virtù del mio ufficio, desidero a nome di tutti i credenti del mondo intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l'organizzazione della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare i diritti della religione e dell'attività della Chiesa. Non si chiede alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L'attuazione di questo diritto è una delle fondamentali verifiche dell'autentico progresso dell'uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.

IV

LA MISSIONE DELLA CHIESA E LA SORTE DELL'UOMO

18. La Chiesa sollecita della vocazione dell'uomo in Cristo

Questo sguardo, necessariamente sommario, alla situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo ci fa indirizzare ancor più il pensiero e il cuore a Gesù Cristo, al mistero della Redenzione, in cui il problema dell'uomo è inscritto con una speciale forza di verità e di amore. Se Cristo «si è unito in certo modo ad ogni uomo»(115), la Chiesa, penetrando nell'intimo di questo mistero, nel suo ricco e universale linguaggio, vive anche più profondamente la propria natura e missione. Non invano l'Apostolo parla del Corpo di Cristo, che è la Chiesa(116). Se questo Corpo mistico di Cristo è Popolo di Dio _ come dirà in seguito il Concilio Vaticano II, basandosi su tutta la tradizione biblica e patristica _ ciò significa che ogni uomo è in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo. In questo modo anche il volgersi verso l'uomo, verso i suoi reali problemi, verso le sue speranze e sofferenze, conquiste e cadute, fa sì che la Chiesa stessa come corpo, come organismo, come unità sociale, percepisca gli stessi impulsi divini, i lumi e le forze dello Spirito che provengono da Cristo crocifisso e risorto, ed è proprio per questo che essa vive la sua vita. La Chiesa non ha altra vita all'infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore. Difatti, proprio perché Cristo nel mistero della sua Redenzione si è unito ad essa, la Chiesa deve essere saldamente unita con ciascun uomo.

Questa unione del Cristo con l'uomo è in se stessa un mistero, dal quale nasce «l'uomo nuovo», chiamato a partecipare alla vita di Dio(117), creato nuovamente in Cristo alla pienezza della grazia e della verità(118). L'unione del Cristo con l'uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l'incisiva espressione di S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo: «Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio»(119). Questa è la forza che trasforma interiormente l'uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna(120). Questa vita, promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed unigenito Figlio, incarnato e nato «quando venne la pienezza del tempo»(121) dalla Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell'uomo. E' in qualche modo compimento di quella «sorte», che dall'eternità Dio gli ha preparato. Questa «sorte divina» si fa via, al di sopra di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della «sorte umana» nel mondo temporale. Se, infatti, tutto ciò porta, pur con tutta la ricchezza della vita temporale, per inevitabile necessità, alla frontiera della morte ed al traguardo della distruzione del corpo umano, appare a noi il Cristo oltre questo traguardo: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me..., non morrà in eterno»(122). In Gesù Cristo crocifisso, deposto nel sepolcro e poi risorto, «rifulge per noi la speranza della beata risurrezione, la promessa dell'immortalità futura»(123), verso la quale l'uomo va attraverso la morte del corpo, condividendo con tutto il creato visibile questa necessità, alla quale è soggetta la materia. Noi intendiamo e cerchiamo di approfondire sempre di più il linguaggio di questa verità, che il Redentore dell'uomo ha racchiuso nella frase: «E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla»(124). Queste parole, malgrado le apparenze, esprimono la più alta affermazione dell'uomo: l'affermazione del corpo, che lo Spirito vivifica!

La Chiesa vive queste realtà, vive di questa verità sull'uomo, che le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, simultaneamente, di pensare con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nelle dimensioni di questa temporaneità, incide sulla vita dell'uomo, sulla vita dello spirito umano, in cui si esprime quella perenne inquietudine, secondo le parole di S. Agostino: «Ci hai fatto, o Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore, finché non riposa in te»(125). In questa inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente umano: la ricerca della verità, l'insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza. La Chiesa, cercando di guardare l'uomo quasi con «gli occhi di Cristo stesso», si fa sempre più consapevole di essere la custode di un grande tesoro, che non le è lecito sciupare, ma deve continuamente accrescere. Infatti, il Signore Gesù ha detto: «Chi non raccoglie con me, disperde»(126). Quel tesoro dell'umanità, arricchito dall'ineffabile mistero della figliolanza divina(127), della grazia di «adozione a figli»(128) nell'unigenito Figlio di Dio, mediante il quale diciamo a Dio «Abbà, Padre»(129), è insieme una forza potente che unifica la Chiesa soprattutto dal di dentro e dà senso a tutta la sua attività. Per tale forza la Chiesa si unisce con lo Spirito di Cristo, con quello Spirito Santo che il Redentore aveva promesso, che comunica continuamente, e la cui discesa, rivelata il giorno della Pentecoste, perdura sempre. Così negli uomini si rivelano le forze dello Spirito(130), i doni dello Spirito(131), i frutti dello Spirito Santo(132). E la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggior fervore e con santa insistenza: «Vieni, o Santo Spirito!». Vieni! Vieni! «Lava ciò che è sordido! Feconda ciò che è arido! Risana ciò che è ferito! Piega ciò che è rigido! Riscalda ciò che è gelido! Raddrizza ciò che è sviato!»(133).

Questa supplica allo Spirito, intesa appunto ad ottenere lo Spirito, è la risposta a tutti i «materialismi» della nostra epoca. Sono essi che fanno nascere tante forme di insaziabilità del cuore umano. Questa supplica si fa sentire da diverse parti e sembra che fruttifichi anche in modi diversi. Si può dire che in questa supplica la Chiesa non sia sola? Sì, si può dire, perché «il bisogno» di ciò che è spirituale è espresso anche da persone che si trovano al di fuori dei confini visibili della Chiesa(134). Non è ciò confermato forse da quella verità sulla Chiesa, messa in evidenza con tanta acutezza dal recente Concilio nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, laddove insegna che la Chiesa è «sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»?(135) Questa invocazione allo Spirito e per lo Spirito non è altro che un costante introdursi nella piena dimensione del mistero della Redenzione, in cui Cristo, unito al Padre e con ogni uomo, ci comunica continuamente quello Spirito che mette in noi i sentimenti del Figlio e ci orienta verso il Padre(136). E' per questo che la Chiesa della nostra epoca _ epoca particolarmente affamata di Spirito, perché affamata di giustizia, di pace, di amore, di bontà, di fortezza, di responsabilità, di dignítà umana _ deve concentrarsi e riunirsi intorno a quel mistero, ritrovando in esso la luce e la forza indispensabili per la propria missione. Se infatti _ come è stato detto in precedenza _ l'uomo è la via della vita quotidiana della Chiesa, è necessario che la stessa Chiesa sia sempre consapevole della dignità dell'adozione divina che l'uomo ottiene, in Cristo, per la grazia dello Spirito Santo(137), e della destinazione alla grazia e alla gloria(138). Riflettendo sempre di nuovo su tutto questo, accettandolo con una fede sempre più cosciente e con un amore sempre più fermo, la Chiesa si rende, al tempo stesso, più idonea a quel servizio dell'uomo, a cui Cristo Signore la chiama, quando dice: «Il Figlio dell'uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire»(139). La Chiesa esplica questo suo ministero, partecipando al «triplice ufficio» ch'è proprio dello stesso suo Maestro e Redentore. Questa dottrina, appoggiata sul suo fondamento biblico, è stata messa in piena luce dal Concilio Vaticano II, con grande vantaggio per la vita della Chiesa. Quando, infatti, diventiamo consapevoli della partecipazione alla triplice missione del Cristo, al suo triplice ufficio _ sacerdotale, profetico e regale(140) _ diventiamo parimenti più consapevoli di ciò a cui deve servire tutta la Chiesa, come società e comunità del Popolo di Dio sulla terra, comprendendo, altresì, quale debba essere la partecipazione di ognuno di noi a questa missione e servizio.

19. La Chiesa responsabile della verità

Così, alla luce della sacra dottrina del Concilio Vaticano II, la Chiesa appare davanti a noi come soggetto sociale della responsabilità per la verità divina. Con profonda commozione ascoltiamo Cristo stesso, quando dice: «La parola che voi udite non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»(141). In questa affermazione del nostro Maestro non si avverte forse quella responsabilità per la verità rivelata, che è «proprietà» di Dio stesso, se perfino Lui, «Figlio unigenito» che vive «in seno al Padre»(142), quando la trasmette come profeta e maestro, sente il bisogno di sottolineare che agisce in piena fedeltà alla sua divina sorgente? La medesima fedeltà deve essere una qualità costitutiva della fede della Chiesa, sia quando essa la insegna, sia quando la professa. La fede, come specifica virtù soprannaturale infusa nello spirito umano, ci fa partecipi della conoscenza di Dio, come risposta alla sua Parola rivelata. Perciò, si esige che la Chiesa, quando professa ed insegna la fede, sia strettamente aderente alla verità divina(143), e la traduca in comportamenti vissuti di ossequio consentaneo alla ragione(144). Cristo stesso, allo scopo di garantire la fedeltà alla verità divina, ha promesso alla Chiesa la particolare assistenza dello Spirito di verità, ha dato il dono dell'infallibilità(145) a coloro, ai quali ha affidato il mandato di trasmettere tale verità e di insegnarla(146) _ come aveva già chiaramente definito il Concilio Vaticano I(147) e, in seguito, ha ripetuto il Concilio Vaticano II(148) _ ed ha dotato, inoltre, tutto il Popolo di Dio di un particolare senso della fede(149).

Di conseguenza, siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme con Lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi ed agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità ed insieme semplicità. Questo amore e questa aspirazione a comprendere la verità debbono camminare congiuntamente, come confermano le storie dei Santi della Chiesa. Essi erano più illuminati dall'autentica luce, che rischiara la verità divina ed avvicina la realtà stessa di Dio, perché si accostavano a questa verità con venerazione ed amore: amore soprattutto verso Cristo, Parola vivente della verità divina e, insieme, amore verso la sua espressione umana nel Vangelo, nella tradizione, nella teologia. Anche oggi sono necessarie, innanzitutto, tale comprensione e tale interpretazione della Parola divina; è necessaria tale teologia. La teologia ebbe sempre e continua ad avere una grande importanza, perché la Chiesa, Popolo di Dio, possa in modo creativo e fecondo partecipare alla missione profetica di Cristo. Perciò, i teologi, come servitori della verità divina, dedicando i loro studi e lavori ad una sempre più penetrante comprensione di essa, non possono mai perdere di vista il significato del loro servizio nella Chiesa, racchiuso nel concetto dell'«intellectus fidei». Questo concetto funziona, per così dire, a ritmo bilaterale, secondo l'espressione di S. Agostino «intellege, ut credas; crede, ut intellegas»(150), e funziona in modo corretto allorché essi cercano di servire il Magistero, affidato nella Chiesa ai Vescovi, uniti col vincolo della comunione gerarchica col Successore di Pietro, ed ancora quando si mettono a servizio della loro sollecitudine nell'insegnamento e nella pastorale, come pure quando si mettono a servizio degli impegni apostolici di tutto il Popolo di Dio.

Come nelle epoche precedenti, così anche oggi _ e forse ancora di più _ i teologi e tutti gli uomini di scienza nella Chiesa sono chiamati ad unire la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire ad una loro reciproca compenetrazione, come leggiamo nella preghiera liturgica per la memoria di Sant'Alberto, dottore della Chiesa. Questo impegno si è oggi enormemente ampliato per il progresso della scienza umana, dei suoi metodi e delle conquiste nella conoscenza del mondo e dell'uomo. Ciò riguarda tanto le scienze esatte, quanto anche le scienze umane, come pure la filosofia, i cui stretti legami con la teologia sono stati ricordati dal Concilio Vaticano II(151).

In questo campo dell'umana conoscenza, che di continuo si allarga ed insieme si differenzia, anche la fede deve costantemente approfondirsi, manifestando la dimensione del mistero rivelato e tendendo alla comprensione della verità, che ha in Dio l'unica suprema sorgente. Se è lecito _ e bisogna perfino augurarselo _ che quell'enorme lavoro da svolgere in questo senso prenda in considerazione un certo pluralismo di metodi, tuttavia tale lavoro non può allontanarsi dalla fondamentale unità nell'insegnamento della Fede e della Morale, quale fine che gli è proprio. E', pertanto, indispensabile una stretta collaborazione della teologia col Magistero. Ogni teologo deve essere particolarmente cosciente di ciò che Cristo stesso ha espresso, quando ha detto: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»(152). Nessuno, dunque, può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa.

La partecipazione all'ufficio profetico di Cristo stesso plasma la vita di tutta la Chiesa, nella sua dimensione fondamentale. Una speciale partecipazione a questo ufficio compete ai Pastori della Chiesa, i quali insegnano e, di continuo e in diversi modi, annunciano e trasmettono la dottrina della fede e della morale cristiana. Questo insegnamento, sia sotto l'aspetto missionario che sotto quello ordinario, contribuisce ad adunare il Popolo di Dio attorno a Cristo, prepara alla partecipazione all'Eucaristia, indica le vie della vita sacramentale. Il Sinodo dei Vescovi nel 1977 ha dedicato la sua specifica attenzione alla catechesi nel mondo contemporaneo, e il frutto maturo delle sue deliberazioni, esperienze e suggerimenti troverà, fra breve, la sua espressione _ conformemente alla proposta dei partecipanti al Sinodo _ in un apposito documento pontificio. La catechesi costituisce, certamente, una perenne e insieme fondamentale forma di attività della Chiesa, in cui si manifesta il suo carisma profetico: testimonianza e insegnamento vanno di pari passo. E benché qui si parli in primo luogo dei sacerdoti, non è possibile però non ricordare anche il grande numero di religiosi e di religiose, che si dedicano all'attività catechistica per amore del Maestro divino. Sarebbe, infine, difficile non menzionare tanti laici, che in questa attività trovano l'espressione della loro fede e della responsabilità apostolica.

Inoltre, bisogna sempre più procurare che le varie forme della catechesi ed i diversi suoi campi _ a cominciare da quella forma fondamentale, che è la catechesi «familiare», cioè la catechesi dei genitori nei riguardi dei loro propri figli _ attestino la partecipazione universale di tutto il Popolo di Dio all'ufficio profetico di Cristo stesso. Bisogna che, in dipendenza da questo fatto, la responsabilità della Chiesa per la verità divina sia sempre più, e in vari modi, condivisa da tutti. E che cosa dire qui degli specialisti delle diverse discipline, dei rappresentanti delle scienze naturali e delle lettere, dei medici, dei giuristi, degli uomini dell'arte e della tecnica, degli insegnanti dei vari gradi e specializzazioni? Tutti loro _ come membri del Popolo di Dio _ hanno la propria parte nella missione profetica di Cristo, nel suo servizio alla verità divina, anche con l'atteggiamento onesto di fronte alla verità, a qualsiasi campo essa appartenga, mentre educano gli altri nella verità e insegnano loro a maturare nell'amore e nella giustizia. Così, dunque, il senso di responsabilità per la verità è uno dei fondamentali punti d'incontro della Chiesa con ogni uomo, ed è parimenti una delle fondamentali esigenze, che determinano la vocazione dell'uomo nella comunità della Chiesa. La Chiesa dei nostri tempi, guidata dal senso di responsabilità per la verità, deve perseverare nella fedeltà alla propria natura, alla quale spetta la missione profetica che proviene da Cristo stesso: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi ... Ricevete lo Spirito Santo»(153).

20. Eucaristia e penitenza

Nel mistero della Redenzione, cioè dell'opera salvifica operata da Gesù Cristo, la Chiesa partecipa al Vangelo del suo Maestro non soltanto mediante la fedeltà alla Parola ed il servizio alla verità, ma parimenti mediante la sottomissione, piena di speranza e di amore, partecipa alla forza della sua azione redentrice, che Egli ha espresso e racchiuso in forma sacramentale, soprattutto nell'Eucaristia(154). Questo è il centro e il vertice di tutta la vita sacramentale, per mezzo della quale ogni cristiano riceve la forza salvifica della Redenzione, iniziando dal mistero del Battesimo, in cui siamo immersi nella morte di Cristo, per diventare partecipi della sua Risurrezione(155), come insegna l'Apostolo. Alla luce di questa dottrina, diventa ancor più chiara la ragione per cui tutta la vita sacramentale della Chiesa e di ciascun cristiano raggiunge il suo vertice e la sua pienezza proprio nell'Eucaristia. In questo Sacramento, infatti, si rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del sacrificio, che Egli fece di se stesso al Padre sull'altare della Croce: sacrificio che il Padre accettò, ricambiando questa totale donazione di suo Figlio, che si fece «obbediente fino alla morte»(156), con la sua paterna donazione, cioè col dono della nuova vita immortale nella risurrezione, perché il Padre è la prima sorgente e il datore della vita fin dal principio. Quella vita nuova che implica la glorificazione corporale di Cristo crocifisso, è diventata segno efficace del nuovo dono elargito all'umanità, dono che è lo Spirito Santo, mediante il quale la vita divina, che il Padre ha in sé e che dà al suo Figlio(157), viene comunicata a tutti gli uomini che sono uniti con Cristo.

L'Eucaristia è il Sacramento più perfetto di questa unione. Celebrando ed insieme partecipando all'Eucaristia, noi ci uniamo a Cristo terrestre e celeste, che intercede per noi presso il Padre(158); ma ci uniamo sempre mediante l'atto redentore del suo sacrificio, per mezzo del quale Egli ci ha redenti, così che siamo stati «comprati a caro prezzo»(159). Il «caro prezzo» della nostra redenzione comprova, parimenti, il valore che Dio stesso attribuisce all'uomo, comprova la nostra dignità in Cristo. Diventando infatti «figli di Dio»(160), figli di adozione(161), a sua somiglianza noi diventiamo al tempo stesso «regno di sacerdoti», otteniamo «il sacerdozio regale»(162), cioè partecipiamo a quell'unica e irreversibile restituzione dell'uomo e del mondo al Padre, che Egli, Figlio eterno(163) e insieme vero uomo, fece una volta per sempre. L'Eucaristia è il Sacramento, in cui si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso, incessantemente e sempre in modo nuovo, «rende testimonianza» nello Spirito Santo al nostro spirito(164) che ognuno di noi, come partecipe del mistero della Redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio(165), quale Egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero della Chiesa.

E' verità essenziale, non soltanto dottrinale ma anche esistenziale, che l'Eucaristia costruisce la Chiesa(166), e la costruisce come autentica comunità del Popolo di Dio, come assemblea dei fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere di unità, di cui furono partecipi gli Apostoli ed i primi discepoli del Signore. L'Eucaristia costruisce sempre nuovamente questa comunità e unità; sempre la costruisce e la rigenera sulla base del sacrificio di Cristo stesso, perché commemora la sua morte sulla Croce(167), a prezzo della quale siamo stati redenti da Lui. Perciò, nell'Eucaristia tocchiamo, si potrebbe dire, il mistero stesso del Corpo e del Sangue del Signore, come testimoniano le stesse parole al momento dell'istituzione, le quali, in virtù di essa, sono diventate le parole della perenne celebrazione dell'Eucaristia da parte dei chiamati a questo ministero nella Chiesa.

La Chiesa vive dell'Eucaristia, vive della pienezza di questo Sacramento, il cui stupendo contenuto e significato han trovato spesso la loro espressione nel Magistero della Chiesa, dai tempi più remoti fino ai nostri giorni(168). Tuttavia, possiamo dire con certezza che questo insegnamento _ sorretto dalla acutezza dei teologi, dagli uomini di profonda fede e di preghiera, dagli asceti e mistici, in tutta la loro fedeltà al mistero eucaristico _ rimane quasi sulla soglia, essendo incapace di afferrare e di tradurre in parole ciò che è l'Eucaristia in tutta la sua pienezza, ciò che essa esprime e ciò che in essa si attua. Infatti, essa è il Sacramento ineffabile! L'impegno essenziale e, soprattutto, la visibile grazia e sorgente della forza soprannaturale della Chiesa come Popolo di Dio, è il perseverare e progredire costantemente nella vita eucaristica, nella pietà eucaristica, è lo sviluppo spirituale nel clima dell'Eucaristia. A maggior ragione, dunque, non ci è lecito né nel pensiero, né nella vita, né nell'azione togliere a questo Sacramento, veramente santissimo, la sua piena dimensione ed il suo essenziale significato. Esso è nello stesso tempo Sacramento-Sacrificio, Sacramento-Comunione e Sacramento-Presenza. E benché sia vero che l'Eucaristia fu sempre e deve essere tuttora la più profonda rivelazione e celebrazione della fratellanza umana dei discepoli e confessori di Cristo, non può essere trattata soltanto come un'«occasione» per manifestare questa fratellanza. Nel celebrare il Sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, bisogna rispettare la piena dimensione del mistero divino, il pieno senso di questo segno sacramentale, nel quale Cristo, realmente presente, è ricevuto, l'anima è ricolmata di Grazia e a noi vien dato il pegno della gloria futura(169). Di qui deriva il dovere di una rigorosa osservanza delle norme liturgiche e di tutto ciò che testimonia il culto comunitario reso a Dio stesso, tanto più perché, in questo segno sacramentale, Egli si afffida a noi con fiducia illimitata, come se non prendesse in considerazione la nostra debolezza umana, la nostra indegnità, le abitudini, la «routine» o, addirittura, la possibilità di oltraggio. Tutti nella Chiesa, ma soprattutto i Vescovi e i Sacerdoti, debbono vigilare perché questo Sacramento di amore sia al centro della vita del Popolo di Dio, perché, attraverso tutte le manifestazioni del culto dovuto, si faccia in modo da rendere a Cristo «amore per amore», perché Egli diventi veramente «vita delle nostre anime»(170). Né, d'altra parte, potremo mai dimenticare le seguenti parole di San Paolo: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice»(171).

Questo invito dell'Apostolo indica, almeno indirettamente, lo stretto legame fra l'Eucaristia e la Penitenza. Difatti, se la prima parola dell'insegnamento di Cristo, la prima frase del VangeloBuona Novella, era «Convertitevi e credete al Vangelo» (metanoèite)(172), il Sacramento della Passione, della Croce e Risurrezione sembra rafforzare e consolidare in modo del tutto speciale questo invito nelle nostre anime. L'Eucaristia e la Penitenza diventano così, in un certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente connessa dell'autentica vita secondo lo spirito del Vangelo, vita veramente cristiana. Cristo, che invita al banchetto eucaristico, è sempre lo stesso Cristo che esorta alla penitenza, che ripete il «Convertitevi»(173). Senza questo costante e sempre rinnovato sforzo per la conversione, la partecipazione all'Eucaristia sarebbe priva della sua piena efficacia redentrice, verrebbe meno o, comunque, sarebbe in essa indebolita quella particolare disponibilità di rendere a Dio il sacrificio spirituale(174), in cui si esprime in modo essenziale e universale la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo. In Cristo, infatti, il sacerdozio è unito col proprio sacrificio, con la sua donazione al Padre; e tale donazione, appunto perché è illimitata, fa nascere in noi _ uomini soggetti a molteplici limitazioni _ il bisogno di rivolgerci verso Dio in forma sempre più matura e con una costante conversione, sempre più profonda.

Negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in evidenza _ in conformità, del resto, alla più antica tradizione della Chiesa _ l'aspetto comunitario della penitenza e, soprattutto, del sacramento della Penitenza nella pratica della Chiesa. Queste iniziative sono utili e serviranno certamente ad arricchire la prassi penitenziale della Chiesa contemporanea. Non possiamo, però, dimenticare che la conversione è un atto interiore di una profondità particolare, in cui l'uomo non può essere sostituito dagli altri, non può farsi «rimpiazzare» dalla comunità. Benché la comunità fraterna dei fedeli, partecipanti alla celebrazione penitenziale, giovi grandemente all'atto della conversione personale, tuttavia, in definitiva, è necessario che in questo atto si pronunci l'individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto il senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a Lui, come il Salmista, per confessare: «Contro di te ho peccato»(175). La Chiesa, quindi, osservando fedelmente la plurisecolare prassi del sacramento della Penitenza _ la pratica della confessione individuale, unita all'atto personale di dolore e al proposito di correggersi e di soddisfare _ difende il diritto particolare dell'anima umana. E' il diritto ad un più personale incontro dell'uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»(176); «Va', e d'ora in poi non peccare più»(177). Come è evidente, questo è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. E' il diritto ad incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell'anima, che è quello della conversione e del perdono. La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la sua fede nel mistero della Redenzione, come realtà viva e vivificante, che corrisponde alla verità interiore dell'uomo, corrisponde all'umana colpevolezza ed anche ai desideri della coscienza umana. «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati»(178). Il sacramento della Penitenza è il mezzo per saziare l'uomo con quella giustizia, che proviene dallo stesso Redentore.

Nella Chiesa che, soprattutto nei nostri tempi, si raccoglie specialmente intorno all'Eucaristia, e desidera che l'autentica comunità eucaristica diventi segno dell'unità di tutti i cristiani, unità che sta gradualmente maturando, deve essere vivo il bisogno della penitenza, sia nel suo aspetto sacramentale(179), come anche in quello concernente la penitenza come virtù. Questo secondo aspetto fu espresso da Paolo VI nella Costituzione Apostolica Paenitemini(180). Uno dei compiti della Chiesa è di mettere in pratica l'insegnamento in essa contenuto; si tratta di argomento che dovrà esser di certo da noi approfondito ancora nella riflessione comune, e fatto oggetto di molte ulteriori decisioni, in spirito di collegialità pastorale, rispettando le diverse tradizioni a questo proposito e le diverse circostanze della vita degli uomini del nostro tempo. Tuttavia, è certo che la Chiesa del nuovo Avvento, la Chiesa che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore, deve essere la Chiesa dell'Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo profilo spirituale della sua vitalità e della sua attività, essa è la Chiesa della missione divina, la Chiesa in statu missionis, così come ce ne ha rivelato il volto il Concilio Vaticano II.

21. Vocazione cristiana: servire e regnare

Il Concilio Vaticano II, costruendo dalle stesse fondamenta l'immagine della Chiesa come Popolo di Dio _ mediante l'indicazione della triplice missione di Cristo stesso, partecipando alla quale noi diventiamo veramente Popolo di Dio _ ha messo in rilievo anche questa caratteristica della vocazione cristiana, che si può definire «regale». Per presentare tutta la ricchezza della dottrina conciliare, bisognerebbe far qui riferimento a numerosi capitoli e paragrafi della Costituzione Lumen Gentium ed ancora a molti altri documenti conciliari. In mezzo a tutta questa ricchezza, un elemento sembra però emergere: la partecipazione alla missione regale di Cristo, cioè il fatto di riscoprire in sé e negli altri quella particolare dignità della nostra vocazione, che si può definire «regalità». Questa dignità si esprime nella disponibilità a servire, secondo l'esempio di Cristo, che «non è venuto per essere servito, ma per servire»(181). Se dunque alla luce di questo atteggiamento di Cristo si può veramente «regnare» soltanto «servendo», in pari tempo il «servire» esige una tale maturità spirituale che bisogna proprio definirlo un «regnare». Per poter degnamente ed efficacemente servire gli altri, bisogna saper dominare se stessi, bisogna possedere le virtù che rendono possibile questo dominio. La nostra partecipazione alla missione regale di Cristo _ proprio al suo «ufficio regale» (munus) _ è strettamente legata ad ogni sfera della morale, cristiana ed insieme umana.

Il Concilio Vaticano II, presentando il quadro completo del Popolo di Dio, ricordando quale posto abbiano in esso non soltanto i sacerdoti, ma anche i laici, non soltanto i rappresentanti della Gerarchia, ma anche quelle e quelli degli Istituti di vita consacrata, non ha dedotto questa immagine solo da una premessa sociologica. La Chiesa, come società umana, può senz'altro essere anche esaminata e definita secondo le categorie, di cui si servono le scienze nei confronti di qualsiasi società umana. Ma queste categorie non sono sufficienti. Per tutta la comunità del Popolo di Dio e per ciascuno dei suoi membri, non si tratta soltanto di una specifica «appartenenza sociale», ma piuttosto è essenziale, per ciascuno e per tutti, una particolare «vocazione». La Chiesa, infatti, come Popolo di Dio _ secondo l'insegnamento sopra citato di San Paolo e ricordato in modo mirabile da Pio XII _ è anche «Corpo mistico di Cristo»(182). L'appartenenza ad esso deriva da una chiamata particolare, unita all'azione salvifica della grazia. Se quindi vogliamo aver presente questa comunità del Popolo di Dio, così vasta ed estremamente differenziata, dobbiamo anzitutto vedere Cristo, che dice in un certo modo a ciascun membro di questa comunità: «Seguimi»(183). Questa è la comunità dei discepoli, ciascuno dei quali, in modo diverso, talvolta molto cosciente e coerente, talvolta poco consapevole e molto incoerente, segue Cristo. In questo si manifestano anche il profilo profondamente «personale» e la dimensione di questa società, la quale _ nonostante tutte le deficienze della vita comunitaria, nel senso umano di questa parola _ è una comunità proprio per il fatto che tutti la costituiscono insieme con Cristo stesso, se non altro perché portano nella loro anima il segno indelebile di chi è cristiano.

Il medesimo Concilio ha usato un'attenzione del tutto particolare, per dimostrare in quale modo questa comunità «ontologica» dei discepoli e dei confessori debba diventare sempre più, anche «umanamente», una comunità cosciente della propria vita ed attività. Le iniziative del Concilio in questo campo hanno trovato la loro continuità nelle numerose e ulteriori iniziative di carattere sinodale, apostolico e organizzativo. Dobbiamo, però, tener sempre presente la verità che ogni iniziativa in tanto serve al vero rinnovamento della Chiesa, e in tanto contribuisce ad apportare l'autentica luce che è Cristo(184), in quanto si basa sull'adeguata consapevolezza della vocazione e della responsabilità per questa grazia singolare, unica e irripetibile, mediante la quale ogni cristiano nella comunità del Popolo di Dio costruisce il Corpo di Cristo. Questo principio, che è la regola-chiave di tutta la prassi cristiana _ prassi apostolica e pastorale, prassi della vita interiore e di quella sociale _ deve essere applicato, in giusta proporzione, a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Anche il Papa, come pure ogni Vescovo, deve applicarlo a sé. A questo principio debbono essere fedeli i sacerdoti, i religiosi e le religiose. In base ad esso debbono costruire la loro vita gli sposi, i genitori, le donne e gli uomini di condizione e di professione diverse, iniziando da coloro che occupano nella società le più alte cariche e finendo con coloro che svolgono i lavori più semplici. Questo è appunto il principio di quel «servizio regale», che impone a ciascuno di noi, seguendo l'esempio di Cristo, il dovere di esigere da se stessi esattamente quello a cui siamo chiamati, a cui _ per rispondere alla vocazione _ ci siamo personalmente obbligati, con la grazia di Dio. Tale fedeltà alla vocazione ottenuta da Dio, mediante Cristo, porta con sé quella solidale responsabilità per la Chiesa, alla quale il Concilio Vaticano II vuole educare tutti i cristiani. Nella Chiesa, infatti, come nella comunità del Popolo di Dio, guidata dall'opera dello Spirito Santo, ciascuno ha «il proprio dono», come insegna San Paolo(185). Questo «dono», pur essendo una personale vocazione ed una forma di partecipazione all'opera salvifica della Chiesa, serve parimenti agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere dell'esistenza umana sulla terra.

La fedeltà alla vocazione, cioè la perseverante disponibilità al «servizio regale», ha un particolare significato per questa molteplice costruzione, soprattutto per ciò che riguarda i còmpiti più im pegnativi, che hanno maggiore influenza sulla vita del nostro prossimo e di tutta la società. Per la fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell'istituzione sacramentale del matrimonio. Per una simile fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento dell'Ordine imprime nelle loro anime. Ricevendo questo sacramento, noi nella Chiesa Latina c'impegniamo consapevolmente e liberamente a vivere nel celibato, e perciò ognuno di noi deve far tutto il possibile, con la grazia di Dio, per essere riconoscente per questo dono e fedele al vincolo accettato per sempre. Ciò non diversamente dagli sposi, che debbono con tutte le loro forze tendere a perseverare nell'unione matrimoniale, costruendo con questa testimonianza d'amore la comunità familiare ed educando nuove generazioni di uomini, capaci di consacrare anch'essi tutta la loro vita alla propria vocazione, cioè a quel «servizio regale» di cui l'esempio e il più bel modello ci sono offerti da Gesù Cristo. La sua Chiesa, che noi tutti formiamo, è «per gli uomini» nel senso che, basandoci sull'esempio di Cristo(186) e collaborando con la grazia che Egli ci ha guadagnato, possiamo raggiungere quel «regnare», e cioè realizzare una matura umanità in ciascuno di noi. Umanità matura significa pieno uso del dono della libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui egli ha chiamato all'esistenza l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Questo dono trova la sua piena realizzazione nella donazione, senza riserve, di tutta la propria persona umana, in spirito di amore sponsale al Cristo e, con Cristo, a tutti coloro, ai quali Egli invia uomini o donne, che a Lui sono totalmente consacrati secondo i consigli evangelici. Ecco l'ideale della vita religiosa, assunto dagli Ordini e Congregazioni, sia antichi che recenti, e dagli Istituti secolari.

Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c'insegna che il migliore uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio. Per tale «libertà Cristo ci ha liberati»(187) e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l'incessante ispirazione, l'invito e l'impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero della Redenzione. La Chiesa serve veramente l'umanità, quando tutela questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiam fatto riferimento già in precedenza, e cioè che l'uomo è e diventa sempre la «via» della vita quotidiana della Chiesa.

22. La Madre della nostra fiducia

Quando dunque all'inizio del nuovo pontificato rivolgo al Redentore dell'uomo il mio pensiero e il mio cuore, desidero in questo modo entrare e penetrare nel ritmo più profondo della vita della Chiesa. Se, infatti, la Chiesa vive la sua propria vita, ciò avviene perché la attinge da Cristo, il quale vuole sempre una cosa sola, cioè che abbiamo la vita e l'abbiamo in abbondanza(188).

Questa pienezza di vita, che è in Lui, è contemporaneamente per l'uomo. Perciò, la Chiesa, unendosi a tutta la ricchezza del mistero della Redenzione, diventa Chiesa degli uomini viventi, viventi perché vivificati dall'interno per opera dello «Spirito di verità»(189), perché visitati dall'amore che lo Spirito Santo infonde nei nostri cuori(190). Lo scopo di qualsiasi servizio nella Chiesa, sia esso apostolico, pastorale, sacerdotale, episcopale, è di mantenere questo legame dinamico del mistero della Redenzione con ogni uomo.

Se siamo coscienti di questo còmpito, allora ci sembra di comprender meglio che cosa significhi dire che la Chiesa è madre(191), ed ancora che cosa significhi che la Chiesa sempre e, particolarmente, nei nostri tempi ha bisogno di una Madre. Dobbiamo una speciale gratitudine ai Padri del Concilio Vaticano II, che hanno espresso questa verità nella Costituzione Lumen Gentium con la ricca dottrina mariologica in essa contenut(192). Poiché Paolo VI, ispirato da questa dottrina, ha proclamato la Madre di Cristo «Madre della Chiesa»(193), e tale denominazione ha trovato una vasta risonanza, sia lecito anche al suo indegno Successore di rivolgersi a Maria, come Madre della Chiesa, alla fine delle presenti considerazioni, che era opportuno svolgere all'inizio del servizio pontificale. Maria è Madre della Chiesa, perché, in virtù dell'ineffabile elezione dello stesso eterno Padre(194) e sotto la particolare azione dello Spirito d'amore(195), Ella ha dato la vita umana al Figlio di Dio, «per il quale e dal quale son tutte le cose»(196) e da cui tutto il Popolo di Dio assume la grazia e la dignità dell'elezione. Il suo proprio Figlio volle esplicitamente estendere la maternità di sua Madre _ ed estenderla in modo facilmente accessibile a tutte le anime e i cuori _ additandoLe dall'alto della croce il suo discepolo prediletto come figlio(197). Lo Spirito Santo Le suggerì di rimanere anche Lei, dopo l'Ascensione di nostro Signore, nel Cenacolo raccolta nella preghiera e nell'attesa, insieme con gli Apostoli fino al giorno della Pentecoste, in cui doveva visibilmente nascere la Chiesa, uscendo dall'oscurità(198). E in seguito tutte le generazioni dei discepoli e di quanti confessano ed amano Cristo _ così come l'apostolo Giovanni _ accolsero spiritualmente nella loro casa(199) questa Madre, la quale in tal modo, sin dagli inizi stessi, cioè dal momento dell'Annunciazione, è stata inserita nella storia della salvezza e nella missione della Chiesa. Noi tutti quindi, che formiamo la generazione odierna dei discepoli di Cristo, desideriamo unirci a Lei in modo particolare. Lo facciamo con tutto l'attaccamento alla tradizione antica e, in pari tempo, con pieno rispetto e amore per i membri di tutte le Comunità cristiane.

Lo facciamo spinti dalla profonda necessità della fede, della speranza e della carità. Se, infatti, in questa difficile e responsabile fase della storia della Chiesa e dell'umanità avvertiamo uno speciale bisogno di rivolgerci a Cristo, che è Signore della sua Chiesa e Signore della storia dell'uomo in forza del mistero della Redenzione, noi crediamo che nessun altro sappia introdurci come Maria nella dimensione divina e umana di questo mistero. Nessuno come Maria è stato introdotto in esso da Dio stesso. In questo consiste l'eccezionale carattere della grazia della maternità divina. Non soltanto unica e irripetibile è la dignità di questa maternità nella storia del genere umano, ma unica anche per profondità e raggio d'azione è la partecipazione di Maria, in ragione della medesima maternità, al divino disegno della salvezza dell'uomo, attraverso il mistero della Redenzione.

Questo mistero si è formato, possiamo dire, sotto il cuore della Vergine di Nazareth, quando ha pronunciato il suo «fiat». Da quel momento questo cuore verginale e insieme materno, sotto la particolare azione dello Spirito Santo, segue sempre l'opera del suo Figlio e va verso tutti coloro, che Cristo ha abbracciato e abbraccia continuamente nel suo inesauribile amore. E, perciò, questo cuore deve essere anche maternamente inesauribile. La caratteristica di questo amore materno, che la Madre di Dio immette nel mistero della Redenzione e nella vita della Chiesa, trova la sua espressione nella sua singolare vicinanza all'uomo ed a tutte le sue vicende. In questo consiste il mistero della Madre. La Chiesa, che La guarda con amore e speranza tutta particolare, desidera appropriarsi di questo mistero in maniera sempre più profonda. In ciò, infatti, la Chiesa riconosce anche la via della sua vita quotidiana, che è ogni uomo.

L'eterno amore del Padre, manifestatosi nella storia dell'umanità attraverso il Figlio che il Padre diede «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna»(200), un tale amore si avvicina ad ognuno di noi per mezzo di questa Madre ed acquista in tal modo segni più comprensibili ed accessibili a ciascun uomo. Di conseguenza, Maria deve trovarsi su tutte le vie della vita quotidiana della Chiesa. Mediante la sua materna presenza, la Chiesa prende certezza che vive veramente la vita del suo Maestro e Signore, che vive il mistero della Redenzione in tutta la sua vivificante profondità e pienezza. Parimenti la stessa Chiesa, che ha le sue radici in numerosi e svariati campi della vita di tutta l'umanità contemporanea, acquista anche la certezza e, si direbbe, l'esperienza di essere vicina all'uomo, ad ogni uomo, di essere la «sua» Chiesa: Chiesa del Popolo di Dio.

Di fronte a tali còmpiti, che sorgono lungo le vie della Chiesa, lungo quelle vie, che il Papa Paolo VI ci ha chiaramente indicato nella prima Enciclica del suo Pontificato, noi, consapevoli dell'assoluta necessità di tutte queste vie e, nello stesso tempo, delle difficoltà che su esse si accumulano, tanto più sentiamo il bisogno di un profondo legame con Cristo. Risuonano in noi, come un'eco sonora, le parole che Egli disse: «Senza di me non potete far nulla»(201). Non solo sentiamo il bisogno, ma addirittura l'imperativo categorico per una grande, intensa, crescente preghiera di tutta la Chiesa. Solamente la preghiera può far sì che tutti questi grandi còmpiti e difficoltà che si susseguono non diventino fonte di crisi, ma occasione e quasi fondamento di conquiste sempre più mature sul cammino del Popolo di Dio verso la Terra Promessa, in questa tappa della storia che ci sta avvicinando alla fine del secondo Millennio. Pertanto, terminando questa meditazione con un caloroso ed umile invito alla preghiera, desidero che si perseveri in questa preghiera uniti con Maria, Madre di Gesù(202), così come perseveravano gli Apostoli e i discepoli del Signore, dopo la sua Ascensione, nel Cenacolo di Gerusalemme(203). Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa, affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell'umanità di perseverare con noi, che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico del suo Figlio unigenito. Io spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere lo Spirito Santo che scende su di noi(204) e divenire in questo modo testimoni di Cristo «fino agli estremi confini della terra»(205), come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste.

Con la mia Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 marzo, prima domenica di Quaresima, dell'anno 1979, primo di Pontificato.

 

 

 

LABOREM EXERCENS



LETTERA ENCICLICA
LABOREM EXERCENS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VENERATI FRATELLI
NELL'EPISCOPATO
AI SACERDOTI
ALLE FAMIGLIE RELIGIOSE
AI FIGLI E FIGLIE DELLA CHIESA
E A TUTTI GLI UOMINI
DI BUONA VOLONTA'
SUL LAVORO UMANO
NEL 90° ANNIVERSARIO
DELLA RERUM NOVARUM

Venerabili Fratelli, diletti Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!

L'UOMO, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano(1) e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all'incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l'uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso(2) nell'universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra(3), l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura.

I

INTRODUZIONE

1. Il lavoro umano a novant'anni dalla "Rerum Novarum"

Poiché si sono compiuti, il 15 maggio dell'anno corrente, novant'anni dalla pubblicazione _ ad opera del grande Pontefice della «questione sociale», Leone XIII _ di quell'Enciclica di importanza decisiva, che inizia con le parole Rerum Novarum, desidero dedicare il presente documento proprio al lavoro umano, e ancora di più desidero dedicarlo all'uomo nel vasto contesto di questa realtà che è il lavoro. Se, infatti, come mi sono espresso nell'Enciclica Redemptor Hominis, pubblicata all'inizio del mio servizio nella Sede romana di San Pietro, l'uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa»(4), e ciò proprio in base all'inscrutabile mistero della Redenzione in Cristo, allora occorre ritornare incessantemente su questa via e proseguirla sempre di nuovo secondo i vari aspetti, nei quali essa ci svela tutta la ricchezza e al tempo stesso tutta la fatica dell'esistenza umana sulla terra.

Il lavoro è uno di questi aspetti, perenne e fondamentale, sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza. Perché sorgono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma anche timori e minacce connesse con questa fondamentale dimensione dell'umano esistere, con la quale la vita dell'uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta la costante misura dell'umana fatica, della sofferenza e anche del danno e dell'ingiustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all'interno delle singole Nazioni e sul piano internazionale. Se è vero che l'uomo si nutre col pane del lavoro delle sue mani(5), e cioè non solo di quel pane quotidiano col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane della scienza e del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una verità perenne che egli si nutre di questo pane col sudore del volto(6), cioè non solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante tensioni, conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita delle singole società ed anche di tutta l'umanità.

Celebriamo il 90° anniversario dell'Enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata generale: l'introduzione generalizzata dell'automazione in molti campi della produzione; l'aumento del prezzo dell'energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l'emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell'economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati; ma potranno anche dare sollievo e speranza ai milioni di uomini che oggi vivono in condizioni di vergognosa e indegna miseria.

Non spetta alla Chiesa analizzare scientificamente le possibili conseguenze di tali cambiamenti sulla convivenza umana. La Chiesa però ritiene suo compito di richiamare sempre la dignità e i diritti degli uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi vengono violati, e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico progresso dell'uomo e della società.

2. Nello sviluppo organico dell'azione e dell'insegnamento sociale della Chiesa

Certamente il lavoro, come problema dell'uomo, si trova al centro stesso di quella «questione sociale», alla quale durante i quasi cento anni trascorsi dalla menzionata Enciclica si volgono in modo speciale l'insegnamento della Chiesa e le molteplici iniziative connesse con la sua missione apostolica. Se su di esso desidero concentrare le presenti riflessioni, ciò voglio fare non in modo difforme, ma piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione di questo insegnamento e di queste iniziative. Al tempo stesso, però, faccio questo, secondo l'orientamento del Vangelo, per estrarre dal patrimonio del Vangelo «cose antiche e cose nuove»(7). Certamente, il lavoro è una «cosa antica» _ tanto antica quanto l'uomo e la sua vita sulla terra. La situazione generale dell'uomo nel mondo contemporaneo, diagnosticata ed analizzata nei vari aspetti geografici, di cultura e di civiltà, esige, tuttavia, che si scoprano i nuovi significati del lavoro umano, e che si formulino, altresì, i nuovi compiti che in questo settore sono posti di fronte ad ogni uomo, alla famiglia, alle singole Nazioni, a tutto il genere umano e, infine, alla Chiesa stessa.

Nello spazio degli anni che sono passati dalla pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum, la questione sociale non ha cessato di occupare l'attenzione della Chiesa. Ne danno testimonianza i numerosi documenti del Magistero, emanati sia dai Pontefici sia anche dal Concilio Vaticano II; ne danno testimonianza le enunciazioni dei singoli Episcopati; ne dà testimonianza l'attività dei vari centri di pensiero e di concrete iniziative apostoliche, sia a livello internazionale che a livello delle Chiese locali. E' difficile enumerare qui in forma particolareggiata tutte le manifestazioni del vivo impegno della Chiesa e dei cristiani nella questione sociale, perché esse sono molto numerose. Come risultato del Concilio, il principale centro di coordinamento in questo campo è diventata la Pontificia Commissione «Iustitia et Pax», la quale trova i suoi Organismi corrispondenti nell'ambito delle singole Conferenze Episcopali. Il nome di questa istituzione è molto significativo: esso indica che la questione sociale deve essere trattata nella sua dimensione integrale e complessa. L'impegno in favore della giustizia deve essere intimamente unito a quello per la pace nel mondo contemporaneo. Certamente, si è pronunciata in favore di questo duplice impegno la dolorosa esperienza delle due grandi guerre mondiali, che durante gli ultimi 90 anni hanno scosso molti Paesi sia del Continente europeo sia, almeno parzialmente, degli altri Continenti. In suo favore si pronunciano, specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, la permanente minaccia di una guerra nucleare e la prospettiva della terribile auto-distruzione, che ne emerge.

Se seguiamo la linea principale di sviluppo dei documenti del supremo Magistero della Chiesa, troviamo in essi l'esplicita conferma proprio di tale impostazione del problema. La posizione chiave, per quanto riguarda la questione della pace nel mondo, è quella dell'Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se si considera, invece, l'evoluzione della questione della giustizia sociale, si deve notare che, mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno di Pio XI, l'insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto intorno alla giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell'ambito delle singole Nazioni, nella fase successiva esso allarga l'orizzonte alle dimensioni di tutto il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l'esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non, esigono una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In questa direzione procede l'insegnamento contenuto nell'Enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II e nell'Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI.

Questa direzione di sviluppo dell'insegnamento e dell'impegno della Chiesa nella questione sociale corrisponde esattamente al riconoscimento oggettivo dello stato delle cose. Se nel passato al centro di tale questione si metteva soprattutto in luce il problema della «classe», in epoca più recente si pone in primo piano il problema del «mondo». Si considera, perciò, non solo l'ambito della classe, ma quello mondiale delle disuguaglianze e delle ingiustizie e, di conseguenza, non solo la dimensione di classe, ma quella mondiale dei compiti sulla via che porta alla realizzazione della giustizia nel mondo contemporaneo. L'analisi completa della situazione del mondo di oggi ha manifestato in modo ancora più profondo e più pieno il significato dell'anteriore analisi delle ingiustizie sociali ed è il significato che oggi si deve dare agli sforzi che tendono a costruire la giustizia sulla terra, non nascondendo con ciò le strutture ingiuste, ma postulando il loro esame e la loro trasformazione in una dimensione più universale.

3. Il problema del lavoro, chiave della questione sociale

In mezzo a tutti questi processi _ sia della diagnosi dell'oggettiva realtà sociale, sia anche dell'insegnamento della Chiesa nell'àmbito della complessa e molteplice questione sociale _ il problema del lavoro umano compare naturalmente molte volte. Esso è, in qualche modo, una componente fissa come della vita sociale, così dell'insegnamento della Chiesa. In questo insegnamento, peraltro, l'attenzione al problema risale ben al di là degli ultimi novant'anni. La dottrina sociale della Chiesa, infatti, trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall'inizio all'insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell'uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dall'insegnamento dei Pontefici sulla moderna «questione sociale», a partire dall'Enciclica Rerum Novarum. Nel contesto di tale questione, gli approfondimenti del problema del lavoro hanno avuto un continuo aggiornamento, conservando sempre quella base cristiana di verità, che possiamo chiamare perenne.

Se nel presente documento ritorniamo di nuovo su questo problema, _ senza peraltro avere l'intenzione di toccare tutti gli argomenti che lo concernono _ non è tanto per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell'insegnamento della Chiesa, ma piuttosto per mettere in risalto _ forse più di quanto sia stato compiuto finora _ il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di «rendere la vita umana più umana»(8), allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un'importanza fondamentale e decisiva.

II

IL LAVORO E L'UOMO

4. Nel Libro della Genesi

La Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra. Essa si conferma in questa convinzione anche considerando tutto il patrimonio delle molteplici scienze, dedicate all'uomo: l'antropologia, la paleontologia, la storia, la sociologia, la psicologia, ecc.: tutte sembrano testimoniare in modo irrefutabile questa realtà. La Chiesa, tuttavia, attinge questa sua convinzione soprattutto alla fonte della Parola di Dio rivelata e, perciò, quella che è una convinzione dell'intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione di fede. La ragione è che la Chiesa _ vale la pena di osservarlo fin d'ora _ crede nell'uomo: essa pensa all'uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell'esperienza storica, non solo con l'aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi all'uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all'uomo.La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione dell'esistenza umana sulla terra. L'analisi di tali testi ci rende consapevoli del fatto che in essi _ a volte con un modo arcaico di manifestare il pensiero _ sono state espresse le verità fondamentali intorno all'uomo, già nel contesto del mistero della Creazione. Sono queste le verità che decidono dell'uomo sin dall'inizio e che, al tempo stesso, tracciano le grandi linee della sua esistenza sulla terra, sia nello stato della giustizia originaria, sia anche dopo la rottura, determinata dal peccato, dell'originaria alleanza del Creatore con il creato, nell'uomo. Quando questi, fatto «a immagine di Dio ... maschio e femmina»(9), sente le parole: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela»(10), anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed esplicitamente al lavoro, indirettamente già glielo indicano al di là di ogni dubbio come un'attività da svolgere nel mondo. Anzi, esse ne dimostrano la stessa essenza più profonda. L'uomo è immagine di Dio, tra l'altro, per il mandato ricevuto dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra. Nell'adempimento di tale mandato, l'uomo, ogni essere umano, riflette l'azione stessa del Creatore dell'universo.

Il lavoro inteso come un'attività «transitiva», cioè tale che, prendendo l'inizio nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno, suppone uno specifico dominio dell'uomo sulla «terra» ed a sua volta conferma e sviluppa questo dominio. E' chiaro che col termine «terra», di cui parla il testo biblico, si deve intendere prima di tutto quel frammento dell'universo visibile, del quale l'uomo è abitante; per estensione, però, si può intendere tutto il mondo visibile, in quanto esso si trova nel raggio d'influsso dell'uomo e della sua ricerca di soddisfare alle proprie necessità. Le parole «soggiogate la terra» hanno un'immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l'attività cosciente dell'uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate. Così quelle parole, poste all'inizio della Bibbia, non cessano mai di essere attuali. Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della civiltà e dell'economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future dello sviluppo, le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando, ma in gran parte rimangono ancora per l'uomo quasi sconosciute e nascoste.

Se a volte si parla di periodi di «accelerazione» nella vita economica e nella civilizzazione dell'umanità o delle singole Nazioni, unendo queste «accelerazioni» al progresso della scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte decisive per la vita socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di queste «accelerazioni» supera l'essenziale contenuto di ciò che è stato detto in quell'antichissimo testo biblico. Diventando _ mediante il suo lavoro _ sempre di più padrone della terra, e confermando _ ancora mediante il lavoro _ il suo dominio sul mondo visibile, l'uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell'originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l'uomo è stato creato, come maschio e femmina, «a immagine di Dio». Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale, ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono contemporaneamente da esso abbracciati. Tutti e ciascuno, in misura adeguata e in un numero incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo, mediante il quale l'uomo «soggioga la terra» col suo lavoro.

5. Il lavoro in senso oggettivo: la tecnica

Questa universalità e, al tempo stesso, questa molteplicità del processo del «soggiogare la terra» gettano luce sul lavoro umano, poiché il dominio dell'uomo sulla terra si compie nel lavoro e mediante il lavoro. Emerge così il significato del lavoro in senso oggettivo, il quale trova la sua espressione nelle varie epoche della cultura e della civiltà. L'uomo domina la terra già per il fatto che addomestica gli animali, allevandoli e ricavandone per sé il cibo e gli indumenti necessari, e per il fatto che può estrarre dalla terra e dal mare diverse risorse naturali. Molto di più, però, l'uomo «soggioga la terra», quando comincia a coltivarla e successivamente rielabora i suoi prodotti, adattandoli alle proprie necessità. L'agricoltura costituisce così un campo primario dell'attività economica e un indispensabile fattore, mediante il lavoro umano, della produzione. L'industria, a sua volta, consisterà sempre nel coniugare le ricchezze della terra _ sia le risorse vive della natura, sia i prodotti dell'agricoltura, sia le risorse minerarie o chimiche _ ed il lavoro dell'uomo, il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale, in un certo senso, anche nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in quello della ricerca, pura o applicata.

Oggi nell'industria e nell'agricoltura l'attività dell'uomo ha cessato in molti casi di essere un lavoro prevalentemente manuale, poiché la fatica delle mani e dei muscoli è aiutata dall'opera di macchine e di meccanismi sempre più perfezionati. Non soltanto nell'industria, ma anche nell'agricoltura, siamo testimoni delle trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo sviluppo della scienza e della tecnica. E questo, nel suo insieme, è diventato storicamente una causa di grandi svolte della civiltà, dall'origine dell'«èra industriale» alle successive fasi di sviluppo per il tramite di nuove tecniche, come quelle dell'elettronica o dei microprocessori negli ultimi anni.

Se può sembrare che nel processo industriale «lavori» la macchina mentre l'uomo solamente attende ad essa, rendendo possibile e sostenendo in diversi modi il suo funzionamento, è anche vero che proprio per questo lo sviluppo industriale pone la base per riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la prima industrializzazione che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i successivi cambiamenti industriali, dimostrano eloquentemente che, anche nell'epoca del «lavoro» sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l'uomo.

Lo sviluppo dell'industria e dei diversi settori con essa connessi, fino alle più moderne tecnologie dell'elettronica specialmente nel campo della miniaturizzazione, dell'informatica, della telematica ed altri, indica quale immenso ruolo assume, nell'interazione tra il soggetto e l'oggetto del lavoro (nel più ampio senso di questa parola), proprio quell'alleata del lavoro, generata dal pensiero umano, che è la tecnica. Intesa in questo caso non come una capacità o una attitudine al lavoro, ma come un insieme di strumenti dei quali l'uomo si serve nel proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente un'alleata dell'uomo. Essa gli facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo moltiplica. Essa favorisce l'aumento dei prodotti del lavoro, e di molti perfeziona anche la qualità. E' un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell'uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro «soppianta» l'uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l'occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l'esaltazione della macchina, riduce l'uomo ad esserne il servo.

Se le parole bibliche «soggiogate la terra», rivolte all'uomo fin dall'inizio, vengono intese nel contesto dell'intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con quel mondo di meccanismi e di macchine, che è il frutto del lavoro dell'intelletto umano e la conferma storica del dominio dell'uomo sulla natura.

La recente epoca della storia dell'umanità, e specialmente di alcune società, porta con sé una giusta affermazione della tecnica come un coefficiente fondamentale di progresso economico; al tempo stesso, però, con questa affermazione sono sorti e continuamente sorgono gli interrogativi essenziali riguardanti il lavoro umano in rapporto al suo soggetto, che è appunto l'uomo. Questi interrogativi racchiudono in sé una carica particolare di contenuti e di tensioni di carattere etico ed etico-sociale. E perciò essi costituiscono una sfida continua per molteplici istituzioni, per gli Stati e per i governi, per i sistemi e le organizzazioni internazionali; essi costituiscono anche una sfida per la Chiesa.

6. Il lavoro in senso soggettivo: l'uomo-soggetto del lavoro

Per continuare la nostra analisi del lavoro legata alla parola della Bibbia, in forza della quale l'uomo deve soggiogare la terra, bisogna che concentriamo la nostra attenzione sul lavoro in senso soggettivo, molto più di quanto abbiamo fatto in riferimentto al significato oggettivo del lavoro, toccando appena quella vasta problematica, che è perfettamente e dettagliatamente nota agli studiosi nei vari campi ed anche agli stessi uomini del lavoro secondo le loro specializzazioni. Se le parole del Libro della Genesi, alle quali ci riferiamo in questa nostra analisi, parlano in modo indiretto del lavoro nel senso oggettivo, così, nello stesso modo, parlano anche del soggetto dei lavoro; ma ciò che esse dicono è molto eloquente e carico di un grande significato.

L'uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come «immagine di Dio» è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l'uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità. Le principali verità su questo tema sono state ultimamente ricordate dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes, particolarmente nel capitolo I dedicato alla vocazione dell'uomo.

E così quel «dominio», del quale parla il testo biblico qui meditato, si riferisce non solamente alla dimensione oggettiva del lavoro, ma ci introduce contemporaneamente alla comprensione della sua dimensione soggettiva. Il lavoro inteso come processo, mediante il quale l'uomo e il genere umano soggiogano la terra, corrisponde a questo fondamentale concetto della Bibbia solo quando contemporaneamente in tutto questo processo l'uomo manifesta e conferma se stesso come colui che «domina». Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione condiziona la stessa sostanza etica del lavoro. Non c'è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso.

Questa verità, che costituisce in un certo senso lo stesso fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana sul lavoro umano, ha avuto ed ha un significato primario per la formulazione degli importanti problemi sociali a misura di intere epoche.

L'età antica introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che eseguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l'impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi, e alla sua esecuzione venivano, perciò, destinati gli schiavi. Il cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell'Antico Testamento, ha operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall'intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto(11), dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente «Vangelo del lavoro», che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva.

In una tale concezione sparisce quasi il fondamento stesso dell'antica differenziazione degli uomini in ceti, a seconda del genere di lavoro da essi eseguito. Ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso,il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è «per l'uomo», e non l'uomo «per il lavoro». Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo. Dato questo modo di intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere un maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in evidenza che ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell'uomo che lo compie. A sua volta: indipendentemente dal lavoro che ogni uomo compie, e supponendo che esso costituisca uno scopo _ alle volte molto impegnativo _ del suo operare, questo scopo non possiede un significato definitivo per se stesso. Difatti, in ultima analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall'uomo _ fosse pure il lavoro più «di servizio», più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante _ rimane sempre l'uomo stesso.

7. Una minaccia al giusto ordine dei valori

Proprio queste affermazioni basilari sul lavoro sono sempre emerse dalle ricchezze della verità cristiana, specialmente dal messaggio stesso del «Vangelo del lavoro», creando il fondamento del nuovo modo di pensare, di valutare e di agire degli uomini. Nell'epoca moderna, fin dall'inizio dell'èra industriale, la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico.

Per alcuni fautori di tali idee, il lavoro era inteso e trattato come una specie di «merce», che il lavoratore _ e specialmente l'operaio dell'industria _ vende al datore di lavoro, che è al tempo stesso possessore del capitale, cioè dell'insieme degli strumenti di lavoro e dei mezzi che rendono possibile la produzione. Questo modo di concepire il lavoro era diffuso, in particolare, nella prima metà del secolo XIX. In seguito le esplicite formulazioni di questo tipo sono pressoché sparite, cedendo ad un modo più umano di pensare e di valutare il lavoro. L'interazione fra l'uomo del lavoro e l'insieme degli strumenti e dei mezzi di produzione ha dato luogo all'evolversi di diverse forme di capitalismo _ parallelamente a diverse forme di collettivismo _ dove si sono inseriti altri elementi socio-economici a seguito di nuove circostanze concrete, dell'opera delle associazioni dei lavoratori e dei poteri pubblici, dell'apparire di grandi imprese transnazionali. Ciononostante, il pericolo di trattare il lavoro come una «merce sui generis», o come una anonima «forza» necessaria alla produzione (si parla addirittura di «forza-lavoro»), esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell'economismo materialistico.

Un'occasione sistematica e, in certo qual senso, perfino uno stimolo per questo modo di pensare e di valutare è costituito dall'accelerato processo di sviluppo della civiltà unilateralmente materialistica, nella quale si dà prima di tutto importanza alla dimensione oggettiva del lavoro, mentre la dimensione soggettiva _ tutto ciò che è in rapporto indiretto o diretto con lo stesso soggetto del lavoro _ rimane su di un piano secondario. In tutti i casi di questo genere, in ogni situazione sociale di questo tipo avviene una confusione o, addirittura, un'inversione dell'ordine stabilito all'inizio con le parole del Libro della Genesi: l'uomo viene trattato come uno strumento di produzione,(12) mentre egli _ egli solo, indipendentemente dal lavoro che compie _ dovrebbe essere trattato come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore. Proprio tale inversione d'ordine, a prescindere dal programma e dalla denominazione secondo cui essa si compie, meriterebbe _ nel senso indicato qui sotto più ampiamente _ il nome di «capitalismo». Si sa che il capitalismo ha il suo preciso significato storico in quanto sistema, e sistema economico-sociale, in contrapposizione al «socialismo» o «comunismo». Ma, alla luce dell'analisi della realtà fondamentale dell'intero processo economico e, prima di tutto, della struttura di produzione _ quale appunto è il lavoro _ conviene riconoscere che l'errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque l'uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro _ cioè come soggetto e autore, e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo produttivo.

Da questo si comprende come l'analisi del lavoro umano fatta alla luce di quelle parole, che riguardano il «dominio» dell'uomo sopra la terra, penetri al centro stesso della problematica etico-sociale. Questa concezione dovrebbe pure trovare un posto centrale in tutta la sfera della politica sociale ed economica, sia nell'ambito dei singoli Paesi, sia in quello più vasto dei rapporti internazionali ed intercontinentali, con particolare riferimento alle tensioni, che si delineano nel mondo non solo sull'asse Oriente-Occidente, ma anche sull'asse Nord-Sud. Hanno rivolto una decisa attenzione a queste dimensioni della problematica etico-sociale contemporanea sia Giovanni XXIII nell'Enciclica Mater et Magistra, sia Paolo VI nell'Enciclica Populorum Progressio.

8. Solidarietà degli uomini del lavoro

Se si tratta del lavoro umano nella fondamentale dimensione del suo soggetto, cioè dell'uomo-persona che esegue un dato lavoro, si deve da questo punto di vista fare almeno una sommaria valutazione degli sviluppi, che nei novant'anni trascorsi dalla Rerum Novarum sono avvenuti in rapporto all'aspetto soggettivo del lavoro. Difatti, per quanto il soggetto del lavoro sia sempre lo stesso, cioè l'uomo, tuttavia nell'aspetto oggettivo si verificano notevoli variazioni. Benché si possa dire che il lavoro, a motivo del suo soggetto, è uno (uno e ogni volta irripetibile), tuttavia, considerando le sue oggettive direzioni, bisogna costatare che esistono molti lavori: tanti diversi lavori. Lo sviluppo della civiltà umana porta in questo campo un arricchimento continuo. Al tempo stesso, però, non si può non notare come nel processo di questo sviluppo non solo compaiono nuove forme di lavoro, ma pure che altre spariscono. Pur concedendo che in linea di massima questo sia un fenomeno normale, bisogna, tuttavia, vedere se non si infiltrino in esso, e in quale misura, certe irregolarità, che per motivi etico-sociali possono essere pericolose.

Proprio a motivo di una tale anomalia di grande portata è nata nel secolo scorso la cosiddetta questione operaia, definita a volte come «questione proletaria». Tale questione _ con i problemi ad essa connessi _ ha dato origine ad una giusta reazione sociale, ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori dell'industria. L'appello alla solidarietà e all'azione comune, lanciato agli uomini del lavoro _ soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono, spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a dominare sull'uomo, _ aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di vista dell'etica sociale. Era la reazione contro la degradazione dell'uomo come soggetto del lavoro, e contro l'inaudito, concomitante sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà.

Sulle orme dell'Enciclica Rerum Novarum e di molti documenti successivi del Magistero della Chiesa bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo(13), e che pesava sull'uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione. Questo stato di cose era favorito dal sistema socio-politico liberale che, secondo le sue premesse di economismo, rafforzava e assicurava l'iniziativa economica dei soli possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti dell'uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento di produzione e che il capitale e il fondamento, il coefficiente e lo scopo della produzione.

Da allora, la solidarietà degli uomini del lavoro, insieme con una presa di coscienza più netta e più impegnativa circa i diritti dei lavoratori da parte degli altri, ha prodotto in molti casi cambiamenti profondi. Si sono escogitati diversi nuovi sistemi. Si sono sviluppate diverse forme di neo-capitalismo o di collettivismo. Non di rado gli uomini del lavoro possono partecipare, ed effettivamente partecipano, alla gestione ed al controllo della produttività delle imprese. Per il tramite di appropriate associazioni, essi influiscono sulle condizioni di lavoro e di rimunerazione, come anche sulla legislazione sociale. Ma nello stesso tempo vari sistemi ideologici o di potere, come anche nuove relazioni, sorte ai diversi livelli della convivenza umana, hanno lasciato persistere ingiustizie flagranti o ne hanno creato di nuove. A livello mondiale, lo sviluppo della civiltà e delle comunicazioni ha reso possibile una più completa diagnosi delle condizioni di vita e di lavoro dell'uomo in tutta la terra, ma ha anche messo in luce altre modalità di ingiustizia, ben più vaste di quelle che, nel secolo scorso, stimolarono l'unione degli uomini del lavoro per una particolare solidarietà nel mondo operaio. Così nei Paesi che hanno già compiuto un certo processo di rivoluzione industriale; così anche nei Paesi nei quali il cantiere primario del lavoro non cessa di essere la coltivazione della terra, o altre occupazioni ad essa consimili.

Movimenti di solidarietà nel campo del lavoro _ di una solidarietà che non deve mai essere chiusura al dialogo e alla collaborazione con gli altri _ possono essere necessari anche in riferimento alle condizioni di ceti sociali che prima non erano in essi compresi, ma che subiscono, nei sistemi sociali e nelle condizioni di vita che cambiano, un'effettiva «proletarizzazione», o addirittura si trovano in realtà già in una condizione di «proletariato», la quale, anche se non ancora conosciuta con questo nome, di fatto è tale da meritarlo. In questa condizione possono trovarsi alcune categorie o gruppi dell'«intellighenzia» lavorativa, specialmente quando insieme con l'accesso sempre più largo all'istruzíone, col numero sempre crescente delle persone, che hanno conseguito diplomi per la loro preparazione culturale, diminuisce il fabbisogno del loro lavoro. Tale disoccupazione degli intellettuali avviene o aumenta, quando l'istruzione accessibile non è orientata verso i tipi di impiego o di servizi richiesti dai veri bisogni della società, o quando il lavoro, per il quale si esige l'istruzione, almeno professionale, è meno ricercato o meno pagato di un lavoro manuale. E ovvio che l'istruzione di per se stessa costituisce sempre un valore ed un importante arricchimento della persona umana; ma ciononostante, taluni processi di «proletarizzazione» restano possibili indipendentemente da questo fatto.

Perciò, bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa e vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro _ cioè per la piaga della disoccupazione _, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.

9. Lavoro: dignità della persona

Rimanendo ancora nella prospettiva dell'uomo come soggetto del lavoro, ci conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni problemi che definiscono più da vicino la dignità del lavoro umano, poiché permettono di caratterizzare più pienamente il suo specifico valore morale. Occorre far questo tenendo sempre davanti agli occhi quella vocazione biblica a «soggiogare la terra»(14), nella quale si è espressa la volontà del Creatore, perché il lavoro rendesse possibile all'uomo di raggiungere quel «dominio» che gli è proprio nel mondo visibile.

La fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell'uomo, che Egli «creò ... a sua somiglianza, a sua immagine»(15), non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l'uomo, dopo aver infranto l'originaria alleanza con Dio, udì le parole: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane»(16). Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l'uomo realizza il «dominio», che gli è proprio, sul mondo visibile «soggiogando» la terra. Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel coltivare la terra, la quale a volte «produce pruni e spine»(17), ma anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri edili e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita o di invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni destinate ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne,che, talora senza adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell'educazione dei figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini.

Eppure, con tutta questa fatica _ e forse, in un certo senso, a causa di essa _ il lavoro è un bene dell'uomo. Se questo bene comporta il segno di un «bonum arduum», secondo la terminologia di San Tommaso(18), ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell'uomo. Ed è non solo un bene «utile» o «da fruire», ma un bene «degno», cioè corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell'uomo _ è un bene della sua umanità _, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo».

Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l'uomo diventa buono in quanto uomo(19). Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l'uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità(20). E noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l'uomo, che si può punire l'uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell'uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l'uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell'obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l'ordine sociale del lavoro, che permetterà all'uomo di «diventare più uomo» nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, e inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie.

10. Lavoro e società: famiglia, nazione

Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al secondo cerchio di valori, che e ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell'uomo. Questi due cerchi di valori _ uno congiunto al lavoro, l'altro conseguente al carattere familiare della vita umana _ devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l'uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno «diventa uomo», fra l'altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l'educazione. Ciononostante, questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti.

Nell'insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l'ordine socio-etico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale attenzione a questo problema, e nel presente documento occorrerà che ritorniamo ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo.

Il terzo cerchio di valori che emerge nella presente prospettiva _ nella prospettiva del soggetto del lavoro _ riguarda quella grande società, alla quale l'uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società _ anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione _ è non soltanto la grande «educatrice» di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l'uomo unisca la sua più profonda identità umana con l'appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo.

Questi tre cerchi conservano permanentemente la loro importanza per il lavoro umano nella sua dimensione soggettiva. E tale dimensione, cioè la concreta realtà dell'uomo del lavoro, ha la precedenza sulla dimensione oggettiva. Nella dimensione soggettiva si realizza, prima di tutto, quel «dominio» sul mondo della natura, al quale l'uomo è chiamato sin dall'inizio secondo le parole del Libro della Genesi. Se il processo stesso di «soggiogare la terra», cioè il lavoro sotto l'aspetto della tecnica, è segnato nel corso della storia e, specialmente, negli ultimi secoli, da uno sviluppo immenso dei mezzi produttivi, allora questo è un fenomeno vantaggioso e positivo, a condizione che la dimensione oggettiva del lavoro non prenda il sopravvento sulla dimensione soggettiva, togliendo all'uomo o diminuendo la sua dignità e i suoi inalienabili diritti.

III

IL CONFLITTO TRA LAVORO E CAPITALE
NELLA PRESENTE FASE STORICA

11. Dimensioni di tale conflitto

L'abbozzo della fondamentale problematica del lavoro qual è stato delineato sopra, come si riferisce ai primi testi biblici, così costituisce, in un certo senso, la stessa struttura portante dell'insegnamento della Chiesa, che si mantiene immutato attraverso i secoli, nel contesto delle varie esperienze della storia. Tuttavia, sullo sfondo delle esperienze che hanno preceduto la pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum e che l'hanno seguita, esso acquista una particolare espressività ed un'eloquenza di viva attualità. Il lavoro appare in questa analisi come una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso sulla formazione in senso umano del mondo affidato all'uomo dal Creatore, ed è una realtà strettamente legata all'uomo, come al proprio soggetto, ed al suo razionale operare. Questa realtà, nel corso normale delle cose, riempie la vita umana e incide fortemente sul suo valore e sul suo senso. Anche se unito con la fatica e con lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene, sicché l'uomo si sviluppa mediante l'amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni, che oggi si prendono nei suoi riguardi, anche in riferimento ai diritti soggettivi dell'uomo, come attestano le Dichiarazioni internazionali ed anche i molteplici Codici del lavoro, elaborati sia dalle competenti istituzioni legislative dei singoli Paesi, sia dalle Organizzazioni che dedicano la loro attività sociale o anche scientifico-sociale alla problematica del lavoro. Un organismo che promuove a livello internazionale tali iniziative è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la più antica Istituzione specializzata dell'ONU.

Nella parte successiva delle presenti considerazioni ho intenzione di ritornare in modo più dettagliato su questi importanti problemi, ricordando almeno gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa intorno a questo tema. Prima però conviene toccare un cerchio molto importante di problemi, tra i quali si e venuto formando questo insegnamento nell'ultima fase, cioè nel periodo, la cui data, in un certo senso simbolica, è l'anno della pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum.

E' noto che in tutto questo periodo, il quale non è affatto ancora terminato, il problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto, che nell'epoca dello sviluppo industriale ed insieme con esso si è manifestato tra il «mondo del capitale» e il «mondo del lavoro», cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione, e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro. Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza nel lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie.

Questo conflitto, interpretato da certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici, ma addirittura, e prima di tutto, politici. E' nota la storia di questo conflitto, come note sono anche le richieste dell'una e dell'altra parte. Il programma marxista, basato sulla filosofia di Marx e di Engels, vede nella lotta di classe l'unica via per l'eliminazione delle ingiustizie di classe, esistenti nella società, e delle classi stesse. L'attuazione di questo programma premette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché, mediante il trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il lavoro umano venga preservato dallo sfruttamento.

A questo tende la lotta condotta con metodi non solo ideologici, ma anche politici. I raggruppamenti, ispirati dall'ideologia marxista come partiti politici, tendono, in funzione del principio della «dittatura del proletariato» ed esercitando influssi di vario tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico. Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento internazionale, lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in definitiva, il sistema comunista.

Toccando questo cerchio estremamente importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra epoca, non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze pratiche. Si deve, invece, risalire dal loro contesto al problema fondamentale del lavoro umano, al quale sono dedicate soprattutto le considerazioni contenute nel presente documento. Al tempo stesso, infatti, è evidente che questo problema capitale, sempre dal punto di vista dell'uomo _ problema che costituisce una delle fondamentali dimensioni della sua esistenza terrena e della sua vocazione _, non può essere altrimenti spiegato se non tenendo conto del pieno contesto della realtà contemporanea.

12. Priorità del lavoro

Di fronte all'odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente inscritti tanti conflitti causati dall'uomo, e nella quale i mezzi tecnici _ frutto del lavoro umano _ giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma mondiale nell'eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del «lavoro» nei confronti del «capitale». Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il «capitale», essendo l'insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l'esperienza storica dell'uomo.

Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l'uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell'uomo. Tuttavia, tali risorse non possono servire all'uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro rimane pure legato sin dall'inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l'uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l'uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro.

Lo stesso principio si applica alle fasi successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre la relazione dell'uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell'uomo e per l'uomo, ci rende consapevoli che tutto ciò che nell'intera opera di produzione economica proviene dall'uomo, sia il lavoro come pure l'insieme dei mezzi di produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l'uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro, l'uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della «natura», e cioè in definitiva da parte del Creatore. All'inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione. Questa affermazione, già indicata come punto di partenza, costituisce il filo conduttore di questo documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell'ultima parte delle presenti riflessioni.

La successiva considerazione dello stesso problema deve confermarci nella convinzione circa la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passar del tempo, si è abituati a chiamare «capitale». Se infatti nell'àmbito di quest'ultimo concetto rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell'uomo, anche quell'insieme di mezzi, mediante i quali l'uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in qualche senso, «umanizzandole»), allora già qui si deve costatare che quell'insieme di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l'uomo che li ha gradualmente elaborati: l'esperienza e l'intelletto dell'uomo. In questo modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione della terra, ma anche _ con un adeguato progresso della scienza e della tecnica _ quelli più moderni e complessi: le macchine, le fabbriche, i laboratori e i computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce _ allo stato odierno della tecnica _ il suo «strumento» sempre più perfezionato, è frutto del lavoro.

Questo gigantesco e potente strumento _ l'insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di «capitale» _, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano. Al presente grado di avanzamento della tecnica, l'uomo, che è il soggetto del lavoro, volendo servirsi di quest'insieme di moderni strumenti, ossia dei mezzi di produzione, deve prima assimilare sul piano della conoscenza il frutto del lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli strumenti, che li hanno programmati, costruiti e perfezionati, e che continuano a farlo. La capacità di lavoro _ cioè di partecipazione efficiente al moderno processo di produzione _ esige una preparazione sempre maggiore e, prima di tutto, un'adeguata istruzione. Resta chiaro ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di produzione, anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, è tuttavia in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell'uomo.

Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell'uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di «capitale» _ in senso ristretto _ è solamente un insieme di cose. L'uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive.

13. Economismo e materialismo

Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il «capitale» dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno _ come si spiegherà più avanti _ gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri. Retto, cioè conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore.

L'antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile. L'uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l'uomo, lavorando, al tempo stesso «subentra nel lavoro degli altri»(21). Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del processo del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia dalla fede che attinge la luce dalla Parola di Dio. E' questa un'immagine coerente, teologica ed insieme umanistica. L'uomo è in essa il «padrone» delle creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di «cose», degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell'uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il «soggetto» anonimo che rende dipendente l'uomo e il suo lavoro.

La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva «economistica». In tale impostazione del problema vi era l'errore fondamentale, che si può chiamare l'errore dell'economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l'economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e personale (l'operare dell'uomo, i valori morali e simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell'uomo.

L'errore di pensare secondo le categorie dell'economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto materialismo dialettico. Sembra tuttavia che _ nel quadro delle presenti riflessioni _, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per quella separazione e contrapposizione tra «lavoro» e «capitale», come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva «economistica», di cui sopra, l'economismo abbia avuto un'importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive, perché il primato dell'uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in esso un'adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel materialismo dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di «risultante» dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca.

Evidentemente l'antinomia tra lavoro e capitale qui considerata _ l'antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico _ ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l'uomo del lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico, legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può però ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche che pratiche. Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.

14. Lavoro e proprietà

Il processo storico _ qui brevemente presentato _ che è certo uscito dalla sua fase iniziale, ma che continua ad essere in vigore, anzi ad estendersi nei rapporti tra le nazioni e i continenti, esige una precisazione anche da un altro punto di vista. E' evidente che, quando si parla dell'antinomia tra lavoro e capitale, non si tratta solo di concetti astratti o di «forze anonime», operanti nella produzione economica. Dietro l'uno e l'altro concetto ci sono gli uomini, gli uomini vivi, concreti; da una parte coloro, che eseguono il lavoro senza essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall'altra coloro, che fungono da imprenditori e sono i proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i proprietari. Così, quindi, nell'insieme di questo difficile processo storico, sin dall'inizio si inserisce il problema della proprietà. L'Enciclica Rerum Novarum, che ha come tema la questione sociale, pone l'accento anche su questo problema, ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso ha fatto l'Enciclica Mater et Magistra.

Il suddetto principio, così come fu allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all'epoca dell'Enciclica di Leone XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo secondo caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell'intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni.

Inoltre, la proprietà secondo l'insegnamento della Chiesa non è stata mai intesa in modo da poter costituire un motivo di contrasto sociale nel lavoro. Come è già stato ricordato precedentemente in questo testo, la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del «capitale» al «lavoro» e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l'unico titolo legittimo al loro possesso _ e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà pubblica o collettiva _ è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell'ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune. Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e dell'accesso comune ai beni destinati all'uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di produzione. Nello spazio dei decenni che ci separano dalla pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum, l'insegnamento della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi principi, risalendo agli argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per es. ai noti argomenti della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino(22).

Nel presente documento, che ha come tema principale il lavoro umano, conviene confermare tutto lo sforzo con cui l'insegnamento della Chiesa sulla proprietà ha cercato e cerca sempre di assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso, la soggettività dell'uomo nella vita sociale e, specialmente, nella struttura dinamica di tutto il processo economico. Da questo punto di vista, continua a rimanere inaccettabile la posizione del «rigido» capitalismo, il quale difende l'esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un «dogma» intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come l'insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l'aiuto di quest'insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s'impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui, ovviamente, delle varie specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro manuale, ma anche del molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto a quello direttivo.

In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della Chiesa(23). Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili. Indipendentemente dall'applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell'uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell'àmbito dello stesso diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e ciò prendendo in considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima di tutto la realtà e la problematica, che si è creata nella seconda metà del secolo in corso, per quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari nuovi Paesi indipendenti che son sorti, specialmente ma non soltanto in Africa, al posto dei territori coloniali di una volta.

Se dunque la posizione del «rigido» capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l'aspetto dei diritti dell'uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l'eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all'amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell'intera economia nazionale oppure dell'economia locale.

Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro _ ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell'amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all'offesa dei fondamentali diritti dell'uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla «socializzazione» di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il «com-proprietario» del grande banco di lavoro, al quale s'impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita(24).

15. Argomento "personalistico"

Così, quindi, il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale è un postulato appartenente all'ordine della morale sociale. Tale postulato ha la sua importanza-chiave tanto nel sistema costruito sul principio della proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto nel sistema in cui la proprietà privata di questi mezzi è stata limitata anche radicalmente. Il lavoro è, in un certo senso, inseparabile dal capitale e non accetta sotto nessuna forma quell'antinomia, cioè la separazione e la contrapposizione in rapporto ai mezzi di produzione, che ha gravato sopra la vita umana negli ultimi secoli, come risultato di premesse unicamente economiche. Quando l'uomo lavora, servendosi dell'insieme dei mezzi di produzione, egli al tempo stesso desidera che i frutti di questo lavoro servano a lui e agli altri e che, nel processo stesso del lavoro, possa apparire come corresponsabile e co-artefice al banco di lavoro, presso il quale si applica.

Da ciò nascono alcuni specifici diritti dei lavoratori, che corrispondono all'obbligo del lavoro. Se ne parlerà in seguito. Ma già qui bisogna sottolineare, in generale, che l'uomo che lavora desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo stesso sappia di lavorare «in proprio». Questa consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un'eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall'alto e _ a più di un titolo _ un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa. L'insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l'economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati. Secondo il pensiero di San Tommaso d'Aquino(25), è soprattutto questa ragione che depone in favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione. Se accettiamo che per certi, fondati motivi, eccezioni possono essere fatte al principio della proprietà privata _ e nella nostra epoca siamo addirittura testimoni che è stato introdotto il sistema della proprietà «socializzata» _, tuttavia l'argomento personalistico non perde la sua forza né a livello di principi, né a livello pratico. Per essere razionale e fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l'uomo, anche in un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare «in proprio». In caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto danni nell'uomo.

IV

DIRITTI DEGLI UOMINI DEL LAVORO

16 . Nel vasto contesto dei diritti dell'uomo

Se il lavoro _ nel molteplice senso di questa parola _ è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto dell'insieme dei diritti dell'uomo, che gli sono connaturali, molti dei quali sono proclamati da varie istanze internazionali e sempre maggiormente garantiti dai singoli Stati per i propri cittadini. Il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell'uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo: per la pace sia all'interno dei singoli Paesi e società, sia nell'àmbito dei rapporti internazionali, come è già stato notato molte volte dal Magistero della Chiesa, specialmente dal tempo dell'Enciclica Pacem in terris. I diritti umani che scaturiscono dal lavoro rientrano precisamente nel più vasto contesto di quei fondamentali diritti della persona.

Tuttavia, nell'àmbito di questo contesto, essi hanno un carattere specifico, rispondente alla specifica natura del lavoro umano delineata precedentemente, e proprio secondo questo carattere occorre guardarli. Il lavoro è _ come è stato detto _ un obbligo, cioè un dovere dell'uomo, e ciò nel molteplice senso di questa parola. L'uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel'ha ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e sviluppo esigono il lavoro. L'uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all'intera famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia. Tutto ciò costituisce l'obbligo morale del lavoro, inteso nella sua ampia accezione. Quando occorrerà considerare i diritti morali di ogni uomo per riguardo al lavoro, corrispondenti a questo obbligo, si dovrà avere sempre davanti agli occhi l'intero vasto raggio di riferimenti, nei quali si manifesta il lavoro di ogni soggetto lavorante.

Infatti, parlando dell'obbligo del lavoro e dei diritti del lavoratore corrispondenti a questo obbligo, noi abbiamo in mente, prima di tutto, il rapporto tra il datore di lavoro _ diretto o indiretto _ e il lavoratore stesso.

La distinzione tra datore di lavoro diretto ed indiretto pare molto importante in considerazione sia della reale organizzazione del lavoro, sia della possibilità del formarsi di giusti od ingiusti rapporti nel settore del lavoro.

Se il datore di lavoro diretto è quella persona o istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di lavoro indiretto si devono intendere molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel settore del lavoro umano.

17. Datore di lavoro: "indiretto" e "diretto"

Nel concetto di datore di lavoro indiretto entrano sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento, stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano. Il concetto di datore di lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi. La responsabilità del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di lavoro diretto _ come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta _, ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto determina sostanzialmente l'uno o l'altro aspetto del rapporto di lavoro, e condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando quest'ultimo determina concretamente il contratto ed i rapporti di lavoro. Una costatazione del genere non ha come scopo quello di esimere quest'ultimo dalla responsabilità che gli è propria, ma solamente di richiamare l'attenzione su tutto l'intreccio di condizionamenti che influiscono sul suo comportamento. Quando si tratta di stabilire una politica del lavoro corretta dal punto di vista etico, bisogna tenere davanti agli occhi tutti questi condizionamenti. Ed essa è corretta, allorché sono pienamente rispettati gli oggettivi diritti dell'uomo del lavoro.

Il concetto di datore di lavoro indiretto si può applicare ad ogni singola società e, prima di tutto, allo Stato. E', infatti, lo Stato che deve condurre una giusta politica del lavoro. E' noto, però, che nel presente sistema dei rapporti economici nel mondo, si verificano tra i singoli Stati molteplici collegamenti, che si esprimono per esempio nel processo d'importazione e d'esportazione, cioè nel reciproco scambio dei beni economici, siano essi le materie prime, o i semilavorati, o, infine, i prodotti industriali finiti. Questi rapporti creano anche reciproche dipendenze e, di conseguenza, sarebbe difficile parlare di piena autosufficienza, cioè di autarchia, in riferimento a qualunque Stato, fosse pure il più potente in senso economico.

Un tale sistema di reciproche dipendenze è normale in se stesso: tuttavia, può facilmente diventare occasione di varie forme di sfruttamento o di ingiustizia, e, di conseguenza, influire sulla politica di lavoro dei singoli stati ed, in ultima istanza, sul singolo lavoratore, che è il soggetto proprio del lavoro. Ad esempio i Paesi altamente industrializzati e, più ancora, le imprese che dirigono su grande scala i mezzi di produzione industriale (le cosiddette società multinazionali o transnazionali), dettano i prezzi più alti possibili per i loro prodotti, cercando contemporaneamente di stabilire i prezzi più bassi possibili per le materie prime o per i semilavorati, il che, fra altre cause, crea come risultato una sproporzione sempre crescente tra i redditi nazionali dei rispettivi Paesi. La distanza tra la maggior parte dei Paesi ricchi e i Paesi più poveri non diminuisce e non si livella, ma aumenta sempre di più, ovviamente a scapito di questi ultimi. E' evidente che ciò non può rimanere senza effetto sulla politica locale del lavoro sulla situazione dell'uomo del lavoro nelle società economicamente svantaggiate. Il datore diretto di lavoro, trovandosi in un simile sistema di condizionamenti, fissa le condizioni del lavoro al di sotto delle oggettive esigenze dei lavoratori, specialmente se egli stesso vuole trarre i profitti più alti possibili dall'impresa da lui condotta (oppure dalle imprese da lui condotte, se si tratta di una situazione di proprietà «socializzata» dei mezzi di produzione).

Questo quadro delle dipendenze, relative al concetto di datore indiretto di lavoro, è _ come è facile dedurre _ enormemente esteso e complicato. Per determinarlo si deve prendere in considerazione, in un certo senso, l'insieme degli elementi decisivi per la vita economica nel profilo di una data società e Stato; però si deve, al tempo stesso, tener conto di collegamenti e di dipendenze molto più vaste. La realizzazione dei diritti dell'uomo del lavoro non può, tuttavia, essere condannata a costituire solamente un derivato dei sistemi economici, i quali su scala più larga o più ristretta siano guidati soprattutto dal criterio del massimo profitto. Al contrario, è precisamente il riguardo per i diritti oggettivi dell'uomo del lavoro _ di ogni tipo di lavoratore: manuale, intellettuale, industriale, agricolo, ecc. _ che deve costituire l'adeguato e fondamentale criterio della formazione di tutta l'economia nella dimensione sia di ogni società e di ogni Stato, sia nell'insieme della politica economica mondiale e dei sistemi e rapporti internazionali, che ne derivano.

In questa direzione dovrebbero esercitare il loro influsso tutte le Organizzazioni Internazionali a ciò chiamate, cominciando dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. Pare che l'Organizzazione Mondiale del Lavoro (OIT), nonché l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO) ed altre ancora, abbiano da offrire nuovi contributi particolarmente su questo punto. Nell'àmbito dei singoli Stati esistono ministeri o dicasteri del potere pubblico ed anche vari Organismi sociali istituiti a questo scopo. Tutto ciò indica efficacemente quale grande importanza abbia _ come è stato detto sopra _ il datore di lavoro indiretto nella realizzazione del pieno rispetto dei diritti dell'uomo del lavoro, perché i diritti della persona umana costituiscono l'elemento chiave di tutto l'ordine morale sociale.

18. Il problema dell'occupazione

Considerando i diritti degli uomini del lavoro proprio in relazione a questo «datore di lavoro indiretto», cioè all'insieme delle istanze a livello nazionale ed internazionale che sono responsabili di tutto l'orientamento della politica del lavoro, si deve prima di tutto rivolgere l'attenzione ad un problema fondamentale. Si tratta del problema di avere un lavoro, cioè, in altre parole, del problema di un'occupazione adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci. L'opposto di una giusta e corretta situazione in questo settore è la disoccupazione, cioè la mancanza di posti di lavoro per i soggetti che di esso sono capaci. Può trattarsi di mancanza di occupazione in genere, oppure in determinati settori di lavoro. Il compito di queste istanze, che qui si comprendono sotto il nome di datore di lavoro indiretto, è di agire contro la disoccupazione, la quale è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale. Essa diventa un problema particolarmente doloroso, quando vengono colpiti soprattutto i giovani, i quali, dopo essersi preparati mediante un'appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità. L'obbligo delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè di corrispondere le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal principio fondamentale dell'ordine morale in questo campo, cioè dal principio dell'uso comune dei beni o, parlando in un altro modo ancora più semplice, dal diritto alla vita ed alla sussistenza.

Per contrapporsi al pericolo della disoccupazione, per assicurare a tutti un'occupazione, le istanze che sono state qui definite come datore di lavoro indiretto devono provvedere ad una pianificazione globale in riferimento a quel banco di lavoro differenziato, presso il quale si forma la vita non solo economica, ma anche culturale di una data società; esse devono fare attenzione, inoltre, alla corretta e razionale organizzazione del lavoro a tale banco. Questa sollecitudine globale in definitiva grava sulle spalle dello Stato, ma non può significare una centralizzazione unilateralmente operata dai pubblici poteri. Si tratta, invece, di una giusta e razionale coordinazione, nel quadro della quale deve essere garantita l'iniziativa delle singole persone, dei gruppi liberi, dei centri e complessi di lavoro locali, tenendo conto di ciò che è già stato detto sopra circa il carattere soggettivo del lavoro umano.

Il fatto della reciproca dipendenza delle singole società e Stati e la necessità di collaborazione in vari settori richiedono che, mantenendo i diritti sovrani di ciascuno di essi nel campo della pianificazione e dell'organizzazione del lavoro nella propria società, si agisca al tempo stesso, in questo settore importante, nella dimensione della collaborazione internazionale mediante i necessari trattati e accordi. Anche qui è necessario che il criterio di questi patti e di questi accordi diventi sempre più il lavoro umano, inteso come un fondamentale diritto di tutti gli uomini, il lavoro che dà a tutti coloro che lavorano analoghi diritti, così che il livello della vita degli uomini del lavoro nelle singole società presenti sempre meno quelle urtanti differenze, che sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni. Le Organizzazioni Internazionali hanno in questo settore compiti enormi da svolgere. Bisogna che esse si lascino guidare da un'esatta diagnosi delle complesse situazioni e dei condizionamenti naturali, storici, civili, ecc.; bisogna anche che esse, in relazione ai piani di azione stabiliti in comune, abbiano una maggiore operatività, cioè efficacia nella realizzazione.

Su tale via si può attuare il piano di un universale e proporzionato progresso di tutti, secondo il filo conduttore dell'Enciclica di Paolo VI Populorum Progressio. Bisogna sottolineare che l'elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa proclama e per il quale non cessa di pregare il Padre di tutti gli uomini e di tutti i popoli, è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto l'aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l'aspetto della dignità del soggetto d'ogni lavoro, che è l'uomo. Il progresso, del quale si tratta, deve compiersi mediante l'uomo e per l'uomo e deve produrre frutti nell'uomo. Una verifica del progresso sarà il sempre più maturo riconoscimento della finalità del lavoro e il sempre più universale rispetto dei diritti ad esso inerenti, conformemente alla dignità dell'uomo, soggetto del lavoro.

Una ragionevole pianificazione ed una adeguata organizzazione del lavoro umano, a misura delle singole società e dei singoli Stati, dovrebbero facilitare anche la scoperta delle giuste proporzioni tra le diverse specie di occupazione: il lavoro della terra, dell'industria, nei molteplici servizi, il lavoro di concetto ed anche quello scientifico o artistico, secondo le capacità dei singoli uomini e per il bene comune di ogni società e di tutta l'umanità. All'organizzazione della vita umana secondo le molteplici possibilità del lavoro dovrebbe corrispondere un adatto sistema di istruzione e di educazione, che prima di tutto abbia come scopo lo sviluppo di una matura umanità, ma anche una specifica preparazione ad occupare con profitto un giusto posto nel grande e socialmente differenziato banco di lavoro.

Gettando lo sguardo sull'intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall'altra esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all'interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale _ per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e dell'occupazione _ vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza sociale.

19. Salario e altre prestazioni sociali

Dopo aver delineato il ruolo importante, che l'impegno di dare un'occupazione a tutti i lavoratori ha al fine di garantire il rispetto degli inalienabili diritti dell'uomo in considerazione del suo lavoro, conviene toccare più da vicino questi diritti, i quali, in definitiva, si formano nel rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro diretto. Tutto ciò che è stato detto finora sul tema del datore di lavoro indiretto ha come scopo di precisare più da vicino proprio questi rapporti mediante la dimostrazione di quei molteplici condizionamenti, nei quali essi indirettamente si formano. Questa considerazione, però, non ha un significato puramente descrittivo; essa non è un breve trattato di economia o di politica. Si tratta di mettere in evidenza l'aspetto deontologico e morale. Il problema-chiave dell'etica sociale, in questo caso, è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene eseguito. Non c'è nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla remunerazione del lavoro. Indipendentemente dal fatto che questo lavoro si effettui nel sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione oppure in un sistema, nel quale questa proprietà ha subìto una specie di «socializzazione», il rapporto tra il datore di lavoro (prima di tutto diretto) e il lavoratore si risolve in base al salario, cioè mediante la giusta remunerazione del lavoro che è stato eseguito.

Occorre anche rilevare come la giustizia di un sistema socio-economico e, in ogni caso, il suo giusto funzionamento meritino, in definitiva, di essere valutati secondo il modo in cui il lavoro umano è in quel sistema equamente remunerato. A questo punto arriviamo di nuovo al primo principio di tutto l'ordinamento etico-sociale, e cioè al principio dell'uso comune dei beni. In ogni sistema, senza riguardo ai fondamentali rapporti esistenti tra il capitale e il lavoro, il salario, cioè la remunerazione del lavoro, rimane una via concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può accedere a quei beni che sono destinati all'uso comune: sia beni della natura, sia quelli che sono frutto della produzione. Gli uni e gli altri diventano accessibili all'uomo del lavoro grazie al salario, che egli riceve come remunerazione per il suo lavoro. Di qui, proprio il giusto salario diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento. Non è questa l'unica verifica, ma è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave.

Questa verifica riguarda soprattutto la famiglia. Una giusta remunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia è quella che sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro. Tale remunerazione può realizzarsi sia per il tramite del cosiddetto salario familiare _ cioè un salario unico dato al capo-famiglia per il suo lavoro, e sufficiente per il bisogno della famiglia, senza la necessità di far assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge _, sia per il tramite di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia, contributi che devono corrispondere alle effettive necessità, cioè al numero delle persone a carico per tutto il tempo che esse non siano in grado di assumersi degnamente la responsabilità della propria vita.

L'esperienza conferma che bisogna adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di amore e di affetto per potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre _ senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne _ di dedicarsi alla cura e all'educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della loro età. L'abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retribuitivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione materna(26).

In tale contesto si deve sottolineare che, in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo lavorativo in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell'età e del sesso di ciascuno. E' un fatto che in molte società le donne lavorano in quasi tutti i settori della vita. Conviene, però, che esse possano svolgere pienamente le loro funzioni secondo l'indole ad esse propria, senza discriminazioni e senza esclusione da impieghi dei quali sono capaci, ma anche senza venir meno al rispetto per le loro aspirazioni familiari e per il ruolo specifico che ad esse compete nel contribuire al bene della società insieme con l'uomo. La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l'abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, nella quale ha come madre un ruolo insostituibile.

Accanto al salario, qui entrano in gioco ancora varie prestazioni sociali, aventi come scopo quello di assicurare la vita e la salute dei lavoratori e quella della loro famiglia. Le spese riguardanti le necessità della cura della salute, specialmente in caso di incidenti sul lavoro, esigono che il lavoratore abbia facile accesso all'assistenza sanitaria, e ciò, in quanto possibile, a basso costo, o addirittura gratuitamente. Un altro settore, che riguarda le prestazioni, è quello collegato al diritto al riposo: prima di tutto, si tratta qui del regolare riposo settimanale, comprendente almeno la Domenica, ed inoltre un riposo più lungo, cioè le cosiddette ferie una volta all'anno, o eventualmente più volte durante l'anno per periodi più brevi. Infine, si tratta qui del diritto alla pensione e all'assicurazione per la vecchiaia ed in caso di incidenti collegati alla prestazione lavorativa. Nell'ambito di questi diritti principali, si sviluppa tutto un sistema di diritti particolari, che insieme con la remunerazione per il lavoro decidono della corretta impostazione di rapporti tra il lavoratore e il datore di lavoro. Tra questi diritti va sempre tenuto presente quello ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi, che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale.

20. L'importanza dei sindacati

Sulla base di tutti questi diritti, insieme con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso particolare.

I sindacati trovano la propria ascendenza, in un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e, quindi, in base al lavoro che effettuavano. Al tempo stesso, però, i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L'esperienza storica insegna che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate. Ciò, evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell'industria possano istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni professione possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti. Esistono, quindi, i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto, si dividono ancora in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari specializzazioni professionali.

La dottrina sociale cattolica non ritiene che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura «di classe» della società e che siano l'esponente della lotta di classe, che inevitabilmente governa la vita sociale. Sì, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa «lotta» deve essere vista come un normale adoperarsi «per» il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta «contro» gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per «la lotta», oppure per eliminare l'avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro _ alla luce del fatto che, in definitiva, in ogni sistema sociale il «lavoro» e il «capitale» sono le indispensabili componenti del processo di produzione _ l'unione degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere.

I giusti sforzi per assicurare i diritti dei lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di «egoismo» di gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a correggere _ per riguardo al bene comune di tutta la società _ anche tutto ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di «vasi comunicanti», ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari.

In questo senso l'attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della «politica», intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune. Al tempo stesso, però, il compito dei sindacati non è di «fare politica» nel senso che comunemente si dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il carattere di «partiti politici» che lottano per il potere, e non dovrebbero neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei legami troppo stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell'intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi.

Parlando della tutela dei giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni, occorre naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide circa il carattere soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo stesso, o prima di tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del lavoro. Qui si dischiudono molteplici possibilità nell'operato delle organizzazioni sindacali, e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo, educativo e di promozione dell'auto-educazione. Benemerita è l'opera delle scuole, delle cosiddette «università operaie» e «popolari», dei programmi e corsi di formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all'opera dei suoi sindacati, il lavoratore possa non soltanto «avere» di più, ma prima di tutto «essere» di più: possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni aspetto.

Adoperandosi per i giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche del metodo dello «sciopero», cioè del blocco del lavoro, come di una specie di ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di lavoro. Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i lavoratori dovrebbero avere assicurato il diritto allo sciopero, senza subire personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non se ne può abusare specialmente per giochi «politici». Inoltre, non si può mai dimenticare che, quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario, apposite misure legali. L'abuso dello sciopero può condurre alla paralisi di tutta la vita socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del bene comune della società, che corrisponde anche alla natura rettamente intesa del lavoro stesso.

21. Dignità del lavoro agricolo

Tutto ciò che è stato detto in precedenza sulla dignità del lavoro, sulla dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro dell'uomo, trova un'applicazione diretta al problema del lavoro agricolo e alla situazione dell'uomo che coltiva la terra nel duro lavoro dei campi. Si tratta, infatti, di un settore molto vasto dell'ambiente di lavoro del nostro pianeta, non circoscritto all'uno o all'altro continente, non limitato alle società che hanno già conquistato un certo grado di sviluppo e di progresso. Il mondo agricolo, che offre alla società i beni necessari per il suo quotidiano sostentamento, riveste una importanza fondamentale. Le condizioni del mondo rurale e del lavoro agricolo non sono uguali dappertutto, e diverse sono le posizioni sociali dei lavoratori agricoli nei diversi Paesi. E ciò non dipende soltanto dal grado di sviluppo della tecnica agricola, ma anche, e forse ancora di più, dal riconoscimento dei giusti diritti dei lavoratori agricoli e, infine, dal livello di consapevolezza riguardante tutta l'etica sociale del lavoro.

Il lavoro dei campi conosce non lievi difficoltà, quali lo sforzo fisico continuo e talvolta estenuante, lo scarso apprezzamento, con cui è socialmente considerato, al punto da creare presso gli uomini dell'agricoltura il sentimento di essere socialmente degli emarginati, e da accelerare in essi il fenomeno della fuga in massa dalla campagna verso le città e purtroppo verso condizioni di vita ancor più disumanizzanti. Si aggiungano la mancanza di adeguata formazione professionale e di attrezzi appropriati, un certo individualismo serpeggiante ed anche situazioni obiettivamente ingiuste. In taluni Paesi in via di sviluppo, milioni di uomini sono costretti a coltivare i terreni di altri e vengono sfruttati dai latifondisti, senza la speranza di poter mai accedere al possesso neanche di un minimo pezzo di terra in proprio. Mancano forme di tutela legale per la persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia in caso di vecchiaia, di malattia o di mancanza di lavoro. Lunghe giornate di duro lavoro fisico vengono miseramente pagate. Terreni coltivabili vengono lasciati abbandonati dai proprietari; titoli legali al possesso di un piccolo terreno, coltivato in proprio da anni, vengono trascurati o rimangono senza difesa di fronte alla «fame di terra» di individui o di gruppi più potenti. Ma anche nei Paesi economicamente sviluppati, dove la ricerca scientifica, le conquiste tecnologiche o la politica dello Stato hanno portato l'agricoltura ad un livello molto avanzato, il diritto al lavoro può essere leso quando si nega al contadino la facoltà di partecipare alle scelte decisionali concernenti le sue prestazioni lavorative, o quando viene negato il diritto alla libera associazione in vista della giusta promozione sociale, culturale ed economica del lavoratore agricolo.

In molte situazioni sono dunque necessari cambiamenti radicali ed urgenti per ridare all'agricoltura _ ed agli uomini dei campi _ il giusto valore come base di una sana economia, nell'insieme dello sviluppo della comunità sociale. Perciò occorre proclamare e promuovere la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e specialmente del lavoro agricolo, nel quale l'uomo in modo tanto eloquente «soggioga» la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo «dominio» nel mondo visibile.

22. La persona handicappata e il lavoro

Recentemente, le comunità nazionali e le organizzazioni internazionali hanno rivolto la loro attenzione ad un altro problema connesso col lavoro, e che è ricco di incidenze: quello delle persone handicappate. Anche esse sono soggetti pienamente umani, con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili, che, pur con le limitazioni e le sofferenze inscritte nel loro corpo e nelle loro facoltà, pongono in maggior rilievo la dignità e la grandezza dell'uomo. Poiché la persona portatrice di «handicaps» è un soggetto con tutti i suoi diritti, essa deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in tutte le dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue possibilità. La persona handicappata è uno di noi e partecipa pienamente alla nostra stessa umanità. Sarebbe radicalmente indegno dell'uomo, e negazione della comune umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i membri pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli ed i malati. Il lavoro in senso oggettivo deve essere subordinato, anche in questa circostanza, alla dignità dell'uomo, al soggetto del lavoro e non al vantaggio economico.

Spetta quindi alle diverse istanze coinvolte nel mondo del lavoro, al datore diretto come a quello indiretto di lavoro, promuovere con misure efficaci ed appropriate il diritto della persona handicappata alla preparazione professionale e al lavoro, in modo che essa possa essere inserita in un'attività produttrice per la quale sia idonea. Qui si pongono molti problemi pratici, legali ed anche economici, ma spetta alla comunità, cioè alle autorità pubbliche, alle associazioni e ai gruppi intermedi, alle imprese ed agli handicappati stessi di mettere insieme idee e risorse per arrivare a questo scopo irrinunciabile: che sia offerto un lavoro alle persone handicappate, secondo le loro possibilità, perché lo richiede la loro dignità di uomini e di soggetti del lavoro. Ciascuna comunità saprà darsi le strutture adatte per reperire o per creare posti di lavoro per tali persone sia nelle comuni imprese pubbliche o private, offrendo un posto ordinario di lavoro o un posto più adatto, sia nelle imprese e negli ambienti cosiddetti «protetti».

Una grande attenzione dovrà essere rivolta, come per tutti gli altri lavoratori, alle condizioni di lavoro fisiche e psicologiche degli handicappati, alla giusta rimunerazione, alla possibilità di promozioni ed all'eliminazione dei diversi ostacoli. Senza nascondersi che si tratta di un impegno complesso e non facile, ci si può augurare che una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti ad una situazione che renda possibile alla persona handicappata di sentirsi non ai margini del mondo del lavoro o in dipendenza dalla società, ma come un soggetto del lavoro di pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità umana, e chiamato a contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e della comunità secondo le proprie capacità.

23. Il lavoro e il problema dell'emigrazione

Occorre, infine, pronunciarsi almeno sommariamente sul tema della cosiddetta emigrazione per lavoro. Questo è un fenomeno antico, ma che tuttavia si ripete di continuo ed ha, anche oggi, grandi dimensioni per le complicazioni della vita contemporanea. L'uomo ha il diritto di lasciare il proprio Paese d'origine per vari motivi _ come anche di ritornarvi _ e di cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà di varia natura; prima di tutto, esso costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una grande comunità, ch'è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare una vita in mezzo ad un'altra società, unita da un'altra cultura e molto spesso anche da un'altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani potrebbe contribuire all'aumento del bene comune nel proprio Paese; ed ecco, questo sforzo, questo contributo viene dato ad un'altra società, la quale, in un certo senso ne ha diritto minore che non la patria d'origine.

E tuttavia, anche se l'emigrazione è sotto certi aspetti un male, in determinate circostanze questo è, come si dice, un male necessario. Si deve far di tutto _ e certamente molto si fa a questo scopo _ perché questo male in senso materiale non comporti maggiori danni in senso morale, anzi perché, in quanto possibile, esso porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale dell'emigrato, per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria che lascia. In questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando si tratta dei diritti dell'uomo del lavoro. E s'intende che un tale problema entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto da questo punto di vista.

La cosa più importante è che l'uomo, il quale lavora fuori del suo Paese natìo tanto come emigrato permanente quanto come lavoratore stagionale, non sia svantaggiato nell'ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella determinara società. L'emigrazione per lavoro non può in nessun modo diventare un'occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società. Il valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non può essere sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova l'emigrato. Tutte queste circostanze devono categoricamente cedere _ naturalmente dopo aver preso in considerazione le speciali qualifiche _ di fronte al fondamentale valore del lavoro, il quale è collegato con la dignità della persona umana. Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale.

V

ELEMENTI PER UNA SPIRITUALITA' DEL LAVORO

24. Particolare compito della Chiesa

Conviene dedicare l'ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90° anniversario dell'Enciclica Rerum Novarum, alla spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell'espressione. Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un'azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l'uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All'uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti _ come luci particolari _ dedicati al lavoro umano. Ora, è necessaria un'adeguata assimilazione di questi contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell'uomo concreto, con l'aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell'opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti.

Se la Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e dell'ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all'intero messaggio evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re, così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.

25. Il lavoro come partecipazione all'opera del Creatore

Come dice il Concilio Vaticano II, «per i credenti una cosa è certa: l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra»(27).

Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l'uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all'inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l'opera stessa della creazione è presentata nella forma di un «lavoro» compiuto da Dio durante i «sei giorni»(28), per «riposare» il settimo giorno(29). D'altronde, ancora l'ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l'opera che Dio ha compiuto mediante il suo «lavoro» creativo, quando proclama: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente»(30), analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con l'affermazione: «E Dio vide che era una cosa buona»(31).

Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo stesso, in un certo senso il primo «Vangelo del lavoro». Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l'uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé _ egli solo _ il singolare elemento della somiglianza con lui. L'uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest'opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: «Il Padre mio opera sempre...»(32): opera con la forza creatrice, sostenendo nell'esistenza il mondo che ha chiamato all'essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall'inizio ha destinato al «riposo»(33) in unione con se stesso, nella «casa del Padre»(34). Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni «settimo giorno»(35), ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel «riposo» che il Signore riserva ai suoi servi ed amici(36).

La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all'opera di Dio, deve permeare _ come insegna il Concilio _ anche «le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia»(37).

Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell'epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: «I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva... Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante»(38).

La consapevolezza che mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: «I fedeli perciò _ leggiamo nella Costituzione Lumen Gentium _ devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace... Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura»(39).

26. Cristo, l'uomo del lavoro

Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera di Dio stesso suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo _ quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth «rimanevano stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? ... Non è costui il carpentiere?»(40). Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l'opera il «Vangelo» a lui affidato, la parola dell'eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il «Vangelo del lavoro», perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth(41). E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare _ piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l'esistenza(42) _, però, al tempo stesso, l'eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: «il Padre mio è il vignaiolo ...»(43), trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell'Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi?

Nei libri dell'Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall'uomo: così per es. al medico(44), al farmacista(45), all'artigiano-artista(46), al fabbro(47) _ si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d'oggi _, al vasaio(48), all'agricoltore(49), allo studioso(50), al navigatore(51), all'edile(52), al musicista(53), al pastore(54), al pescatore(55). Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne(56). Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore(57), dell'agricoltore(58), del medico(59), del seminatore(60), del padrone di casa(61), del servo(62), dell'amministratore(63), del pescatore(64), del mercante(65), dell'operaio(66). Parla pure dei diversi lavori delle donne(67). Presenta l'apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori(68) o dei pescatori(69). Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi(70).

Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull'esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un'eco particolarmente viva nell'insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende)(71), e grazie a ciò poteva pure come apostolo guadagnarsi da solo il pane(72). «Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi»(73). Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: «A questi ... ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», così scrive ai Tessalonicesi(74). Infatti, rilevando che «alcuni» vivono disordinatamente, senza far nulla(75), l'Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi»(76). In un altro passo invece incoraggia: «Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa riceverete dal Signore l'eredità»(77).

Gli insegnamenti dell'Apostolo delle Genti hanno, come si vede, un'importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù «fece e insegnò»(78).

In base a queste luci emananti dalla Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l'espressione contemporanea nell'insegnamento del Vaticano II: «L'attività umana, invero, come deriva dall'uomo, così è ordinata all'uomo. L'uomo, infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare ... Pertanto, questa è la norma dell'attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione»(79).

Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: «L'uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimente tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla»(80).

Tale dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo _ tema così dominante nella mentalità moderna _ può essere intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel «Vangelo del lavoro».

27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo

C'è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavoro _ sia esso manuale o intellettuale _ va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a quella originaria benedizione del lavoro, contenuta nel mistero stesso della creazione, ed unita all'elevazione dell'uomo come immagine di Dio, la maledizione che il peccato ha portato con sé: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita»(81). Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l'annuncio della morte: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto ...»(82). Quasi come un'eco di queste parole, si esprime l'autore di uno dei libri sapienziali. «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle ...»(83). Non c'è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni.

Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi cosi importanti per la spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l'Apostolo contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall'inizio la storia dell'uomo sulla terra(84). E' contenuta in esso anche l'elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione.

Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell'umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell'amore all'opera che il Cristo è venuto a compiere(85). Quest'opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l'uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell'umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno(86) nell'attività che è chiamato a compiere.

Cristo, «sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia»; però, al tempo stesso, «con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, ... purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra»(87).

Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l'accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei «nuovi cieli e di una terra nuova»(88), i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall'uomo e dal mondo. Mediante la fatica _ e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l'indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d'altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti _ e mai senza di esso.

E' già questo nuovo bene _ frutto del lavoro umano _ una piccola parte di quella «terra nuova», dove abita la giustizia? (89) In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell'uomo è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata: «Certo, siamo avvertiti che niente giova all'uomo se guadagna il mondo, ma perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio»(90).

Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non solo «i frutti della nostra operosità», ma anche «la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà»(91). Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo.

Nel concludere queste riflessioni, mi è gradito impartire di vero cuore a tutti voi, venerati Fratelli, Figli e Figlie carissimi, la propiziatrice Benedizione Apostolica.

Questo documento, che avevo preparato perché si pubblicasse il 15 maggio scorso, nel 90° anniversario dell'Enciclica «Rerum Novarum», ha potuto essere da me definitivamente riveduto soltanto dopo la mia degenza ospedaliera.

Dato a Castel Gandolfo, il 14 settembre, festa dell'Esaltazione della s. Croce, dell'anno 1981, terzo di Pontificato.

 

 

 

FIDES ET RATIO

 

LETTERA ENCICLICA
FIDES ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE

Venerati Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!

La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es 33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2).

INTRODUZIONE

« CONOSCI TE STESSO »

1. Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che s'è svolto — né poteva essere altrimenti — entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza.

Quanto viene a porsi come oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte della nostra vita. Il monito Conosci te stesso era scolpito sull'architrave del tempio di Delfi, a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come « uomo » appunto in quanto « conoscitore di se stesso ».

Un semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza.

2. La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità.(1) Questa missione, da una parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità; (2) dall'altra, la obbliga a farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio: « Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente » (1 Cor 13, 12).

3. Molteplici sono le risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell'umanità. Il termine filosofia, secondo l'etimologia greca, significa « amore per la saggezza ». Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo. E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti culture in cui l'uomo vive.

La forte incidenza che la filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo delle culture in Occidente non deve farci dimenticare l'influsso che essa ha esercitato anche nei modi di concepire l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in forme prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che una forma basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale.

4. È, comunque, da rilevare che dietro un unico termine si nascondono significati differenti. Un'esplicitazione preliminare si rende pertanto necessaria. Spinto dal desiderio di scoprire la verità ultima dell'esistenza, l'uomo cerca di acquisire quelle conoscenze universali che gli consentono di comprendersi meglio e di progredire nella realizzazione di sé. Le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del creato: l'essere umano è colto dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri suoi simili dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia l'uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un'esistenza veramente personale.

La capacità speculativa, che è propria dell'intelletto umano, porta ad elaborare, mediante l'attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti culturali e in diverse epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato all'elaborazione di veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione di identificare una sola corrente con l'intero pensiero filosofico. E però evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa « superbia filosofica » che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente.

In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio.

5. La Chiesa, da parte sua, non può che apprezzare l'impegno della ragione per il raggiungimento di obiettivi che rendano l'esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l'esistenza dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono.

Facendo pertanto seguito ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch'io rivolgere lo sguardo a questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull'uomo. A partire da qui, una ragione carica di interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti sistemi di pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L'antropologia, la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche modo l'intero universo del sapere è stato abbracciato. I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull'uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia dell'arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell'errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti.

Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l'impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all'esistenza umana e alle sue forme espressive, dall'altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell'essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

6. Forte della competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità. E per questo motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli nell'Episcopato, con i quali condivido la missione di annunziare « apertamente la verità » (2 Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui diversi aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul cammino che conduce alla vera sapienza, affinché chiunque ha nel cuore l'amore per essa possa intraprendere la giusta strada per raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e gaudio spirituale.

Mi spinge a questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma che i Vescovi sono « testimoni della divina e cattolica verità ».(3) Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir meno al ministero che abbiamo ricevuto. Riaffermando la verità della fede, possiamo ridare all'uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e sviluppare la sua piena dignità.

Un ulteriore motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho richiamato l'attenzione su « alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate ».(4) Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza di un fondamento su cui costruire l'esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà di proposte che elevano l'effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza. Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi sull'orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro. Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo nell'immediato alla fatica di una indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza la sua vocazione originaria. E per questo che ho sentito non solo l'esigenza, ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché l'umanità, alla soglia del terzo millennio dell'era cristiana, prenda più chiara coscienza delle grandi risorse che le sono state concesse, e s'impegni con rinnovato coraggio nell'attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la sua storia.

CAPITOLO I

LA RIVELAZIONE
DELLA SAPIENZA DI DIO

Gesù rivelatore del Padre

7. Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa propone all'uomo non le proviene da una sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto nella fede la parola di Dio (cfr 1 Tess 2, 13). All'origine del nostro essere credenti vi è un incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora rivelato: « Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura ».(5) E, questa, un'iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l'umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza.

8. Riprendendo quasi alla lettera l'insegnamento offerto dalla Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I e tenendo conto dei principi proposti dal Concilio Tridentino, la Costituzione Dei Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare cammino di intelligenza della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce dell'insegnamento biblico e dell'intera tradizione patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il carattere soprannaturale della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare.(6)

9. Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono, né l'una rende superflua l'altra: « Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell'uno conosciamo con la ragione naturale, nell'altro con la fede divina; per l'oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell'ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la « pienezza di grazia e di verità » (cfr Gv 1, 14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (cfr 1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32).

10. Al Concilio Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno illustrato il carattere salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne hanno espresso la natura nel modo seguente: « Con questa rivelazione, Dio invisibile (cfr Col 1, 15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ».(8)

11. La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell'evento, sento il dovere di riaffermare con forza che « nel cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale ».(9) In esso, infatti, viene alla luce l'intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1, 2).

La verità che Dio ha consegnato all'uomo su se stesso e sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa è stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth. Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei Verbum: « Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei Profeti, “alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1, 1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3, 34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr Gv 5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv 14, 9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione ».(10)

La storia, pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti grazie all'azione incessante dello Spirito Santo (cfr Gv 16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la Costituzione Dei Verbum quando afferma che « la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio ».(11)

12. La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l'agire di Dio a favore dell'umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci.

L'incarnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo. La verità espressa nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso all'esistenza. Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo Adamo aveva rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta all'uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia: « In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo », afferma la Costituzione Gaudium et spes.(12) Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell'esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove l'uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell'innocente e della morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?

La ragione dinanzi al mistero

13. Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; (13) eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza.

Insegna il Concilio che « a Dio che si rivela è dovuta l'obbedienza della fede ».(14) Con questa breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell'autorità della sua assoluta trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l'uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata all'uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo. E per questo che l'atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la libertà personale è vissuta in maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la libertà non è semplicemente presente: è esigita. E la fede, anzi, che permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole, la libertà non si realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un uso autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la realizzazione di se stessi? E nel credere che la persona compie l'atto più significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la certezza della verità e decide di vivere in essa.

In aiuto alla ragione, che cerca l'intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente possa autonomamente indagare anche all'interno del mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza alla ragione, perché le consentono di ricercare all'interno del mistero con i suoi propri mezzi di cui è giustamente gelosa, dall'altra la spingono a trascendere la loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno stesso che le viene proposto.

Si è rimandati, in qualche modo, all'orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove l'unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo nell'Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben detto san Tommaso, « tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. E un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi ».(16) Gli fa eco il filosofo Pascal: « Come Gesù Cristo è rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni, senza differenza esteriore. Così resta l'Eucaristia tra il pane comune ».(17)

La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell'uomo: Cristo Signore « rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione »,(18) che è quella di partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio.(19)

14. L'insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall'altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede. All'interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere limitata da null'altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di Dio.

La Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e ultima che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad allargare continuamente gli spazi del proprio sapere fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto per questa riflessione una delle intelligenze più feconde e significative della storia dell'umanità, a cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia che la teologia: sant'Anselmo. Nel suo Proslogion, l'Arcivescovo di Canterbury così si esprime: « Volgendo spesso e con impegno il mio pensiero a questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al mio pensiero; finché finalmente, disperando di poterlo trovare, volli smettere di ricercare qualcosa che era impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero perché, occupando la mia mente, non mi distogliesse da altri problemi dai quali potevo ricavare qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con sempre maggior importunità [...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da Dio, che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che cosa tendevo e a che cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro? [...]. O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit) [...]. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile ».(20)

15. La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth, permette a chiunque di accogliere il « mistero » della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta l'autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e si comprende in pienezza la parola del Signore: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv 8, 32).

La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa situazione: « Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica » (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e teologo Agostino: « Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas ».(21)

Alla luce di queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo « sentiero della vita » (Sal 16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e Trino.

CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM

« La sapienza tutto conosce e tutto comprende » (Sap 9, 11)

16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l'Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.

Non è un caso che, nel momento in cui l'autore sacro vuole descrivere l'uomo saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato l'uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l'intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della sua gloria » (Sir 14, 20-27).

Per l'autore ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie all'intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la possibilità di « attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr Pro 20, 5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i parametri propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.

Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.

17. Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l'una è nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2). Dio e l'uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un'ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora » (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell'uomo, pur nell'esperienza del limite invalicabile, sospira verso l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.

18. Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.

Quando s'allontana da queste regole, l'uomo s'espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell'ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.

19. Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l'Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l'autore » (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l'uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all'impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.

20. La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprendere la propria via? » (Pro 20, 24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l'autore sacro pone l'inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14).

« Acquista la sapienza, acquista l'intelligenza » (Pro 4, 5)

21. La conoscenza, per l'Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell'uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l'uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate.

Lo sforzo della ricerca non era esente, per l'Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore » (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.

22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un'argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l'Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell'uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all'origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell'importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell'uomo.

Secondo l'Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l'origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l'uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.

Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell'uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell'Eden, al cui centro era situato « l'albero della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l'uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell'orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall'avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora l'Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l'evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s'era imprigionata.

23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.

L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 10). L'uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore rivelato nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.

La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all'universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante trascendersi dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.

CAPITOLO III

INTELLEGO UT CREDAM

In cammino alla ricerca della verità

24. Racconta l'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli che, durante i suoi viaggi missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei filosofi era ricolma di statue rappresentanti diversi idoli. Un altare colpì la sua attenzione ed egli ne trasse prontamente lo spunto per individuare una base comune su cui avviare l'annuncio del kerigma: « Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A partire da qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende ogni cosa e che a tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: « Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi » (At 17, 26-27).

L'Apostolo mette in luce una verità di cui la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più profondo del cuore dell'uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la liturgia del Venerdì Santo quando, invitando a pregare per quanti non credono, ci fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace ».(22) Esiste quindi un cammino che l'uomo, se vuole, può percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di sopra del contingente per spaziare verso l'infinito.

In differenti modi e in diversi tempi l'uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo suo intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l'architettura ed ogni altro prodotto della sua intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui esprimere l'ansia della sua ricerca. La filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso, con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio dell'uomo.

25. « Tutti gli uomini desiderano sapere »,(23) e oggetto proprio di questo desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le cose. L'uomo è l'unico essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare. Nessuno può essere sinceramente indifferente alla verità del suo sapere. Se scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne la verità, si sente appagato. E la lezione di sant'Agostino quando scrive: « Molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno ».(24) Giustamente si ritiene che una persona abbia raggiunto l'età adulta quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò che è falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva delle cose. Sta qui il motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle scienze, che hanno portato negli ultimi secoli a così significativi risultati, favorendo un autentico progresso dell'umanità intera.

Non meno importante della ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico: intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al bene da compiere. Con il proprio agire etico, infatti, la persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si introduce nella strada della felicità e tende verso la perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Ho ribadito questa convinzione nella Lettera enciclica Veritatis splendor: « Non si dà morale senza libertà [...]. Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta ».(25)

E necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri, perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa verità dei valori, l'uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E questa una condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come persona adulta e matura.

26. La verità inizialmente si presenta all'uomo in forma interrogativa: ha un senso la vita? verso dove è diretta? A prima vista, l'esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi dell'assurdo né alle provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe per dubitare del senso della vita. L'esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la prima verità assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo, è l'inevitabilità della nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante s'impone la ricerca di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no. Non è senza significato che il pensiero filosofico abbia ricevuto un suo decisivo orientamento dalla morte di Socrate e ne sia rimasto segnato da oltre due millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i filosofi dinanzi al fatto della morte si siano riproposti sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul senso della vita e dell'immortalità.

27. A questi interrogativi nessuno può sfuggire, né il filosofo né l'uomo comune. Dalla risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia possibile o meno raggiungere una verità universale e assoluta. Di per sé, ogni verità anche parziale, se è realmente verità, si presenta come universale. Ciò che è vero, deve essere vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio.

I filosofi, nel corso dei secoli, hanno cercato di scoprire e di esprimere una simile verità, dando vita a un sistema o una scuola di pensiero. Al di là dei sistemi filosofici, tuttavia, vi sono altre espressioni in cui l'uomo cerca di dare forma a una sua « filosofia »: si tratta di convinzioni o esperienze personali, di tradizioni familiari e culturali o di itinerari esistenziali in cui ci si affida all'autorità di un maestro. In ognuna di queste manifestazioni ciò che permane sempre vivo è il desiderio di raggiungere la certezza della verità e del suo valore assoluto.

I differenti volti della verità dell'uomo

28. Non sempre, è doveroso riconoscerlo, la ricerca della verità si presenta con una simile trasparenza e consequenzialità. La nativa limitatezza della ragione e l'incostanza del cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale. Altri interessi di vario ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che l'uomo addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne teme le esigenze. Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità ad influenzarne l'esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita sul dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia. Si può definire, dunque, l'uomo come colui che cerca la verità.

29. Non è pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già una prima risposta. L'uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di trovare una risposta, e non s'arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l'intuizione originaria solo perché non ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata.

La stessa cosa deve valere anche per la ricerca della verità nell'ambito delle questioni ultime. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell'uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l'esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l'assillo di alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno l'abbozzo delle relative risposte. Sono risposte della cui verità si è convinti, anche perché si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono dalle risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità che viene acquisita possiede lo stesso valore. Dall'insieme dei risultati raggiunti, tuttavia, viene confermata la capacità che l'essere umano ha di pervenire, in linea di massima, alla verità.

30. Può essere utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità. Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento. E questo l'ordine di verità proprio della vita quotidiana e della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico, a cui l'uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime.(27)

Quanto alle verità filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle sole dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di professione. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo comportamento. E qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo. Prima di rispondere a questo interrogativo è opportuno valutare un ulteriore dato della filosofia.

31. L'uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. La crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse verità possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare attività critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo passaggio, quelle stesse verità siano « ricuperate » sulla base dell'esperienza che se ne è fatta, o in forza del ragionamento successivo. Nonostante questo, nella vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica. Chi, infatti, sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli risultati delle scienze su cui la vita moderna si fonda? Chi potrebbe controllare per conto proprio il flusso delle informazioni, che giorno per giorno si ricevono da ogni parte del mondo e che pure si accettano, in linea di massima, come vere? Chi, infine, potrebbe rifare i cammini di esperienza e di pensiero per cui si sono accumulati i tesori di saggezza e di religiosità dell'umanità? L'uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza.

32. Nel credere, ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone. E ravvisabile in ciò una tensione significativa: da una parte, la conoscenza per credenza appare come una forma imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi progressivamente mediante l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la credenza risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.

E bene sottolineare che le verità ricercate in questa relazione interpersonale non sono primariamente nell'ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò che viene richiesto, piuttosto, è la verità stessa della persona: ciò che essa è e ciò che manifesta del proprio intimo. La perfezione dell'uomo, infatti, non sta nella sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma consiste anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l'altro. In questa fedeltà che sa donarsi, l'uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo stesso, però, la conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia interpersonale, non è senza riferimento alla verità: l'uomo, credendo, si affida alla verità che l'altro gli manifesta.

Quanti esempi si potrebbero portare per illustrare questo dato! Il mio pensiero, però, corre direttamente alla testimonianza dei martiri. Il martire, in effetti, è il più genuino testimone della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato nell'incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro con Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina, genera consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci si fida della loro parola: si scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero e ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda fiducia, perché dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo trovare la forza di esprimere.

33. Si può così vedere che i termini del problema vanno progressivamente completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle capacità insite nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l'abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l'autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a un'altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi.

Non si dimentichi che anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da un'amicizia sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei contesti più adeguati per il retto filosofare.

Da quanto ho fin qui detto, risulta che l'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.

34. Questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L'unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest'unità della verità, naturale e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come ricorda l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ef 4, 21; cfr Col 1, 15-20). Egli è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela il Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca « senza conoscerlo » (cfr At 17, 23), può essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la « piena verità » (cfr Gv 1, 14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr Col 1, 17).

35. Sullo sfondo di queste considerazioni generali, è necessario ora esaminare in maniera più diretta il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia. Questo rapporto impone una duplice considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo, pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza.

CAPITOLO IV

IL RAPPORTO
TRA LA FEDE E LA RAGIONE

Tappe significative dell'incontro tra fede e ragione

36. Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi epicurei e stoici » (17, 18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago ha posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto « a Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17). Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1, 21-32), l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina.

Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine degli dei e, in loro, dell'universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l'analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all'annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo.

37. Nell'accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere confusa con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a questo genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » (2, 8). Quanto mai attuali si presentano le parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.

38. L'incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La pratica di essa e la frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era l'annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace di condurre l'interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo. Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro. Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i cristiani di essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione di questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà, l'incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni versi, superata.

Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a quell'apporto del cristianesimo che consiste nell'affermazione dell'universale diritto d'accesso alla verità. Abbattute le barriere razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo.

Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua filosofia ».(32) Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la vera filosofia »,(33) e interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che consiste nella rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita, essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio ».(36) La filosofia greca, per l'Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: « La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l'attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37)

39. Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l'assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l'immortalità dell'anima, la divinizzazione dell'uomo e l'origine del male.

40. In quest'opera di cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico, meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto l'Areopagita e soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle ».(38) Agli stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano ignorato però la via che vi conduce: il Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la forma più alta della speculazione filosofica e teologica che l'Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile santità di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati che, facendo riferimento all'esperienza, preludevano a futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.

41. Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente sono entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo della coscienza critica con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell'essere, del trascendente e dell'assoluto.

Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L'incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l'una succube forse del fascino dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze.

42. Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42) Il desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di scoprire ove stia il compimento del suo cammino: « Penso infatti che chi investiga una cosa incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in grado di penetrare con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa essere penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa di cui l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43)

L'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta.

La novità perenne del pensiero di san Tommaso d'Aquino

43. Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l'armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono contraddirsi tra loro.(44)

Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo « esercizio del pensiero »; la ragione dell'uomo non si annulla né si avvilisce dando l'assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole.(46)

E per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del Dottore Angelico: « Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell'ordine soprannaturale ».(47)

44. Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: « La sapienza elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece “viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così com'è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina ».(49)

La priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.

Intimamente convinto che « omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est »,(50) san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse « vette che l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione, quindi, egli può essere definito « apostolo della verità ».(52) Proprio perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua è veramente la filosofia dell'essere e non del semplice apparire.

Il dramma della separazione tra fede e ragione

45. Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.

Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.

46. Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell'idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l'umanità.

Nell'ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano.

Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.

47. Non è da dimenticare, d'altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come « ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere.

Quanto sia pericoloso assolutizzare questa strada l'ho fatto osservare fin dalla mia prima Lettera enciclica quando scrivevo: « L'uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto principale del dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e universale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso ».(53)

Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l'offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l'assoluto.

48. Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la constatazione di una progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. E ben vero che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e l'inconscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo e la storia. Anche il tema della morte può diventare severo richiamo, per ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che l'attuale rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra. La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. E illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell'essere.

Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l'unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere l'audacia della ragione.

CAPITOLO V

GLI INTERVENTI DEL MAGISTERO
IN MATERIA FILOSOFICA

Il discernimento del Magistero come diaconia alla verità

49. La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre.(54) La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto con la teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia è da individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo « statuto costitutivo » non può non rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità rivelata.

La storia, tuttavia, ha mostrato le deviazioni e gli errori in cui non di rado il pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso. Non è compito né competenza del Magistero intervenire per colmare le lacune di un discorso filosofico carente. E suo obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie false e di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio.

50. Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana.(55) Al Magistero spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede. Nello sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole di pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla responsabilità di esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno delle concezioni di fondo, a cui queste scuole si attengono, con le esigenze proprie della Parola di Dio e della riflessione teologica.

La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell'uomo, della sua libertà e del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce. Quando esercitiamo questo discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di essere « testimoni della verità » nell'adempimento di una diaconia umile ma tenace, quale ogni filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio, ossia della ragione che riflette correttamente sul vero.

51. Questo discernimento, comunque, non deve essere inteso primariamente in forma negativa, come se intenzione del Magistero fosse di eliminare o ridurre ogni possibile mediazione. Al contrario, i suoi interventi sono tesi in primo luogo a provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per primi, d'altronde, comprendono l'esigenza dell'autocritica, della correzione di eventuali errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una è la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta della storia e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal peccato. Da ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere la spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto dell'uomo con Dio.

Oggi poi, col moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e argomenti filosofici, spesso estremamente particolareggiati, un discernimento critico alla luce della fede si impone con maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché se è già laborioso riconoscere le capacità congenite e inalienabili della ragione, con i suoi limiti costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può risultare il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che, dal punto di vista della fede, esse offrono di valido e di fecondo rispetto a ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa, comunque, sa che i « tesori della sapienza e della scienza » sono nascosti in Cristo (Col 2, 3); per questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero.

52. Non è solo di recente che il Magistero della Chiesa è intervenuto per manifestare il suo pensiero nei confronti di determinate dottrine filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare, nel corso dei secoli, i pronunciamenti circa le teorie che sostenevano la preesistenza delle anime,(56) come pure circa le diverse forme di idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche; (57) per non dimenticare i testi più sistematici contro alcune tesi dell'averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.(58)

Se la parola del Magistero si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del secolo scorso è perché in quel periodo non pochi cattolici sentirono il dovere di opporre una loro filosofia alle varie correnti del pensiero moderno. A questo punto, diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative. Furono così censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo (59) e il tradizionalismo radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall'altra parte, il razionalismo (61) e l'ontologismo,(62) perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono formalizzati nella Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale per la prima volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in maniera solenne sui rapporti tra ragione e fede. L'insegnamento contenuto in quel testo caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca filosofica di molti credenti e costituisce ancora oggi un punto di riferimento normativo per una corretta e coerente riflessione cristiana in questo particolare ambito.

53. Più che di singole tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono occupati della necessità della conoscenza razionale e, dunque, ultimamente filosofica per l'intelligenza della fede. Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e costante il Magistero pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione, la ragione e la fede. Il Concilio partiva dall'esigenza fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,(63) e concludeva con l'asserzione solenne già citata: « esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto ».(64) Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi, anche l'apporto positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: « Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero ».(65)

54. Anche nel nostro secolo, il Magistero è ritornato più volte sull'argomento mettendo in guardia contro la tentazione razionalistica. E su questo scenario che si devono collocare gli interventi del Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista, agnostico e immanentista.(66) Non si può neppure dimenticare l'importanza che ebbe il rifiuto cattolico della filosofia marxista e del comunismo ateo.(67)

Successivamente, il Papa Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani generis, mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le tesi dell'evoluzionismo, dell'esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava che queste tesi erano state elaborate e venivano proposte non da teologi, avendo la loro origine « fuori dall'ovile di Cristo »; (68) aggiungeva, comunque, che tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da esaminare criticamente: « Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina ed umana e di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po' di verità, sia, infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche sia teologiche ».(69)

Da ultimo, anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del suo specifico compito a servizio del magistero universale del Romano Pontefice,(70) ha dovuto intervenire per ribadire il pericolo che comporta l'assunzione acritica, da parte di alcuni teologi della liberazione, di tesi e metodologie derivanti dal marxismo.(71)

Nel passato il Magistero ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità il discernimento in materia filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori hanno apportato costituisce un prezioso contributo che non può essere dimenticato.

55. Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di « fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture.

Nella stessa teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune teologie contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo, per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico da affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive di sufficiente base razionale.(72)

Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il « biblicismo », che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum, dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La « regola suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente.(76)

Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch'esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di applicarla ai testi sacri.

Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali.(77)

56. Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva. E certo comprensibile che, in un mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione.

L'interesse della Chiesa per la filosofia

57. Il Magistero, comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le deviazioni delle dottrine filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi fondamentali per un genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone XIII con la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata storica per la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l'unico documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò l'insegnamento del Concilio Vaticano I sul rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un contributo fondamentale per la fede e la scienza teologica.(78) A più di un secolo di distanza, molte indicazioni contenute in quel testo non hanno perduto nulla del loro interesse dal punto di vista sia pratico che pedagogico; primo fra tutti, quello relativo all'incomparabile valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione del pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, « nel momento stesso in cui, come conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le unisce ambedue con legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i propri diritti e ne salvaguarda la dignità ».(79)

58. Si sa quante felici conseguenze abbia avuto quell'invito pontificio. Gli studi sul pensiero di san Tommaso e di altri autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso agli studi storici, con la conseguente riscoperta delle ricchezze del pensiero medievale, fino a quel momento largamente sconosciute, e si costituirono nuove scuole tomistiche. Con l'applicazione della metodologia storica, la conoscenza dell'opera di san Tommaso fece grandi progressi e numerosi furono gli studiosi che con coraggio introdussero la tradizione tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel momento. I teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui riflessione e ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di tale rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre, nel corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla scuola dell'Angelico Dottore.

59. Il rinnovamento tomista e neotomista, comunque, non è stato l'unico segno di ripresa del pensiero filosofico nella cultura di ispirazione cristiana. Già prima, e in parallelo con l'invito leoniano, erano emersi non pochi filosofi cattolici che, ricollegandosi a correnti di pensiero più recenti, secondo una propria metodologia, avevano prodotto opere filosofiche di grande influsso e di valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata comprensione della coscienza morale; chi, ancora, produsse una filosofia che, partendo dall'analisi dell'immanenza, apriva il cammino verso il trascendente; e chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede nell'orizzonte della metodologia fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a produrre forme di speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la grande tradizione del pensiero cristiano nell'unità di fede e ragione.

60. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto ricco e fecondo nei confronti della filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel contesto di questa Lettera enciclica, che un intero capitolo della Costituzione Gaudium et spes costituisce quasi un compendio di antropologia biblica, fonte di ispirazione anche per la filosofia. In quelle pagine si tratta del valore della persona umana creata a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità sul resto del creato e si mostra la capacità trascendente della sua ragione.(80) Anche il problema dell'ateismo viene considerato nella Gaudium et spes e ben si motivano gli errori di quella visione filosofica, soprattutto nei confronti dell'inalienabile dignità della persona e della sua libertà.(81) Certamente possiede anche un profondo significato filosofico l'espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima Lettera enciclica Redemptor hominis e che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio insegnamento: « In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ».(82)

Il Concilio si è occupato anche dello studio della filosofia, a cui devono dedicarsi i candidati al sacerdozio; sono raccomandazioni estensibili più in generale all'insegnamento cristiano nel suo insieme. Afferma il Concilio: « Le discipline filosofiche si insegnino in maniera che gli alunni siano anzitutto guidati all'acquisto di una solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e di Dio, basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto anche delle correnti filosofiche moderne ».(83)

Queste direttive sono state a più riprese ribadite e specificate in altri documenti magisteriali con lo scopo di garantire una solida formazione filosofica, soprattutto per coloro che si preparano agli studi teologici. Da parte mia, più volte ho sottolineato l'importanza di questa formazione filosofica per quanti dovranno un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo contemporaneo e cogliere le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta risposta.(84)

61. Se in diverse circostanze è stato necessario intervenire su questo tema, ribadendo anche il valore delle intuizioni del Dottore Angelico e insistendo per l'acquisizione del suo pensiero, ciò è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In molte scuole cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non solo della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi teologi condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia.

Diverse sono le ragioni che stanno alla base di questa disaffezione. In primo luogo, è da registrare la sfiducia nella ragione che gran parte della filosofia contemporanea manifesta, abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime dell'uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi particolari e regionali, talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere, inoltre, il fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle « scienze umane ». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore positivo della ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del mistero dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché conoscano queste scienze e, all'occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine non deve, tuttavia, essere interpretato come un'implicita autorizzazione ad emarginare la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella praeparatio fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato interesse per l'inculturazione della fede. In modo particolare la vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di pensiero, la presenza di molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze tradizionali deve andare di pari passo con la ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere i tratti positivi della saggezza popolare, creando il necessario collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86)

62. Desidero ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al sacerdozio. Non è un caso che il curriculum di studi teologici sia preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno speciale impegno nello studio della filosofia. Questa scelta, confermata dal Concilio Lateranense V,(87) affonda le sue radici nell'esperienza maturata durante il Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l'importanza di una costruttiva armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un esempio significativo è dato dall'influsso esercitato dalle Disputationes metaphysicae di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle università luterane tedesche. Il venire meno di questa metodologia, invece, fu causa di gravi carenze sia nella formazione sacerdotale che nella ricerca teologica. Si consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del pensiero e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura ad ogni forma di dialogo o alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia.

Confido vivamente che queste difficoltà siano superate da un'intelligente formazione filosofica e teologica, che non deve mai venire meno nella Chiesa.

63. In forza delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa Lettera enciclica, il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro teologico alla ricerca filosofica della verità. Di qui deriva il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare un pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di proporre alcuni principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter instaurare una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia. Alla loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti filosofici, che il mondo attuale presenta.

CAPITOLO VI

INTERAZIONE
TRA TEOLOGIA E FILOSOFIA

La scienza della fede e le esigenze della ragione filosofica

64. La parola di Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della terra; e l'uomo è naturalmente filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto elaborazione riflessa e scientifica dell'intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia per alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate nel corso della storia. Senza voler indicare ai teologi particolari metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola rivelata.

65. La teologia si organizza come scienza della fede alla luce di un duplice principio metodologico: l'auditus fidei e l'intellectus fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa.(88) Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa.

Per quanto concerne la preparazione ad un corretto auditus fidei, la filosofia reca alla teologia il suo peculiare contributo nel momento in cui considera la struttura della conoscenza e della comunicazione personale e, in particolare, le varie forme e funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l'apporto della filosofia per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto al teologo non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa riflette ed elabora il suo insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i sistemi filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che sulla terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti.

66. Per quanto riguarda l'intellectus fidei, si deve considerare, anzitutto, che la Verità divina, « a noi proposta nelle Sacre Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della Chiesa »,(89) gode di una propria intelligibilità così logicamente coerente da proporsi come un autentico sapere. L'intellectus fidei esplicita questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle proposizioni nelle quali si articola l'insegnamento della Chiesa, ma anche, e primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme di queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.

La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l'apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all'interno della Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a livello di etica filosofica.

E necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva.

67. La teologia fondamentale, per il suo carattere proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione della fede (cfr 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il Concilio Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm 1, 19-20), aveva richiamato l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua credibilità, all'attitudine del linguaggio umano a parlare in modo significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell'accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla propria autonomia.(90)

Alla stessa stregua, la teologia fondamentale dovrà mostrare l'intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il proprio assenso. La fede saprà così « mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità. In tal modo la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare a meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi forte della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non potrebbe giungere ».(91)

68. La teologia morale ha forse un bisogno ancor maggiore dell'apporto filosofico. Nella Nuova Alleanza, infatti, la vita umana è molto meno regolamentata da prescrizioni che nell'Antica. La vita nello Spirito conduce i credenti ad una libertà e responsabilità che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti apostolici, comunque, propongono sia principi generali di condotta cristiana sia insegnamenti e precetti puntuali. Per applicarli alle circostanze particolari della vita individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado di impegnare a fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre parole, ciò significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione filosofica corretta sia della natura umana e della società che dei principi generali di una decisione etica.

69. Si può forse obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che alla filosofia, dovrebbe ricorrere all'aiuto di altre forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i recenti straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti della relazione tra fede e culture, sostengono che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali, piuttosto che a una filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una concezione errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa.

Queste sottolineature, tra l'altro già presenti nell'insegnamento conciliare,(92) contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze, utile in molti casi perché permette una conoscenza più completa dell'oggetto di studio, non deve tuttavia far dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione tipicamente filosofica, critica e tesa all'universale, richiesta peraltro da uno scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere di non fermarsi al solo caso singolo e concreto, tralasciando il compito primario che è quello di manifestare il carattere universale del contenuto di fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l'apporto peculiare del pensiero filosofico permette di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che nelle culture, « non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva ».(93) Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla teologia.

70. Il tema, poi, del rapporto con le culture merita una riflessione specifica, anche se necessariamente non esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia sul versante filosofico che su quello teologico. Il processo di incontro e confronto con le culture è un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli inizi della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di andare in ogni luogo, « fino agli estremi confini della terra » (At 1, 8), per trasmettere la verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana nella condizione di verificare ben presto l'universalità dell'annuncio e gli ostacoli derivanti dalla diversità delle culture. Un brano della lettera di san Paolo ai cristiani di Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la comunità primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l'Apostolo: « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo » (2, 13-14).

Alla luce di questo testo la nostra riflessione s'allarga alla trasformazione che si è venuta a creare nei Gentili una volta arrivati alla fede. Davanti alla ricchezza della salvezza operata da Cristo, cadono le barriere che separano le diverse culture. La promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta universale: non più limitata alla particolarità di un popolo, della sua lingua e dei suoi costumi, ma estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può attingere liberamente. Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a partecipare all'unità della famiglia dei figli di Dio. E Cristo che permette ai due popoli di diventare « uno ». Coloro che erano « i lontani » diventano « i vicini » grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù abbatte i muri di divisione e realizza l'unificazione in modo originale e supremo mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: « Non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef 2, 19).

In una così semplice annotazione è descritta una grande verità: l'incontro della fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà nuova. Le culture, quando sono profondamente radicate nell'umano, portano in sé la testimonianza dell'apertura tipica dell'uomo all'universale e alla trascendenza. Esse presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si rivelano di indubbia utilità per l'uomo, a cui prospettano valori capaci di rendere sempre più umana la sua esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai valori delle tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera implicita, ma non per questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di Dio nella natura, come si è visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e dell'insegnamento di san Paolo.

71. Essendo in stretto rapporto con gli uomini e con la loro storia, le culture condividono le stesse dinamiche secondo cui il tempo umano si esprime. Si registrano di conseguenza trasformazioni e progressi dovuti agli incontri che gli uomini sviluppano e alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro modelli di vita. Le culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e la loro vitalità e sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte all'accoglienza del nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la sua apertura costante al mistero ed il suo inesauribile desiderio di conoscenza. Ogni cultura, di conseguenza, porta impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la possibilità di accogliere la rivelazione divina.

Il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch'esso permeato dalla cultura dell'ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche. Ad ogni cultura i cristiani recano la verità immutabile di Dio, da Lui rivelata nella storia e nella cultura di un popolo. Nel corso dei secoli continua così a riprodursi l'evento di cui furono testimoni i pellegrini presenti a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si domandavano: « Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio » (At 2, 7-11). L'annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari l'adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura, favorendo il progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la sua piena esplicazione nella verità.

Conseguenza di ciò è che una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi con essa, volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che non le sono conformi. Al contrario, l'annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena. In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo verso ulteriori sviluppi.

72. Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione.

Il mio pensiero va spontaneamente alle terre d'Oriente, così ricche di tradizioni religiose e filosofiche molto antiche. Tra esse, l'India occupa un posto particolare. Un grande slancio spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca di un'esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello spazio, abbia valore di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi sistemi metafisici.

Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell'India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del pensiero cristiano. Per questa opera di discernimento, che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate, essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è quello dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si sentirà arricchita dalle acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le culture orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l'umanità saprà far fiorire nel suo cammino incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell'originalità del pensiero indiano con l'idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.

Quanto è qui detto per l'India vale anche per l'eredità delle grandi culture della Cina, del Giappone e degli altri Paesi dell'Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale.

73. Alla luce di queste considerazioni, il rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all'insegna della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere l'intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi delle generazioni. Poiché, d'altra parte, la parola di Dio è Verità (cfr Gv 17, 17), alla sua migliore comprensione non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l'uno o l'altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del vero all'interno di un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. E chiaro, peraltro, che, muovendosi entro questi due poli — parola di Dio e migliore sua conoscenza —, la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità rivelata e, in definitiva, fuori della verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti.

74. La conferma della fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda personale di grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne l'affiancamento ai maestri della filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità.

Differenti stati della filosofia

75. Come risulta dalla storia dei rapporti tra fede e filosofia, sopra brevemente accennata, si possono distinguere diversi stati della filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica: è lo stato della filosofia quale si è storicamente concretizzata nelle epoche che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle regioni non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la filosofia manifesta la legittima aspirazione ad essere un'impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata. L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca della verità nell'ambito naturale, rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale.

Di più: anche quando è lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e argomenti filosofici, l'esigenza di corretta autonomia del pensiero va rispettata. L'argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi. Si verifica anche qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura: l'assenso di fede, che impegna l'intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona il libero arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato rivelato.

Da questa corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta filosofia « separata », perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che l'affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi l'accesso a una più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa filosofia.

76. Un secondo stato della filosofia è quello che molti designano con l'espressione filosofia cristiana. La denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana.

Due sono, pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che consiste nella purificazione della ragione da parte della fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi, filosofi come Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con l'umiltà, il filosofo acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni che difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della sofferenza, all'identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita o, più direttamente, alla domanda metafisica radicale: « Perché vi è qualcosa? ».

Vi è poi l'aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone chiaramente alcune verità che, pur non essendo naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da essa scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il concetto di un Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero filosofico e, in particolare, per la filosofia dell'essere. A quest'ambito appartiene pure la realtà del peccato, così com'essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il problema del male. Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare originalità della fede: l'annuncio cristiano della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino a noi, si può menzionare la scoperta dell'importanza che ha anche per la filosofia l'evento storico, centro della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della verità.

Tra gli elementi oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di esplorare la razionalità di alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l'ambito del razionale.

Speculando su questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno cercato di comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la propria metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori di questi ultimi secoli.

77. Un altro stato significativo della filosofia si ha quando è la stessa teologia a chiamare in causa la filosofia. In realtà, la teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell'apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come interlocutrice per verificare l'intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti. Non a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale funzione esplicativa. Questo fatto storico indica il valore dell'autonomia che la filosofia conserva anche in questo suo terzo stato, ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde che essa deve subire.

E proprio nel senso di un apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata fin dall'età patristica ancilla theologiae. Il titolo non fu applicato per indicare una servile sottomissione o un ruolo puramente funzionale della filosofia nei confronti della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele parlava delle scienze esperienziali quali « ancelle » della « filosofia prima ». L'espressione, oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui si è fatto cenno, è servita nel corso della storia per indicare la necessità del rapporto tra le due scienze e l'impossibilità di una loro separazione.

Se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte all'intelligenza della fede. Il filosofo, da parte sua, se escludesse ogni contatto con la teologia, si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi moderni. In un caso come nell'altro, si profilerebbe il pericolo della distruzione dei principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente vuole garantiti.

Lo stato della filosofia qui considerato, per le implicanze che comporta nell'intelligenza della Rivelazione, si colloca insieme alla teologia più direttamente sotto l'autorità del Magistero e del suo discernimento, come ho precedentemente esposto. Dalle verità di fede, infatti, derivano determinate esigenze che la filosofia deve rispettare nel momento in cui entra in rapporto con la teologia.

78. Alla luce di queste riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come guida e modello degli studi teologici. Ciò che interessava non era prendere posizione su questioni propriamente filosofiche, né imporre l'adesione a tesi particolari. L'intento del Magistero era, e continua ad essere, quello di mostrare come san Tommaso sia un autentico modello per quanti ricercano la verità. Nella sua riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione.

79. Esplicitando ulteriormente i contenuti del Magistero precedente, intendo in questa ultima parte indicare alcune esigenze che la teologia — anzi, prima ancora la parola di Dio — pone oggi al pensiero filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho rilevato, il filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non può essere che una sola. La Rivelazione, con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue scoperte e nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà mai perdere la sua capacità d'interrogarsi e di interrogare, nella consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed esclusivo. La verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull'essere a partire dallo splendore che proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma, diventa il vero punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico e quello teologico nel loro reciproco rapportarsi. E auspicabile, quindi, che teologi e filosofi si lascino guidare dall'unica autorità della verità così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà il terreno d'incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo d'intesa tra credenti e non credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da vicino che la profondità e genuinità della fede è favorita quando è unita al pensiero e ad esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che ci guida in questa convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che pensare assentendo [...]. Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...]. La fede se non è pensata è nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie l'assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96)

CAPITOLO VII

ESIGENZE E COMPITI ATTUALI

Le esigenze irrinunciabili della parola di Dio

80. La Sacra Scrittura contiene, in maniera sia esplicita che implicita, una serie di elementi che consentono di raggiungere una visione dell'uomo e del mondo di notevole spessore filosofico. I cristiani hanno preso progressivamente coscienza della ricchezza racchiusa in quelle pagine sacre. Da esse risulta che la realtà di cui facciamo esperienza non è l'assoluto: non è increata, né si è autogenerata. Dio soltanto è l'Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge inoltre una visione dell'uomo come imago Dei, che contiene precise indicazioni circa il suo essere, la sua libertà e l'immortalità del suo spirito. Non essendo il mondo creato autosufficiente, ogni illusione di autonomia, che ignori la essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo compreso — porta a drammi che distruggono la ricerca razionale dell'armonia e del senso dell'esistenza umana.

Anche il problema del male morale — la forma di male più tragica — è affrontato nella Bibbia, la quale ci dice che esso non è riconducibile ad una qualche deficienza dovuta alla materia, ma è una ferita che proviene dall'esprimersi disordinato della libertà umana. La parola di Dio, infine, prospetta il problema del senso dell'esistenza e rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che realizza in pienezza l'esistenza umana. Altri aspetti si potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che emerge, comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di materialismo, di panteismo.

La convinzione fondamentale di questa « filosofia » racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo. Il mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l'intima essenza di Dio e dell'uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza confusione.(97)

81. E da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella « crisi del senso ». I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all'affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi — cosa anche più drammatica — in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire la trama stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare il mondo e la vita dell'uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale, che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni del nichilismo.

La conseguenza di ciò è che spesso lo spirito umano è occupato da una forma di pensiero ambiguo, che lo porta a rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della domanda sul senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione per la ricerca della verità.

Per essere in consonanza con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare dell'ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico, potrebbero presto rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in potenziali distruttori del genere umano.(98)

La parola di Dio rivela il fine ultimo dell'uomo e dà un senso globale al suo agire nel mondo. E per questo che essa invita la filosofia ad impegnarsi nella ricerca del fondamento naturale di questo senso, che è la religiosità costitutiva di ogni persona. Una filosofia che volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale sarebbe non soltanto inadeguata, ma erronea.

82. Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi — siano essi funzionali, formali o utili — del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.(99) Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II: « L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata ». (100)

Una filosofia radicalmente fenomenista o relativista risulterebbe inadeguata a recare questo aiuto nell'approfondimento della ricchezza contenuta nella parola di Dio. La Sacra Scrittura, infatti, presuppone sempre che l'uomo, anche se colpevole di doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica. Gli autori ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali cioè da esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione cattolica abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san Giovanni e di san Paolo come affermazioni sull'essere stesso di Cristo. La teologia, quando si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una conoscenza oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile. Quanto detto vale anche per i giudizi della coscienza morale, che la Sacra Scrittura suppone poter essere oggettivamente veri. (101)

83. Le due suddette esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. E un'esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un'esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa all'antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l'incontro con l'essere e, dunque, con la riflessione metafisica.

Ovunque l'uomo scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione.

La parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero dell'uomo; ma questo « mistero » non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche modo intelligibile, (102) se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata.

Se tanto insisto sulla componente metafisica, è perché sono convinto che questa è la strada obbligata per superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere così alcuni comportamenti erronei diffusi nella nostra società.

84. L'importanza dell'istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per l'intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l'essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne la validità universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si pongono da se stesse fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina e trascendente. (103) Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi.

85. So bene che queste esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono sembrare ardue a molti che vivono l'odierna situazione della ricerca filosofica. Proprio per questo, facendo mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio esprimere con forza la convinzione che l'uomo è capace di giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell'era cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla verità con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l'unità interiore dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo.

Ritengo che quanti oggi intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola di Dio pone al pensiero umano dovrebbero elaborare il loro discorso sulla base di questi postulati e in coerente continuità con quella grande tradizione che, iniziando con gli antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed ispirarsi ad essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di autonomia del pensare filosofico.

In questo senso, è quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per la teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa come fonte originaria, (104) ma anche perché, in forza di questo, deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha saputo superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo.

86. L'insistenza sulla necessità di uno stretto rapporto di continuità della riflessione filosofica contemporanea con quella elaborata nella tradizione cristiana intende prevenire il pericolo che si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse. Anche se brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su di esse per rilevarne gli errori ed i conseguenti rischi per l'attività filosofica.

La prima è quella che va sotto il nome di eclettismo, termine col quale si designa l'atteggiamento di chi, nella ricerca, nell'insegnamento e nell'argomentazione, anche teologica, è solito assumere singole idee derivate da differenti filosofie, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico. In questo modo, egli si pone in condizione di non poter discernere la parte di verità di un pensiero da quello che vi può essere di erroneo o di inadeguato. Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche teologo s'abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione — sia teologica che filosofica — ad argomentare in maniera seria e scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle dottrine filosofiche, del linguaggio loro peculiare e del contesto in cui sono sorte aiuta a superare i rischi dell'eclettismo e permette una loro adeguata integrazione nell'argomentazione teologica.

87. L'eclettismo è un errore di metodo, ma potrebbe anche nascondere in sé le tesi proprie dello storicismo. Per comprendere in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che questa sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un'epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in un'altra. La storia del pensiero, insomma, diventa per lui poco più di un reperto archeologico a cui attingere per evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte superate e prive di significato per il presente. Si deve considerare, al contrario, che anche se la formulazione è in certo modo legata al tempo e alla cultura, la verità o l'errore in esse espressi si possono in ogni caso, nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare.

Nella riflessione teologica, lo storicismo tende a presentarsi per lo più sotto una forma di « modernismo ». Con la giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per il contemporaneo, ci si avvale soltanto degli asserti e del gergo filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che, alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa forma di modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità, si rivela incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è chiamata a dare risposta.

88. Un altro pericolo da considerare è lo scientismo. Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa idea si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati a semplici prodotti dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per fare spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi, si prepara a dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea hanno contribuito a diffondere la mentalità scientista, che sembra non avere più confini, visto come è penetrata nelle diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato.

Si deve costatare, purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso della vita viene dallo scientismo considerato come appartenente al dominio dell'irrazionale o dell'immaginario. Non meno deludente è l'approccio di questa corrente di pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che, quando non vengono ignorati, sono affrontati con analisi poggianti su analogie superficiali, prive di fondamento razionale. Ciò porta all'impoverimento della riflessione umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l'animal rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente si è posto. Accantonata, in questa prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione etica, la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti l'idea secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche moralmente ammissibile.

89. Foriero di non minori pericoli è il pragmatismo, atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da questa linea di pensiero. In particolare, vi si è venuta affermando una concezione della democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò immutabili: la ammissibilità o meno di un determinato comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza parlamentare. (105) E chiara la conseguenza di una simile impostazione: le grandi decisioni morali dell'uomo vengono di fatto subordinate alle deliberazioni via via assunte dagli organi istituzionali. Di più: è la stessa antropologia ad essere fortemente condizionata, mediante la proposta di una visione unidimensionale dell'essere umano, dalla quale esulano i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso della sofferenza e del sacrificio, della vita e della morte.

90. Le tesi fin qui esaminate conducono, a loro volta, a una più generale concezione, che sembra oggi costituire l'orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell'essere. Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo, prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine. Una volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono. (106)

91. Nel commentare le linee di pensiero appena ricordate non è stata mia intenzione presentare un quadro completo della situazione attuale della filosofia: essa, del resto, sarebbe difficilmente riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme sottolineare che l'eredità del sapere e della sapienza si è, di fatto, arricchita in diversi campi. Basti citare la logica, la filosofia del linguaggio, l'epistemologia, la filosofia della natura, l'antropologia, l'analisi approfondita delle vie affettive della conoscenza, l'approccio esistenziale all'analisi della libertà. D'altro canto, l'affermazione del principio d'immanenza, che sta al centro della pretesa razionalista, ha suscitato, a partire dal secolo scorso, reazioni che hanno portato ad una radicale rimessa in questione di postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate così correnti irrazionaliste, mentre la critica metteva in evidenza l'inanità dell'esigenza di autofondazione assoluta della ragione.

La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l'epoca della « post-modernità ». Questo termine, utilizzato non di rado in contesti tra loro molto distanti, designa l'emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli. Così il termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d'ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità, sia perché il giudizio su ciò che è qualificato come « post-moderno » è a volte positivo ed a volte negativo, sia perché non vi è consenso sul delicato problema della delimitazione delle varie epoche storiche. Una cosa tuttavia è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un'adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della fede.

Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l'ottimismo razionalista che vedeva nella storia l'avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione.

Resta tuttavia vero che una certa mentalità positivista continua ad accreditare l'illusione che, grazie alle conquiste scientifiche e tecniche, l'uomo, quale demiurgo, possa giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino.

Compiti attuali per la teologia

92. In quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato: rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace all'evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli disse allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107)

Dall'altra parte, la teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito nella fede stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è « la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo ». (108) Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef 4, 15) sia la teologia che la filosofia.

Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce. (109) Come l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista dei compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.

93. Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia.

94. Un primo aspetto problematico riguarda il rapporto tra il significato e la verità. Come ogni altro testo, così anche le fonti che il teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato, che va rilevato ed esposto. Ora, questo significato si presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica la propria verità con la mirabile « condiscendenza » che rispecchia la logica dell'Incarnazione. (110) Nell'interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio.

Quanto ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista. (111) Questi testi, al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. E urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato; rapporto che costituisce il senso specifico della storia.

95. La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti.

Con il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa.

96. Questa considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema: quello della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani generis affrontava la questione. (112)

Riflettere su questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso che le parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia del pensiero, comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. (113) Se così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d'altronde, non esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare impegno nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.

97. Se compito importante della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed esigente è la comprensione della verità rivelata, o l'elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato, l'intellectus fidei richiede l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e rigettato; (114) ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell'incisività speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente « dal basso », come oggi si suole dire, o una ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il pericolo di tale riduzionismo.

Se l'intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell'essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che permette l'apertura piena e globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni limite fino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. (115) Nella teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto tra fede e razionalità metafisica.

98. Considerazioni analoghe si possono fare anche in riferimento alla teologia morale. Il recupero della filosofia è urgente anche nell'ordine della comprensione della fede che riguarda l'agire dei credenti. Di fronte alle sfide contemporanee nel campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica dell'uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor ho rilevato che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo derivano da una « crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri ». (116)

Nell'intera Enciclica ho sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel campo della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi etici più urgenti, richiede, da parte della teologia morale, un'attenta riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio. Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso a un'etica filosofica rivolta alla verità del bene; a un'etica, dunque, né soggettivista né utilitarista. L'etica richiesta implica e presuppone un'antropologia filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e all'esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà capace di affrontare i vari problemi di sua competenza — quali la pace, la giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale — in maniera più adeguata ed efficace.

99. Il lavoro teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio della fede e della catechesi. (117) L'annuncio o il kerigma chiama alla conversione, proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo Mistero pasquale: solo in Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr At 4, 12; 1 Tm 2, 4-6).

In questo contesto, si capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo anche il riferimento alla catechesi: questa possiede, infatti, delle implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede. L'insegnamento impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la persona. La catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve presentare la dottrina della Chiesa nella sua integrità, (118) mostrandone l'aggancio con la vita dei credenti. (119) Si realizza così una singolare unione tra insegnamento e vita che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo di verità concettuali, ma il mistero del Dio vivente. (120)

La riflessione filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità trascendente e linguaggio umanamente intelligibile. (121) La reciprocità che si crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione.

CONCLUSIONE

100. A più di cento anni dalla pubblicazione dell'Enciclica Æterni Patris di Leone XIII, a cui mi sono più volte richiamato in queste pagine, mi è sembrato doveroso riprendere di nuovo e in maniera più sistematica il discorso sul tema del rapporto tra la fede e la filosofia. L'importanza che il pensiero filosofico riveste nello sviluppo delle culture e nell'orientamento dei comportamenti personali e sociali è evidente. Esso esercita una forte influenza, non sempre percepita in maniera esplicita, anche sulla teologia e le sue diverse discipline. Per questi motivi, ho ritenuto giusto e necessario sottolineare il valore che la filosofia possiede nei confronti dell'intelligenza della fede e i limiti a cui essa va incontro quando dimentica o rifiuta le verità della Rivelazione. La Chiesa, infatti, permane nella più profonda convinzione che fede e ragione « si recano un aiuto scambievole », (122) esercitando l'una per l'altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell'approfondimento.

101. Se il nostro sguardo si volge alla storia del pensiero, soprattutto nell'Occidente, è facile vedere la ricchezza che è scaturita per il progresso dell'umanità dall'incontro tra filosofia e teologia e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La teologia, che ha ricevuto in dono un'apertura e una originalità che le permettono di esistere come scienza della fede, ha certamente provocato la ragione a rimanere aperta davanti alla novità radicale che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo è stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che ha visto così schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori significati che la ragione è chiamata ad approfondire.

E proprio alla luce di questa costatazione che, come ho ribadito il dovere della teologia di recuperare il suo genuino rapporto con la filosofia, così mi sento in dovere di sottolineare l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e il progresso del pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà in essa non la riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e ricca, porta pur sempre con sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo, ma la ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti, nell'indagine sulla verità è sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota dell'ecclesialità (123) e dalla tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di saperi e culture nell'unità della fede.

102. Insistendo in tal modo sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la Chiesa promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo sia l'annuncio del messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero (124) e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze profonde, iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il significato umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo contemporaneo giungerà così a riconoscere che egli sarà tanto più uomo quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a Cristo.

103. La filosofia, inoltre, è come lo specchio in cui si riflette la cultura dei popoli. Una filosofia, che, sotto la provocazione delle esigenze teologiche, si sviluppa in consonanza con la fede, fa parte di quella « evangelizzazione della cultura » che Paolo VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali dell'evangelizzazione. (125) Mentre non mi stanco di richiamare l'urgenza di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione.

104. Il pensiero filosofico è spesso l'unico terreno d'intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige l'impegno attento e competente di filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture e le problematiche di questo momento storico. Argomentando alla luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur sempre guidato dall'intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio, può sviluppare una riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale terreno d'intesa e di dialogo è oggi tanto più importante in quanto i problemi che si pongono con più urgenza all'umanità — si pensi al problema ecologico, al problema della pace o della convivenza delle razze e delle culture — trovano una possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre religioni e con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa, hanno a cuore il rinnovamento dell'umanità. Lo ha affermato il Concilio Vaticano II: « Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere ». (126) Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai problemi dell'uomo, (127) sarà un sostegno efficace per quell'etica vera e insieme planetaria di cui oggi l'umanità ha bisogno.

105. Mi preme concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi, affinché prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in contrapposizione con la parola di Dio. Tengano sempre presente l'indicazione di un grande maestro del pensiero e della spiritualità, san Bonaventura, il quale introducendo il lettore al suo Itinerarium mentis in Deum lo invitava a rendersi conto che « non è sufficiente la lettura senza la compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la capacità di abbandonarsi alla gioia, l'attività disgiunta dalla religiosità, il sapere separato dalla carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non sorretto dalla grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da Dio ». (128)

Il mio pensiero è rivolto pure a quanti hanno la responsabilità della formazione sacerdotale, sia accademica che pastorale, perché curino con particolare attenzione la preparazione filosofica di chi dovrà annunciare il Vangelo all'uomo di oggi e, più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento della teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla luce delle prescrizioni del Concilio Vaticano II (129) e delle disposizioni successive, dalle quali emerge l'inderogabile e urgente compito, a cui tutti siamo chiamati, di contribuire a una genuina e profonda comunicazione delle verità di fede. Non si dimentichi la grave responsabilità di una previa e adeguata preparazione del corpo docente destinato all'insegnamento della filosofia sia nei Seminari che nelle Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario che questa docenza comporti la conveniente preparazione scientifica, si presenti in maniera sistematica proponendo il grande patrimonio della tradizione cristiana e si compia con il dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del mondo.

106. Il mio appello, inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano la filosofia, perché abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano la forza di condurre il loro discorso razionale ed argomentativo in risposta a tale interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che il vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell'etica genuina di cui l'umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni. La Chiesa segue con attenzione e simpatia le loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto che essa conserva per la giusta autonomia della loro scienza. Vorrei incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo della filosofia, perché illuminino i diversi ambiti dell'attività umana con l'esercizio di una ragione che si fa più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede.

Non posso non rivolgere, infine, una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che « la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero ». (131)

107. A tutti chiedo di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.

108. Il mio ultimo pensiero è rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa invoca come Sede della Sapienza. La sua stessa vita è una vera parabola capace di irradiare luce sulla riflessione che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della genuina filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e femminilità affinché il Verbo di Dio potesse prendere carne e farsi uno di noi, così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera, razionale e critica, affinché la teologia come comprensione della fede sia feconda ed efficace. E come Maria, nell'assenso dato all'annuncio di Gabriele, nulla perse della sua vera umanità e libertà, così il pensiero filosofico, nell'accogliere l'interpellanza che gli viene dalla verità del Vangelo, nulla perde della sua autonomia, ma vede sospinta ogni sua ricerca alla più alta realizzazione. Questa verità l'avevano ben compresa i santi monaci dell'antichità cristiana, quando chiamavano Maria « la mensa intellettuale della fede ». (132) In lei vedevano l'immagine coerente della vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari in Maria.

Possa, la Sede della Sapienza, essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca della saggezza. Il cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine di ogni vero sapere, possa essere liberato da ogni ostacolo per l'intercessione di Colei che, generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha partecipata all'umanità intera per sempre.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, dell'anno 1998, ventesimo del mio Pontificato.


(1) Già lo scrivevo nella mia prima lettera enciclica Redemptor hominis: « Siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme con lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi e agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità e insieme semplicità ». N. 19: AAS 71 (1979), 306.

(2) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 16.

(3) Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 25.

(4) N. 4: AAS 85 (1993), 1136.

(5) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.

(6) Cfr Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, III: DS

3008.

(7) Ibid., IV: DS 3015; citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.

(8) Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.

(9) Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11.

(10) N. 4.

(11) N. 8.

(12) N. 22.

(13) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.

(14) Ibid., 5.

(15) Il Concilio Vaticano I, a cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna che l'obbedienza della fede esige l'impegno dell'intelletto e della volontà: « Poiché l'uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà » (Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, III; DS 3008).

(16) Sequenza nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.

(17) Pensées, 789 (ed. L. Brunschvicg).

(18) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

(19) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.

(20) Proemio e nn. 1. 15: PL 158, 223-224.226; 235.

(21) De vera religione, XXXIX, 72: CCL 32, 234.

(22) « Ut te semper desiderando quaererent et inveniendo quiescerent »: Missale Romanum.

(23) Aristotele, Metafisica, I, 1.

(24) Confessiones, X, 23, 33: CCL 27, 173.

(25) N. 34: AAS 85 (1993), 1161.

(26) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS 76 (1984), 209-210.

(27) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.

(28) E questa un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse occasioni. « Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? (Sir 18, 7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi profezia dell'umanità, ripropone continuamente la domanda seria che rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la volontà dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza. In particolare, quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino »: Udienza generale del 19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983), 814-815.

(29) « [Galileo] ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito ». Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1111-1112.

(30) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.

(31) Origene, Contro Celso, 3, 55: SC 136, 130.

(32) Dialogo con Trifone, 8,1: PG 6, 492.

(33) Stromati I, 18, 90, 1: SC 30, 115.

(34) Cfr ibid., I, 16, 80, 5: SC 30, 108.

(35) Cfr ibid., I, 5, 28, 1: SC 30, 65.

(36) Ibid., VI, 7, 55, 1-2: PG 9, 277.

(37) Ibid., I, 20, 100, 1: SC 30, 124.

(38) S. Agostino, Confessiones VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.

(39) Cfr ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102.

(40) De praescriptione haereticorum, VII, 9: SC 46, 98. « Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae? ».

(41) Cfr Congregazione per l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS 82 (1990), 617-618.

(42) S. Anselmo, Proslogion, 1: PL 158, 226.

(43) Id., Monologion, 64: PL 158, 210.

(44) Cfr Summa contra Gentiles, I, VII.

(45) Cfr Summa Theologiae, I, 1, 8 ad 2: « cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat ».

(46) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale (29 settembre 1990): Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.

(47) Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 680.

(48) Cfr I, 1, 6: « Praeterea, haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ».

(49) Ibid., II, II, 45, 1 ad 2; cfr pure II, II, 45, 2.

(50) Ibid., I, II, 109, 1 ad 1 che riprende la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima Cor 12,3: PL 17, 258.

(51) Leone XIII, Lett. enc. Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109.

(52) Paolo VI, Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 683.

(53) Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286.

(54) Cfr Pio XII, Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566.

(55) Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. prima sulla Chiesa di Cristo Pastor Aeternus: DS 3070; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 25 c.

(56) Cfr Sinodo di Costantinopoli, DS 403.

(57) Cfr Concilio di Toledo I, DS 205; Concilio di Braga I, DS 459-460; Sisto V, Bolla Coeli et terrae Creator (5 gennaio 1586): Bullarium Romanum 4/4, Romae 1747, 176-179; Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o aprile 1631): Bullarium Romanum 6/1, Romae 1758, 268-270.

(58) Cfr Conc. Ecum. Viennense, Decr. Fidei catholicae, DS 902; Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici regiminis, DS 1440.

(59) Cfr Theses a Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptae (8 settembre 1840), DS 2751-2756; Theses a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum subscriptae (26 aprile 1844), DS 2765-2769.

(60) Cfr S. Congr. Indicis, Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty (11 giugno 1855), DS 2811-2814.

(61) Cfr Pio IX, Breve Eximiam tuam (15 giugno 1857), DS 2828-2831; Breve Gravissimas inter (11 dicembre 1862), DS 2850-2861.

(62) Cfr S. Congr. del S. Officio, Decr. Errores ontologistarum (18 settembre 1861), DS 2841-2847.

(63) Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS 3004; e can. 2, 1: DS 3026.

(64) Ibid., IV: DS 3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.

(65) Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017.

(66) Cfr Lett. enc. Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907): ASS 40 (1907), 596-597.

(67) Cfr Pio XI, Lett. enc. Divini Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29 (1937), 65-106.

(68) Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 562-563.

(69) Ibid., l.c., 563-564.

(70) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Pastor Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS 80 (1988), 873; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 18: AAS 82 (1990), 1558.

(71) Cfr Istr. su alcuni aspetti della « teologia della liberazione » Libertatis nuntius (6 agosto 1984), VII-X: AAS 76 (1984), 890-903.

(72) Il Concilio Vaticano I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato questo errore, affermando da una parte che « quanto a questa fede [...], la Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost. dogm. Dei Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS 3032. Dall'altra parte, il Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa capace di penetrare [tali misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid., IV: DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: « I fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid., IV: DS 3018.

(73) Cfr nn. 9-10.

(74) Ibid., 10.

(75) Ibid., 21.

(76) Cfr ibid., 10.

(77) Cfr Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.

(78) Cfr Lett. enc. Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115.

(79) Ibid., l.c., 109.

(80) Cfr nn. 14-15.

(81) Cfr ibid., 20-21.

(82) Ibid., 22; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 8: AAS 71 (1979), 271-272.

(83) Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.

(84) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), art. 79-80: AAS 71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), 52: AAS 84 (1992), 750-751. Cfr pure alcuni commenti sulla filosofia di S. Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale Angelicum (17 novembre 1979): Insegnamenti II, 2 (1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti dell'VIII Congresso Tomistico Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale della Società « San Tommaso » sulla dottrina dell'anima in S. Tommaso (4 gennaio 1986): Insegnamenti IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre, S. Congr. per l'Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis (6 gennaio 1970), 70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra Theologia (20 gennaio 1972): AAS 64 (1972), 583-586.

(85) Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57; 62.

(86) Cfr ibid., 44.

(87) Cfr Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici regimini sollicitudo, Sessione VIII: Conc. Oecum. Decreta, 1991, 605-606.

(88) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10.

(89) S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, 5, 3 ad 2.

(90) « La ricerca delle condizioni nelle quali l'uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l'attende dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità ». Giovanni Paolo II, Lettera ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni dalla « Dei Filius » (30 settembre 1995), 4: L'Osservatore Romano, 3 ottobre 1995, p. 8.

(91) Ibid.

(92) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15; Decr. sull'attività missionaria della Chiesa Ad gentes, 22.

(93) S. Tommaso d'Aquino, De Caelo, 1, 22.

(94) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 53-59.

(95) S. Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2,5: PL 44, 963.

(96) Id., De fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61.

(97) Cfr Conc. Ecum. Calcedonense, Symbolum, Definitio: DS 302.

(98) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286-289.

(99) Cfr, ad esempio, S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura, Coll. in Hex., 3, 8, 1.

(100) Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15.

(101) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 57-61: AAS 85 (1993), 1179-1182.

(102) Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3016.

(103) Cfr Conc. Ecum. Lateranense IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806.

(104) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 24; Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 16.

(105) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 69: AAS 87 (1995), 481.

(106) Nello stesso senso scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento dell'espressione del Vangelo di S. Giovanni: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (8, 32): «Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di un'autentica libertà; e l'ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull'uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l'uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell'anima dell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà »: Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 12: AAS 71 (1979), 280-281.

(107) Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 792.

(108) Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 7-8: AAS 82 (1990), 1552-1553.

(109) Ho scritto nell'Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv 16, 12-13: « Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di verità, come colui che “insegnerà” e “ricorderà”, come colui che gli “renderà testimonianza”; ora dice: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo “guidare alla verità tutta intera”, in riferimento a ciò di cui gli Apostoli “per il momento non sono capaci di portare il peso”, è in necessario collegamento con lo spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di croce, che allora, quando pronunciava queste parole, era ormai imminente. In seguito, tuttavia, diventa chiaro che quel “guidare alla verità tutta intera” si ricollega, oltre che allo scandalum Crucis, anche a tutto ciò che Cristo “fece ed insegnò” (At 1, 1). Infatti, il mysterium Christi nella sua globalità esige la fede, poiché è questa che introduce opportunamente l'uomo nella realtà del mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta intera” si realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è opera dello Spirito di verità ed è frutto della sua azione nell'uomo. Lo Spirito Santo deve essere in questo la suprema guida dell'uomo, la luce dello spirito umano »: n. 6: AAS 78 (1986), 815-816.

(110) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 13.

(111) Cfr Pontificia Commissione Biblica, Istr. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile 1964): AAS 56 (1964), 713.

(112) « E chiaro che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque sistema filosofico effimero; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dettate da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene »: Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566-567; cfr Commissione Teologica Internazionale, Doc. Interpretationis problema (ottobre 1989): Ench. Vat. 11, nn. 2717-2811.

(113) « Quanto al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima »: S. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa la Chiesa, Mysterium Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973), 403.

(114) Cfr Congr. S. Officii, Decr. Lamentabili (3 luglio 1907), 26: ASS 40 (1907), 473.

(115) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso al Pontificio Ateneo « Angelicum » (17 novembre 1979), 6: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1183-1185.

(116) N. 32: AAS 85 (1993), 1159-1160.

(117) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 7: AAS 82 (1990), 1552-1553.

(118) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71 (1979), 1302-1303.

(119) Cfr ibid., 22, l. c., 1295-1296.

(120) Cfr ibid., 7, l. c., 1282.

(121) Cfr ibid., 59, l. c., 1325.

(122) Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3019.

(123) « Nessuno può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa »: Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 19: AAS 71 (1979), 308.

(124) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1-3.

(125) Cfr Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976), 18-19.

(126) Cost. past sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 92.

(127) Cfr ibid., 10.

(128) Prologus, 4: Opera omnia, Firenze 1891, t. V, 296.

(129) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.

(130) Cfr Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), artt. 67-68: AAS 71 (1979), 491-492.

(131) Giovanni Paolo II, Discorso all'Università di Cracovia per il 600o anniversario dell'Alma Mater Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore Romano, 9-10 giugno 1997, p. 12.

(132) « 'e noerà tes písteos tràpeza »: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello pseudo Epifanio: PG 43, 493.

 

 

 

EVANGELIUM VITAE

 


LETTERA ENCICLICA
EVANGELIUM VITAE
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
AI RELIGIOSI E ALLE RELIGIOSE
AI FEDELI LAICI E A TUTTE LE PERSONE
DI BUONA VOLONTÀ
SUL VALORE E L'INVIOLABILITÀ
DELLA VITA UMANA


INTRODUZIONE

1. Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura.

All'aurora della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta notizia: « Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2, 10-11). A sprigionare questa « grande gioia » è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21).

Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: « Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10). In verità, Egli si riferisce a quella vita « nuova » ed « eterna », che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale « vita » acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell'uomo.

Il valore incomparabile della persona umana

2. L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio.

L'altezza di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo, infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario processo dell'esistenza umana. Un processo che, inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1 Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà « ultima », ma « penultima »; è comunque realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.

La Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole dal suo Signore,(1) ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente, perché esso, mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in modo sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica.

Questo diritto devono, in modo particolare, difendere e promuovere i credenti in Cristo, consapevoli della meravigliosa verità ricordata dal Concilio Vaticano II: « Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo ».(2) In questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non solo l'amore sconfinato di Dio che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3, 16), ma anche il valore incomparabile di ogni persona umana.

E la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della Redenzione, coglie questo valore con sempre rinnovato stupore (3) e si sente chiamata ad annunciare agli uomini di tutti i tempi questo « vangelo », fonte di speranza invincibile e di gioia vera per ogni epoca della storia. Il Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.

È per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa.(4)

Le nuove minacce alla vita umana

3. Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio che si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa. Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell'uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura (cf. Mc 16, 15).

Oggi questo annuncio si fa particolarmente urgente per l'impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti.

Già il Concilio Vaticano II, in una pagina di drammatica attualità, ha deplorato con forza molteplici delitti e attentati contro la vita umana. A trent'anni di distanza, facendo mie le parole dell'assise conciliare, ancora una volta e con identica forza li deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: « Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore ».(5)

4. Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell'essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità, ma persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle strutture sanitarie.

Ora, tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di considerare la vita e le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi, magari allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano. In un simile contesto culturale e legale, anche i gravi problemi demografici, sociali o familiari, che pesano su numerosi popoli del mondo ed esigono un'attenzione responsabile ed operosa delle comunità nazionali e di quelle internazionali, si trovano esposti a soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il bene delle persone e delle Nazioni.

L'esito al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana.

In comunione con tutti i Vescovi del mondo

5. Al problema delle minacce alla vita umana nel nostro tempo è stato dedicato il Concistoro straordinario dei Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7 aprile 1991. Dopo un'ampia e approfondita discussione del problema e delle sfide poste all'intera famiglia umana e, in particolare, alla comunità cristiana, i Cardinali, con voto unanime, mi hanno chiesto di riaffermare con l'autorità del Successore di Pietro il valore della vita umana e la sua inviolabilità, in riferimento alle attuali circostanze ed agli attentati che oggi la minacciano.

Accogliendo tale richiesta, ho scritto nella Pentecoste del 1991 una lettera personale a ciascun Confratello perché, nello spirito della collegialità episcopale, mi offrisse la sua collaborazione in vista della stesura di uno specifico documento.(6) Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che hanno risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti e proposte. Essi hanno testimoniato anche così la loro unanime e convinta partecipazione alla missione dottrinale e pastorale della Chiesa circa il Vangelo della vita.

Nella medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del centenario dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo l'attenzione di tutti su questa singolare analogia: « Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani ».(7)

Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale.

La presente Enciclica, frutto della collaborazione dell'Episcopato di ogni Paese del mondo, vuole essere dunque una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!

Giungano queste parole a tutti i figli e le figlie della Chiesa! Giungano a tutte le persone di buona volontà, sollecite del bene di ogni uomo e donna e del destino dell'intera società!

6. In profonda comunione con ogni fratello e sorella nella fede e animato da sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare e annunciare il Vangelo della vita, splendore di verità che illumina le coscienze, limpida luce che risana lo sguardo ottenebrato, fonte inesauribile di costanza e coraggio per affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul nostro cammino.

E mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta durante l'Anno della Famiglia, quasi completando idealmente la Lettera da me indirizzata « ad ogni famiglia concreta di qualunque regione della terra »,(8) guardo con rinnovata fiducia a tutte le comunità domestiche ed auspico che rinasca o si rafforzi ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la famiglia, perché anche oggi — pur in mezzo a numerose difficoltà e a pesanti minacce — essa si conservi sempre, secondo il disegno di Dio, come « santuario della vita ».(9)

A tutti i membri della Chiesa, popolo della vita e per la vita, rivolgo il più pressante invito perché, insieme, possiamo dare a questo nostro mondo nuovi segni di speranza, operando affinché crescano giustizia e solidarietà e si affermi una nuova cultura della vita umana, per l'edificazione di un'autentica civiltà della verità e dell'amore.


CAPITOLO I

LA VOCE DEL SANGUE DI TUO FRATELLO GRIDA A ME DAL SUOLO

LE ATTUALI MINACCE ALLA VITA UMANA

« Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise » (Gn 4, 8): alla radice della violenza contro la vita.

7. « Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono » (Sap 1, 13-14; 2, 23-24).

Il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo.

La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: « Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise » (Gn 4, 8).

Questa prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli.

Vogliamo rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti.

« Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta.

Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala".

Caino disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.

Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".

Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere".

Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden » (Gn 4, 2-16).

8. Caino è « molto irritato » e ha il volto « abbattuto » perché « il Signore gradì Abele e la sua offerta » (Gn 4, 4). Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato al male. Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato. Lo può e lo deve dominare: « Verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala! » (Gn 4, 7).

Sull'ammonimento del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, « la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile ».(10)

Il fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela « spirituale », che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,(11) essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità personale. Non poche volte viene violata anche la parentela « della carne e del sangue », ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.

Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un cedimento alla « logica » del maligno, cioè di colui che « è stato omicida fin da principio » (Gv 8, 44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: « Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello » (1 Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.

Dopo il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con arroganza: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). « Non lo so »: con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la persona. « Sono forse io il guardiano di mio fratello? »: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.

9. Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di « peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio » e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario.(12) Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi « il sangue è la vita » (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.

Caino è maledetto da Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed èpunito: abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da « giardino di Eden » (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e di amicizia con Dio, diventa « paese di Nod » (Gn 4, 16), luogo della « miseria », della solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà « ramingo e fuggiasco sulla terra » (Gn 4, 14): incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre.

Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, « impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato » (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: « Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte ».(13)

« Che hai fatto? » (Gn 4, 10): l'eclissi del valore della vita

10. Il Signore disse a Caino: « Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10). La voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi.

La domanda del Signore « Che hai fatto? », alla quale Caino non può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli.

Alcune minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate dall'incuria colpevole e dalla negligenza degli uomini che non raramente potrebbero porvi rimedio; altre invece sono il frutto di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con omicidi, guerre, stragi, genocidi.

E come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si opera con l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la criminale diffusione della droga o col favorire modelli di esercizio della sessualità che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita? È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma delle minacce alla vita umana, tante sono le forme, aperte o subdole, che esse rivestono nel nostro tempo!

11. Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di « delitto » e ad assumere paradossalmente quello del « diritto », al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere « santuario della vita ».

Come s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre prendere in considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è una profonda crisi della cultura, che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell'etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più diverse difficoltà esistenziali e relazionali, aggravate dalla realtà di una società complessa, in cui le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai limiti della sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che investono le donne, rendono le scelte di difesa e di promozione della vita esigenti a volte fino all'eroismo.

Tutto ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa oggi subire una specie di « eclissi », per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta persona umana.

12. In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera « cultura di morte ». Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società.

Guardando le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso, parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di « congiura contro la vita ». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati.

13. Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel grembo materno, senza la necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo, tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e responsabilità sociale.

Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione.

L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche nell'intento di evitare successivamente la tentazione dell'aborto. Ma i disvalori insiti nella « mentalità contraccettiva » — ben diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino « non uccidere ».

Ma pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita.

Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano.

14. Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,(14) queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti « embrioni soprannumerari » vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice « materiale biologico » di cui poter liberamente disporre.

Le diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta coerente con le esigenze della « terapeuticità » — che accoglie la vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità.

Seguendo questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari, e perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.

15. Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.

In tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura prova gli equilibri a volte già instabili della vita personale e familiare, sicché, da una parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà. Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore.

Ma nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è lecito tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno gravi e reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero verificarsi quando, per aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, si procedesse all'espianto degli stessi organi senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore.

16. Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano frequentemente minacce e attentati alla vita, è quello demografico. Esso si presenta in modo differente nelle diverse parti del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante calo o crollo delle nascite; i Paesi poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di aumento della popolazione, difficilmente sopportabile in un contesto di minore sviluppo economico e sociale, o addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte alla sovrapopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse — mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste.

Contraccezione, sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le cause che contribuiscono a determinare le situazioni di forte denatalità. Può essere facile la tentazione di ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la vita anche nelle situazioni di « esplosione demografica ».

L'antico faraone, sentendo come un incubo la presenza e il moltiplicarsi dei figli di Israele, li sottopose ad ogni forma di oppressione e ordinò che venisse fatto morire ogni neonato maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo stesso modo si comportano oggi non pochi potenti della terra.

Essi pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto e temono che i popoli più prolifici e più poveri rappresentino una minaccia per il benessere e la tranquillità dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler affrontare e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità delle persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo, preferiscono promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti a dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una politica antinatalista.

17. L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario.

Come ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale della Gioventù, « con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei "Caino" che assassinano gli "Abele"; no, si tratta di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile ».(15) Al di là delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di fronte a una oggettiva « congiura contro la vita » che vede implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita.

« Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9): un'idea perversa di libertà

18. Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici cause che lo determinano. La domanda del Signore « Che hai fatto? » (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano.

Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.

In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei « diritti umani » — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.

Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.

Dall'altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di « con- viventi », le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?

19. Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?

Le possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere « indisponibile »? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle « ragioni della forza » si sostituisce la « forza della ragione ».

Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei « più forti » contro i deboli destinati a soccombere.

Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore « Dov'è Abele, tuo fratello? »: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è « guardiano di suo fratello », perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.

C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.

20. In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.

È quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale: l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato: il « diritto » cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la « casa comune » dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni.

Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: « Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata? ».(16) Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale.

Rivendicare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: « In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato » (Gv 8, 34).

« Mi dovrò nascondere lontano da te » (Gn 4, 14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo

21. Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte », non ci si può fermare all'idea perversa di libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio.

Ancora una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello. Dopo la maledizione inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al Signore: « Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere » (Gn 4, 13-14).

Caino ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal Signore e che il suo destino inevitabile sarà di doversi « nascondere lontano » da lui. Se Caino riesce a confessare che la sua colpa è « troppo grande », è perché egli sa di trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo davanti al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta la gravità. È questa l'esperienza di Davide, che dopo « aver fatto male agli occhi del Signore », rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12), esclama: « Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto » (Sal 511, 5-6).

22. Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: « La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa ».(17) L'uomo non riesce più a percepirsi come « misteriosamente altro » rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a « una cosa » e non coglie più il carattere « trascendente » del suo « esistere come uomo ». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà « sacra » affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua « venerazione ». Essa diventa semplicemente « una cosa », che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile.

Così, di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti cruciali del proprio « essere ». Egli si preoccupa solo del « fare » e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere « vissute », diventano cose che si pretende semplicemente di « possedere » o di « rifiutare ».

Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più « mater », sia ridotta a « materiale » aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno vero, quando l'angoscia per gli esiti di tale « libertà senza legge » induce alcuni all'opposta istanza di una « legge senza libertà », come avviene, ad esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque intervento sulla natura, quasi in nome di una sua « divinizzazione », che ancora una volta ne misconosce la dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo « come se Dio non esistesse », l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere.

23. L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo. Si manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive l'Apostolo: « Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno » (Rm 1, 28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere.

L'unico fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale. La cosiddetta « qualità della vita » è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza.

In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene « censurata », respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque. Quando non la si può superare e la prospettiva di un benessere almeno futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni significato e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il diritto alla sua soppressione.

Sempre nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore, ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione è tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione allora diventa il « nemico » da evitare nell'esercizio della sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere il figlio « ad ogni costo » e non, invece, perché dice totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza di vita di cui il figlio è portatore.

Nella prospettiva materialistica fin qui descritta, le relazioni interpersonali conoscono un grave impoverimento. I primi a subirne i danni sono la donna, il bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che « è », ma per quello che « ha, fa e rende ». È la supremazia del più forte sul più debole.

24. È nell'intimo della coscienza morale che l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e funeste conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna persona, che nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a Dio.(18) Ma è pure in questione, in un certo senso, la « coscienza morale » della società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la « cultura della morte », giungendo a creare e a consolidare vere e proprie « strutture di peccato » contro la vita. La coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita. Tanta parte dell'attuale società si rivela tristemente simile a quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È fatta « di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia » (1, 18): avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire la città terrena senza di lui, « hanno vaneggiato nei loro ragionamenti » sicché « si è ottenebrata la loro mente ottusa » (1, 21); « mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti » (1, 22), sono diventati autori di opere degne di morte e « non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa » (1, 32). Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama « bene il male e male il bene » (Is 5, 20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della più tenebrosa cecità morale.

Eppure tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio non riescono a soffocare la voce del Signore che risuona nella coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo cammino di amore, di accoglienza e di servizio alla vita umana.

« Vi siete accostati al sangue dell'aspersione » (cf. Eb 12, 22.24): segni di speranza e invito all'impegno

25. « La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10). Non è solo la voce del sangue di Abele, il primo innocente ucciso, a gridare verso Dio, sorgente e difensore della vita. Anche il sangue di ogni altro uomo ucciso dopo Abele è voce che si leva al Signore. In una forma assolutamente unica, grida a Dio la voce del sangue di Cristo, di cui Abele nella sua innocenza è figura profetica, come ci ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei: « Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente... al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele » (12, 22.24).

È il sangue dell'aspersione. Ne era stato simbolo e segno anticipatore il sangue dei sacrifici dell'Antica Alleanza, con i quali Dio esprimeva la volontà di comunicare la sua vita agli uomini, purificandoli e consacrandoli (cf. Es 24, 8; Lv 17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si compie e si avvera: il suo è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e salva; è il sangue del Mediatore della Nuova Alleanza « versato per molti, in remissione dei peccati » (Mt 26, 28). Questo sangue, che fluisce dal fianco trafitto di Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la « voce più eloquente » del sangue di Abele; esso infatti esprime ed esige una più profonda « giustizia », ma soprattutto implora misericordia,(19) si fa presso il Padre intercessione per i fratelli (cf. Eb 7, 25), è fonte di redenzione perfetta e dono di vita nuova.

Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: « Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia » (1 Pt 1, 18-19). Proprio contemplando il sangue prezioso di Cristo, segno della sua donazione d'amore (cf. Gv 13, 1), il credente impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato stupore: « Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore" (Exultet della Veglia pasquale), se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l'uomo, "non muoia, ma abbia la vita eterna" (cf. Gv 3, 16)! ».(20)

Il sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua grandezza, e quindi la sua vocazione, consiste nel dono sincero di sé. Proprio perché viene versato come dono di vita, il sangue di Gesù non è più segno di morte, di separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una comunione che è ricchezza di vita per tutti. Chi nel sacramento dell'Eucaristia beve questo sangue e dimora in Gesù (cf. Gv 6, 56) è coinvolto nel suo stesso dinamismo di amore e di donazione di vita, per portare a pienezza l'originaria vocazione all'amore che è propria di ogni uomo (cf. Gn 1, 27; 2, 18-24).

È ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il motivo più forte di speranza, anzi è il fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la vittoria sarà della vita. « Non ci sarà più la morte », esclama la voce potente che esce dal trono di Dio nella Gerusalemme celeste (Ap 21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e anticipazione della vittoria definitiva sulla morte, quando « si compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?" » (1 Cor 15, 54-55).

26. In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non mancano nelle nostre società e culture, pur così fortemente segnate dalla « cultura della morte ». Si darebbe dunque un'immagine unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non si accompagnasse la presentazione dei segni positivi operanti nell'attuale situazione dell'umanità.

Purtroppo tali segni positivi faticano spesso a manifestarsi e ad essere riconosciuti, forse anche perché non trovano adeguata attenzione nei mezzi della comunicazione sociale. Ma quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli e indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale, ad opera di singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere!

Sono ancora molti gli sposi che, con generosa responsabilità, sanno accogliere i figli come « il preziosissimo dono del matrimonio ».(21) Né mancano famiglie che, al di là del loro quotidiano servizio alla vita, sanno aprirsi all'accoglienza di bambini abbandonati, di ragazzi e giovani in difficoltà, di persone portatrici di handicap, di anziani rimasti soli. Non pochi centri di aiuto alla vita, o istituzioni analoghe, sono promossi da persone e gruppi che, con ammirevole dedizione e sacrificio, offrono un sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all'aborto. Sorgono pure e si diffondono gruppi di volontari impegnati a dare ospitalità a chi è senza famiglia, si trova in condizioni di particolare disagio o ha bisogno di ritrovare un ambiente educativo che lo aiuti a superare abitudini distruttive e a ricuperare il senso della vita.

La medicina, promossa con grande impegno da ricercatori e professionisti, prosegue nel suo sforzo per trovare rimedi sempre più efficaci: risultati un tempo del tutto impensabili e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti a favore della vita nascente, delle persone sofferenti e dei malati in fase acuta o terminale. Enti e organizzazioni varie si mobilitano per portare, anche nei Paesi più colpiti dalla miseria e da malattie endemiche, i benefici della medicina più avanzata. Così pure associazioni nazionali e internazionali di medici si attivano tempestivamente per recare soccorso alle popolazioni provate da calamità naturali, da epidemie o da guerre. Anche se una vera giustizia internazionale nella ripartizione delle risorse mediche è ancora lontana dalla sua piena realizzazione, come non riconoscere nei passi sinora compiuti il segno di una crescente solidarietà tra i popoli, di un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un maggiore rispetto per la vita?

27. Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto e a tentativi, qua e là riusciti, di legalizzare l'eutanasia, sono sorti in tutto il mondo movimenti e iniziative di sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando, in conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con determinata fermezza ma senza ricorrere alla violenza, tali movimenti favoriscono una più diffusa presa di coscienza del valore della vita e sollecitano e realizzano un più deciso impegno per la sua difesa.

Come non ricordare, inoltre, tutti quei gesti quotidiani di accoglienza, di sacrificio, di cura disinteressata che un numero incalcolabile di persone compie con amore nelle famiglie, negli ospedali, negli orfanotrofi, nelle case di riposo per anziani e in altri centri o comunità a difesa della vita? Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù « buon samaritano » (cf. Lc 10, 29-37) e sostenuta dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie, specialmente religiose e religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e continuano a consacrare la loro vita a Dio donandola per amore del prossimo più debole e bisognoso.

Questi gesti costruiscono nel profondo quella « civiltà dell'amore e della vita », senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo significato più autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e rimanessero nascosti ai più, la fede assicura che il Padre, « che vede nel segreto » (Mt 6, 4), non solo saprà ricompensarli, ma già fin d'ora li rende fecondi di frutti duraturi per tutti.

Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma « non violenti » per bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di « legittima difesa » sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi.

È da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione allaqualità della vita e all'ecologia, che si registra soprattutto nelle società a sviluppo avanzato, nelle quali le attese delle persone non sono più concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza quanto piuttosto sulla ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di vita. Particolarmente significativo è il risveglio di una riflessione etica attorno alla vita: con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo — tra credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni — su problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo.

28. Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti pienamente consapevoli che ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la vita, la « cultura della morte » e la « cultura della vita ». Ci troviamo non solo « di fronte », ma necessariamente « in mezzo » a tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita.

Anche per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè: « Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza » (Dt 30, 15.19). È un invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno a dover decidere tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte ». Ma l'appello del Deuteronomio è ancora più profondo, perché ci sollecita ad una scelta propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla propria esistenza un orientamento fondamentale e di vivere in fedeltà e coerenza con la legge del Signore: « Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme...; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità » (30, 16.19-20).

La scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini « perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10): è la fede nel Risorto, che ha vinto la morte; è la fede nel sangue di Cristo « dalla voce più eloquente di quello di Abele » (Eb 12, 24).

Con la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte alle sfide dell'attuale situazione, la Chiesa prende più viva coscienza della grazia e della responsabilità che le vengono dal suo Signore per annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita.


CAPITOLO II

SONO VENUTO PERCHÈ ABBIANO LA VITA

IL MESSAGGIO CRISTIANO SULLA VITA

« La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta » (1 Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, « il Verbo della vita »

29. Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti nel mondo contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di un'impotenza insuperabile: il bene non potrà mai avere la forza di vincere il male!

È questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso ciascun credente, è chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo « il Verbo della vita » (1 Gv 1, 1). Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso, e in lui a ogni uomo, Gesù si presenta con queste parole: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). È la stessa identità indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: « Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 25-26). Gesù è il Figlio che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5, 26) ed è venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo dono: « Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10).

È allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa di Gesù che all'uomo è data la possibilità di « conoscere » la verità intera circa il valore della vita umana; è da quella « fonte » che gli viene, in particolare, la capacità di « fare » perfettamente tale verità (cf. Gv 3, 21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana.

In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza « dal principio », ossia dalla creazione stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana. Come scrive il Concilio Vaticano II, Cristo « con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna ».(22)

30. È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che intendiamo riascoltare da lui « le parole di Dio » (Gv 3, 34) e rimeditare il Vangelo della vita. Il senso più profondo e originale di questa meditazione sul messaggio rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo Giovanni, quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera: « Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1, 1-3).

In Gesù, « Verbo della vita », viene quindi annunciata e comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento.

« Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato » (Es 15, 2): la vita è sempre un bene

31. In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro dell'esperienza di fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo sterminio, perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte (cf. Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio.

La liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il riconoscimento di una dignità indelebile e l'inizio di una storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari passo. È una esperienza, quella dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: « Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me » (Is 44, 21).

Così, mentre riconosce il valore della propria esistenza come popolo, Israele progredisce anche nella percezione del senso e del valore della vita in quanto tale. È una riflessione che si sviluppa in modo particolare nei libri sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà della vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano. Di fronte alle contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta.

È soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a chiedersi: « Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro? » (3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del « mistero »: « Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te » (Gb 42, 2).

Progressivamente la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: « Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore » (Qo 3, 11). Questo germe di totalità e di pienezza attende di manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.

« Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo » (At 3, 16): nella precarietà dell'esistenza umana Gesù porta a compimento il senso della vita

32. L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di tutti i « poveri » che incontrano Gesù di Nazaret. Come già il Dio « amante della vita » (Sap 11, 26) aveva rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così ora il Figlio di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del Padre dà senso e valore.

« I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella » (Lc 7, 22). Con queste parole del profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù presenta il significato della propria missione: così quanti soffrono per un'esistenza in qualche modo « diminuita », ascoltano da lui la buona novella dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre (cf. Mt 6, 25-34).

Sono i « poveri » ad essere interpellati particolarmente dalla predicazione e dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf. Mt 4, 23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano fondate le loro attese di salvezza.

Non diversamente accade nella missione della Chiesa, fin dalle sue origini. Essa, che annuncia Gesù come colui che « passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui » (At 10, 38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che risuona in tutta la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della vita dell'uomo. Così fa Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno presso la porta « Bella » del tempio di Gerusalemme a chiedere l'elemosina: « Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina! » (At 3, 6). Nella fede in Gesù, « autore della vita » (At 3, 15), la vita che giace abbandonata e implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena.

La parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano solo chi è nella malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più profondamente toccano il senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni morali e spirituali. Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia del peccato, nell'incontro con Gesù Salvatore può ritrovare la verità e l'autenticità della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 31-32).

Chi, invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica, pensa di poter assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in realtà si illude: essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo, senza essere arrivato a percepirne il vero significato: « Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? » (Lc 12, 20).

33. È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine, che si ritrova questa singolare « dialettica » tra l'esperienza della precarietà della vita umana e l'affermazione del suo valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù fin dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza dei giusti, che si uniscono al « sì » pronto e gioioso di Maria (cf. Lc 1, 38). Ma c'è anche, da subito, il rifiuto di un mondo che si fa ostile e cerca il bambino « per ucciderlo » (Mt 2, 13), oppure resta indifferente e disattento al compiersi del mistero di questa vita che entra nel mondo: « non c'era posto per loro nell'albergo » (Lc 2, 7). Proprio dal contrasto tra le minacce e le insicurezze da una parte e la potenza del dono di Dio dall'altra, risplende con maggior forza la gloria che si sprigiona dalla casa di Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme: questa vita che nasce è salvezza per l'intera umanità (cf. Lc 2, 11).

Contraddizioni e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: « da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor 8, 9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo spogliamento dei privilegi divini, ma anche condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2, 6-7). Gesù vive questa povertà lungo tutto il corso della sua vita, fino al momento culminante della Croce: « umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome » (Fil 2, 8-9). È proprio nella sua morte che Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf. Gv 12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa perdita della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del Padre. Per questo sulla Croce può dirgli: « Padre nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23, 46), cioè la mia vita. Davvero grande è il valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità!

« Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm 8, 28-29): la gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo

34. La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda.

Perché la vita è un bene? L'interrogativo attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra (cf. Gn 2, 7; 3, 19; Gb 34, 15; Sal 103/102, 14; 104/103, 29), è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria (cf. Gn 1, 26-27; Sal 8, 6). È quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con la sua celebre definizione: « l'uomo che vive è la gloria di Dio ».(23) All'uomo è donata un'altissima dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio.

Lo afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: « Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente » (1, 28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle origini: « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » (Gn 2, 15). Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa.

Nella narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza » (Gn 1, 26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura.

Israele si interrogherà a lungo sul senso di questo legame particolare e specifico dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare gli uomini « secondo la sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li formò » (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul mondo, ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera: « Li riempì di dottrina e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male » (Sir 17, 6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf. Dt 32, 4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è « capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore ».(24) La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: « Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura » (Sap 2, 23).

35. Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa convinzione. L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: « Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente » (Gn 2, 7).

L'origine divina di questo spirito di vita spiega la perenne insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la parola di verità espressa da sant'Agostino: « Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te ».(25)

Quanto mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita dell'uomo nell'Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gn 2, 20). Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2, 23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona.

« Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? », si chiede il Salmista (Sal 8, 5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa emergere la sua grandezza: « Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si potrebbe tradurre anche: « poco meno di Dio »), di gloria e di onore lo hai coronato » (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio: « È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, poiché il Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: "O su chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?" (Is 66, 1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo ».(26)

36. Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla irruzione del peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: « Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore » (Rm 1, 25). In questo modo l'essere umano non solo deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di offenderla anche negli altri, sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti di diffidenza, di indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non si riconosce Dio come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e si pregiudica la comunione tra gli uomini.

Nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: « Egli è immagine del Dio invisibile » (Col 1, 15), « irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza » (Eb 1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre.

Il progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo rovina e deturpa il disegno di Dio sulla vita dell'uomo e introduce la morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini spalancando a tutti le porte del regno della vita (cf. Rm 5, 12-21). Afferma l'apostolo Paolo: « Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita » (1 Cor 15, 45).

A quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata la pienezza della vita: in loro l'immagine divina viene restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione. Questo è il disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano « conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm 8, 29). Solo così, nello splendore di questa immagine, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù dell'idolatria, può ricostruire la fraternità dispersa e ritrovare la sua identità.

« Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 26): il dono della vita eterna

37. La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è « in lui » e costituisce « la luce degli uomini » (Gv 1, 4), consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla pienezza del suo amore: « A quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati » (Gv 1, 12-13).

A volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente così: « la vita »; e presenta la generazione da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l'uomo: « Se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio » (Gv 3, 3). Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della missione di Gesù: egli « è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (Gv 6, 33), così che può affermare con piena verità: « Chi segue me... avrà la luce della vita » (Gv 8, 12).

Altre volte Gesù parla di « vita eterna », dove l'aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. « Eterna » è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell' « Eterno ». Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv 3, 15; 6, 40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le « parole di vita eterna » che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: « Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6, 68-69). In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande preghiera sacerdotale: « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17, 3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già fin d'ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina.

38. La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la vita dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e gratitudine senza limiti non possono non prendere il credente di fronte a questa inattesa e ineffabile verità che ci viene da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo Giovanni: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è » (1 Gv 3, 1-2).

Così giunge al suo culmine la verità cristiana sulla vita. La dignità di questa non è legata solo alle sue origini, al suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore di Lui. È alla luce di questa verità che sant'Ireneo precisa e completa la sua esaltazione dell'uomo: « gloria di Dio » è, sì, « l'uomo che vive », ma « la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio ».(27)

Nascono da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna. Se l'uomo ama istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere umano ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza il « luogo » della manifestazione di Dio, dell'incontro e della comunione con Lui. La vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al suo ultimo destino: « Io sono la risurrezione e la vita...; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 25.26).

« Domanderò conto ... a ognuno di suo fratello » (Gn 9, 5): venerazione e amore per la vita di tutti

39. La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio: « Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello » (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice: « Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo » (Gn 9, 6).

La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: « Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana », esclama Giobbe (12, 10). « Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire » (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: « Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39).

Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo bambino: « Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia » (Sal 131/130, 2; cf. Is 49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di morte, che nascono dal peccato: « Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza » (Sap 1, 13-14).

40. Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua coscienza. La domanda « Che hai fatto? » (Gn 4, 10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita — della sua vita e di quella degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.

Il comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana risuona al centro delle « dieci parole » nell'Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio: « Non uccidere » (Es 20, 13); « Non far morire l'innocente e il giusto » (Es 23, 7); ma proibisce anche — come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (Lv 19, 18).

41. Il comandamento del « non uccidere », incluso e approfondito in quello positivo dell'amore del prossimo, viene ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane ricco che gli chiede: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? », risponde: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 16.17). E cita, come primo, il « non uccidere » (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del rispetto della vita: « Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio » (Mt 5, 21-22).

Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l'inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es 21, 22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.

L'estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf. Mt 5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a « fargli del bene » (cf. Lc 6, 27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (cf. Lc 6, 34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: « Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti » (Mt 5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35).

Così il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il suo aspetto più profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e della sua vita. È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco alla parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai cristiani di Roma: « Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore » (Rm 13, 9-10).

« Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela » (Gn 1, 28): le responsabilità dell'uomo verso la vita

42. Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo: « Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra" » (Gn 1, 28).

Il testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della signoria che Dio dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza: « Dio dei padri e Signore di misericordia... con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con santità e giustizia » (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio dell'uomo come segno della gloria e dell'onore ricevuti dal Creatore: « Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare » (Sal 8, 7-9).

Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn 2, 15), l'uomo ha una specifica responsabilità sull'ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione ecologica — dalla preservazione degli « habitat » naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla « ecologia umana » propriamente detta (28) — che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni vita. In realtà, « il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire ».(29)

43. Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana. È responsabilità che tocca il suo vertice nella donazione della vita mediante la generazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Lo stesso Dio che disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (Gn 2, 18) e che "creò all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19, 4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e moltiplicatevi" (Gn 1, 28) ».(30)

Parlando di « una certa speciale partecipazione » dell'uomo e della donna all'« opera creatrice » di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del figlio sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi che formano « una sola carne » (Gn 2, 24) ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, « quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione "sulla terra". Infatti soltanto da Dio può provenire quella "immagine e somiglianza" che è propria dell'essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione della creazione ».(31)

È quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna, « la madre di tutti i viventi » (Gn 3, 20). Consapevole dell'intervento di Dio, Eva esclama: « Ho acquistato un uomo dal Signore » (Gn 4, 1). Nella generazione dunque, mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio, si trasmette, grazie alla creazione dell'anima immortale,(32) l'immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime l'inizio del « libro della genealogia di Adamo »: « Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set » (Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti « a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia ».(33) In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava il « matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni terreni » come « generatore dell'umanità, artefice di immagini di Dio ».(34)

Così l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un'opera divina: mediante l'atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.

Ma, al di là della missione specifica dei genitori, il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati... Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25, 31-46).

« Sei tu che hai creato le mie viscere » (Sal 139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato

44. La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande precarietà quando entra nel mondo e quando esce dal tempo per approdare all'eternità. Sono ben presenti nella Parola di Dio — soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla malattia e dalla vecchiaia — gli inviti alla cura e al rispetto. Se mancano inviti diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue origini, in specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine, ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di offendere, aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni esula dall'orizzonte religioso e culturale del popolo di Dio.

Nell'Antico Testamento la sterilità è temuta come una maledizione, mentre la prole numerosa è sentita come una benedizione: « Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo » (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127, 3-4). Gioca in questa convinzione anche la consapevolezza di Israele di essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a moltiplicarsi secondo la promessa fatta ad Abramo: « Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza » (Gn 15, 5). Ma è soprattutto operante la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche che con rispetto e amore parlano del concepimento, del plasmarsi della vita nel grembo materno, della nascita e dello stretto legame che v'è tra il momento iniziale dell'esistenza e l'agire di Dio Creatore.

« Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato » (Ger 1, 5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si ferma a contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi del suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo di fiducia ed esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla sua vita: « Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito » (10, 8-12). Accenti di adorante stupore per l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano anche nei Salmi.(35)

Come pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balìa dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei sette fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia della vita fin dal suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della speranza della nuova vita oltre la morte: « Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi stessi » (2 Mac 7, 22-23).

45. La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi. L'esaltazione della fecondità e l'attesa premurosa della vita risuonano nelle parole con cui Elisabetta gioisce per la sua gravidanza: « Il Signore... si è degnato di togliere la mia vergogna » (Lc 1, 25). Ma ancor più il valore della persona fin dal suo concepimento è celebrato nell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due fanciulli che esse portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro inizia ad operare la forza redentrice della presenza del Figlio di Dio tra gli uomini. « Subito — scrive sant'Ambrogio — si fanno sentire i benefici della venuta di Maria e della presenza del Signore... Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo l'ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia e il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo profetizzano sotto l'ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a ricolmare anche la madre ».(36)

« Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" » (Sal 116/115, 10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza

46. Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.

La vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non chiede di essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così egli prega: « Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie » (Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come quello in cui « non ci sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni » (Is 65, 20).

Ma, nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle mani di Dio: « Signore, nelle tue mani è la mia vita » (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta anche il morire: « Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo? » (Sir 41, 4). Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al « volere dell'Altissimo », al suo disegno di amore.

Anche nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che « guarisce tutte le malattie » (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da indurlo a gridare: « I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco » (Sal 102/101, 12) —, anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena di speranza: « Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal 116/115, 10); « Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba » (Sal 30/29, 3-4).

47. La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. « Medico della carne e dello spirito »,(37) Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is 61, 1). Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: « E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni » (Mt 10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).

Certo, la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, « chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà » (Mc 8, 35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf. Gv 10, 15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc 6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7, 59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.

Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale « viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (At 17, 28).

« Quanti si attengono ad essa avranno la vita » (Bar 4, 1): dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito

48. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. Distaccarsene equivale a condannare se stessi all'insignificanza e all'infelicità, con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui, essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la difesa della vita, in ogni situazione.

La verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo specifico comandamento « non uccidere » (Es 20, 13; Dt 5, 17) ad assicurare la protezione della vita: tutta intera la Legge del Signore è a servizio di tale protezione, perché rivela quella verità nella quale la vita trova il suo pieno significato.

Non meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo sia così fortemente legata alla prospettiva della vita, anche nella sua dimensione corporea. Il comandamento è in essa offerto come via della vita: « Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso » (Dt 30, 15-16). È in questione non soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di Israele, ma il mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità. Infatti, non è assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena distaccandosi dal bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai comandamenti del Signore, cioè alla « legge della vita » (Sir 17, 9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un peso che grava su di essa, perché la ragione stessa della vita è precisamente il bene e la vita è costruita solo mediante il compimento del bene.

È dunque il complesso della Legge a salvaguardare pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile mantenersi fedeli al « non uccidere » quando non vengono osservate le altre « parole di vita » (At 7, 38), alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori di questo orizzonte, il comandamento finisce per diventare un semplice obbligo estrinseco, di cui ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le attenuazioni o le eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola « non uccidere » torna a risplendere come bene per l'uomo in tutte le sue dimensioni e relazioni. In questa prospettiva possiamo cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del libro del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima tentazione: « L'uomo non vive soltanto di pane, ma... di quanto esce dalla bocca del Signore » (8, 3; cf. Mt 4, 4). È ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere secondo dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo può portare frutti di vita e di felicità: « quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno » (Bar 4, 1).

49. La storia di Israele mostra quanto sia difficile mantenere la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto nel cuore degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di progetti di vita alternativi al piano di Dio, sono in particolare i Profeti a richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte della vita. Così Geremia scrive: « Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua » (2, 13). I Profeti puntano il dito accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: « Calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri » (Am 2, 7); « Essi hanno riempito questo luogo di sangue innocente » (Ger 19, 4). E tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di Gerusalemme, chiamandola « la città sanguinaria » (22, 2; 24, 6.9), la « città che sparge il sangue in mezzo a se stessa » (22, 3).

Ma mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si preoccupano soprattutto di suscitare l'attesa di un nuovo principio di vita, capace di fondare un rinnovato rapporto con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze insite nel Vangelo della vita . Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono di Dio, che purifica e rinnova: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo » (Ez 36, 25-26; cf. Ger 31, 31-34). Grazie a questo « cuore nuovo » si può comprendere e realizzare il senso più vero e profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi. È il messaggio luminoso che sul valore della vita ci viene dalla figura del Servo del Signore: « Quan- do offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo... Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce » (Is 53, 10.11).

È nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il cuore nuovo viene donato mediante il suo Spirito. Gesù, infatti, non rinnega la Legge, ma la porta a compimento (cf. Mt 5, 17): Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro dell'amore reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge diventa definitivamente « vangelo », buona notizia della signoria di Dio sul mondo, che riporta tutta l'esistenza alle sue radici e alle sue prospettive originarie. È la Legge Nuova, « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8, 2), la cui espressione fondamentale, a imitazione del Signore che dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15, 13), è il dono di sé nell'amore ai fratelli: « Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli » (1 Gv 3, 14). È legge di libertà, di gioia e di beatitudine.

« Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » (Gv 19, 37): sull'albero della Croce si compie il Vangelo della vita

50. Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il messaggio cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno di voi a contemplare Colui che hanno trafitto e che attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12, 32). Guardando « lo spettacolo » della Croce (cf. Lc 23, 48), potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita.

Nelle prime ore del pomeriggio del venerdì santo, « il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo » (Lc 23, 44.45). È il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la « cultura della morte » e la « cultura della vita ». Ma da questa oscurità lo splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana.

Gesù è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della sua massima « impotenza » e la sua vita sembra totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato (cf. Mc 15, 24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e « vistolo spirare in quel modo », il centurione romano esclama: « Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! » (Mc 15, 39). Si rivela così, nel momento della sua estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla Croce si manifesta la sua gloria!

Con la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi persecutori (cf. Lc 23, 34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » (Lc 23, 43). Dopo la sua morte « i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono » (Mt 27, 52). La salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. At 10, 38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione alla vita stessa di Dio.

Sulla Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosè nel deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione.

51. Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio sguardo e suscita la mia commossa meditazione: « Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto è compiuto!'. E, chinato il capo, rese lo spirito » (Gv 19, 30). E il soldato romano « gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua » (Gv 19, 34).

Tutto ormai è giunto al suo pieno compimento. Il « rendere lo spirito » descrive la morte di Gesù, simile a quella di ogni altro essere umano, ma sembra alludere anche al « dono dello Spirito », col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci apre a una vita nuova.

È la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. È la vita che, mediante i sacramenti della Chiesa — di cui il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo — viene continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte di vita, nasce e si diffonde il « popolo della vita ».

La contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: « Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà » (cf.Eb 10, 9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo « amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1), donando tutto se stesso per loro.

Lui, che non era « venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (Mc 10, 45), raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15, 13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5, 8).

In tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.

La meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (cf. 1 Pt 2, 21).

Anche noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza.

Lo potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà.

Concedici, perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non solo a « non uccidere » la vita dell'uomo, ma a venerarla, amarla e promuoverla.


CAPITOLO III

NON UCCIDERE

LA LEGGE SANTA DI DIO

« Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 17): Vangelo e comandamento

52. « Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?" » (Mt 19, 16). Gesù rispose: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento « non uccidere ». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: « Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..." » (Mt 19, 18).

Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come « vangelo », ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige dall'uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono.

L'uomo, immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. « Dio ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello ».(38) Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf. Gn 1, 28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso (39) e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli puó trasmettere mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento della sua felicità.

Come già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua impareggiabile grandezza — è « ministro del disegno di Dio ».(40)

La vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27).

« Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo » (Gn 9, 5): la vita umana è sacra e inviolabile

53. « La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente ».(41) Con queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.

La Sacra Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto « non uccidere » come comandamento divino (Es 20, 13; Dt 5, 17). Esso — come ho già sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio, provocato dal dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn 9, 5-6).

Dio si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento « non uccidere », posto alle basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il « goel », ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is 41, 14; Ger 50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei viventi (cf. Sap 1, 13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2, 24). Egli, che è « omicida fin da principio », è anche « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8, 44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte, presentati come mete e frutti di vita.

54. Esplicitamente, il precetto « non uccidere » ha un forte contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, però, esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni, ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a quello dell'amore di Dio; « da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti » (cf. Mt 22, 36-40). « Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san Paolo — si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" » (Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto « non uccidere » rimane come condizione irrinunciabile per poter « entrare nella vita » (cf. Mt 19, 16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola dell'apostolo Giovanni: « Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1 Gv 3, 15).

Sin dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa — come testimonia la Didachè, il più antico scritto cristiano non biblico — ha riproposto in modo categorico il comandamento « non uccidere »: « Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe! ».(42)

Procedendo nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del comandamento « non uccidere ». È noto che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi — insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.

55. La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale è presente l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici casi che la vita individuale e sociale presenta, la riflessione dei credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa e profonda di quanto il comandamento di Dio proibisca e prescriva.(43) Vi sono, infatti, situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso. È il caso, ad esempio, della legittima difesa, in cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non ledere quella dell'altro risultano in concreto difficilmente componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a se stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo stesso esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, suppone l'amore per se stessi quale termine di confronto: « Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Mc 12, 31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche (cf. Mt 5, 38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso Signore Gesù.

D'altra parte, « la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile ».(44) Accade purtroppo che la necessità di porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.(45)

56. In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che la società infligge « ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa ».(46) La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.(47)

È chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.

In ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui « se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana ».(48)

57. Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento « non uccidere » ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.

In effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale unanimità è frutto evidente di quel « senso soprannaturale della fede » che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di Dio, quando « esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi ».(49)

Dinanzi al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II.(50)

Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.(51)

La scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine, né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. « Niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo ».(52)

Nel diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente « non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali ».(53)

« Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi » (Sal 139/138, 16): il delitto abominevole dell'aborto

58. Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, « delitto abominevole ».(54)

Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di « interruzione della gravidanza », che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita.

La gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.

È vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente.

59. A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: (55) in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere « santuario della vita ». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita.

Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto — valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera alle Famiglie, « ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà ».(56) Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una « struttura di peccato » contro la vita umana non ancora nata.

60. Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora considerato una vita umana personale. In realtà, « dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire ».(57) Anche se la presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire « un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana? ».(58)

Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: « L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita ».(59)

61. I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di aborto volontario e quindi non presentano condanne dirette e specifiche in proposito, mostrano una tale considerazione dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento di Dio: « non uccidere ».

La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno, appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione è già scritta nel « libro della vita » (cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche lì, quando è ancora nel grembo materno, — come testimoniano numerosi testi biblici (60) — l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.

La Tradizione cristiana — come ben rileva la Dichiarazione emanata al riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (61) — è chiara e unanime, dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine morale particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati l'aborto e l'infanticidio, la comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata Didachè.(62) Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora ricorda che i cristiani considerano come omicide le donne che fanno ricorso a medicine abortive, perché i bambini, anche se ancora nel seno della madre, « sono già l'oggetto delle cure della Provvidenza divina ».(63) Tra i latini, Tertulliano afferma: « È un omicidio anticipato impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già nata o che la si faccia scomparire nel nascere. È già un uomo colui che lo sarà ».(64)

Lungo la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è stata costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori. Anche le discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento preciso dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato alcuna esitazione circa la condanna morale dell'aborto.

62. Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con grande vigore questa dottrina comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti connubii ha respinto le pretestuose giustificazioni dell'aborto; (65) Pio XII ha escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata, « sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto come mezzo al fine »; (66) Giovanni XXIII ha riaffermato che la vita umana è sacra, perché « fin dal suo affiorare impegna direttamente l'azione creatrice di Dio ».(67) Il Concilio Vaticano II, come già ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto: « La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; e l'aborto come l'infanticidio sono abominevoli delitti ».(68)

La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.(69) Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che « chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae »,(70) cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: (71) con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza.

Di fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è mutato ed è immutabile.(72) Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.(73)

Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa.

63. La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l'uccisione. È il caso della sperimentazione sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se « si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale »,(74) si deve invece affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona.(75)

La stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che sfrutta gli embrioni e i feti umani ancora vivi — talvolta « prodotti » appositamente per questo scopo mediante la fecondazione in vitro — sia come « materiale biologico » da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.

Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di « normali- tà » e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.

In realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è vicina a quei coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di accogliere i loro bambini gravemente colpiti da handicap, così come è grata a tutte quelle famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono stati abbandonati dai loro genitori a motivo di menomazioni o malattie.

« Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39): il dramma dell'eutanasia

64. All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata « assurda » se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una « liberazione rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.

Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.

In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine « dolcemente » alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della « cultura di morte », che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.

65. Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. « L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati ».(76)

Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto « accanimento terapeutico », ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza « rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi ».(77) Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.(78)

Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette « cure palliative », destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento « eroico » non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, « se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali ».(79) In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, « non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo »: (80) avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all'incontro definitivo con Dio.

Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori (81) e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.(82)

Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.

66. Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.(83) Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.(84) Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: « Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire » (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).

Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto « suicidio assistito » significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. « Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere ».(85) Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante « perversione » di essa: la vera « compassione », infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio « conoscendo il bene e il male » (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: « Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.

Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.

67. Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, « in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo » per l'uomo; e tuttavia « l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte ».(86)

Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, « salario del peccato » (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.

L'apostolo Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: « Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore » (Rm 14, 7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2, 8), accettando di incontrarla nell'« ora » voluta e scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2, 21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.(87) È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa » (Col 1, 24).

« Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29): la legge civile e la legge morale

68. Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana — come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.

Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere l'aborto e l'eutanasia.

Si pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.

Nelle opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio delle altre.

69. In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.

Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica.

70. Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.

Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa posizione.

È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della « verità ». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del « relativismo etico ». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione « tirannica » nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un « ordinamento » e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere « morale » non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo « segno dei tempi », come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.(88) Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del « bene comune » come fine e criterio regolativo della vita politica.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli « maggioranze » di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto « legge naturale » iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.(89)

Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.

71. Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere.

Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell'umanità.

Certamente, il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale. Però « in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza »,(90) che è quella di assicurare il bene comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.(91) Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti « possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1 Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave,(92) essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l'offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto della libertà.(93)

Nell'Enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito: « Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere". Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso destituito d'ogni valore giuridico ».(94)

72. In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come appare, ancora una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: « L'autorità è postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso, anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso ».(95) È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d'Aquino, che tra l'altro scrive: « La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza ».(96) E ancora: « Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge ».(97)

Ora la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando essa è richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.

Le leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante.

73. L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che « bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse « non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini » (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: « Le levatrici temettero Dio » (ivi). È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che « in questo sta la costanza e la fede dei santi » (Ap 13, 10).

Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, « né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto ».(98)

Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.

74. L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane minacciate. D'altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica permissiva.

Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12).

Rifiutarsi di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.

« Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lc 10, 27): « promuovi » la vita.

75. I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta di determinati comportamenti è radicalmente incompatibile con l'amore verso Dio e con la dignità della persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò, non può essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna conseguenza, è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone, contraddice la decisione fondamentale di orientare la propria vita a Dio.(99)

Già in questo senso i precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il « no » che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per pronunciare innumerevoli « sì », capaci di occupare progressivamente l'intero orizzonte del bene (cf. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la libertà: « La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta ».(100)

76. Il comandamento « non uccidere » stabilisce quindi il punto di partenza di un cammino di vera libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita (cf. Sal 139/138, 13-14).

Il Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile sollecitudine, non perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei tempi, incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio di Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere questa legge della reciprocità. Con il dono del suo Spirito, Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito, che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una nuova fraternità e solidarietà, vero riflesso del mistero di reciproca donazione e accoglienza proprio della Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova, che dona ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità per vivere reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro, partecipando all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua misura.

77. Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il comandamento del « non uccidere ». Per il cristiano, quindi, esso implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. « Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (1 Gv 3, 16).

Il comandamento del « non uccidere », anche nei suoi contenuti più positivi di rispetto, amore e promozione della vita umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona nella coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti può essere conosciuto alla luce della ragione e può essere osservato grazie all'opera misteriosa dello Spirito che, soffiando dove vuole (cf. Gv 3, 8), raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo.

È dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad assicurare al nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma soprattutto quando è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo l'incondizionato rispetto della vita umana a fondamento di una rinnovata società.

Ci è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni donna e di lavorare con costanza e con coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato da troppi segni di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della vita, frutto della cultura della verità e dell'amore.


CAPITOLO IV

L'AVETE FATTO A ME

PER UNA NUOVA CULTURA DELLA VITA UMANA

« Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose » (1 Pt 2, 9): il popolo della vita e per la vita

78. La Chiesa ha ricevuto il Vangelo come annuncio e fonte di gioia e di salvezza. L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato dal Padre « per annunziare ai poveri un lieto messaggio » (Lc 4, 18). L'ha ricevuto mediante gli Apostoli, da Lui mandati in tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt 28, 19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la Chiesa sente risuonare in se stessa ogni giorno la parola ammonitrice dell'Apostolo: « Guai a me se non predicassi il Vangelo » (1 Cor 9, 16). « Evangelizzare, infatti, — come scriveva Paolo VI — è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare ».(101)

L'evangelizzazione è un'azione globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella sua partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e regale del Signore Gesù. Essa, pertanto, comporta inscindibilmente le dimensioni dell'annuncio, della celebrazione e del servizio della carità. È un atto profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi e il proprio ministero.

Così è anche quando si tratta di annunciare il Vangelo della vita, parte integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di questo Vangelo noi siamo al servizio, sostenuti dalla consapevolezza di averlo ricevuto in dono e di essere inviati a proclamarlo a tutta l'umanità « fino agli estremi confini della terra » (At 1, 8). Nutriamo perciò umile e grata coscienza di essere il popolo della vita e per la vita e in tal modo ci presentiamo davanti a tutti.

79. Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore gratuito, ci ha donato il Vangelo della vita e da questo stesso Vangelo noi siamo stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati dall' « autore della vita » (At 3, 15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1 Cor 6, 20; 7, 23; 1 Pt 1, 19) e mediante il lavacro battesimale siamo stati inseriti in lui (cf. Rm 6, 4-5; Col 2, 12), come rami che dall'unico albero traggono linfa e fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati interiormente dalla grazia dello Spirito, « che è Signore e dà la vita », siamo diventati un popolo per la vita e come tali siamo chiamati a comportarci.

Siamo mandati: essere al servizio della vita non è per noi un vanto, ma un dovere, che nasce dalla coscienza di essere « il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose » (1 Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci guida e ci sostiene la legge dell'amore: è l'amore di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto uomo, che « morendo ha dato la vita al mondo ».(102)

Siamo mandati come popolo. L'impegno a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È una responsabilità propriamente « ecclesiale », che esige l'azione concertata e generosa di tutti i membri e di tutte le articolazioni della comunità cristiana. Il compito comunitario però non elimina né diminuisce la responsabilità della singola persona, alla quale è rivolto il comando del Signore a « farsi prossimo » di ogni uomo: « Và e anche tu fà lo stesso » (Lc 10, 37).

Tutti insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo nella liturgia e nell'intera esistenza, diservirlo con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione.

« Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a voi » (1 Gv 1, 3): annunciare il Vangelo della vita

80. « Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1 Gv 1, 1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non abbiamo altro da dire e da testimoniare.

È proprio l'annuncio di Gesù ad essere annuncio della vita. Egli, infatti, è « il Verbo della vita » (1 Gv 1, 1). In lui « la vita si è fatta visibile » (1 Gv 1, 2); anzi lui stesso è « la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi » (ivi). Questa stessa vita, grazie al dono dello Spirito, è stata comunicata all'uomo. Ordinata alla vita in pienezza, la « vita eterna », anche la vita terrena di ciascuno acquista il suo senso pieno.

Illuminati da questo Vangelo della vita, sentiamo il bisogno di proclamarlo e di testimoniarlo nella novità sorprendente che lo contraddistingue: poiché si identifica con Gesù stesso, apportatore di ogni novità (103) e vincitore della « vecchiezza » che deriva dal peccato e porta alla morte,(104) tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a quali sublimi altezze viene elevata, per grazia, la dignità della persona. Così la contempla san Gregorio di Nissa: « L'uomo che, tra gli esseri, non conta nulla, che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato dal Dio dell'universo come figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui eccellenza e grandezza nessuno può vedere, ascoltare e comprendere. Con quale parola, pensiero o slancio dello spirito si potrà esaltare la sovrabbondanza di questa grazia? L'uomo sorpassa la sua natura: da mortale diventa immortale, da perituro imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio ».(105)

La gratitudine e la gioia per l'incommensurabile dignità dell'uomo ci spinge a rendere tutti partecipi di questo messaggio: « Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1 Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo della vita al cuore di ogni uomo e donna e immetterlo nelle pieghe più recondite dell'intera società.

81. Si tratta di annunciare anzitutto il centro di questo Vangelo. Esso è annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci chiama a una profonda comunione con sé e ci apre alla speranza certa della vita eterna; è affermazione dell'inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità; è presentazione della vita umana come vita di relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo amore; è proclamazione dello straordinario rapporto di Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in ogni volto umano il volto di Cristo; è indicazione del « dono sincero di sé » quale compito e luogo di realizzazione piena della propria libertà.

Nello stesso tempo, si tratta di additare tutte le conseguenze di questo stesso Vangelo, che così si possono riassumere: la vita umana, dono prezioso di Dio, è sacra e inviolabile e per questo, in particolare, sono assolutamente inaccettabili l'aborto procurato e l'eutanasia; la vita dell'uomo non solo non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni amorosa attenzione; la vita trova il suo senso nell'amore ricevuto e donato, nel cui orizzonte attingono piena verità la sessualità e la procreazione umana; in questo amore anche la sofferenza e la morte hanno un senso e, pur permanendo il mistero che le avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il rispetto per la vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre ordinate all'uomo e al suo sviluppo integrale; l'intera società deve rispettare, difendere e promuovere la dignità di ogni persona umana, in ogni momento e condizione della sua vita.

82. Per essere veramente un popolo al servizio della vita dobbiamo, con costanza e coraggio, proporre questi contenuti fin dal primo annuncio del Vangelo e, in seguito, nella catechesi e nelle diverse forme di predicazione, nel dialogo personale e in ogni azione educativa. Agli educatori, insegnanti, catechisti e teologi, spetta il compito di mettere in risalto le ragioni antropologiche che fondano e sostengono il rispetto di ogni vita umana. In tal modo, mentre faremo risplendere l'originale novità del Vangelo della vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla luce della ragione e dell'esperienza, come il messaggio cristiano illumini pienamente l'uomo e il significato del suo essere ed esistere; troveremo preziosi punti di incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far sorgere una nuova cultura della vita.

Circondati dalle voci più contrastanti, mentre molti rigettano la sana dottrina intorno alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a noi la supplica indirizzata da Paolo a Timoteo: « Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina » (2 Tm 4, 2). Questa esortazione deve risuonare con particolare vigore nel cuore di quanti, nella Chiesa, partecipano più direttamente, a diverso titolo, alla sua missione di « maestra » della verità. Risuoni innanzitutto per noi Vescovi: a noi per primi è chiesto di farci annunciatori instancabili delVangelo della vita; a noi è pure affidato il compito di vigilare sulla trasmissione integra e fedele dell'insegnamento riproposto in questa Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune perché i fedeli siano preservati da ogni dottrina ad esso contraria. Una speciale attenzione dobbiamo porre perché nelle facoltà teologiche, nei seminari e nelle diverse istituzioni cattoliche venga diffusa, illustrata e approfondita la conoscenza della sana dottrina.(106) L'esortazione di Paolo risuoni per tutti i teologi, per i pastori e per quanti altri svolgono compiti diinsegnamento, catechesi e formazione delle coscienze: consapevoli del ruolo ad essi spettante, non si assumano mai la grave responsabilità di tradire la verità e la loro stessa missione esponendo idee personali contrarie al Vangelo della vita quale il Magistero fedelmente ripropone e interpreta.

Nell'annunciare questo Vangelo, non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo (cf. Rm 12, 2). Dobbiamo essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 15, 19; 17, 16), con la forza che ci viene da Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha vinto il mondo (cf. Gv 16, 33).

« Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio » (Sal 139/138, 14): celebrare il Vangelo della vita

83. Mandati nel mondo come « popolo per la vita », il nostro annuncio deve diventare anche una vera e propria celebrazione del Vangelo della vita. È anzi questa stessa celebrazione, con la forza evocativa dei suoi gesti, simboli e riti, a diventare luogo prezioso e significativo per trasmettere la bellezza e la grandezza di questo Vangelo.

A tal fine, urge anzitutto coltivare, in noi e negli altri, uno sguardo contemplativo.(107) Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio (cf. Sal 139/138, 14). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende d'impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn 1, 27; Sal 8, 6). Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà.

È tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci, con l'animo colmo di religioso stupore, di venerare e onorare ogni uomo, come ci invitava a fare Paolo VI in uno dei suoi messaggi natalizi.(108) Animato da questo sguardo contemplativo, il popolo nuovo dei redenti non può non prorompere in inni di gioia, di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile della vita, per il mistero della chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di grazia e a un'esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e Padre.

84. Celebrare il Vangelo della vita significa celebrare il Dio della vita, il Dio che dona la vita: « Noi dobbiamo celebrare la Vita eterna, dalla quale procede qualsiasi altra vita. Da essa riceve la vita, proporzionalmente alle sue capacità, ogni essere che partecipa in qualche modo alla vita. Questa Vita divina, che è al di sopra di qualsiasi vita, vivifica e conserva la vita. Qualsiasi vita e qualsiasi movimento vitale procedono da questa Vita che trascende ogni vita ed ogni principio di vita. Ad essa le anime debbono la loro incorruttibilità, come pure grazie ad essa vivono tutti gli animali e tutte le piante, che ricevono della vita l'eco più debole. Agli uomini, esseri composti di spirito e di materia, la Vita dona la vita. Se poi ci accade di abbandonarla, allora la Vita, per il traboccare del suo amore verso l'uomo, ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci promette di condurci, anime e corpi, alla vita perfetta, all'immortalità. È troppo poco dire che questa Vita è viva: essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica di vita. Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è Vita che trabocca vita ».(109)

Anche noi, come il Salmista, nella preghiera quotidiana, individuale e comunitaria, lodiamo e benediciamo Dio nostro Padre, che ci ha tessuti nel seno materno e ci ha visti e amati quando ancora eravamo informi (cf. Sal 139/138, 13. 15-16), ed esclamiamo con gioia incontenibile: « Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo » (Sal 139/138, 14). Sì, « questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d'essere cantato in gaudio e in gloria ».(110) Di più, l'uomo e la sua vita non ci appaiono solo come uno dei prodigi più alti della creazione: all'uomo Dio ha conferito una dignità quasi divina (cf. Sal 8, 6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni uomo che vive o che muore noi riconosciamo l'immagine della gloria di Dio: questa gloria noi celebriamo in ogni uomo, segno del Dio vivente, icona di Gesù Cristo.

Siamo chiamati ad esprimere stupore e gratitudine per la vita ricevuta in dono e ad accogliere, gustare e comunicare il Vangelo della vita non solo con la preghiera personale e comunitaria, ma soprattutto con le celebrazioni dell'anno liturgico. Sono qui da ricordare in particolare i Sacramenti, segni efficaci della presenza e dell'azione salvifica del Signore Gesù nell'esistenza cristiana: essi rendono gli uomini partecipi della vita divina, assicurando loro l'energia spirituale necessaria per realizzare nella sua piena verità il significato del vivere, del soffrire e del morire. Grazie ad una genuina riscoperta del senso dei riti e ad una loro adeguata valorizzazione, le celebrazioni liturgiche, soprattutto quelle sacramentali, saranno sempre più in grado di esprimere la verità piena sulla nascita, la vita, la sofferenza e la morte, aiutando a vivere queste realtà come partecipazione al mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

85. Nella celebrazione del Vangelo della vita occorre saperapprezzare e valorizzare anche i gesti e i simboli, di cui sono ricche le diverse tradizioni e consuetudini culturali e popolari. Sono momenti e forme di incontro con cui, nei diversi Paesi e culture, si manifestano la gioia per una vita che nasce, il rispetto e la difesa di ogni esistenza umana, la cura per chi soffre o è nel bisogno, la vicinanza all'anziano o al morente, la condivisione del dolore di chi è nel lutto, la speranza e il desiderio dell'immortalità.

In questa prospettiva, accogliendo anche il suggerimento offerto dai Cardinali nel Concistoro del 1991, propongo che si celebri ogni anno nelle varie Nazioni una Giornata per la Vita, quale già si attua ad iniziativa di alcune Conferenze Episcopali. È necessario che tale Giornata venga preparata e celebrata con l'attiva partecipazione di tutte le componenti della Chiesa locale. Suo scopo fondamentale è quello di suscitare, nelle coscienze, nelle famiglie, nella Chiesa e nella società civile, il riconoscimento del senso e del valore della vita umana in ogni suo momento e condizione, ponendo particolarmente al centro dell'attenzione la gravità dell'aborto e dell'eutanasia, senza tuttavia trascurare gli altri momenti e aspetti della vita, che meritano di essere presi di volta in volta in attenta considerazione, secondo quanto suggerito dall'evolversi della situazione storica.

86. Nella logica del culto spirituale gradito a Dio (cf. Rm 12, 1), la celebrazione del Vangelo della vita chiede di realizzarsi soprattutto nell'esistenza quotidiana, vissuta nell'amore per gli altri e nella donazione di se stessi. Sarà così tutta la nostra esistenza a farsi accoglienza autentica e responsabile del dono della vita e lode sincera e riconoscente a Dio che ci ha fatto tale dono. È quanto già avviene in tantissimi gesti di donazione, spesso umile e nascosta, compiuti da uomini e donne, bambini e adulti, giovani e anziani, sani e ammalati.

È in questo contesto, ricco di umanità e di amore, che nascono anche i gesti eroici. Essi sono la celebrazione più solenne del Vangelo della vita, perché lo proclamano con il dono totale di sé; sono la manifestazione luminosa del grado più elevato di amore, che è dare la vita per la persona amata (cf. Gv 15, 13); sono la partecipazione al mistero della Croce, nella quale Gesù svela quanto valore abbia per lui la vita di ogni uomo e come questa si realizzi in pienezza nel dono sincero di sé. Al di là dei fatti clamorosi, c'è l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che alimentano un'autentica cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza.

A tale eroismo del quotidiano appartiene la testimonianza silenziosa, ma quanto mai feconda ed eloquente, di « tutte le madri coraggiose, che si dedicano senza riserve alla propria famiglia, che soffrono nel dare alla luce i propri figli, e poi sono pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare ogni sacrificio, per trasmettere loro quanto di meglio esse custodiscono in sé ».(111) Nel vivere la loro missione « non sempre queste madri eroiche trovano sostegno nel loro ambiente. Anzi, i modelli di civiltà, spesso promossi e propagati dai mezzi di comunicazione, non favoriscono la maternità. Nel nome del progresso e della modernità vengono presentati come ormai superati i valori della fedeltà, della castità, del sacrificio, nei quali si sono distinte e continuano a distinguersi schiere di spose e di madri cristiane... Vi ringraziamo, madri eroiche, per il vostro amore invincibile! Vi ringraziamo per l'intrepida fiducia in Dio e nel suo amore. Vi ringraziamo per il sacrificio della vostra vita... Cristo nel Mistero pasquale vi restituisce il dono che gli avete fatto. Egli infatti ha il potere di restituirvi la vita che gli avete portato in offerta ».(112)

« Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? » (Gc 2, 14): servire il Vangelo della vita

87. In forza della partecipazione alla missione regale di Cristo, il sostegno e la promozione della vita umana devono attuarsi mediante il servizio della carità, che si esprime nella testimonianza personale, nelle diverse forme di volontariato, nell'animazione sociale e nell'impegno politico. È, questa, un'esigenza particolarmente pressante nell'ora presente, nella quale la « cultura della morte » così fortemente si contrappone alla « cultura della vita » e spesso sembra avere il sopravvento. Ancor prima, però, è un'esigenza che nasce dalla « fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5, 6), come ci ammonisce la Lettera di Giacomo: « Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa » (2, 14-17).

Nel servizio della carità c'è un atteggiamento che ci deve animare e contraddistinguere: dobbiamo prenderci cura dell'altro in quanto persona affidata da Dio alla nostra responsabilità. Come discepoli di Gesù, siamo chiamati a farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc 10, 29-37), riservando una speciale preferenza a chi è più povero, solo e bisognoso. Proprio attraverso l'aiuto all'affamato, all'assetato, al forestiero, all'ignudo, al malato, al carcerato — come pure al bambino non ancora nato, all'anziano sofferente o vicino alla morte — ci è dato di servire Gesù, come Egli stesso ha dichiarato: « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Per questo, non possiamo non sentirci interpellati e giudicati dalla pagina sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità ».(113)

Il servizio della carità nei riguardi della vita deve essere profondamente unitario: non può tollerare unilateralismi e discriminazioni, perché la vita umana è sacra e inviolabile in ogni sua fase e situazione; essa è un bene indivisibile. Si tratta dunque di « prendersi cura » di tutta la vita e della vita di tutti. Anzi, ancora più profondamente, si tratta di andare fino alle radici stesse della vita e dell'amore.

Proprio partendo da un amore profondo per ogni uomo e donna, si è sviluppata lungo i secoli una straordinaria storia di carità, che ha introdotto nella vita ecclesiale e civile numerose strutture di servizio alla vita, che suscitano l'ammirazione di ogni osservatore non prevenuto. È una storia che, con rinnovato senso di responsabilità, ogni comunità cristiana deve continuare a scrivere con una molteplice azione pastorale e sociale. In tal senso si devono mettere in atto forme discrete ed efficaci diaccompagnamento della vita nascente, con una speciale vicinanza a quelle mamme che, anche senza il sostegno del padre, non temono di mettere al mondo il loro bambino e di educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla vita nella marginalità o nella sofferenza, specie nelle sue fasi finali.

88. Tutto questo comporta una paziente e coraggiosa opera educativa che solleciti tutti e ciascuno a farsi carico dei pesi degli altri (cf. Gal 6, 2); richiede una continua promozione di vocazioni al servizio, in particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti e iniziative concrete, stabili ed evangelicamente ispirate.

Molteplici sono gli strumenti da valorizzare con competenza e serietà di impegno. Alle sorgenti della vita, i centri per i metodi naturali di regolazione della fertilità vanno promossi come un valido aiuto per la paternità e maternità responsabili, nella quale ogni persona, a cominciare dal figlio, è riconosciuta e rispettata per se stessa e ogni scelta è animata e guidata dal criterio del dono sincero di sé. Anche i consultori matrimoniali e familiari, mediante la loro specifica azione di consulenza e di prevenzione, svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione cristiana della persona, della coppia e della sessualità, costituiscono un prezioso servizio per riscoprire il senso dell'amore e della vita e per sostenere e accompagnare ogni famiglia nella sua missione di « santuario della vita ». A servizio della vita nascente si pongono pure i centri di aiuto alla vita e le case o i centri di accoglienza della vita. Grazie alla loro opera, non poche madri nubili e coppie in difficoltà ritrovano ragioni e convinzioni e incontrano assistenza e sostegno per superare disagi e paure nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce.

Di fronte alla vita in condizioni di disagio, di devianza, di malattia e di marginalità, altri strumenti — come le comunità di recupero per tossicodipendenti, le comunità alloggio per i minori o per i malati mentali, i centri di cura e accoglienza per malati di AIDS, le cooperative di solidarietà soprattutto per i disabili — sono espressione eloquente di ciò che la carità sa inventare per dare a ciascuno ragioni nuove di speranza e possibilità concrete di vita.

Quando poi l'esistenza terrena volge al termine, è ancora la carità a trovare le modalità più opportune perché gli anziani, specialmente se non autosufficienti, e i cosiddetti malati terminali possano godere di un'assistenza veramente umana e ricevere risposte adeguate alle loro esigenze, in particolare alla loro angoscia e solitudine. Insostituibile è in questi casi il ruolo delle famiglie; ma esse possono trovare grande aiuto nelle strutture sociali di assistenza e, quando necessario, nel ricorso alle cure palliative, avvalendosi degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti sia nei luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio.

In particolare, deve essere riconsiderato il ruolo degli ospedali, delle cliniche e delle case di cura: la loro vera identità non è solo quella di strutture nelle quali ci si prende cura dei malati e dei morenti, ma anzitutto quella di ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la morte vengono riconosciuti ed interpretati nel loro significato umano e specificamente cristiano. In modo speciale tale identità deve mostrarsi chiara ed efficace negli istituti dipendenti da religiosi o, comunque, legati alla Chiesa.

89. Queste strutture e luoghi di servizio alla vita, e tutte le altre iniziative di sostegno e solidarietà che le situazioni potranno di volta in volta suggerire, hanno bisogno di essere animate da persone generosamente disponibili e profondamente consapevoli di quanto decisivo sia il Vangelo della vita per il bene dell'individuo e della società.

Peculiare è la responsabilità affidata agli operatori sanitari: medici, farmacisti, infermieri, cappellani, religiosi e religiose, amministratori e volontari. La loro professione li vuole custodi e servitori della vita umana. Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa dimensione etica, essi possono essere talvolta fortemente tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della vita o addirittura in operatori di morte. Di fronte a tale tentazione la loro responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità.

Il rispetto assoluto di ogni vita umana innocente esige anchel'esercizio dell'obiezione di coscienza di fronte all'aborto procurato e all'eutanasia. Il « far morire » non può mai essere considerato come una cura medica, neppure quando l'intenzione fosse solo quella di assecondare una richiesta del paziente: è, piuttosto, la negazione della professione sanitaria che si qualifica come un appassionato e tenace « sì » alla vita. Anche la ricerca biomedica, campo affascinante e promettente di nuovi grandi benefici per l'umanità, deve sempre rifiutare sperimentazioni, ricerche o applicazioni che, misconoscendo l'inviolabile dignità dell'essere umano, cessano di essere a servizio degli uomini e si trasformano in realtà che, mentre sembrano soccorrerli, li opprimono.

90. Uno specifico ruolo sono chiamate a svolgere le persone impegnate nel volontariato: esse offrono un apporto prezioso nel servizio alla vita, quando sanno coniugare capacità professionale e amore generoso e gratuito. Il Vangelo della vita le spinge ad elevare i sentimenti di semplice filantropia all'altezza della carità di Cristo; a riconquistare ogni giorno, tra fatiche e stanchezze, la coscienza della dignità di ogni uomo; ad andare alla scoperta dei bisogni delle persone iniziando — se necessario — nuovi cammini là dove più urgente è il bisogno e più deboli sono l'attenzione e il sostegno.

Il realismo tenace della carità esige che il Vangelo della vita sia servito anche mediante forme di animazione sociale e di impegno politico, difendendo e proponendo il valore della vita nelle nostre società sempre più complesse e pluraliste. Singoli, famiglie, gruppi, realtà associative hanno, sia pure a titolo e in modi diversi, una responsabilità nell'animazione sociale e nell'elaborazione di progetti culturali, economici, politici e legislativi che, nel rispetto di tutti e secondo la logica della convivenza democratica, contribuiscano a edificare una società nella quale la dignità di ogni persona sia riconosciuta e tutelata, e la vita di tutti sia difesa e promossa.

Tale compito grava in particolare sui responsabili della cosa pubblica. Chiamati a servire l'uomo e il bene comune, hanno il dovere di compiere scelte coraggiose a favore della vita, innanzitutto nell'ambito delle disposizioni legislative. In un regime democratico, ove le leggi e le decisioni si formano sulla base del consenso di molti, può attenuarsi nella coscienza dei singoli che sono investiti di autorità il senso della responsabilità personale. Ma a questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un mandato legislativo o decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla propria coscienza e all'intera società di scelte eventualmente contrarie al vero bene comune. Se le leggi non sono l'unico strumento per difendere la vita umana, esse però svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una mentalità e un costume. Ripeto ancora una volta che una norma che viola il diritto naturale alla vita di un innocente è ingiusta e, come tale, non può avere valore di legge. Per questo rinnovo con forza il mio appello a tutti i politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la dignità della persona, minano alla radice la stessa convivenza civile.

La Chiesa sa che, nel contesto di democrazie pluraliste, per la presenza di forti correnti culturali di diversa impostazione, è difficile attuare un'efficace difesa legale della vita. Mossa tuttavia dalla certezza che la verità morale non può non avere un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa incoraggia i politici, cominciando da quelli cristiani, a non rassegnarsi e a compiere quelle scelte che, tenendo conto delle possibilità concrete, portino a ristabilire un ordine giusto nell'affermazione e promozione del valore della vita. In questa prospettiva, occorre rilevare che non basta eliminare le leggi inique. Si dovranno rimuovere le cause che favoriscono gli attentati alla vita, soprattutto assicurando il dovuto sostegno alla famiglia e alla maternità: la politica familiare deve essere perno e motore di tutte le politiche sociali. Pertanto, occorre avviare iniziative sociali e legislative capaci di garantire condizioni di autentica libertà nella scelta in ordine alla paternità e alla maternità; inoltre è necessario reimpostare le politiche lavorative, urbanistiche, abitative e dei servizi, perché si possano conciliare tra loro i tempi del lavoro e quelli della famiglia e diventi effettivamente possibile la cura dei bambini e degli anziani.

91. Un capitolo importante della politica per la vita è costituito oggi dalla problematica demografica. Le pubbliche autorità hanno certo la responsabilità di prendere « iniziative al fine di orientare la demografia della popolazione »; (114) ma tali iniziative devono sempre presupporre e rispettare la responsabilità primaria ed inalienabile dei coniugi e delle famiglie e non possono ricorrere a metodi non rispettosi della persona e dei suoi diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita di ogni essere umano innocente. È, quindi, moralmente inaccettabile che, per regolare le nascite, si incoraggi o addirittura si imponga l'uso di mezzi come la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto.

Ben altre sono le vie per risolvere il problema demografico: i Governi e le varie istituzioni internazionali devono innanzitutto mirare alla creazione di condizioni economiche, sociali, medico-sanitarie e culturali che consentano agli sposi di fare le loro scelte procreative in piena libertà e con vera responsabilità; devono poi sforzarsi di « potenzia re le possibilità e distribuire con maggiore giustizia le ricchezze, affinché tutti possano partecipare equamente ai beni del creato. Occorre creare soluzioni a livello mondiale, instaurando un'autentica economia di comunione e condivisione dei beni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale ».(115) Questa sola è la strada che rispetta la dignità delle persone e delle famiglie, oltre che l'autentico patrimonio culturale dei popoli.

Vasto e complesso è dunque il servizio al Vangelo della vita. Esso ci appare sempre più come ambito prezioso e favorevole per una fattiva collaborazione con i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo delle opere che il Concilio Vaticano II ha autorevolmente incoraggiato.(116) Esso, inoltre, si presenta come spazio provvidenziale per il dialogo e la collaborazione con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà: la difesa e la promozione della vita non sono monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità di tutti. La sfida che ci sta di fronte, alla vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde cooperazione di quanti credono nel valore della vita potrà evitare una sconfitta della civiltà dalle conseguenze imprevedibili.

« Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo » (Sal 126/125, 3): la famiglia « santuario della vita »

92. All'interno del « popolo della vita e per la vita »,decisiva è la responsabilità della famiglia: è una responsabilità che scaturisce dalla sua stessa natura — quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio — e dalla sua missione di « custodire, rivelare e comunicare l'amore ».(117) È in questione l'amore stesso di Dio, del quale i genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la vita e nell'educarla secondo il suo progetto di Padre.(118) È quindi l'amore che si fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti.

La famiglia è chiamata in causa nell'intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte. Essa è veramente « ilsantuario della vita..., il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana ».(119) Per questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita.

Come chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. È un compito che riguarda innanzitutto i coniugi, chiamati ad essere trasmettitori della vita, sulla base di una sempre rinnovata consapevolezza del senso della generazione, come evento privilegiato nel quale si manifesta che la vita umana è un dono ricevuto per essere a sua volta donato. Nella procreazione di una nuova vita i genitori avvertono che il figlio « se è frutto della loro reciproca donazione d'amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce dal dono ».(120)

È soprattutto attraverso l'educazione dei figli che la famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo della vita. Con la parola e con l'esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e coltivano in loro il rispetto dell'altro, il senso della giustizia, l'accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti a vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei genitori cristiani deve farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto perché adempiano la vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa dei genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell'ambito familiare.

93. La famiglia, inoltre, celebra il Vangelo della vita con la preghiera quotidiana, individuale e familiare: con essa loda e ringrazia il Signore per il dono della vita ed invoca luce e forza per affrontare i momenti di difficoltà e di sofferenza, senza mai smarrire la speranza. Ma la celebrazione che dà significato ad ogni altra forma di preghiera e di culto è quella che s'esprime nell'esistenza quotidiana della famiglia, se è un'esistenza fatta di amore e donazione.

La celebrazione si trasforma così in un servizio al Vangelo della vita, che si esprime attraverso la solidarietà, sperimentata dentro e intorno alla famiglia come attenzione premurosa, vigile e cordiale nelle azioni piccole e umili di ogni giorno. Un'espressione particolarmente significativa di solidarietà tra le famiglie è la disponibilità all'adozione o all'affidamento dei bambini abbandonati dai loro genitori o comunque in situazioni di grave disagio. Il vero amore paterno e materno sa andare al di là dei legami della carne e del sangue ed accogliere anche bambini di altre famiglie, offrendo ad essi quanto è necessario per la loro vita ed il loro pieno sviluppo. Tra le forme di adozione, merita di essere proposta anche l'adozione a distanza, da preferire nei casi in cui l'abbandono ha come unico motivo le condizioni di grave povertà della famiglia. Con tale tipo di adozione, infatti, si offrono ai genitori gli aiuti necessari per mantenere ed educare i propri figli, senza doverli sradicare dal loro ambiente naturale.

Intesa come « determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune »,(121) la solidarietà chiede di attuarsi anche attraverso forme di partecipazione sociale e politica. Di conseguenza, servire il Vangelo della vita comporta che le famiglie, specie partecipando ad apposite associazioni, si adoperino affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma lo difendano e lo promuovano.

94. Un posto particolare va riconosciuto agli anziani. Mentre in alcune culture la persona più avanzata in età rimane inserita nella famiglia con un ruolo attivo importante, in altre culture invece chi è vecchio è sentito come un peso inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile contesto può sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere all'eutanasia.

L'emarginazione o addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro presenza in famiglia, o almeno la vicinanza ad essi della famiglia quando per la ristrettezza degli spazi abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse possibile, sono di fondamentale importanza nel creare un clima di reciproco scambio e di arricchente comunicazione fra le varie età della vita. È importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca dove è andato smarrito, una sorta di « patto » tra le generazioni, così che i genitori anziani, giunti al termine del loro cammino, possano trovare nei figli l'accoglienza e la solidarietà che essi hanno avuto nei loro confronti quando s'affacciavano alla vita: lo esige l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la madre (cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è di più. L'anziano non è da considerare solo oggetto di attenzione, vicinanza e servizio. Anch'egli ha un prezioso contributo da portare al Vangelo della vita. Grazie al ricco patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e deve essere dispensatore di sapienza, testimone di speranza e di carità.

Se è vero che « l'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia »,(122) si deve riconoscere che le odierne condizioni sociali, economiche e culturali rendono spesso più arduo e faticoso il compito della famiglia nel servire la vita. Perché possa realizzare la sua vocazione di « santuario della vita », quale cellula di una società che ama e accoglie la vita, è necessario e urgente che la famiglia stessa sia aiutata e sostenuta. Le società e gli Stati le devono assicurare tutto quel sostegno, anche economico che è necessario perché le famiglie possano rispondere in modo più umano ai propri problemi. Da parte sua la Chiesa deve promuovere instancabilmente una pastorale familiare capace di stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere con gioia e con coraggio la sua missione nei confronti del Vangelo della vita.

« Comportatevi come i figli della luce » (Ef 5, 8): per realizzare una svolta culturale

95. « Comportatevi come i figli della luce... Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre » (Ef 5, 8.10-11). Nell'odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte », occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze.

Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i cristiani; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutti. L'urgenza di questa svolta culturale è legata alla situazione storica che stiamo attraversando, ma si radica nella stessa missione evangelizzatrice, propria della Chiesa. Il Vangelo, infatti, mira a « trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità »; (123) è come il lievito che fermenta tutta la pasta (cf. Mt 13, 33) e, come tale, è destinato a permeare tutte le culture e ad animarle dall'interno,(124) perché esprimano l'intera verità sull'uomo e sulla sua vita.

Si deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle stesse comunità cristiane. Troppo spesso i credenti, perfino quanti partecipano attivamente alla vita ecclesiale, cadono in una sorta di dissociazione tra la fede cristiana e le sue esigenze etiche a riguardo della vita, giungendo così al soggettivismo morale e a taluni comportamenti inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con grande lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia oggi diffusa tra i singoli cristiani, le famiglie, i gruppi e le comunità delle nostre Diocesi. Con altrettanta chiarezza e decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo chiamati a compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua verità. Nello stesso tempo, dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti professionali e là dove si snoda quotidianamente l'esistenza di ciascuno.

96. Il primo e fondamentale passo per realizzare questa svolta culturale consiste nella formazione della coscienza morale circa il valore incommensurabile e inviolabile di ogni vita umana. È di somma importanza riscoprire il nesso inscindibile tra vita e libertà. Sono beni indivisibili: dove è violato l'uno, anche l'altro finisce per essere violato. Non c'è libertà vera dove la vita non è accolta e amata; e non c'è vita piena se non nella libertà. Ambedue queste realtà hanno poi un riferimento nativo e peculiare, che le lega indissolubilmente: la vocazione all'amore. Questo amore, come dono sincero di sé,(125) è il senso più vero della vita e della libertà della persona.

Non meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla verità. Come ho ribadito più volte, sradicare la libertà dalla verità oggettiva rende impossibile fondare i diritti della persona su una solida base razionale e pone le premesse perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile dei singoli o il totalitarismo mortificante del pubblico potere.(126)

È essenziale allora che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona. Qui soprattutto si svela che « al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio ».(127) Quando si nega Dio e si vive come se Egli non esistesse, o comunque non si tiene conto dei suoi comandamenti, si finisce facilmente per negare o compromettere anche la dignità della persona umana e l'inviolabilità della sua vita.

97. Alla formazione della coscienza è strettamente connessal'opera educativa, che aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce sempre più profondamente nella verità, lo indirizza verso un crescente rispetto della vita, lo forma alle giuste relazioni tra le persone.

In particolare, è necessario educare al valore della vitacominciando dalle sue stesse radici. È un'illusione pensare di poter costruire una vera cultura della vita umana, se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere la sessualità, l'amore e l'intera esistenza secondo il loro vero significato e nella loro intima correlazione. La sessualità, ricchezza di tutta la persona, « manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono di sé nell'amore ».(128) La banalizzazione della sessualità è tra i principali fattori che stanno all'origine del disprezzo della vita nascente: solo un amore vero sa custodire la vita. Non ci si può, quindi, esimere dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica educazione alla sessualità e all'amore, un'educazione implicante la formazione alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la rende capace di rispettare il significato « sponsale » del corpo.

L'opera di educazione alla vita comporta la formazione dei coniugi alla procreazione responsabile. Questa, nel suo vero significato, esige che gli sposi siano docili alla chiamata del Signore e agiscano come fedeli interpreti del suo disegno: ciò avviene con l'aprire generosamente la famiglia a nuove vite, e comunque rimanendo in atteggiamento di apertura e di servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel rispetto della legge morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o a tempo indeterminato una nuova nascita. La legge morale li obbliga in ogni caso a governare le tendenze dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi biologiche iscritte nella loro persona. Proprio tale rispetto rende legittimo, a servizio della responsabilità nel procreare, il ricorso ai metodi naturali di regolazione della fertilità: essi vengono sempre meglio precisati dal punto di vista scientifico e offrono possibilità concrete per scelte in armonia con i valori morali. Una onesta considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i coniugi nonché gli operatori sanitari e sociali circa l'importanza di un'adeguata formazione al riguardo. La Chiesa è riconoscente verso coloro che con sacrificio personale e dedizione spesso misconosciuta si impegnano nella ricerca e nella diffusione di tali metodi, promovendo al tempo stesso un'educazione ai valori morali che il loro uso suppone.

L'opera educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la morte. In realtà, esse fanno parte dell'esperienza umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere aiutato a coglierne, nella concreta e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono vissuti in stretta connessione con l'amore ricevuto e donato. In questa prospettiva ho voluto che si celebrasse ogni anno la Giornata Mondiale del Malato, sottolineando « l'indole salvifica dell'offerta della sofferenza, che vissuta in comunione con Cristo appartiene all'essenza stessa della redenzione ».(129) Del resto perfino la morte è tutt'altro che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza di partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione.

98. In sintesi, possiamo dire che la svolta culturale qui auspicata esige da tutti il coraggio di assumere un nuovo stile di vita che s'esprime nel porre a fondamento delle scelte concrete — a livello personale, familiare, sociale e internazionale — la giusta scala dei valori: il primato dell'essere sull'avere,(130) della persona sulle cose.(131) Questo rinnovato stile di vita implica anche il passaggio dall'indifferenza all'interessamento per l'altro e dal rifiuto alla sua accoglienza: gli altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro stessa presenza.

Nella mobilitazione per una nuova cultura della vita nessuno si deve sentire escluso: tutti hanno un ruolo importante da svolgere. Insieme con quello delle famiglie, particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti e degli educatori. Molto dipenderà da loro se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società.

Anche gli intellettuali possono fare molto per costruire una nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell'elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica. Alimentando il loro genio e la loro azione alle chiare linfe del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una nuova cultura della vita con la produzione di contributi seri, documentati e capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e all'interesse di tutti. Proprio in questa prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per la Vita con il compito di « studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del magistero della Chiesa ».(132) Uno specifico apporto dovrà venire anche dalle Università, in particolare da quellecattoliche, e dai Centri, Istituti e Comitati di bioetica.

Grande e grave è la responsabilità degli operatori dei mass media, chiamati ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi con tanta efficacia contribuiscano alla cultura della vita. Devono allora presentare esempi alti e nobili di vita e dare spazio alle testimonianze positive e talvolta eroiche di amore all'uomo; proporre con grande rispetto i valori della sessualità e dell'amore, senza indugiare su ciò che deturpa e svilisce la dignità dell'uomo. Nella lettura della realtà, devono rifiutare di mettere in risalto quanto può insinuare o far crescere sentimenti o atteggiamenti di indifferenza, di disprezzo o di rifiuto nei confronti della vita. Nella scrupolosa fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a coniugare insieme la libertà di informazione, il rispetto di ogni persona e un profondo senso di umanità.

99. Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un « nuovo femminismo » che, senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli « maschilisti », sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento.

Riprendendo le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II, rivolgo anch'io alle donne il pressante invito: « Riconciliate gli uomini con la vita ».(133) Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell'amore autentico, di quel dono di sé e di quella accoglienza dell'altro che si realizzano in modo specifico nella relazione coniugale, ma che devono essere l'anima di ogni altra relazione interpersonale. L'esperienza della maternità favorisce in voi una sensibilità acuta per l'altra persona e, nel contempo, vi conferisce un compito particolare: « La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna... Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso l'uomo — non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere — tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna ».(134) La madre, infatti, accoglie e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere dentro di sé, gli fa spazio, rispettandolo nella sua alterità. Così, la donna percepisce e insegna che le relazioni umane sono autentiche se si aprono all'accoglienza dell'altra persona, riconosciuta e amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere persona e non da altri fattori, quali l'utilità, la forza, l'intelligenza, la bellezza, la salute. Questo è il contributo fondamentale che la Chiesa e l'umanità si attendono dalle donne. Ed è la premessa insostituibile per un'autentica svolta culturale.

Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto e potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo.

100. In questo grande sforzo per una nuova cultura della vita siamo sostenuti e animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo della vita, come il Regno di Dio, cresce e dà i suoi frutti abbondanti (cf. Mc 4, 26-29). È certamente enorme la sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e potenti, di cui sono dotate le forze operanti a sostegno della « cultura della morte » e quelli di cui dispongono i promotori di una « cultura della vita e dell'amore ». Ma noi sappiamo di poter confidare sull'aiuto di Dio, al quale nulla è impossibile (cf. Mt 19, 26).

Con questa certezza nel cuore, e mosso da accorata sollecitudine per le sorti di ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle famiglie impegnate nei loro difficili compiti fra le insidie che le minacciano: (135) èurgente una grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo intero. Con iniziative straordinarie e nella preghiera abituale, da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente, si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante della vita. Gesù stesso ci ha mostrato col suo esempio che preghiera e digiuno sono le armi principali e più efficaci contro le forze del male (cf. Mt 4, 1-11) e ha insegnato ai suoi discepoli che alcuni demoni non si scacciano se non in questo modo (cf. Mc 9, 29). Ritroviamo, dunque, l'umiltà e il coraggio di pregare e digiunare, per ottenere che la forza che viene dall'Alto faccia crollare i muri di inganni e di menzogne, che nascondono agli occhi di tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori a propositi e intenti ispirati alla civiltà della vita e dell'amore.

« Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Gv 1, 4): il Vangelo della vita è per la città degli uomini

101. « Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Gv 1, 4). La rivelazione del Vangelo della vita ci è data come bene da comunicare a tutti: perché tutti gli uomini siano in comunione con noi e con la Trinità (cf. 1 Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere nella gioia piena se non comunicassimo questo Vangelo agli altri, ma lo tenessimo solo per noi stessi.

Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita c'è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti.

Per questo, la nostra azione di « popolo della vita e per la vita » domanda di essere interpretata in modo giusto e accolta con simpatia. Quando la Chiesa dichiara che il rispetto incondizionato del diritto alla vita di ogni persona innocente — dal concepimento alla sua morte naturale — è uno dei pilastri su cui si regge ogni società civile, essa « vuole semplicemente promuovere uno Stato umano. Uno Stato che riconosca come suo primario dovere la difesa dei diritti fondamentali della persona umana, specialmente di quella più debole ».(136)

Il Vangelo della vita è per la città degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento della società mediante l'edificazione del bene comune. Non è possibile, infatti, costruire il bene comune senza riconoscere e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili dell'essere umano. Né può avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando o tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata. Solo il rispetto della vita può fondare e garantire i beni più preziosi e necessari della società, come la democrazia e la pace.

Infatti, non ci può essere vera democrazia, se non si riconosce la dignità di ogni persona e non se ne rispettano i diritti.

Non ci può essere neppure vera pace, se non si difende e promuove la vita, come ricordava Paolo VI: « Ogni delitto contro la vita è un attentato contro la pace, specialmente se esso intacca il costume del popolo..., mentre dove i diritti dell'uomo sono realmente professati e pubblicamente riconosciuti e difesi, la pace diventa l'atmosfera lieta e operosa della convivenza sociale ».(137)

Il « popolo della vita » gioisce di poter condividere con tanti altri il suo impegno, così che sempre più numeroso sia il « popolo per la vita » e la nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene della città degli uomini.


CONCLUSIONE

102. Al termine di questa Enciclica, lo sguardo ritorna spontaneamente al Signore Gesù, il « Bambino nato per noi » (cf. Is 9, 5) per contemplare in lui « la Vita » che « si è manifestata » (1 Gv 1, 2). Nel mistero di questa nascita si compie l'incontro di Dio con l'uomo e ha inizio il cammino del Figlio di Dio sulla terra, un cammino che culminerà nel dono della vita sulla Croce: con la sua morte Egli vincerà la morte e diventerà per l'umanità intera principio di vita nuova.

Ad accogliere « la Vita » a nome di tutti e a vantaggio di tutti è stata Maria, la Vergine Madre, la quale ha quindi legami personali strettissimi con il Vangelo della vita. Il consenso di Maria all'Annunciazione e la sua maternità si trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo è venuto a donare agli uomini (cf. Gv 10, 10). Attraverso la sua accoglienza e la sua cura premurosa per la vita del Verbo fatto carne, la vita dell'uomo è stata sottratta alla condanna della morte definitiva ed eterna.

Per questo Maria « è madre di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio come la Chiesa di cui è modello. È madre di quella vita di cui tutti vivono. Generando la vita, ha come rigenerato coloro che di questa vita dovevano vivere ».(138)

Contemplando la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della propria maternità e il modo con cui è chiamata ad esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza materna della Chiesa dischiude la prospettiva più profonda per comprendere l'esperienza di Maria quale incomparabile modello di accoglienza e di cura della vita.

« Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole » (Ap 12, 1): la maternità di Maria e della Chiesa

103. Il rapporto reciproco tra il mistero della Chiesa e Maria si manifesta con chiarezza nel « segno grandioso » descritto nell'Apocalisse: « Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle » (12,1). In questo segno la Chiesa riconosce una immagine del proprio mistero: immersa nella storia, essa è consapevole di trascenderla, in quanto costituisce sulla terra il « germe e l'inizio » del Regno di Dio.(139) Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato in modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna gloriosa, nella quale il disegno di Dio si è potuto attuare con somma perfezione.

La « donna vestita di sole » — rileva il Libro dell'Apocalisse — « era incinta » (12, 2). La Chiesa è pienamente consapevole di portare in sé il Salvatore del mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a donarlo al mondo, rigenerando gli uomini alla vita stessa di Dio. Non può però dimenticare che questa sua missione è stata resa possibile dalla maternità di Maria, che ha concepito e dato alla luce colui che è « Dio da Dio », « Dio vero da Dio vero ». Maria è veramente Madre di Dio, la Theotokos nella cui maternità è esaltata al sommo grado la vocazione alla maternità inscritta da Dio in ogni donna. Così Maria si pone come modello per la Chiesa, chiamata ad essere la « nuova Eva », madre dei credenti, madre dei « viventi » (cf. Gn 3, 20).

La maternità spirituale della Chiesa non si realizza — anche di questo la Chiesa è consapevole — se non in mezzo alle doglie e al « travaglio del parto » (Ap 12, 2), cioè nella perenne tensione con le forze del male, che continuano ad attraversare il mondo ed a segnare il cuore degli uomini, facendo resistenza a Cristo: « In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta » (Gv 1, 4-5).

Come la Chiesa, anche Maria ha dovuto vivere la sua maternità nel segno della sofferenza: « Egli è qui... segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima » (Lc 2, 34-35). Nelle parole che, agli albori stessi dell'esistenza del Salvatore, Simeone rivolge a Maria è sinteticamente raffigurato quel rifiuto nei confronti di Gesù, e con Lui di Maria, che giungerà al suo vertice sul Calvario. « Presso la croce di Gesù » (Gv 19, 25), Maria partecipa al dono che il Figlio fa di sé: offre Gesù, lo dona, lo genera definitivamente per noi. Il « sì » del giorno dell'Annunciazione matura in pienezza nel giorno della Croce, quando per Maria giunge il tempo di accogliere e di generare come figlio ogni uomo divenuto discepolo, riversando su di lui l'amore redentore del Figlio: « Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio" » (Gv 19, 26).

« Il drago si pose davanti alla donna... per divorare il bambino appena nato » (Ap 12, 4): la vita insidiata dalle forze del male

104. Nel Libro dell'Apocalisse il « segno grandioso » della « donna » (12, 1) è accompagnato da « un altro segno nel cielo »: « un enorme drago rosso » (12, 3), che raffigura Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le forze del male che operano nella storia e contrastano la missione della Chiesa.

Anche in questo Maria illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità delle forze del male è, infatti, una sorda opposizione che, prima di toccare i discepoli di Gesù, si rivolge contro sua Madre. Per salvare la vita del Figlio da quanti lo temono come una pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con Giuseppe e il Bambino in Egitto (cf. Mt 2, 13-15).

Maria aiuta così la Chiesa a prendere coscienza che la vita è sempre al centro di una grande lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Il drago vuole divorare « il bambino appena nato » (Ap 12, 4), figura di Cristo, che Maria genera nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4) e che la Chiesa deve continuamente offrire agli uomini nelle diverse epoche della storia. Ma in qualche modo è anche figura di ogni uomo, di ogni bambino, specie di ogni creatura debole e minacciata, perché — come ricorda il Concilio — « con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ».(140) Proprio nella « carne » di ogni uomo, Cristo continua a rivelarsi e ad entrare in comunione con noi, così che il rifiuto della vita dell'uomo, nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di Cristo. È questa la verità affascinante ed insieme esigente che Cristo ci svela e che la sua Chiesa ripropone instancabilmente: « Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me » (Mt 18, 5); « In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40).

« Non ci sarà più la morte » (Ap 21, 4): lo splendore della risurrezione

105. L'annunciazione dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste parole rassicuranti: « Non temere, Maria » e « Nulla è impossibile a Dio » (Lc 1, 30.37). In verità, tutta l'esistenza della Vergine Madre è avvolta dalla certezza che Dio le è vicino e l'accompagna con la sua provvidente benevolenza. Così è anche della Chiesa, che trova « un rifugio » (Ap 12, 6) nel deserto, luogo della prova ma anche della manifestazione dell'amore di Dio verso il suo popolo (cf. Os 2, 16). Maria è vivente parola di consolazione per la Chiesa nella sua lotta contro la morte. Mostrandoci il Figlio, ella ci assicura che in lui le forze della morte sono già state sconfitte: « Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa ».(141)

L'Agnello immolato vive con i segni della passione nello splendore della risurrezione. Solo lui domina tutti gli eventi della storia: ne scioglie i « sigilli » (cf. Ap 5, 1-10) e afferma, nel tempo e oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nella « nuova Gerusalemme », ossia nel mondo nuovo, verso cui tende la storia degli uomini, « non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4).

E mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo fiduciosi verso « un nuovo cielo e una nuova terra » (Ap 21, 1), volgiamo lo sguardo a Colei che è per noi « segno di sicura speranza e di consolazione ».(142)

O Maria,
aurora del mondo nuovo,
Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato
di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere,
di uomini e donne vittime di disumana violenza,
di anziani e malati uccisi dall'indifferenza
o da una presunta pietà.
Fà che quanti credono nel tuo Figlio
sappiano annunciare con franchezza e amore
agli uomini del nostro tempo
il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo
come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine
in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo
con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà,
la civiltà della verità e dell'amore
a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato.

 

 

 

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