Sabato, 22 Marzo, 2025

VERITATIS SPLENDOR

LETTERA ENCICLICA
VERITATIS SPLENDOR
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
A TUTTI I VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI
DELL'INSEGNAMENTO MORALE DELLA CHIESA


Venerati Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!

Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega: « Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal 4,7).


INTRODUZIONE

Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo

1. Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, « luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9), gli uomini diventano « luce nel Signore » e « figli della luce » (Ef 5,8) e si santificano con « l'obbedienza alla verità » (1 Pt 1,22).

Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando « la verità di Dio con la menzogna » (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.

Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.

2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: « Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal 4,7).

La luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, « immagine del Dio invisibile » (Col 1,15), « irradiazione della sua gloria » (Eb 1,3), « pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14): Egli è « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: « In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ».1

Gesù Cristo, « la luce delle genti », illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15).2 Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni,3 mentre è attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo « dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto ».4

3. I Pastori della Chiesa, in comunione col Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli in questo sforzo, li accompagnano e li guidano con il loro magistero, trovando accenti sempre nuovi di amore e di misericordia per rivolgersi non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio Vaticano II rimane una testimonianza straordinaria di questo atteggiamento della Chiesa che, « esperta in umanità »,5 si pone al servizio di ogni uomo e di tutto il mondo.6

La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: « Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna ». Ed aggiunge: « Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita ».7

L'oggetto della presente Enciclica

4. Sempre, ma soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia personalmente che insieme al Collegio episcopale hanno sviluppato e proposto un insegnamento morale relativo ai molteplici e differenti ambiti della vita umana. In nome e con l'autorità di Gesù Cristo, essi hanno esortato, denunciato, spiegato; in fedeltà alla loro missione, nelle lotte in favore dell'uomo, hanno confermato, sostenuto, consolato; con la garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità hanno contribuito ad una migliore comprensione delle esigenze morali negli ambiti della sessualità umana, della famiglia, della vita sociale, economica e politica. Il loro insegnamento costituisce, all'interno della tradizione della Chiesa e della storia dell'umanità, un continuo approfondimento della conoscenza morale.8

Oggi, però, sembra necessario riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per « esortare le coscienze » e per « proporre i valori », ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.

È da rilevare, in special modo, la dissonanza tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune posizioni teologiche, diffuse anche in Seminari e Facoltà teologiche, circa questioni della massima importanza per la Chiesa e la vita di fede dei cristiani, nonché per la stessa convivenza umana. In particolare ci si chiede: i comandamenti di Dio, che sono scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte dell'Alleanza, hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle società intere? È possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio e il prossimo, senza rispettare in tutte le circostanze questi comandamenti? È anche diffusa l'opinione che mette in dubbio il nesso intrinseco e inscindibile che unisce tra loro la fede e la morale, quasi che solo in rapporto alla fede si debbano decidere l'appartenenza alla Chiesa e la sua unità interna, mentre si potrebbe tollerare nell'ambito morale un pluralismo di opinioni e di comportamenti, lasciati al giudizio della coscienza soggettiva individuale o alla diversità dei contesti sociali e culturali.

5. In un tale contesto, tuttora attuale, è maturata in me la decisione di scrivere — come già annunciai nella Lettera apostolica Spiritus Domini, pubblicata il 1o agosto 1987 in occasione del secondo centenario della morte di sant'Alfonso Maria de' Liguori — un'Enciclica destinata a trattare « più ampiamente e più profondamente le questioni riguardanti i fondamenti stessi della teologia morale »,9 fondamenti che vengono intaccati da alcune tendenze odierne.

Mi rivolgo a voi, venerati Fratelli nell'Episcopato, che condividete con me la responsabilità di custodire la « sana dottrina » (2 Tm 4,3), con l'intenzione di precisare taluni aspetti dottrinali che risultano decisivi per far fronte a quella che è senza dubbio una vera crisi, tanto gravi sono le difficoltà che ne conseguono per la vita morale dei fedeli e per la comunione nella Chiesa, come pure per un'esistenza sociale giusta e solidale.

Se questa Enciclica, da tanto tempo attesa, viene pubblicata solo ora, lo è anche perché è apparso conveniente farla precedere dal Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale contiene un'esposizione completa e sistematica della dottrina morale cristiana. Il Catechismo presenta la vita morale dei credenti nei suoi fondamenti e nei suoi molteplici contenuti come vita dei « figli di Dio »: « Riconoscendo nella fede la loro nuova dignità, i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai "da cittadini degni del Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova ».10 Nel rimandare pertanto al Catechismo « come testo di riferimento sicuro ed autorevole per l'insegnamento della dottrina cattolica »,11 l'Enciclica si limiterà ad affrontare alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa, sotto forma di un necessario discernimento su problemi controversi tra gli studiosi dell'etica e della teologia morale. È questo l'oggetto specifico della presente Enciclica, che intende esporre, sui problemi discussi, le ragioni di un insegnamento morale fondato nella Sacra Scrittura e nella viva Tradizione apostolica 12 mettendo in luce, nello stesso tempo, i presupposti e le conseguenze delle contestazioni di cui tale insegnamento è fatto segno.


CAPITOLO I

« MAESTRO, CHE COSA DEVO FARE DI BUONO...? »
(MT 19,16)

Cristo e la risposta alla domanda di morale

« Un tale gli si avvicinò... » (Mt 19,16)

6. Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: « Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi" » (Mt 19,16-21).13

7. « Ed ecco un tale... ». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo,14 unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.

Perché gli uomini possano realizzare questo « incontro » con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, « desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita ».15

« Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt 19,16)

8. Dalla profondità del cuore sorge la domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù di Nazaret, una domanda essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa riguarda, infatti, il bene morale da praticare e la vita eterna. L'interlocutore di Gesù intuisce che esiste una connessione tra il bene morale e il pieno compimento del proprio destino. Egli è un pio israelita, cresciuto per così dire all'ombra della Legge del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi interrogativi intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di confrontarsi con Colui che aveva iniziato la sua predicazione con questo nuovo e decisivo annuncio: « Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15).

Occorre che l'uomo di oggi si volga nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che è bene e ciò che è male. Egli è il Maestro, il Risorto che ha in sé la vita e che è sempre presente nella sua Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai fedeli il libro delle Scritture e, rivelando pienamente la volontà del Padre, insegna la verità sull'agire morale. Alla sorgente e al vertice dell'economia della salvezza, Alfa e Omega della storia umana (cf Ap 1,8; 21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e la sua vocazione integrale. Per questo, « l'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso ».16

Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della morale evangelica e coglierne il contenuto profondo e immutabile, dobbiamo ricercare accuratamente il senso dell'interrogativo posto dal giovane ricco del Vangelo e, più ancora, il senso della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da Lui. Gesù, infatti, con delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il giovane quasi per mano, passo dopo passo, verso la verità piena.

« Uno solo è buono » (Mt 19,17)

9. Gesù dice: « Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 17). Nella versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così formulata: « Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19).

Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo interroga. Il « Maestro buono » indica al suo interlocutore — e a tutti noi — che la risposta all'interrogativo: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? », può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che « solo è buono »: « Nessuno è buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19). Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene.

Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l'uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato « con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente » (Mt 22,37), Colui che è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù riporta la questione dell'azione moralmente buona alle sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine ultimo dell'agire umano, felicità perfetta.

10. La Chiesa, istruita dalle parole del Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine del Creatore, redento con il sangue di Cristo e santificato dalla presenza dello Spirito Santo, ha come fine ultimo della sua vita l'essere « a lode della gloria » di Dio (cf Ef 1,12), facendo sì che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. « Conosci dunque te stessa, o anima bella: tu sei l'immagine di Dio — scrive sant'Ambrogio —. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio (1 Cor 11,7). Ascolta in che modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me (Sal 1381,6), cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nella mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che tu scruti nei segreti pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e vigila su di te... ».17

Ciò che l'uomo è e deve fare si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: « Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me » (Es 20,2-3). Nelle « dieci parole » dell'Alleanza con Israele, e in tutta la Legge, Dio si fa conoscere e riconoscere come Colui che « solo è buono »; come Colui che, nonostante il peccato dell'uomo, continua a rimanere il « modello » dell'agire morale, secondo la sua stessa chiamata: « Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo » (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es 19,9-24 e 20, 18-21), per ristabilire l'originaria armonia col Creatore e con tutto il creato, ed ancor più per introdurlo nel suo amore: « Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv 26,12).

La vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti dell'uomo. È una risposta d'amore, secondo l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli » (Dt 6,47). Così, la vita morale, coinvolta nella gratuità dell'amore di Dio, è chiamata a rifletterne la gloria: « Per chi ama Dio è sufficiente piacere a Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi nessun'altra ricompensa maggiore dello stesso amore; la carità, infatti, proviene da Dio in maniera tale che Dio stesso è carità ».18

11. L'affermazione che « uno solo è buono » ci rimanda così alla « prima tavola » dei comandamenti, che chiama a riconoscere Dio come Signore unico e assoluto e a rendere culto a Lui solo a motivo della sua infinita santità (cf Es 20,2-11). Il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà (cf Mic 6,8). Riconoscere il Signore come Dio è il nucleo fondamentale, il cuore della Legge, da cui discendono e a cui sono ordinati i precetti particolari. Mediante la morale dei comandamenti si manifesta l'appartenenza del popolo di Israele al Signore, perché Dio solo è Colui che è buono. Questa è la testimonianza della Sacra Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva percezione dell'assoluta santità di Dio: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti » (Is 6,3).

Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei comandamenti, riesce a « compiere » la Legge, cioè a riconoscere il Signore come Dio e a rendergli l'adorazione che a Lui solo è dovuta (cf Mt 4,10). Il « compimento » può venire solo da un dono di Dio: è l'offerta di una partecipazione alla Bontà divina che si rivela e si comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama con le parole « Maestro buono » (Mc 10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente rivelato da Gesù stesso nell'invito: « Vieni e seguimi » (Mt 19,21).

« Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17)

12. Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm 2,15), la « legge naturale ». Questa « altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione ».19 Lo ha fatto poi nella storia di Israele, in particolare con le « dieci parole », ossia con i comandamenti del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato l'esistenza del popolo dell'Alleanza (cf Es 24) e l'ha chiamato ad essere la sua « proprietà tra tutti i popoli », « una nazione santa » (Es 19,56), che facesse risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf Sap 18,4; Ez 20,41). Il dono del Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza Nuova, quando la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta nel cuore dell'uomo (cf Ger 31, 31-34), sostituendosi alla legge del peccato, che quel cuore aveva deturpato (cf Ger 17,1). Allora verrà donato « un cuore nuovo » perché in esso abiterà « uno spirito nuovo », lo Spirito di Dio (cf Ez 36,24-28).20

Per questo, dopo l'importante precisazione: « Uno solo è buono », Gesù risponde al giovane: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17). Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai comandamenti di Dio: sono i comandamenti di Dio che indicano all'uomo la via della vita e ad essa conducono. Dalla bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini i comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e li propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento si lega a una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della promessa era il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre un'esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf Dt 6,20-25); nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il « Regno dei cieli », come Gesù afferma all'inizio del « Discorso della Montagna » — discorso che contiene la formulazione più ampia e completa della Legge Nuova (cf Mt 5-7) —, in evidente connessione con il Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà del Regno fa riferimento l'espressione « vita eterna », che è partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione solo dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di verità, sorgente di senso per la vita, incipiente partecipazione ad una pienezza nella sequela di Cristo. Dice, infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco: « Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna » (Mt 19,29).

13. La risposta di Gesù non basta al giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti da osservare: « Ed egli chiese: "Quali?" » (Mt 19,18). Chiede che cosa deve fare nella vita per rendere manifesto il riconoscimento della santità di Dio. Dopo aver orientato lo sguardo del giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti del Decalogo che riguardano il prossimo: « Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso » (Mt 19,18-19).

Dal contesto del colloquio e, specialmente, dal confronto del testo di Matteo con i passi paralleli di Marco e di Luca, risulta che Gesù non intende elencare tutti e singoli i comandamenti necessari per « entrare nella vita », ma, piuttosto, rimandare il giovane alla centralità del Decalogo rispetto ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò che per l'uomo significa « Io sono il Signore, Dio tuo ». Non può sfuggire, comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il Signore Gesù ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che appartengono alla cosiddetta « seconda tavola » del Decalogo, di cui compendio (cf Rm 13,8-10) e fondamento è il comandamento dell'amore del prossimo: « Ama il prossimo tuo come te stesso » (Mt 19,19; cf Mc 12,31). In questo comandamento si esprime precisamente la singolare dignità della persona umana, la quale è « la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa ».21 I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, « i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana ».22

I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. « Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso » sono regole morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi esprimono con particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e la buona fama.

I comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio: « La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta... ».23

14. Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, si sente rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita eterna: « Fa' questo e vivrai » (Lc 10,28). È comunque significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: « Chi è il mio prossimo? » (Lc 10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon Samaritano, la parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento dell'amore del prossimo (cf Lc 10,30-37).

I due comandamenti, dai quali « dipende tutta la Legge e i Profeti » (Mt 22,40), sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e con la vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf Gv 3,14-15), segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf Gv 13,1).

Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell'affermare che senza l'amore per il prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non è possibile l'autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: « Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede » (1 Gv 4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di Cristo, espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel « discorso » sul giudizio finale (cf Mt 25,31-46).

15. Nel « Discorso della Montagna », che costituisce la magna charta della morale evangelica,24 Gesù dice: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: « Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me » (cf Gv 5,39); è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo « Il termine della legge è Cristo » (Rm 10,4), sant'Ambrogio scrive: « Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità ».25

Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il comandamento « Non uccidere » diventa l'appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo: « Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore » (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il « compimento » vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf Gv 13,34-35).

« Se vuoi essere perfetto » (Mt 19,21)

16. La risposta sui comandamenti non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: « Ho sempre osservato tutte queste cose; che cosa mi manca ancora? » (Mt 19,20). Non è facile dire con buona coscienza: « ho sempre osservato tutte queste cose », se appena si comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se anche ha seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla consapevolezza di questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta: cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » (Mt 19,21).

Come già il precedente passo della risposta di Gesù, così anche questo deve essere letto e interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e, specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini (cf Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la beatitudine dei poveri, dei « poveri in spirito », come precisa san Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta che Gesù dà all'interrogativo del giovane: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una particolare prospettiva, proprio quel « bene » che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita eterna.

Le beatitudini non hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti. D'altra parte, non c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai comandamenti (cf Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.26

17. Non sappiamo quanto il giovane del Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della prima risposta data da Gesù: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti »; è certo, però, che l'impegno manifestato dal giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti costituisce l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione del loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: « Se vuoi », e il dono divino della grazia: « Vieni e seguimi ».

La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: « Se vuoi... ». La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. « Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà » (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito però precisa: « Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri » (ibid.). La fermezza con la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la « liberazione » dell'uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: « Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così prosegue: « Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi ».27

18. Chi vive « secondo la carne » sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è animato dall'amore e « cammi- na secondo lo Spirito » (Gal 5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore — una vera e propria « necessità », e non già una costrizione — di non fermarsi alle esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro « pienezza ». È un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf Rm 8, 21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere « figli nel Figlio ».

Questa vocazione all'amore perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito « va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri » con la promessa « avrai un tesoro nel cielo »riguarda tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del prossimo, come il successivo invito « vieni e seguimi » è la nuova forma concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: « Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa perfezione: « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36).

« Vieni e seguimi » (Mt 19,21)

19. La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: « Poi vieni e seguimi » (Mt 19,21). È un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà alla verità tutta intera (cf Gv 16,13).

È Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente (cf At 6,1). Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa (cf Es 13,21), così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cf Gv 6,44).

Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre. Seguendo, mediante la risposta della fede, colui che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo di Dio (cf Gv 6,45). Gesù, infatti, è la luce del mondo, la luce della vita (cf Gv 8,12); è il pastore che guida e nutre le pecore (cf Gv 10,11-16), è la via, la verità e la vita (cf Gv 14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (cf Gv 14,6-10). Pertanto imitare il Figlio, « l'immagine del Dio invisibile » (Col 1,15), significa imitare il Padre.

20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12). Questo « come » esige l'imitazione di Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: « Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi » (Gv 13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti costituiscono la regola morale della vita cristiana. Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione e la morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e per gli uomini. Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da quanti lo seguono. Esso è il comandamento « nuovo »: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,34-35).

Questo « come » indica anche la misura con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli. Dopo aver detto: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12), Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della sua vita sulla croce, quale testimonianza di un amore « sino alla fine » (Gv 13,1): « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).

Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel comandamento dell'amore, nel « suo » comandamento: di inserirsi nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore stesso del Maestro « buono », di colui che ha amato « sino alla fine ». È quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (Mt 16,24).

21. Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.

Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27). Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo « riveste » di Cristo (cf Gal 3,27): « Rallegriamoci e ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati! ».28 Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf Gal 5,16-25). La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cf 1 Cor 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di « vita eterna » (cf Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: « Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga » (1 Cor 11,26).

« A Dio tutto è possibile » (Mt 19,26)

22. Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: « Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze » (Mt 19,22). Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le aspirazioni e le forze umane: « A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?" » (Mt 19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: « Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile » (Mt 19,26).

Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un « principio » più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: « Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così » (Mt 19,8). Il richiamo al « principio » sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: « Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi » (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato « per il Regno dei cieli » (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: « Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso" » (Mt 19,11).

Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: « Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore » (Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo « frutto » (cf Gal 5,22) è la carità: « L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato » (Rm 5,5). Sant'Agostino si chiede: « È l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? ». E risponde: « Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti ».29

23. « La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e all'accoglienza della « vita nello Spirito ». Solo in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf Rm 3,28): la « giustizia » che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: « La legge, perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la legge ».30

L'amore e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua grazia: « Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo » (Gv 1,17). Per questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già « caparra della nostra eredità » (Ef 1,14).

24. Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell'amore e della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera: « Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo » (1 Gv 4,7-8.11.19).

Questa connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino, che così prega: « Da quod iubes et iube quod vis » (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).31

Il dono non diminuisce, ma rafforza l'esigenza morale dell'amore: « Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato » (1 Gv 3,23). Si può « rimanere » nell'amore solo a condizione di osservare i comandamenti, come afferma Gesù: « Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore » (Gv 15,10).

Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri d'Oriente e d'Occidente — in particolare di sant'Agostino — 32 san Tommaso ha potuto scrivere che la Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo.33 I precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di « fare la verità » (cf Gv 3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno di Pentecoste e che gli Apostoli « non discesero dal monte portando, come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia una legge viva, un libro animato ».34

« Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,20)

25. Il colloquio di Gesù con il giovane ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della storia, anche oggi. La domanda: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » sboccia nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva. Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in mezzo a noi, secondo la promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,20). La contemporaneità di Cristo all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe loro « ricordato » e fatto comprendere i suoi comandamenti (cf Gv 14,26) e sarebbe stato il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf Gv 3,5-8; Rm 8,1-13).

Le prescrizioni morali, impartite da Dio nell'Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione in quella Nuova ed Eterna nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo, devono essere fedelmente custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l'assistenza speciale dello Spirito di verità: « Chi ascolta voi ascolta me » (Lc 10,16). Con la luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la missione di predicare il Vangelo e di indicare la « via » del Signore (cf At 18,25), insegnando anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: « Per me il vivere è Cristo » (Fil 1,21).

26. Nella catechesi morale degli Apostoli, accanto ad esortazioni e ad indicazioni legate al contesto storico e culturale, c'è un insegnamento etico con precise norme di comportamento. È quanto emerge nelle loro Lettere, che contengono l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei precetti del Signore da vivere nelle diverse circostanze culturali (cf Rm 12-15; 1 Cor 11-14; Gal 5-6; Ef 4-6; Col 3-4; 1 Pt e Gc). Incaricati di predicare il Vangelo, gli Apostoli fin dalle origini della Chiesa, in virtù della loro responsabilità pastorale, hanno vegliato sulla rettitudine della condotta dei cristiani,35 allo stesso modo in cui hanno vegliato sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni divini mediante i Sacramenti.36 I primi cristiani, provenienti sia dal popolo giudaico sia dalle nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e per la loro liturgia, ma anche per la testimonianza della loro condotta morale, ispirata alla Legge Nuova.37 La Chiesa, infatti, è insieme comunione di fede e di vita; la sua norma è « la fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5,6).

Nessuna lacerazione deve attentare all'armonia tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo (cf 1 Cor 5,9-13). Con decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione tra l'impegno del cuore e i gesti che lo esprimono e verificano (cf 1 Gv 2,3-6). E fin dai tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno denunciato con chiarezza i modi di agire di coloro che erano fautori di divisione con i loro insegnamenti o con i loro comportamenti.38

27. Promuovere e custodire, nell'unità della Chiesa, la fede e la vita morale è il compito affidato da Gesù agli Apostoli (cf Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero dei loro successori. È quanto si ritrova nella viva Tradizione, mediante la quale — come insegna il Concilio Vaticano II — « la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo ».39 Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette la Scrittura come testimonianza delle « grandi cose » che Dio opera nella storia (cf Lc 1,49), confessa per bocca dei Padri e dei Dottori la verità del Verbo fatto carne, ne mette in pratica i precetti e la carità nella vita dei Santi e delle Sante e nel sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia: mediante la stessa Tradizione i cristiani ricevono « la viva voce del Vangelo »,40 come espressione fedele della sapienza e della volontà divina.

All'interno della Tradizione si sviluppa, con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione autentica della legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è all'origine della Rivelazione dei comandamenti e degli insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e delle circostanze. Questa « attualizzazione » dei comandamenti è segno e frutto di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali. Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente validità della Rivelazione e inserirsi nel solco dell'interpretazione che ne dà la grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della Chiesa e l'insegnamento del Magistero.

In particolare, poi, come afferma il Concilio, « l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo ».41 In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel suo insegnamento, si presenta come « colonna e sostegno della verità » (1 Tm 3,15), anche della verità circa l'agire morale. Infatti, « è compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime ».42

Proprio sulle domande che caratterizzano oggi la discussione morale e intorno alle quali si sono sviluppate nuove tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù Cristo e in continuità con la tradizione della Chiesa, sente più urgente il dovere di offrire il proprio discernimento e insegnamento, per aiutare l'uomo nel suo cammino verso la verità e la libertà.

CAPITOLO II

« NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ
DI QUESTO MONDO »
(Rm 12,2)

La chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna

Insegnare ciò che è secondo la sana dottrina (cf Tt 2,1)

28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa l'agire morale. Essi sono: la subordinazione dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che « solo è buono »; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della « creatura nuova » (cf 2 Cor 5,17).

Nella sua riflessione morale la Chiesa ha sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: « Il Vangelo 1... fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale ».43 Essa ha custodito fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da credere, ma anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf 1 Ts 4,1), realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si è avuto nell'ambito delle verità della fede. Assistita dallo Spirito Santo che la guida alla verità tutta intera (cf Gv 16,13), la Chiesa non ha cessato, e non può mai cessare, di scrutare il « mistero del Verbo incarnato », nel quale « trova vera luce il mistero dell'uomo ».44

29. La riflessione morale della Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il « Maestro buono », si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza teologica, detta « teologia morale », una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme risponde alle esigenze della ragione umana. La teologia morale è una riflessione che riguarda la « moralità », ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche « teologia », in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in Colui che « solo è buono » e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.

Il Concilio Vaticano II ha invitato gli studiosi a porre « speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo ».45 Lo stesso Concilio ha invitato i teologi, « nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo ».46 Di qui l'ulteriore invito, esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai teologi: « I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione ».47

Lo sforzo di molti teologi, sostenuti dall'incoraggiamento del Concilio, ha già dato i suoi frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità della fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del nostro tempo. La Chiesa e, in particolare, i Vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato innanzitutto il servizio dell'insegnamento, accolgono con gratitudine tale sforzo ed incoraggiano i teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del Signore, che è il principio della sapienza (cf Prv 1,7).

Nello stesso tempo, nell'ambito delle discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate però alcune interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la « sana dottrina » (2 Tm 4,3). Certamente il Magistero della Chiesa non intende imporre ai fedeli nessun particolare sistema teologico né tanto meno filosofico, ma, per « custodire santamente ed esporre fedelmente » la Parola di Dio,48 esso ha il dovere di dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti del pensiero teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità rivelata.49

30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla « sana dottrina », richiamando quegli elementi dell'insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende « la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo ».50

Questi e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad « ammae- strare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare tutto ciò » che egli ha comandato (cf Mt 28,19-20),la Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare costantemente la riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito interdisciplinare, così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.51

È sempre in questa medesima luce e forza che il Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento, accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero » (2 Tm 4,1-5; cf Tt 1,10.13-14).

« Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv 8,32)

31. I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo.

Non c' è dubbio che il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. « In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana », come costatava già la dichiarazione conciliareDignitatis humanae sulla libertà religiosa.52 Da qui l'esigenza che « gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere ».53 In particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme.54

Così, il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere corrette o purificate alla luce della fede.55

32. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti adesaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di « accordo con se stessi », tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.

Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana.

Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.

33. Parallelamente all'esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di « scienze umane », hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana.

Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale.

34. « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». La domanda morale, alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: « L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà ».56 Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che « tanto tengono » alla libertà e che la « cercano ardentemente » ma che « spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male », presenta la « vera » libertà: « La vera libertà è nell'uomo segno altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf Sir 15,14), così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione ».57 Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta.58 In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: « La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri ».59

Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.

Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: « Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » (Gv 8,32).

I. La libertà e la legge

« Dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare » (Gn 2,17)

35. Leggiamo nel libro della Genesi: « Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti" » (Gn 2,16-17).

Con questa immagine, la Rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso d'una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare « di tutti gli alberi del giardino ». Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'« albero della conoscenza del bene e del male », essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti.

La legge di Dio, dunque, non attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze culturali odierne sono all'origine di non pochi orientamenti etici che pongono al centro del loro pensiero un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male: la libertà umana potrebbe « creare i valori » e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente significherebbe la sua sovranità assoluta.

36. L'istanza moderna di autonomia non ha mancato di esercitare un suo influsso anche nell'ambito della teologia morale cattolica. Se questa, certamente, non ha mai inteso contrapporre la libertà umana alla legge divina, né mettere in questione l'esistenza di un fondamento religioso ultimo delle norme morali, è stata però provocata ad un profondo ripensamento del ruolo della ragione e della fede nell'individuazione delle norme morali che si riferiscono a specifici comportamenti « intramondani », ossia verso se stessi, gli altri e il mondo delle cose.

Si deve riconoscere che all'origine di questo sforzo di ripensamento si ritrovano alcune istanze positive, che peraltro appartengono, in buona parte, alla miglior tradizione del pensiero cattolico. Sollecitati dal Concilio Vaticano II,60 si è voluto favorire il dialogo con la cultura moderna, mettendo in luce il carattere razionale — quindi universalmente comprensibile e comunicabile — delle norme morali appartenenti all'ambito della legge morale naturale.61 Si è inteso, inoltre, ribadire il carattere interiore delle esigenze etiche che da essa derivano e che non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza personale.

Dimenticando però la dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità, nel presente stato di natura decaduta, nonché l'effettiva realtà della divina rivelazione per la conoscenza di verità morali anche di ordine naturale,62 alcuni sono giunti a teorizzare una completa sovranità della ragione nell'ambito delle norme morali relative al retto ordinamento della vita in questo mondo: tali norme costituirebbero l'ambito di una morale solamente « umana », sarebbero cioè l'espressione di una legge che l'uomo autonomamente dà a se stesso e che ha la sua sorgente esclusivamente nella ragione umana. Di questa legge Dio non potrebbe essere considerato in nessun modo Autore, se non nel senso che la ragione umana esercita la sua autonomia legislativa in forza di un originario e totale mandato di Dio all'uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno condotto a negare, contro la Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la legge morale naturale abbia Dio come autore e che l'uomo, mediante la sua ragione, partecipi alla legge eterna, che non è lui a stabilire.

37. Volendo però mantenere la vita morale in un contesto cristiano, è stata introdotta da alcuni teologi moralisti una netta distinzione, contraria alla dottrina cattolica,63 tra un ordine etico, che avrebbe origine umana e valore solo mondano, e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo. Si è giunti conseguentemente al punto di negare l'esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la Parola di Dio si limiterebbe a proporre un'esortazione, una generica parenesi, che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni normative veramente « oggettive », ossia adeguate alla situazione storica concreta. Naturalmente un'autonomia così concepita comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto « bene umano »: esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e non sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza.

Non vi è chi non veda che una simile interpretazione dell'autonomia della ragione umana comporta tesi incompatibili con la dottrina cattolica.

In un tale contesto è assolutamente necessario chiarire, alla luce della Parola di Dio e della viva tradizione della Chiesa, le fondamentali nozioni della libertà umana e della legge morale, nonché i loro profondi e interiori rapporti. Solo così sarà possibile corrispondere alle giuste istanze della razionalità umana, integrando gli elementi validi di alcune correnti dell'odierna teologia morale, senza pregiudicare il patrimonio morale della Chiesa con tesi derivanti da un erroneo concetto di autonomia.

Dio volle lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » (Sir 15,14)

38. Riprendendo le parole del Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la « vera libertà » che nell'uomo è « segno altissimo dell'immagine divina »: « Dio volle lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio", così che egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con l'adesione a Lui, alla piena e beata perfezione ».64 Queste parole indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato: indicano che il dominio dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo stesso. È questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione teologica sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità. Scrive, ad esempio, san Gregorio Nisseno: « L'animo manifesta la sua regalità ed eccellenza... nel suo essere senza padrone e libero, governandosi autocraticamente con il suo volere. Di chi altro questo è proprio, se non del re?... Così la natura umana, creata per essere padrona delle altre creature, per la somiglianza con il sovrano dell'universo fu stabilita come una viva immagine, partecipe della dignità e del nome dell'Archetipo ».65

Già il governare il mondo costituisce per l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà in obbedienza al Creatore: « Riempite la terra; soggiogatela » (Gn 1,28). Sotto questo aspetto al singolo uomo, come pure alla comunità umana, spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium et spes dedica una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà terrene, che significa che « le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare ».66

39. Non solo il mondo però, ma anche l'uomo stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità. Dio l'ha lasciato « in mano al suo consiglio » (Sir 15,14), perché cercasse il suo Creatore e giungesse liberamente alla perfezione. Giungere significa edificare personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il mondo l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida in se stesso la somiglianza di Dio.

Il Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di fronte a un falso concetto dell'autonomia delle realtà terrene, quello di ritenere che « le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore ».67 Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di autonomia produce effetti particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza un carattere ateo: « La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa ».68

40. L'insegnamento del Concilio sottolinea, da un lato, l'attività della ragione umana nel rinvenimento e nella applicazione della legge morale: la vita morale esige la creatività e l'ingegnosità proprie della persona, sorgente e causa dei suoi atti deliberati. D'altro lato, la ragione trae la sua verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina.69 Alla base della vita morale sta dunque il principio di una « giusta autonomia » 70 dell'uomo, soggetto personale dei suoi atti. La legge morale proviene da Dio e trova sempre in lui la sua sorgente: in forza della ragione naturale, che deriva dalla sapienza divina, essa è, al tempo stesso, la legge propria dell'uomo. La legge naturale infatti, come si è visto, « altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione ».71 La giusta autonomia della ragione pratica significa che l'uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l'autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali.72 Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l'insegnamento della Chiesa sulla verità dell'uomo.73 Sarebbe la morte della vera libertà: « Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti » (Gn 2,17).

41. La vera autonomia morale dell'uomo non significa affatto il rifiuto, bensì l'accoglienza della legge morale, del comando di Dio: « Il Signore Dio diede questo comando all'uomo... » (Gn 2,16). La libertà dell'uomo e la legge di Dio s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel senso della libera obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita benevolenza di Dio all'uomo. E pertanto l'obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un'eteronomia, come se la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un'onnipotenza assoluta, esterna all'uomo e contraria all'affermazione della sua libertà. In realtà, se eteronomia della morale significasse negazione dell'autodeterminazione dell'uomo o imposizione di norme estranee al suo bene, essa sarebbe in contraddizione con la rivelazione dell'Alleanza e dell'Incarnazione redentrice. Una simile eteronomia non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla sapienza divina ed alla dignità della persona umana.

Alcuni parlano, a giusto titolo, di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell'uomo alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo di mangiare « dell'albero della conoscenza del bene e del male », Dio afferma che l'uomo non possiede originariamente in proprio questa « conoscenza », ma solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi un'espressione della sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione. Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana l'immagine e la vicinanza di Dio, che è « presente in tutti » (cf Ef 4,6); allo stesso modo, bisogna confessare la maestà del Dio dell'universo e venerare la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus semper maior.74

Beato l'uomo che si compiace della legge del Signore (cf Sal 1,1-2)

42. Modellata su quella di Dio, la libertà dell'uomo non solo non è negata dalla sua obbedienza alla legge divina, ma soltanto mediante questa obbedienza essa permane nella verità ed è conforme alla dignità dell'uomo, come scrive apertamente il Concilio: « La dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali e non per un cieco impulso interno e per mera coazione esterna. Ma tale dignità l'uomo la ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti ».75

Nel suo tendere a Dio, a Colui che « solo è buono », l'uomo deve liberamente compiere il bene ed evitare il male. Ma per questo l'uomo deve poter distinguere il bene dal male. Ed è quanto avviene, anzitutto, grazie alla luce della ragione naturale, riflesso nell'uomo dello splendore del volto di Dio. In questo senso, commentando un versetto del Salmo 4, san Tommaso scrive: « Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia (Sal 4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della giustizia, il Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? E, rispondendo alla domanda, dice: La luce del tuo volto, Signore, è stata impressa su di noi. Come se volesse dire che la luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene dal male — il che è di competenza della legge naturale — non è altro che un'impronta in noi della luce divina ».76 Da ciò segue anche per quale motivo questa legge è chiamata legge naturale: viene detta così non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana.77

43. Il Concilio Vaticano II ricorda che « norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un disegno di sapienza e di amore ordina, dirige e governa tutto il mondo e le vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l'uomo della sua legge, cosicché l'uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa sempre più conoscere l'immutabile verità ».78

Il Concilio rimanda alla dottrina classica sulla legge eterna di Dio. Sant'Agostino la definisce come « la ragione o la volontà di Dio che comanda di conservare l'ordine naturale e proibisce di turbarlo »; 79 san Tommaso la identifica con « la ragione della divina sapienza che muove tutto al fine dovuto ».80 E la sapienza di Dio è provvidenza, amore che si prende cura. È Dio stesso, dunque, ad amare e a prendersi cura, nel senso più letterale e fondamentale, di tutta la creazione (cf Sap 7,22; 8,11). Ma Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli esseri che non sono persone: non « dall'esterno », attraverso le leggi della natura fisica, ma « dal di dentro », mediante la ragione che, conoscendo col lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di indicare all'uomo la giusta direzione del suo libero agire.81 In questo modo Dio chiama l'uomo a partecipare alla sua provvidenza, volendo per mezzo dell'uomo stesso, ossia attraverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non soltanto il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane. In questo contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la legge naturale: « Rispetto alle altre creature — scrive san Tommaso — la creatura razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina provvidenza, in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all'atto ed al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge naturale ».82

44. La Chiesa ha fatto spesso riferimento alla dottrina tomistica di legge naturale, assumendola nel proprio insegnamento morale. Così il mio venerato predecessore Leone XIII ha sottolineato l'essenziale subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge. Dopo aver detto che « la legge naturale è scritta e scolpita nell'animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare », Leone XIII rimanda alla « ragione più alta » del Legislatore divino: « Ma tale prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non fosse la voce e l'interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi ». Infatti, la forza della legge risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di dare la sanzione a certi comportamenti: « Ora tutto ciò non potrebbe esistere nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni ». E conclude: « Ne consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all'atto e al fine che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore e governatore dell'universo ».83

L'uomo può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene dal male che egli stesso opera mediante la sua ragione, in particolare mediante la sua ragione illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede, in forza della legge che Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare dai comandamenti del Sinai. Israele è stato chiamato a ricevere e a vivere la legge di Dio come particolare dono e segno dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed insieme come garanzia della benedizione di Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di Israele e chiedere loro: « Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste, come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo? » (Dt 4,7-8). È nei Salmi che incontriamo i sentimenti di lode, gratitudine e venerazione che il popolo eletto è chiamato a nutrire verso la legge di Dio, insieme all'esortazione a conoscerla, meditarla e tradurla nella vita: « Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1,1-2); « La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi » (Sal 181,8-9).

45. La Chiesa accoglie con riconoscenza e custodisce con amore l'intero deposito della Rivelazione, trattandolo con religioso rispetto e adempiendo alla sua missione di interpretare la legge di Dio in modo autentico alla luce del Vangelo. La Chiesa, inoltre, riceve in dono la Legge nuova, che è il « compimento » della legge di Dio in Gesù Cristo e nel suo Spirito: è una legge « interiore » (cf Ger 31,31-33), « scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori » (2 Cor 3,3); una legge di perfezione e di libertà (cf 2 Cor 3,17); è « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8,2). Di questa legge scrive san Tommaso: « Questa può essere detta legge in un duplice senso. In un primo senso, legge dello spirito è lo Spirito Santo... che, inabitante nell'anima, non solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle cose da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine... In un secondo senso, legge dello spirito può dirsi l'effetto proprio dello Spirito Santo, e cioè la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), la quale pertanto ammaestra interiormente circa le cose da farsi... e inclina l'affetto ad agire ».84

Anche se nella riflessione teologico-morale si è soliti distinguere la legge di Dio positiva o rivelata da quella naturale, e nell'economia della salvezza la legge « antica » da quella « nuova », non si può dimenticare che queste e altre utili distinzioni si riferiscono sempre alla legge il cui autore è lo stesso unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e concludono all'eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio predestina gli uomini « ad essere conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm 8,29). In questo disegno non c'è nessuna minaccia per la vera libertà dell'uomo; al contrario l'accoglienza di questo disegno è l'unica via per l'affermazione della libertà.

« Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori » (Rm 2,15)

46. Il presunto conflitto tra la libertà e la legge si ripropone oggi con una singolare forza in rapporto alla legge naturale, e in particolare in rapporto alla natura. In realtà i dibattiti su natura e libertà hanno sempre accompagnato la storia della riflessione morale, assumendo toni accesi con il Rinascimento e la Riforma, come si può rilevare dagli insegnamenti del Concilio di Trento.85 Di una tensione analoga resta segnata, anche se in un senso differente, l'epoca contemporanea: il gusto dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione scientifica, il progresso tecnico, alcune forme di liberalismo hanno portato a contrapporre i due termini, come se la dialettica — se non addirittura il conflitto — tra libertà e natura fosse caratteristica strutturale della storia umana. In altre epoche, è sembrato che la « natura » sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi dinamismi e persino ai suoi determinismi. Ancor oggi le coordinate spazio-temporali del mondo sensibile, le costanti fisico-chimiche, i dinamismi corporei, le pulsioni psichiche, i condizionamenti sociali appaiono a molti come gli unici fattori realmente decisivi delle realtà umane. In questo contesto, anche i fatti morali, a dispetto della loro specificità, sono spesso trattati come se fossero dati statisticamente accertabili, come comportamenti osservabili o spiegabili solo con le categorie dei meccanismi psico-sociali. E così alcuni studiosi di etica, tenuti per professione a esaminare i fatti e i gesti dell'uomo, possono essere tentati di misurare il loro sapere, se non le loro prescrizioni, sulla base di un riscontro statistico circa i comportamenti umani concreti e le opinioni morali della maggioranza.

Altri moralisti, invece, preoccupati di educare ai valori, si mantengono sensibili al prestigio della libertà, ma spesso la concepiscono in opposizione, o in contrasto, con la natura materiale e biologica, sulla quale dovrebbe progressivamente affermarsi. A questo proposito differenti concezioni convergono nel dimenticare la dimensione creaturale della natura e nel misconoscere la sua integralità. Per alcuni, la natura si trova ridotta a materiale per l'agire umano e per il suo potere: essa dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà, dal momento che ne costituirebbe un limite e una negazione. Per altri, è nella promozione senza misura del potere dell'uomo, o della sua libertà, che si costituiscono i valori economici, sociali, culturali ed anche morali: la natura starebbe a significare tutto ciò che nell'uomo e nel mondo si colloca al di fuori della libertà. Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe quanto è « costruito » cioè la « cultura », quale opera e prodotto della libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe essere ridotta e trattata come materiale biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente definire la libertà mediante se stessa e farne un'istanza creatrice di sé e dei suoi valori. È così che al limite l'uomo non avrebbe neppure natura, e sarebbe per se stesso il proprio progetto di esistenza. L'uomo non sarebbe nient'altro che la sua libertà!

47. In questo contesto sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e, in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile « argomen- tazione biologista o naturalista » sarebbe presente anche in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l'ambito dell'etica sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell'atto sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l'autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell'uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono che l'uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo « decidere il senso » dovrà tener conto, ovviamente, dei molteplici limiti dell'essere umano, che ha una condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi assumono in una determinata cultura. E, soprattutto, dovrà rispettare il comandamento fondamentale dell'amore di Dio e del prossimo. Dio però — asseriscono poi — ha fatto l'uomo come essere razionalmente libero, lo ha lasciato « in mano al suo consiglio » e da lui attende una propria, razionale formazione della sua vita. L'amore del prossimo significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto per il suo libero decidere di se stesso. I meccanismi dei comportamenti propri dell'uomo, nonché le cosiddette « inclinazioni naturali », stabilirebbero al massimo — come dicono — un orientamento generale del comportamento corretto, ma non potrebbero determinare la valutazione morale dei singoli atti umani, tanto complessi dal punto di vista delle situazioni.

48. Di fronte ad una tale interpretazione occorre considerare con attenzione il retto rapporto che esiste tra la libertà e la natura umana, e in particolare il posto che ha il corpo umano nelle questioni della legge naturale.

Una libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l'abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono come dei presupposti o preliminari, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla persona, al soggetto e all'atto umano. I loro dinamismi non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni « fisici », detti da taluni « pre-morali ». Farvi riferimento, per cercarvi indicazioni razionali circa l'ordine della moralità, dovrebbe essere tacciato di fisicismo o di biologismo. In un simile contesto la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione nell'uomo stesso.

Questa teoria morale non è conforme alla verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice agli insegnamenti della Chiesa sull'unità dell'essere umano, la cui anima razionale è per se et essentialiter la forma del corpo.86 L'anima spirituale e immortale è il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui esso esiste come un tutto — « corpore et anima unus » 87 — in quanto persona. Queste definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa la risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì il legame della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà corporee e sensibili. La persona, incluso il corpo, è affidata interamente a se stessa, ed è nell'unità dell'anima e del corpo che essa è il soggetto dei propri atti morali. La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l'espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l'esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e nell'arbitrio.

49. Una dottrina che dissoci l'atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà « spirituale », puramente formale. Questa riduzione misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad esso si riferiscono (cf 1 Cor 6,19). L'apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli « immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci » (cf 1 Cor 6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal Concilio di Trento 88 — enumera come « peccati mortali », o « pratiche infami », alcuni comportamenti specifici la cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di avere parte all'eredità promessa. Infatti, corpo e anima sono indissociabili: nella persona, nell'agente volontario e nell'atto deliberato, essi stanno o si perdono insieme.

50. Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura propria e originale dell'uomo, alla « natura della persona umana »,89 che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine. « La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo ».90 Ad esempio, l'origine e il fondamento del dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona e non semplicemente nell'inclinazione naturale a conservare la propria vita fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf Gv 15, 13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità. In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua « totalità unificata », cioè « anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale »,91 si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana. Rifiutando le manipolazioni della corporeità che ne alterano il significato umano, la Chiesa serve l'uomo e gli indica la via del vero amore, sulla quale soltanto egli può trovare il vero Dio.

La legge naturale così intesa non lascia spazio alla divisione tra libertà e natura. Queste, infatti, sono armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l'una con l'altra.

« Ma da principio non fu così » (Mt 19,8)

51. Il presunto conflitto tra la libertà e la natura si ripercuote anche sull'interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità. « Dove dunque sono iscritte queste regole — si chiedeva sant'Agostino — se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello ».92

Proprio grazie a questa « verità » la legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella natura razionale della persona, si impone ad ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza.93

La scissione posta da alcuni tra la libertà degli individui e la natura comune a tutti, come emerge da alcune teorie filosofiche di grande risonanza nella cultura contemporanea, oscura la percezione dell'universalità della legge morale da parte della ragione. Ma, in quanto esprime la dignità della persona umana e pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità e all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l'universalità del vero bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera comunione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità, « vincolo della perfezione » (Col 3,14). Quando invece misconoscono o anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno.

52. È giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; 94 uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per « la stessa vocazione e lo stesso destino divino ».95 Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù. I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti.

D'altra parte, il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non significa che nella vita morale le proibizioni siano più importanti dell'impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, bensì ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono tutte quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono comportamenti che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta adeguata — ossia conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre possibile che l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone azioni; mai però può essere impedito di non fare determinate azioni, soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male.

La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di queste proibizioni: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti...: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso » (Mt 19,17-18).

53. La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell'esistenza di « norme oggettive di moralità » 96 valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente?

Non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo « qualcosa » è precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al « principio », proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf Mt 19,1-9). In tal senso « la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli ».97 È lui il « Principio » che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.98

Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale — come quella del « deposito della fede » — si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate « eodem sensu eademque sententia » 99 secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica.100

II. La coscienza e la verità

Il sacrario dell'uomo

54. Il rapporto che esiste tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel « cuore » della persona, ossia nella sua coscienza morale: « Nell'intimo della coscienza — scrive il Concilio Vaticano II — l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (cf Rm 2, 14-16) ».101

Per questo il modo secondo cui si concepisce il rapporto tra la libertà e la legge si collega intimamente con l'interpretazione che viene riservata alla coscienza morale. In tal senso le tendenze culturali sopra ricordate, che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione « creativa » della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della Chiesa e del suo Magistero.

55. Secondo l'opinione di diversi teologi la funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta, almeno in un certo passato, ad una semplice applicazione di norme morali generali ai singoli casi di vita della persona. Ma simili norme — dicono — non possono essere in grado di accogliere e di rispettare l'intera irrepetibile specificità di tutti i singoli atti concreti delle persone; possono anche, in qualche modo, aiutare a una giustavalutazione della situazione, ma non possono sostituire le persone nel prendere una decisione personale su come comportarsi nei determinati casi particolari. Anzi, la predetta critica alla tradizionale interpretazione della natura umana e della sua importanza per la vita morale induce alcuni autori ad affermare che queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l'uomo nel dare un'ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale. Essi, inoltre, rilevano la complessità tipica del fenomeno della coscienza: questa si rapporta profondamente con tutta la sfera psicologica ed affettiva e con i molteplici influssi dell'ambiente sociale e culturale della persona. D'altra parte, viene esaltato al massimo il valore della coscienza, che il Concilio stesso ha definito « il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria ».102 Tale voce — si dice — induce l'uomo non tanto a una meticolosa osservanza delle norme universali, quanto a una creativa e responsabile assunzione dei compiti personali che Dio gli affida.

Volendo mettere in risalto il carattere « creativo » della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il nome di « giudizi », ma con quello di « decisioni »: solo prendendo « auto- nomamente » queste decisioni l'uomo potrebbe raggiungere la sua maturità morale. Né manca chi ritiene che questo processo di maturazione sarebbe ostacolato dalla posizione troppo categorica che, in molte questioni morali, assume il Magistero della Chiesa, i cui interventi sarebbero causa, presso i fedeli, dell'insorgere di inutili conflitti di coscienza.

56. Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l'originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette « pastorali » contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un'ermeneutica « creatrice », secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.

Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge di Dio. Solo la chiarificazione precedentemente fatta sul rapporto tra libertà e legge fondato sulla verità rende possibile il discernimento circa questa interpretazione « creativa » della coscienza.

Il giudizio della coscienza

57. Lo stesso testo della Lettera ai Romani, che ci ha fatto cogliere l'essenza della legge naturale, indica anche il senso biblico della coscienza, specialmente nel suo specifico legame con la legge: « Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono » (Rm 2,14-15).

Secondo le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa « testimo- ne » per l'uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza è l'unico testimone: ciò che avviene nell'intimo della persona è coperto agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta, soltanto la persona conosce la propria risposta alla voce della coscienza.

58. Non si apprezzerà mai adeguatamente l'importanza di questo intimo dialogo dell'uomo con se stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell'uomo con Dio, autore della legge, primo modello e fine ultimo dell'uomo. « La coscienza — scrive san Bonaventura — è come l'araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare ».103

Si può dire, dunque, che la coscienza dà la testimonianza della rettitudine o della malvagità dell'uomo all'uomo stesso, ma insieme, anzi prima ancora, essa è testimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l'intimo dell'uomo fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et suaviter all'obbedienza: « La coscienza morale non chiude l'uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il mistero e la dignità della coscienza morale: nell'essere cioè il luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all'uomo ».104

59. San Paolo non si limita a riconoscere che la coscienza fa da « testimone », ma rivela anche il modo con cui essa compie una simile funzione. Si tratta di « ragionamenti », che accusano o difendono i pagani in rapporto ai loro comportamenti (cf Rm 2,15). Il termine « ragionamenti » mette in luce il carattere proprio della coscienza, quello di essere un giudizio morale sull'uomo e sui suoi atti: è un giudizio di assoluzione o di condanna secondo che gli atti umani sono conformi o difformi dalla legge di Dio scritta nel cuore. E proprio del giudizio degli atti e, allo stesso tempo, del loro autore e del momento del suo definitivo compimento parla l'apostolo Paolo nello stesso testo: « Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio Vangelo » (Rm 2,16).

Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. È un giudizio che applica a una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica appartiene alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile (scintilla animae), brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella concretezza della situazione il bene. La coscienza formula così l'obbligo morale alla luce dalla legge naturale: è l'obbligo di fare ciò che l'uomo, mediante l'atto della sua coscienza, conosce come un bene che gli è assegnato qui e ora. Il carattere universale della legge e dell'obbligazione non è cancellato, ma piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni nell'attualità concreta. Il giudizio della coscienza afferma « ultimamente » la conformità di un certo comportamento concreto rispetto alla legge; esso formula la norma prossima della moralità di un atto volontario, realizzando « l'appli- cazione della legge oggettiva a un caso particolare ».105

60. Come la stessa legge naturale e ogni conoscenza pratica, anche il giudizio della coscienza ha carattere imperativo: l'uomo deve agire in conformità ad esso. Se l'uomo agisce contro tale giudizio, oppure, anche in mancanza di certezza circa la correttezza e la bontà di un determinato atto, lo compie, egli è condannato dalla sua stessa coscienza, norma prossima della moralità personale. La dignità di questa istanza razionale e l'autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano dalla verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata ad ascoltare e ad esprimere. Questa verità è indicata dalla « legge divina », norma universale e oggettiva della moralità. Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e accoglie i comandamenti: « La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano ».106

61. La verità circa il bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è riconosciuta praticamente e concretamente dal giudizio della coscienza, il quale porta ad assumere la responsabilità del bene compiuto e del male commesso: se l'uomo commette il male, il giusto giudizio della sua coscienza rimane in lui testimone della verità universale del bene, come della malizia della sua scelta particolare. Ma il verdetto della coscienza permane in lui anche come un pegno di speranza e di misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il perdono da chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare sempre, con la grazia di Dio.

Così nel giudizio pratico della coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di « giudizio » che riflettono la verità sul bene, e non come « decisioni » arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi — e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto — si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, in favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al contrario, con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa nell'agire.

Cercare la verità e il bene

62. La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore. « Succede non di rado — scrive il Concilio — che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato ».107 Con queste brevi parole il Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea.

Certamente, per avere una « buona coscienza » (1 Tm 1,5), l'uomo deve cercare la verità e deve giudicare secondo questa stessa verità. Come dice l'apostolo Paolo, la coscienza deve essere illuminata dallo Spirito Santo (cf Rm 9,1), deve essere « pura » (2 Tm 1,3), non deve con astuzia falsare la parola di Dio ma manifestare chiaramente la verità (cf 2 Cor 4,2). D'altra parte, lo stesso Apostolo ammonisce i cristiani dicendo: « Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2).

Il monito di Paolo ci sollecita alla vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della nostra coscienza si annida sempre la possibilità dell'errore. Essa non è un giudice infallibile: può errare. Nondimeno l'errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da cui non può uscire da solo.

Nel caso in cui tale ignoranza invincibile non sia colpevole, ci ricorda il Concilio, la coscienza non perde la sua dignità, perché essa, pur orientandoci di fatto in modo difforme dall'ordine morale oggettivo, non cessa di parlare in nome di quella verità sul bene che il soggetto è chiamato a ricercare sinceramente.

63. È comunque sempre dalla verità che deriva la dignità della coscienza: nel caso della coscienza retta si tratta della veritàoggettiva accolta dall'uomo; in quello della coscienza erronea si tratta di ciò che l'uomo sbagliando ritiene soggettivamente vero. Non è mai accettabile confondere un errore « soggettivo » sul bene morale con la verità « oggettiva », razionalmente proposta all'uomo in virtù del suo fine, né equiparare il valore morale dell'atto compiuto con coscienza vera e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza erronea.108 Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male, un disordine in relazione alla verità sul bene. Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie: esso non la perfeziona e non giova a disporla al bene supremo. Così, prima di sentirci facilmente giustificati in nome della nostra coscienza, dovremmo meditare sulla parola del Salmo: « Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo » (Sal 181,13). Ci sono colpe che non riusciamo a vedere e che nondimeno rimangono colpe, perché ci siamo rifiutati di andare verso la luce (cf Gv 9,39-41).

La coscienza, come giudizio ultimo concreto, compromette la sua dignità quando è colpevolmente erronea, ossia « quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine al peccato ».109 Ai pericoli della deformazione della coscienza allude Gesù, quando ammonisce: « La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra! » (Mt 6,22-23).

64. Nelle parole di Gesù sopra riferite troviamo anche l'appello a formare la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene. Analoga è l'esortazione dell'Apostolo a non conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma a trasformarsi rinnovando la propria mente (cf Rm 12,2). È, in realtà, il « cuore » convertito al Signore e all'amore del bene la sorgente dei giudizi veri della coscienza. Infatti, « per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2) è sì necessaria la conoscenza della legge di Dio in generale, ma questa non è sufficiente: è indispensabile una sorta di « connaturalità » tra l'uomo e il vero bene.110 Una simile connaturalità si radica e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell'uomo stesso: la prudenza e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. In tal senso Gesù ha detto: « Chi opera la verità viene alla luce » (Gv 3,21).

Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l'hanno nella Chiesa e nel suo Magistero, come afferma il Concilio: « I cristiani... nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana ».111 Pertanto l'autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della coscienza non è mai libertà « dalla » verità, ma sempre e solo « nella » verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall'atto originario della fede. La Chiesa si pone solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l'inganno degli uomini (cf Ef 4,14), a non sviarsi dalla verità circa il bene dell'uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa.

III. La scelta fondamentale e i componenti concreti

« Purché questa libertà non divenga pretestoper vivere secondo la carne » (Gal 5,13)

65. L'interesse, oggi particolarmente acuto, per la libertà induce molti cultori di scienze sia umane che teologiche a sviluppare un'analisi più penetrante della sua natura e dei suoi dinamismi. Giustamente si rileva che la libertà non è solo la scelta per questa o per quest'altra azione particolare; ma è anche, dentro una simile scelta, decisione su di sé e disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o contro la Verità, in ultima istanza pro o contro Dio. Giustamente si sottolinea l'importanza eminente di alcune scelte, che danno « forma » a tutta la vita morale di un uomo, configurandosi come l'alveo entro cui potranno trovare spazio e sviluppo anche altre scelte quotidiane particolari.

Alcuni autori, tuttavia, propongono una revisione ben più radicale del rapporto tra persona e atti. Essi parlano di una « libertà fondamentale », più profonda e diversa dalla libertà di scelta, senza la cui considerazione non si potrebbero né comprendere né valutare correttamente gli atti umani. Secondo tali autori, il ruolo chiave nella vita morale sarebbe da attribuire ad una « opzione fondamentale », attuata da quella libertà fondamentale mediante la quale la persona decide globalmente di se stessa, non attraverso una scelta determinata e consapevole a livello riflesso, ma in forma « trascen- dentale » e « atematica ». Gli atti particolari derivanti da questa opzione costituirebbero soltanto dei tentativi parziali e mai risolutivi per esprimerla, sarebbero solamente « segni » o sintomi di essa. Oggetto immediato di questi atti — si dice — non è il Bene assoluto (di fronte al quale si esprimerebbe a livello trascendentale la libertà della persona), ma sono i beni particolari (detti anche « cate- goriali »). Ora, secondo l'opinione di alcuni teologi, nessuno di questi beni, per loro natura parziali, potrebbe determinare la libertà dell'uomo come persona nella sua totalità, anche se solamente mediante la loro realizzazione o il loro rifiuto l'uomo potrebbe esprimere la propria opzione fondamentale.

Si giunge così ad introdurre una distinzione tra l'opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento concreto, una distinzione che in alcuni autori assume la forma di una dissociazione, allorché essi riservano espressamente il « bene » e il « male » morale alla dimensione trascendentale propria dell'opzione fondamentale, qualificando come « giuste » o « sbagliate » le scelte di particolari comportamenti « intramondani », riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo delle cose. Sembra così delinearsi all'interno dell'agire umano una scissione tra due livelli di moralità: l'ordine del bene e del male, dipendente dalla volontà, da una parte, e i comportamenti determinati, dall'altra, i quali vengono giudicati come moralmente giusti o sbagliati solo in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali « premorali » o « fisici », che effettivamente seguono all'azione. E ciò fino al punto che un comportamento concreto, anche liberamente scelto, viene considerato come un processo semplicemente fisico, e non secondo i criteri propri di un atto umano. L'esito al quale si giunge è di riservare la qualifica propriamente morale della persona all'opzione fondamentale, sottraendola in tutto o in parte alla scelta degli atti particolari, dei comportamenti concreti.

66. Non c'è dubbio che la dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce la specifica importanza di una scelta fondamentale che qualifica la vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte a Dio. Si tratta della scelta della fede, dell'obbedienza della fede (cf Rm 16,26), « con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" ».112 Questa fede, che « opera mediante la carità » (Gal 5,6), proviene dal centro dell'uomo, dal suo « cuore » (cf Rm 10,10), e da qui è chiamata a fruttificare nelle opere (cf Mt 12,33-35; Lc 6,43-45; Rm 8,5-8; Gal 5, 22). Nel Decalogo si trova, in capo ai diversi comandamenti, la clausola fondamentale: « Io sono il Signore, tuo Dio... » (Es 20,2) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie prescrizioni particolari, assicura alla morale dell'Alleanza una fisionomia di globalità, di unità e di profondità. La scelta fondamentale di Israele riguarda allora il comandamento fondamentale (cf Gs 24,14-25; Es 19,3-8; Mic 6,8). Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata dall'appello fondamentale di Gesù alla sua « sequela » — così anche al giovane egli dice: « Se vuoi essere perfetto... vieni e seguimi » (Mt 19,21) —: a tale appello il discepolo risponde con una decisione e scelta radicale. Le parabole evangeliche del tesoro e della perla preziosa, per la quale si vende tutto ciò che si possiede, sono immagini eloquenti ed efficaci del carattere radicale e incondizionato della scelta che il Regno di Dio esige. La radicalità della scelta di seguire Gesù è meravigliosamente espressa nelle sue parole: « Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà » (Mc 8,35).

L'appello di Gesù « vieni e seguimi » segna la massima esaltazione possibile della libertà dell'uomo e, nello stesso tempo, attesta la verità e l'obbligazione di atti di fede e di decisioni che si possono dire di opzione fondamentale. Analoga esaltazione della libertà umana troviamo nelle parole di san Paolo: « Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà » (Gal 5, 13). Ma l'Apostolo immediatamente aggiunge un grave monito: « Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne ». In questo monito riecheggiano le sue precedenti parole: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù » (Gal 5,1). L'apostolo Paolo ci invita alla vigilanza: la libertà è sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è proprio questo il caso di un atto di fede — nel senso di un'opzione fondamentale — che viene dissociato dalla scelta degli atti particolari, secondo le tendenze sopra ricordate.

67. Queste tendenze sono dunque contrarie allo stesso insegnamento biblico che concepisce l'opzione fondamentale come una vera e propria scelta della libertà e collega profondamente tale scelta con gli atti particolari. Mediante la scelta fondamentale l'uomo è capace di orientare la sua vita e di tendere, con l'aiuto della grazia, verso il suo fine, seguendo l'appello divino. Ma questa capacità si esercita di fatto nelle scelte particolari di atti determinati, mediante i quali l'uomo si conforma deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla legge di Dio. Va pertanto affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si differenzia da un'intenzione generica e quindi non ancora determinatasi in una forma impegnativa della libertà, si attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Proprio per questo, essa viene revocata quando l'uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli di senso contrario, relative a materia morale grave.

Separare l'opzione fondamentale dai comportamenti concreti significa contraddire l'integrità sostanziale o l'unità personale dell'agente morale nel suo corpo e nella sua anima. Un'opzione fondamentale, intesa senza considerare esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le determinazioni che la esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale immanente all'agire dell'uomo e a ciascuna delle sue scelte deliberate. In realtà, la moralità degli atti umani non si evince solo dall'intenzione, dall'orientazione o opzione fondamentale, interpretata nel senso di un'intenzione vuota di contenuti impegnativi ben determinati o di un'intenzione alla quale non corrisponde uno sforzo fattivo nei diversi obblighi della vita morale. La moralità non può essere giudicata se si prescinde dalla conformità o dalla contrarietà della scelta deliberata di un comportamento concreto rispetto alla dignità e alla vocazione integrale della persona umana. Ogni scelta implica sempre un riferimento della volontà deliberata ai beni e ai mali, indicati dalla legge naturale come beni da perseguire e mali da evitare.

Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la « creatività » di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce.

68. Occorre aggiungere una importante considerazione pastorale. Nella logica delle posizioni sopra accennate, l'uomo potrebbe, in virtù di un'opzione fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla conformità o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o regole morali specifiche. In ragione di un'opzione originaria per la carità, l'uomo potrebbe mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa.

In realtà, l'uomo non si perde solo per l'infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale si è consegnato « tutto a Dio liberamente ».113 Egli, con ogni peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha donato la legge e pertanto si rende colpevole verso tutta la legge (cf Gc 2,8-11); pur conservandosi nella fede, egli perde la « grazia santificante », la « carità » e la « beatitudine eterna ».114 « La grazia della giustificazione — insegna il Concilio di Trento —, una volta ricevuta, può essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale ».115

Peccato mortale e veniale

69. Le considerazioni intorno all'opzione fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora notato, alcuni teologi a sottoporre a profonda revisione anche la distinzione tradizionale tra i peccati mortali e i peccati veniali. Essi sottolineano che l'opposizione alla legge di Dio, che causa la perdita della grazia santificante — e, nel caso di morte in un simile stato di peccato, l'eterna condanna —, può essere soltanto il frutto di un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè un atto di opzione fondamentale. Secondo questi teologi il peccato mortale, che separa l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio, compiuto ad un livello della libertà non identificabile con un atto di scelta né attingibile con consapevolezza riflessa. In questo senso — aggiungono — è difficile, almeno psicologicamente, accettare il fatto che un cristiano, che vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, possa così facilmente e ripetutamente commettere peccati mortali, come indicherebbe, a volte, la « materia » stessa dei suoi atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che l'uomo sia capace, in un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il legame di comunione con Dio e, successivamente, di convertirsi a lui mediante la sincera penitenza. Occorre dunque — si dice — misurare la gravità del peccato piuttosto dal grado di impegno della libertà della persona che compie un atto che non dalla materia di tale atto.

70. L'Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia ha ribadito l'importanza e la permanente attualità della distinzione tra peccati mortali e veniali, secondo la tradizione della Chiesa. E il Sinodo dei Vescovi del 1983, da cui è scaturita tale Esortazione, « non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso ».116

Il pronunciamento del Concilio di Trento non considera soltanto la « materia grave » del peccato mortale, ma ricorda anche, come sua necessaria condizione, « la piena avvertenza e il deliberato consenso ». Del resto, sia nella teologia morale che nella pratica pastorale, sono ben conosciuti i casi nei quali un atto grave, a motivo della sua materia, non costituisce peccato mortale a motivo della non piena avvertenza o del non deliberato consenso di colui che lo compie. D'altra parte, « si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di "opzione fondamentale" — come oggi si suol dire — contro Dio », concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito e non riflesso rifiuto dell'amore. « Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, quale appunto l' "opzione fondamentale", intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale ».117

In tal modo la dissociazione tra opzione fondamentale e scelte deliberate di comportamenti determinati — disordinati in se stessi o nelle circostanze — che non la metterebbero in causa, comporta il misconoscimento della dottrina cattolica sul peccato mortale: « Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (conversio ad creaturam). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave ».118

IV. L'atto morale

Teleologia e teleologismo

71. Il rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, che trova la sua sede intima e viva nella coscienza morale, si manifesta e si realizza negli atti umani. È proprio mediante i suoi atti che l'uomo si perfeziona come uomo, come uomo chiamato a cercare spontaneamente il suo Creatore e a giungere liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione.119

Gli atti umani sono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell'uomo stesso che compie quegli atti.120 Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate, qualificano moralmente la persona stessa che li compie e ne determinano la fisionomia spirituale profonda, come rileva suggestivamente san Gregorio Nisseno: « Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in male... Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente... Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo, com'è il caso degli esseri corporei... Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo così, in certo modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo ».121

72. La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo (e così è « legge naturale »), quanto — in modo integrale e perfetto — attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata « legge divina »). L'agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell'uomo ed esprimono così l'ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo trova la sua piena e perfetta felicità. La domanda iniziale del colloquio del giovane con Gesù: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt 19,16) mette immediatamente in luce l'essenziale legame tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell'uomo. Gesù, nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il compimento di atti buoni, comandati da Colui che « solo è buono », costituisce la condizione indispensabile e la via per la beatitudine eterna: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17). La risposta di Gesù e il rimando ai comandamenti manifestano anche che la via al fine è segnata dal rispetto delle leggi divine che tutelano il bene umano. Solo l'atto conforme al bene può essere via che conduce alla vita.

L'ordinazione razionale dell'atto umano al bene nella sua verità e il perseguimento volontario di questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità. Pertanto, l'agire umano non può essere valutato moralmente buono solo perché funzionale a raggiungere questo o quello scopo, che persegue, o semplicemente perché l'intenzione del soggetto è buona.122 L'agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l'ordinazione volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell'azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione. Se l'oggetto dell'azione concreta non è in sintonia con il bene vero della persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè Dio stesso.

73. Il cristiano, grazie alla rivelazione di Dio e alla fede, conosce la « novità » da cui è segnata la moralità dei suoi atti; questi sono chiamati ad esprimere la coerenza o meno con quella dignità e vocazione che gli sono state donate dalla grazia: in Gesù Cristo e nel suo Spirito, il cristiano è « creatura nuova », figlio di Dio, e mediante i suoi atti manifesta la sua conformità o difformità con l'immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli (cf Rm 8,29), vive la sua fedeltà o infedeltà al dono dello Spirito e si apre o si chiude alla vita eterna, alla comunione di visione, di amore e di beatitudine con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.123 Cristo « ci forma secondo la sua immagine — scrive san Cirillo Alessandrino —, in modo che i lineamenti della sua divina natura risplendano in noi attraverso la santificazione e la giustizia e la vita buona e conforme a virtù... La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere ».124

In questo senso la vita morale possiede un essenziale carattere « teleologico », perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell'uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Ma questa ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale dell'uomo, tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso nella risposta al giovane: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17).

Evidentemente dev'essere un'ordinazione razionale e libera, cosciente e deliberata, in forza della quale l'uomo è « responsabile » dei suoi atti ed è soggetto al giudizio di Dio, giudice giusto e buono che premia il bene e castiga il male, come ci ricorda l'apostolo Paolo: « Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male » (2 Cor 5,10).

74. Ma da che cosa dipende la qualificazione morale dell'agire libero dell'uomo? Da che cosa è assicurata questa ordinazione a Dio degli atti umani? Dall'intenzione del soggetto che agisce, dalle circostanze — e in particolare dalle conseguenze — del suo agire, dall'oggetto stesso del suo atto?

È questo il problema tradizionalmente chiamato delle « fonti della moralità ». Proprio a riguardo di tale problema, in questi decenni si sono manifestate nuove — o ripristinate — tendenze culturali e teologiche che esigono un accurato discernimento da parte del Magistero della Chiesa.

Alcune teorie etiche, denominate « teleologiche », si presentano attente alla conformità degli atti umani con i fini perseguiti dall'agente e con i valori da lui intesi. I criteri per valutare la giustezza morale di un'azione sono ricavati dalla ponderazione dei beni non-morali o pre-morali da conseguire e dei rispettivi valori non-morali o pre-morali da rispettare. Per taluni il comportamento concreto sarebbe giusto, o sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre uno stato di cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il comportamento in grado di « massimizzare » i beni e di « minimizzare » i mali.

Molti dei moralisti cattolici, che seguono questo orientamento, intendono prendere le distanze dall'utilitarismo e dal pragmatismo, per cui la moralità degli atti umani sarebbe giudicata senza far riferimento al vero fine ultimo dell'uomo. Essi giustamente si rendono conto della necessità di trovare argomentazioni razionali, sempre più consistenti, per giustificare le esigenze e fondare le norme della vita morale. E tale ricerca è legittima e necessaria, dal momento che l'ordine morale, stabilito dalla legge naturale, è in linea di principio accessibile alla ragione umana. È ricerca, del resto, che corrisponde alle esigenze del dialogo e della collaborazione con i non-cattolici e i non-credenti, particolarmente nelle società pluralistiche.

75. Ma all'interno dello sforzo di elaborare una simile morale razionale — talvolta chiamata a questo titolo « morale autonoma » —, esistono false soluzioni, legate in particolare ad una inadeguata comprensione dell'oggetto dell'agire morale. Alcuni non tengono in sufficiente considerazione il fatto che la volontà è coinvolta nelle scelte concrete che essa opera: queste sono condizione della sua bontà morale e della sua ordinazione al fine ultimo della persona. Altri poi si ispirano ad una concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del suo esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità sul bene, dalla sua determinazione mediante scelte di comportamenti concreti. Così, secondo queste teorie, la volontà libera non sarebbe né moralmente sottomessa a obbligazioni determinate, né informata dalle sue scelte, pur rimanendo responsabile dei propri atti e delle loro conseguenze. Questo « teleologismo », come metodo di rinvenimento della norma morale, può allora — secondo terminologie e approcci mutuati da differenti correnti di pensiero — chiamarsi « consequenzialismo » o « proporzionalismo ». Il primo pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del « più grande bene » o del « minor male » effettivamente possibili in una situazione particolare.

Le teorie etiche teleologiche (proporzionalismo, consequenzialismo), pur riconoscendo che i valori morali sono indicati dalla ragione e dalla Rivelazione, ritengono che non si possa mai formulare una proibizione assoluta di determinati comportamenti, che sarebbero contrastanti, in ogni circostanza e in ogni cultura, con quei valori. Il soggetto che agisce sarebbe sì responsabile del raggiungimento dei valori perseguiti, ma secondo un duplice aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti in un atto umano sarebbero, per un aspetto, di ordine morale (in rapporto a valori propriamente morali, come l'amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, ecc.) e, per un altro aspetto, di ordine pre-morale, detto anche non-morale o fisico o ontico (in rapporto ai vantaggi e svantaggi recati sia a colui che agisce che ad altre persone, prima o poi coinvolte, come, ad esempio, la salute o la sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la morte, la perdita di beni materiali, ecc.). In un mondo in cui il bene sarebbe sempre mescolato al male ed ogni effetto buono legato ad altri effetti cattivi, la moralità dell'atto si giudicherebbe in modo differenziato: la sua « bontà » morale sulla base dell'intenzione del soggetto riferita ai beni morali e la sua « giustezza » sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della loro proporzione. Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da qualificarsi come « giusti » o « sbagliati », senza che per questo sia possibile valutare come moralmente « buona » o « cattiva » la volontà della persona che li sceglie. In questo modo, un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma universale negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali, potrebbe essere qualificato come moralmente ammissibile, se l'intenzione del soggetto si concentra, secondo una « responsabile » ponderazione dei beni coinvolti nell'azione concreta, sul valore morale giudicato decisivo nella circostanza.

La valutazione delle conseguenze dell'azione, in base alla proporzione dell'atto con i suoi effetti e degli effetti tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo pre-morale. Sulla specificità morale degli atti, ossia sulla loro bontà o malizia, deciderebbe esclusivamente la fedeltà della persona ai valori più alti della carità e della prudenza, senza che questa fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie a certi precetti morali particolari. Anche in materia grave, questi ultimi dovrebbero essere considerati come norme operative sempre relative e suscettibili di eccezioni.

In questa prospettiva il consenso deliberato a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale tradizionale non implicherebbe una malizia morale oggettiva.

L'oggetto dell'atto deliberato

76. Queste teorie possono acquistare una certa forza persuasiva dalla loro affinità con la mentalità scientifica, giustamente preoccupata di ordinare le attività tecniche ed economiche in base al calcolo delle risorse e dei profitti, dei procedimenti e degli effetti. Esse vogliono liberare dalle costrizioni di una morale dell'obbligazione, volontarista e arbitraria, che si rivelerebbe disumana.

Siffatte teorie non sono però fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di poter giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale. Queste teorie non possono richiamarsi alla tradizione morale cattolica: se è vero che in quest'ultima si è sviluppata una casistica attenta a ponderare in alcune situazioni concrete le possibilità maggiori di bene, è altrettanto vero che ciò riguardava solo i casi in cui la legge era incerta e, pertanto, non metteva in discussione la validità assoluta dei precetti morali negativi che obbliga senza eccezione. I fedeli sono tenuti a riconoscere e a rispettare i precetti morali specifici, dichiarati e insegnati dalla Chiesa in nome di Dio, Creatore e Signore.125 Quando l'apostolo Paolo ricapitola nel precetto di amare il prossimo come se stessi il compimento della legge (cf Rm 13,8-10), non attenua i comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento che ne rivela le esigenze e la gravità. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono inseparabili dall'osservanza dei comandamenti dell'Alleanza, rinnovata nel sangue di Gesù Cristo e nel dono dello Spirito. È onore proprio dei cristiani obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 4,19; 5,29) ed accettare per questo anche il martirio, come hanno fatto i santi e le sante dell'Antico e del Nuovo Testamento, riconosciuti tali per aver dato la loro vita piuttosto che compiere questo o quel gesto particolare contrario alla fede o alla virtù.

77. Per offrire i criteri razionali di una giusta decisione morale, le accennate teorie tengono conto dell'intenzione e delle conseguenze dell'azione umana. Sono certamente da prendere in grande considerazione sia l'intenzione — come insiste con una forza particolare Gesù in aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che minuziosamente prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (cf Mc 7,20-21; Mt 15,19) —, sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito di un atto particolare. Si tratta di un'esigenza di responsabilità. Ma la considerazione di queste conseguenze — nonché delle intenzioni — non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un'azione, non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto è « secondo la sua specie », o « in se stessa », moralmente buona o cattiva, lecita o illecita. Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze dell'atto, che, se possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono però cambiarne la specie morale.

Ciascuno, del resto, conosce le difficoltà — o meglio l'impossibilità — di valutare tutte le conseguenze e tutti gli effetti buoni o cattivi — definiti pre-morali — dei propri atti: un calcolo razionale esaustivo non è possibile. Come fare allora per stabilire delle proporzioni che dipendono da una valutazione, i cui criteri restano oscuri? In che modo potrebbe giustificarsi un obbligo assoluto su calcoli tanto discutibili?

78. La moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san Tommaso.126 Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, « vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale ».127 « Spesso infatti — scrive l'Aquinate — qualcuno agisce con buona intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà: come nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è sì la retta intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di conseguenza, nessun male compiuto con buona intenzione può essere scusato: "Come coloro che dicono: Facciamo il male perché venga il bene; la condanna dei quali è giusta" (Rm 3,8) ».128

La ragione per cui non basta la buona intenzione ma occorre anche la retta scelta delle opere, sta nel fatto che l'atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che « solo è buono », e così realizza la perfezione della persona. L'atto è buono, quindi, se il suo oggetto è conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa moralmente rilevanti. L'etica cristiana, che privilegia l'attenzione all'oggetto morale, non rifiuta di considerare l'interiore « teleologia » dell'agire, in quanto volto a promuovere il vero bene della persona, ma riconosce che esso viene realmente perseguito solo quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana. L'atto umano, buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile al fine ultimo. Lo stesso atto raggiunge poi la sua perfezione ultima e decisiva quando la volontà lo ordina effettivamente a Dio mediante la carità. In tal senso, il Patrono dei moralisti e dei confessori insegna: « Non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Acciocché le opere nostre siano buone e perfette, è necessario farle col puro fine di piacere a Dio ».129

Il « male intrinseco »: non è lecito fare il male a scopo di bene (cf Rm 3,8)

79. È da respingere quindi la tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie — il suo « oggetto » — la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate.

L'elemento primario e decisivo per il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale ordinabilità viene colta dalla ragione nell'essere stesso dell'uomo, considerato nella sua verità integrale, dunque nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità che hanno sempre anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i contenuti della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei « beni per la persona » che si pongono al servizio del « bene della persona », di quel bene che è essa stessa e la sua perfezione. Sono questi i beni tutelati dai comandamenti, i quali, secondo san Tommaso, contengono tutta la legge naturale.130

80. Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come « non-ordinabili » a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati « intrinsecamente cattivi » (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che « esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto ».131 Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un'ampia esemplificazione di tali atti: « Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l'onore del Creatore ».132

Sugli atti intrinsecamente cattivi, e in riferimento alle pratiche contraccettive mediante le quali l'atto coniugale è reso intenzionalmente infecondo, Paolo VI insegna: « In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell'intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali ».133

81. Insegnando l'esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L'apostolo Paolo afferma in modo categorico: « Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio » (1 Cor 6,9-10).

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti « irrimediabilmente » cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: « Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) — scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati? ».134

Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto « soggettivamente » onesto o difendibile come scelta.

82. Del resto, l'intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è « non-ordinabile » a Dio e « indegno della persona umana », si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene. In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale.

La dottrina dell'oggetto, quale fonte della moralità, costituisce un'esplicitazione autentica della morale biblica dell'Alleanza e dei comandamenti, della carità e delle virtù. La qualità morale dell'agire umano dipende da questa fedeltà ai comandamenti, espressione di obbedienza e di amore. È per questo — lo ripetiamo — che è da respingere come erronea l'opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati, prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate. Senza questa determinazione razionale della moralità dell'agire umano, sarebbe impossibile affermare un « ordine morale oggettivo » 135 e stabilire una qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, che obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della fraternità umana e della verità sul bene, e a detrimento altresì della comunione ecclesiale.

83. Come si vede, nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell'esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano. Riconoscendo e insegnando l'esistenza del male intrinseco in determinati atti umani, la Chiesa rimane fedele alla verità integrale dell'uomo, e quindi lo rispetta e lo promuove nella sua dignità e vocazione. Essa, di conseguenza, deve respingere le teorie sopra esposte che si pongono in contrasto con questa verità.

Bisogna però che noi, Fratelli nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l'affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso. In Lui, che è la Verità (cf Gv 14,6), l'uomo può comprendere pienamente e vivere perfettamente, mediante gli atti buoni, la sua vocazione alla libertà nell'obbedienza alla legge divina, che si compendia nel comandamento dell'amore di Dio e del prossimo. Ed è quanto avviene con il dono dello Spirito Santo, Spirito di verità, di libertà e di amore: in Lui ci è dato di interiorizzare la legge e di percepirla e viverla come il dinamismo della vera libertà personale: « la legge perfetta, la legge della libertà » (Gc 1,25).


CAPITOLO III

« PERCHÉ NON VENGA RESA VANA
LA CROCE DI CRISTO »
(1 Cor 1,17)

Il bene morale per la vita della chiesa e del mondo

« Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi » (Gal 5,1)

84. La questione fondamentale che le teorie morali sopra ricordate pongono con particolare forza è quella del rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, ultimamente è la questione del rapporto tra la libertà e la verità.

Secondo la fede cristiana e la dottrina della Chiesa, « solamente la libertà che si sottomette alla Verità conduce la persona umana al suo vero bene. Il bene della persona è di essere nella Verità e di fare la Verità ».136

Il confronto tra la posizione della Chiesa e la situazione sociale e culturale d'oggi mette immediatamente in luce l'urgenza che proprio su tale questione fondamentale si sviluppi un'intensa opera pastorale da parte della Chiesa stessa: « Questo essenziale legame di Verità-Bene-Libertà è stato smarrito in larga parte dalla cultura contemporanea e, pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è oggi una delle esigenze proprie della missione della Chiesa, per la salvezza del mondo. La domanda di Pilato: "Che cosa è la verità?" emerge anche dalla sconsolata perplessità di un uomo che spesso non sa più chi è, donde viene e dove va. E così assistiamo non di rado al pauroso precipitare della persona umana in situazioni di autodistruzione progressiva. A voler ascoltare certe voci, sembra di non doversi più riconoscere l'indistruttibile assolutezza di alcun valore morale. Sono sotto gli occhi di tutti il disprezzo della vita umana già concepita e non ancora nata; la violazione permanente di fondamentali diritti della persona; l'iniqua distruzione dei beni necessari per una vita semplicemente umana. Anzi, qualcosa di più grave è accaduto: l'uomo non è più convinto che solo nella verità può trovare la salvezza. La forza salvifica del vero è contestata, affidando alla sola libertà, sradicata da ogni obiettività, il compito di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male. Questo relativismo diviene, nel campo teologico, sfiducia nella sapienza di Dio, che guida l'uomo con la legge morale. A ciò che la legge morale prescrive si contrappongono le cosiddette situazioni concrete, non ritenendo più, in fondo, che la legge di Dio sia sempre l'unico vero bene dell'uomo ».137

85. L'opera di discernimento di queste teorie etiche da parte della Chiesa non si restringe alla loro denuncia e al loro rifiuto, ma mira positivamente a sostenere con grande amore tutti i fedeli nella formazione d'una coscienza morale che giudichi e conduca a decisioni secondo verità, come esorta l'apostolo Paolo: « Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12, 2). Quest'opera della Chiesa trova il suo punto di forza — il suo « segreto » formativo — non tanto negli enunciati dottrinali e negli appelli pastorali alla vigilanza, quanto nel tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. La Chiesa ogni giorno guarda con instancabile amore a Cristo, pienamente consapevole che solo in lui sta la risposta vera e definitiva al problema morale.

In particolare, in Gesù crocifisso essa trova la risposta alla questione che tormenta oggi tanti uomini: come può l'obbedienza alle norme morali universali e immutabili rispettare l'unicità e l'irripetibilità della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? La Chiesa fa sua la coscienza che l'apostolo Paolo aveva della missione ricevuta: « Cristo... mi ha mandato... a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo... Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio » (1 Cor 1,17.23-24).Cristo crocifisso rivela il senso autentico della libertà, lo vive in pienezza nel dono totale di sé e chiama i discepoli a prendere parte alla sua stessa libertà.

86. La riflessione razionale e l'esperienza quotidiana dimostrano la debolezza, da cui è segnata la libertà dell'uomo. È libertà reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza assoluto e incondizionato in se stessa, ma nell'esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un limite e una possibilità. È la libertà di una creatura, ossia una libertà donata, da accogliere come un germe e da far maturare con responsabilità. È parte costitutiva di quell'immagine creaturale, che fonda la dignità della persona: in essa risuona la vocazione originaria con cui il Creatore chiama l'uomo al vero Bene, e ancora di più, con la rivelazione di Cristo, a entrare in amicizia con lui, partecipando alla stessa vita divina. È insieme inalienabile autopossesso e apertura universale ad ogni esistente, nell'uscita da sé verso la conoscenza e l'amore dell'altro.138 La libertà si radica dunque nella verità dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.

Ragione ed esperienza dicono non solo la debolezza della libertà umana, ma anche il suo dramma. L'uomo scopre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire questa apertura al Vero e al Bene e che troppo spesso, di fatto, egli preferisce scegliere beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor più, dentro gli errori e le scelte negative, l'uomo avverte l'origine di una ribellione radicale, che lo porta a rifiutare la Verità e il Bene per erigersi a principio assoluto di se stesso: « Voi diventerete come Dio » (Gn 3,5). La libertà, quindi, ha bisogno di essere liberata. Cristo ne è il liberatore: egli « ci ha liberati perché restassimo liberi » (Gal 5,1).

87. Cristo rivela, anzitutto, che il riconoscimento onesto e aperto della verità è condizione di autentica libertà: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv 8,32).139 È la verità che rende liberi davanti al potere e dà la forza del martirio. Così è di Gesù davanti a Pilato: « Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18,37). Così i veri adoratori di Dio devono adorarlo « in spirito e verità » (Gv 4,23): in questa adorazione diventano liberi. Il legame con la verità e l'adorazione di Dio si manifestano in Gesù Cristo come la più intima radice della libertà.

Gesù rivela, inoltre, con la sua stessa esistenza e non solo con le parole, che la libertà si realizza nell'amore, cioè neldono di sé. Lui che dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13), va incontro liberamente alla Passione (cf Mt 26,46) e nella sua obbedienza al Padre sulla Croce dà la vita per tutti gli uomini (cf Fil 2, 6-11). In tal modo la contemplazione di Gesù crocifisso è la via maestra sulla quale la Chiesa deve camminare ogni giorno se vuole comprendere l'intero senso della libertà: il dono di sé nel servizio a Dio e ai fratelli. La comunione poi con il Signore crocifisso e risorto è la sorgente inesauribile alla quale la Chiesa attinge senza sosta per vivere nella libertà, donarsi e servire. Commentando il versetto del Salmo 99 (100) « Servite il Signore nella gioia », sant'Agostino dice: « Nella casa del Signore libera è la schiavitù. Libera, poiché il servizio non l'impone la necessità, ma la carità... La carità ti renda servo, come la verità ti ha fatto libero... Allo stesso tempo tu sei servo e libero: servo, perché ci diventasti; libero, perché sei amato da Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché ti è dato di amare il tuo creatore... Sei servo del Signore e sei libero del Signore. Non cercare una liberazione che ti porti lontano dalla casa del tuo liberatore! ».140

In tal modo la Chiesa, e ciascun cristiano in essa, è chiamata a partecipare al munus regale di Cristo in croce (cf Gv 12,32), alla grazia e alla responsabilità del Figlio dell'uomo, che « non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,28).141

Gesù, dunque, è la sintesi viva e personale della perfetta libertà nell'obbedienza totale alla volontà di Dio. La sua carne crocifissa è la piena Rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e verità, così come la sua risurrezione da morte è l'esaltazione suprema della fecondità e della forza salvifica di una libertà vissuta nella verità.

Camminare nella luce (cf 1 Gv 1,7)

88. La contrapposizione, anzi la radicale dissociazione tra libertà e verità è conseguenza, manifestazione e compimento di un'altra più grave e deleteria dicotomia, quella che separa la fede dalla morale.

Questa separazione costituisce una delle più acute preoccupazioni pastorali della Chiesa nell'attuale processo di secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini pensano e vivono « come se Dio non esistesse ». Siamo di fronte ad una mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare, gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio interpretativo e operativo per l'esistenza personale, familiare e sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo.

Urge allora che i cristiani riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante e invadente: « Se un tempo eravate tenebra — ci ammonisce l'apostolo Paolo —, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente... Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi » (Ef 5, 8-11.15-16; cf 1 Ts 5,4-8).

Urge ricuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme di proposizioni da accogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. Del resto, una parola non è veramente accolta se non quando passa negli atti, se non quando viene messa in pratica. La fede è una decisione che impegna tutta l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di amore e di vita del credente con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf Gv 14,6). Comporta un atto di confidenza e di abbandono a Cristo, e ci dona di vivere come lui ha vissuto (cf Gal 2,20), ossia nel più grande amore a Dio e ai fratelli.

89. La fede possiede anche un contenuto morale: origina ed esige un impegno coerente di vita, comporta e perfeziona l'accoglienza e l'osservanza dei comandamenti divini. Come scrive l'evangelista Giovanni, « Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità... Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato » (1 Gv 1,5-6; 2,3-6).

Mediante la vita morale la fede diventa « confessione », non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini: si fa testimonianza. « Voi siete la luce del mondo — ha detto Gesù —; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,14-16). Queste opere sono soprattutto quelle della carità (cf Mt 25,31-46) e dell'autentica libertà che si manifesta e vive nel dono di sé. Sino al dono totale di sé, come ha fatto Gesù che sulla croce « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei » (Ef 5,25). La testimonianza di Cristo è fonte, paradigma e risorsa per la testimonianza del discepolo, chiamato a porsi sulla stessa strada: « Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc 9,23). La carità, secondo le esigenze del radicalismo evangelico, può portare il credente alla testimonianza suprema del martirio. Sempre sull'esempio di Gesù che muore in croce: « Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, — scrive Paolo ai cristiani di Efeso — e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore » (Ef 5,1-2).

Il martirio, esaltazione della santità inviolabile della legge di Dio

90. Il rapporto tra fede e morale splende in tutto il suo fulgore nel rispetto incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. L'universalità e l'immutabilità della norma morale manifestano e, nello stesso tempo, si pongono a tutela della dignità personale, ossia dell'inviolabilità dell'uomo, sul cui volto brilla lo splendore di Dio (cf Gn 9,5-6).

L'inaccettabilità delle teorie etiche « teleologiche », « consequenzia- liste » e « proporzionaliste », che negano l'esistenza di norme morali negative riguardanti comportamenti determinati e valide senza eccezioni, trova una conferma particolarmente eloquente nel fatto del martirio cristiano, che ha sempre accompagnato e accompagna tuttora la vita della Chiesa.

91. Già nell'Antica Alleanza incontriamo ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla legge santa di Dio spinta fino alla volontaria accettazione della morte. Emblematica è la storia di Susanna: ai due giudici ingiusti, che minacciavano di farla morire se si fosse rifiutata di cedere alla loro passione impura, così rispose: « Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore! » (Dn 13,22-23). Susanna, preferendo « cadere innocente » nelle mani dei giudici, testimonia non solo la sua fede e fiducia in Dio, ma anche la sua obbedienza alla verità e all'assolutezza dell'ordine morale: con la sua disponibilità al martirio, proclama che non è giusto fare ciò che la legge di Dio qualifica come male per trarre da esso un qualche bene. Essa sceglie per sé la « parte migliore »: una limpidissima testimonianza, senza nessun compromesso, alla verità circa il bene e al Dio di Israele; manifesta così, nei suoi atti, la santità di Dio.

Alle soglie del Nuovo Testamento Giovanni Battista, rifiutandosi di tacere la legge del Signore e di venire a compromesso col male, « immolò la sua vita per la verità e la giustizia » 142 e fu così precursore del Messia anche nel martirio (cf Mc 6,17-29). Per questo, « fu rinchiuso nell'oscurità del carcere colui che venne a rendere testimonianza alla luce e che dalla stessa luce, che è Cristo, meritò di essere chiamato lampada che arde e illumina... E fu battezzato nel proprio sangue colui al quale era stato concesso di battezzare il Redentore del mondo ».143

Nella Nuova Alleanza si incontrano numerose testimonianze di seguaci di Cristo — a cominciare dal diacono Stefano (cf At 6,8–7,60) e dall'apostolo Giacomo (cf At 12,1-2) — che sono morti martiri per confessare la loro fede e il loro amore al Maestro e per non rinnegarlo. In ciò essi hanno seguito il Signore Gesù, che davanti a Caifa e a Pilato « ha dato la sua bella testimonianza » (1 Tm 6,13), confermando la verità del suo messaggio con il dono della vita. Innumerevoli altri martiri accettarono le persecuzioni e la morte piuttosto che porre il gesto idolatrico di bruciare l'incenso davanti alla statua dell'Imperatore (cf Ap 13, 7-10). Rifiutarono persino di simulare un simile culto, dando così l'esempio del dovere di astenersi anche da un solo comportamento concreto contrario all'amore di Dio e alla testimonianza della fede. Nell'obbedienza, essi affidarono e consegnarono, come Cristo stesso, la loro vita al Padre, a colui che poteva liberarli dalla morte (cf Eb 5,7).

La Chiesa propone l'esempio di numerosi santi e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all'onore degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio, secondo cui l'amore di Dio implica obbligatoriamente il rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto di tradirli, anche con l'intenzione di salvare la propria vita.

92. Nel martirio come affermazione dell'inviolabilità dell'ordine morale risplendono la santità della legge di Dio e insieme l'intangibilità della dignità personale dell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio: è una dignità che non è mai permesso di svilire o di contrastare, sia pure con buone intenzioni, qualunque siano le difficoltà. Gesù ci ammonisce con la massima severità: « Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? » (Mc 8,36).

Il martirio sconfessa come illusorio e falso ogni « significato umano » che si pretendesse di attribuire, pur in condizioni « eccezionali », all'atto in se stesso moralmente cattivo; ancor più ne rivela apertamente il vero volto: quello di una violazione dell'« umanità » dell'uomo, prima ancora in chi lo compie che non in chi lo subisce.144 Il martirio è quindi anche esaltazione della perfetta « umanità » e della vera « vita » della persona, come testimonia sant'Ignazio di Antiochia rivolgendosi ai cristiani di Roma, luogo del suo martirio: « Abbiate compassione di me, fratelli: non impeditemi di vivere, non vogliate che io muoia... Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio ».145

93. Il martirio è infine un segno preclaro della santità della Chiesa: la fedeltà alla legge santa di Dio, testimoniata con la morte, è annuncio solenne e impegno missionario usque ad sanguinem perché lo splendore della verità morale non sia offuscato nel costume e nella mentalità delle persone e della società. Una simile testimonianza offre un contributo di straordinario valore perché, non solo nella società civile ma anche all'interno delle stesse comunità ecclesiali, non si precipiti nella crisi più pericolosa che può affliggere l'uomo: la confusione del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l'ordine morale dei singoli e delle comunità. I martiri, e più ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l'esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della storia risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cf Sap 2, 12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro » (Is 5,20).

Se il martirio rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale, a cui relativamente pochi possono essere chiamati, vi è nondimento una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici. Infatti di fronte alle molteplici difficoltà che anche nelle circostanze più ordinarie la fedeltà all'ordine morale può esigere, il cristiano è chiamato, con la grazia di Dio invocata nella preghiera, ad un impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della fortezza, mediante la quale — come insegna san Gregorio Magno — egli può perfino « amare le difficoltà di questo mondo in vista del premio eterno ».146

94. In questa testimonianza all'assolutezza del bene morale i cristiani non sono soli: essi trovano conferme nel senso morale dei popoli e nelle grandi tradizioni religiose e sapienziali dell'Occidente e dell'Oriente, non senza un'interiore e misteriosa azione dello Spirito di Dio. Valga per tutti l'espressione del poeta latino Giovenale: « Considera il più grande dei crimini preferire la sopravvivenza all'onore e, per amore della vita fisica, perdere le ragioni del vivere ».147 La voce della coscienza ha sempre richiamato senza ambiguità che ci sono verità e valori morali per i quali si deve essere disposti anche a dare la vita. Nella parola e soprattutto nel sacrificio della vita per il valore morale la Chiesa riconosce la medesima testimonianza a quella verità che, già presente nella creazione, risplende pienamente sul volto di Cristo: « Sappiamo — scrive san Giustino — che i seguaci delle dottrine degli stoici sono stati odiati ed uccisi quando hanno dato prova di saggezza nel loro discorso morale ... a motivo del seme del Verbo insito in tutto il genere umano ».148

Le norme morali universali e immutabili al servizio della persona e della società

95. La dottrina della Chiesa e in particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi è giudicata non poche volte come il segno di un'intransigenza intollerabile, soprattutto nelle situazioni enormemente complesse e conflittuali della vita morale dell'uomo e della società d'oggi: un'intransigenza che contrasterebbe col senso materno della Chiesa. Questa, si dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in realtà, la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di Cristo, la Verità in persona: « Come Maestra, essa non si stanca di proclamare la norma morale... Di tale norma la Chiesa non è affatto né l'autrice né l'arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di radicalità e di perfezione ».149

In realtà, la vera comprensione e la genuina compassione devono significare amore alla persona, al suo vero bene, alla sua libertà autentica. E questo non avviene, certo, nascondendo o indebolendo la verità morale, bensì proponendola nel suo intimo significato di irradiazione della Sapienza eterna di Dio, giunta a noi in Cristo, e di servizio all'uomo, alla crescita della sua libertà e al perseguimento della sua felicità.150

Nello stesso tempo la presentazione limpida e vigorosa della verità morale non può mai prescindere da un profondo e sincero rispetto, animato da amore paziente e fiducioso, di cui ha sempre bisogno l'uomo nel suo cammino morale, spesso reso faticoso da difficoltà, debolezze e situazioni dolorose. La Chiesa che non può mai rinunciare al « principio della verità e della coerenza, per cui non accetta di chiamare bene il male e male il bene »,151 deve essere sempre attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora (cf Is 42,3). Paolo VI ha scritto: « Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l'esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare (cf Gv 3,17), Egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone ».152

96. La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali universali e immutabili, non ha nulla di mortificante. È solo al servizio della vera libertà dell'uomo: dal momento che non c'è libertà al di fuori o contro la verità, la difesa categorica, ossia senza cedimenti e compromessi, delle esigenze assolutamente irrinunciabili della dignità personale dell'uomo, deve dirsi via e condizione per l'esistere stesso della libertà.

Questo servizio è rivolto a ogni uomo, considerato nell'unicità e nell'irripetibilità del suo essere ed esistere: solo nell'obbedienza alle norme morali universali l'uomo trova piena conferma della sua unicità di persona e possibilità di vera crescita morale. E, proprio per questo, tale servizio è rivolto a tutti gli uomini: non solo ai singoli, ma anche alla comunità, alla società come tale. Queste norme costituiscono, infatti, il fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta e pacifica convivenza umana, e quindi di una vera democrazia, che può nascere e crescere solo sull'uguaglianza di tutti i suoi membri, accomunati nei diritti e doveri. Di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo « miserabile » sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.

97. Così le norme morali, e in primo luogo quelle negative che proibiscono il male, manifestano il loro significato e la loro forza insieme personale e sociale: proteggendo l'inviolabile dignità personale di ogni uomo, esse servono alla conservazione stessa del tessuto sociale umano e al suo retto e fecondo sviluppo. In particolare, i comandamenti della seconda tavola del Decalogo, ricordati anche da Gesù al giovane del Vangelo (cf Mt 19,18), costituiscono le regole primordiali di ogni vita sociale.

Questi comandamenti sono formulati in termini generali. Ma, il fatto che « principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana »,153 permette di precisarli e di esplicitarli in un codice di comportamento più dettagliato. In tal senso le regole morali fondamentali della vita sociale comportano delle esigenze determinate alle quali devono attenersi sia i poteri pubblici sia i cittadini. Al di là delle intenzioni, talvolta buone, e delle circostanze, spesso difficili, le autorità civili e i soggetti particolari non sono mai autorizzati a trasgredire i diritti fondamentali e inalienabili della persona umana. Così, solo una morale che riconosce delle norme valide sempre e per tutti, senza alcuna eccezione, può garantire il fondamento etico della convivenza sociale, sia nazionale che internazionale.

La morale e il rinnovamento della vita sociale e politica

98. Di fronte alle gravi forme di ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica di cui sono investiti interi popoli e nazioni, cresce l'indignata reazione di moltissime persone calpestate e umiliate nei loro fondamentali diritti umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno di un radicale rinnovamento personale e sociale capace di assicurare giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza.

Certamente lunga e faticosa è la strada da percorrere; numerosi e ingenti sono gli sforzi da compiere perché si possa attuare un simile rinnovamento, anche per la molteplicità e la gravità delle cause che generano e alimentano le situazioni di ingiustizia oggi presenti nel mondo. Ma, come la storia e l'esperienza di ciascuno insegnano, non è difficile ritrovare alla base di queste situazioni cause propriamente « culturali », collegate cioè con determinate visioni dell'uomo, della società e del mondo. In realtà, al cuore della questione culturale sta il senso morale, che a sua volta si fonda e si compie nel senso religioso.154

99. Solo Dio, il Bene supremo, costituisce la base irremovibile e la condizione insostituibile della moralità, dunque dei comandamenti, in particolare di quelli negativi che proibiscono sempre e in ogni caso il comportamento e gli atti incompatibili con la dignità personale di ogni uomo. Così il Bene supremo e il bene morale si incontrano nella verità: la verità di Dio Creatore e Redentore e la verità dell'uomo da Lui creato e redento. Solo su questa verità è possibile costruire una società rinnovata e risolvere i complessi e pesanti problemi che la scuotono, primo fra tutti quello di vincere le più diverse forme di totalitarismo per aprire la via all'autentica libertà della persona. « Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a realizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro... La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla ».155

Per questo la connessione inscindibile tra verità e libertà — che esprime il vincolo essenziale tra la sapienza e la volontà di Dio — possiede un significato d'estrema importanza per la vita delle persone nell'ambito socio-economico e socio-politico, come emerge dalla dottrina sociale della Chiesa — la quale « appartiene... al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale »,156 — e dalla sua presentazione di comandamenti che regolano, in riferimento non solo ad atteggiamenti generali ma anche a precisi e determinati comportamenti e atti concreti, la vita sociale, economica e politica.

100. Così il Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo aver affermato che « in materia economica, il rispetto della dignità umana esige la pratica della virtù della temperanza, per moderare l'attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale "da ricco che era, si è fatto povero" per noi, perché noi diventassimo "ricchi per mezzo della sua povertà" (2 Cor 8,9) »,157 presenta una serie di comportamenti e di atti che contrastano la dignità umana: il furto, il tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti smarriti, la frode nel commercio (cf Dt 25, 13-16), i salari ingiusti (cf Dt 24,14-15; Gc 5,4), il rialzo dei prezzi speculando sull'ignoranza e sul bisogno altrui (cf Am 8,4-6), l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa, i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero, ecc.158 Ed ancora: « Il settimo comandamento proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento di esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come fossero merci. Ridurre le persone, con la violenza, ad un valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone cristiano di trattare il suo schiavo cristiano "non più come uno schiavo, ma... come un fratello... come uomo..., nel Signore" (Fm 16) ».159

101. Nell'ambito politico si deve rilevare che la veridicità nei rapporti tra governanti e governati, la trasparenza nella pubblica amministrazione, l'imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli avversari politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e condanne sommarie, l'uso giusto e onesto del pubblico denaro, il rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo il potere, sono principi che trovano la loro radice prima — come pure la loro singolare urgenza — nel valore trascendente della persona e nelle esigenze morali oggettive di funzionamento degli Stati.160 Quando essi non vengono osservati, viene meno il fondamento stesso della convivenza politica e tutta la vita sociale ne risulta progressivamente compromessa, minacciata e votata alla sua dissoluzione (cf Sal 131, 3-4; Ap 18,2-3.9-24). Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo — e prima fra esse il marxismo —, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell'alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità. Infatti, « se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia ».161

Così in ogni campo della vita personale, familiare, sociale e politica, la morale — che si fonda sulla verità e che nella verità si apre all'autentica libertà — rende un servizio originale, insostituibile e di enorme valore non solo per la singola persona e per la sua crescita nel bene, ma anche per la società e per il suo vero sviluppo. Grazia e obbedienza alla legge di Dio

102. Anche nelle situazioni più difficili l'uomo deve osservare la norma morale per essere obbediente al santo comandamento di Dio e coerente con la propria dignità personale. Certamente l'armonia tra libertà e verità domanda, alcune volte, sacrifici non comuni e va conquistata ad alto prezzo: può comportare anche il martirio. Ma, come l'esperienza universale e quotidiana mostra, l'uomo è tentato di rompere tale armonia: « Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio » (Rm 7, 15.19).

Donde deriva, ultimamente, questa scissione interiore dell'uomo? Egli incomincia la sua storia di peccato quando non riconosce più il Signore come suo Creatore, e vuole essere lui stesso a decidere, in totale indipendenza, ciò che è bene e ciò che è male. « Voi diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male » (Gn 3,5): questa è la prima tentazione, a cui fanno eco tutte le altre tentazioni, alle quali l'uomo è più facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale.

Ma le tentazioni si possono vincere, i peccati si possono evitare, perché con i comandamenti il Signore ci dona la possibilità di osservarli: « I suoi occhi su coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare » (Sir 15,19-20). L'osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un insegnamento costante della tradizione della Chiesa, così espresso dal Concilio di Trento: « Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall'osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell'espressione temeraria e condannata con la scomunica dei Padri, secondo la quale è impossibile all'uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti "i comandamenti di Dio non sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3) e "il suo giogo è soave e il suo peso è leggero" (cf Mt 11,30) ».162

103. All'uomo è sempre aperto lo spazio spirituale della speranza, con l'aiuto della grazia divina e con la collaborazione della libertà umana.

È nella Croce salvifica di Gesù, nel dono dello Spirito Santo, nei Sacramenti che scaturiscono dal costato trafitto del Redentore (cf Gv 19, 34), che il credente trova la grazia e la forza per osservare sempre la legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà più gravi. Come dice sant'Andrea di Creta, la legge stessa « fu vivificata dalla grazia e fu posta al suo servizio in una composizione armonica e feconda. Ognuna delle due conservò le sue caratteristiche senza alterazioni e confusioni. Tuttavia la legge, che prima costituiva un onere gravoso e una tirannia, diventò per opera di Dio peso leggero e fonte di libertà ».163

Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le « concrete » possibilità dell'uomo. « Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un "ideale" che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell'uomo: secondo un "bilanciamento dei vari beni in questione". Ma quali sono le "concrete possibilità dell'uomo"? E di quale uomo si parla? Dell'uomo dominato dalla concupiscenza o dell'uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l'intera verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza. E se l'uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto all'imperfezione dell'atto redentore di Cristo, ma alla volontà dell'uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell'atto. Il comandamento di Dio è certamente proporzionato alle capacità dell'uomo: ma alle capacità dell'uomo a cui è donato lo Spirito Santo; dell'uomo che, se caduto nel peccato, può sempre ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito ».164

104. In questo contesto si apre il giusto spazio alla misericordia di Dio per il peccato dell'uomo che si converte e alla comprensione per l'umana debolezza. Questa comprensione non significa mai compromettere e falsificare la misura del bene e del male per adattarla alle circostanze. Mentre è umano che l'uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile l'atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell'intera società, perché insegna a dubitare dell'oggettività della legge morale in generale e a rifiutare l'assolutezza dei divieti morali circa determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.

Dobbiamo, invece, raccogliere il messaggio che ci viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche giustificazione per i peccati commessi, tale da diminuire la sua responsabilità. Non è però su queste giustificazioni che si sofferma la sua preghiera, ma sulla propria indegnità davanti all'infinita santità di Dio: « O Dio, abbi pietà di me peccatore » (Lc 18,13). Il fariseo, invece, si è giustificato da solo, trovando forse per ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo così messi a confronto con due diversi atteggiamenti della coscienza morale dell'uomo di tutti i tempi. Il pubblicano ci presenta una coscienza « penitente », che è pienamente consapevole della fragilità della propria natura e che vede nelle proprie mancanze, quali che ne siano le giustificazioni soggettive, una conferma del proprio essere bisognoso di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza « soddisfatta di se stessa », che si illude di poter osservare la legge senza l'aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della misericordia.

105. A tutti è chiesta grande vigilanza per non lasciarsi contagiare dall'atteggiamento farisaico, che pretende di eliminare la coscienza del proprio limite e del proprio peccato, e che oggi si esprime in particolare nel tentativo di adattare la norma morale alle proprie capacità e ai propri interessi e persino nel rifiuto del concetto stesso di norma. Al contrario, accettare la « sproporzione » tra la legge e la capacità umana, ossia la capacità delle sole forze morali dell'uomo lasciato a se stesso, accende il desiderio della grazia e predispone a riceverla. « Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? », si domanda l'apostolo Paolo. E con una confessione gioiosa e riconoscente risponde: « Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7,24-25).

La stessa coscienza troviamo in questa preghiera di sant'Ambrogio di Milano: « Che cos'è, infatti, l'uomo se tu non lo visiti? Non dimenticare pertanto il debole. Ricordati, o Signore, che mi hai fatto debole, che mi hai plasmato di polvere. Come potrò stare ritto, se tu non ti volgi continuamente per rendere salda questa argilla, di modo che la mia solidità promani dal tuo volto? "Appena nascondi il viso, tutte le cose vengono meno" (Sal 1032,29): se ti volgi, guai a me! Non hai da guardare in me nient'altro che contagi di delitti: non è utile né essere abbandonati, né esser visti perché, mentre siam visti, provochiamo disgusto. Possiamo tuttavia pensare che non respinge quelli che vede, perché purifica quelli che guarda. Lo divora un fuoco, capace di bruciare la colpa (cf Gl 2,3) ».165

Morale e nuova evangelizzazione

106. L'evangelizzazione è la sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare sin dalla sua origine. In realtà, a porre questa sfida non sono tanto le situazioni sociali e culturali che essa incontra lungo la storia, quanto il mandato di Gesù Cristo risorto, che definisce la ragione stessa dell'esistenza della Chiesa: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15).

Il momento però che stiamo vivendo, almeno presso numerose popolazioni, è piuttosto quello di una formidabile provocazione alla « nuova evangelizzazione », ossia all'annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità, una evangelizzazione che dev'essere « nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione ».166 La scristianizzazione, che pesa su interi popoli e comunità un tempo già ricchi di fede e di vita cristiana, comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi della consapevolezza dell'originalità della morale evangelica, sia per l'eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali. Le tendenze soggettiviste, relativiste e utilitariste, oggi ampiamente diffuse, si presentano non semplicemente come posizioni pragmatiche, come dati di costume, ma come concezioni consolidate dal punto di vista teoretico che rivendicano una loro piena legittimità culturale e sociale.

107. L'evangelizzazione — e pertanto la « nuova evangelizzazione » — comporta anche l'annuncio e la proposta morale. Gesù stesso, proprio predicando il Regno di Dio e il suo amore salvifico, ha rivolto l'appello alla fede e alla conversione (cf Mc 1,15). E Pietro, con gli altri Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù di Nazaret dai morti, propone una vita nuova da vivere, una « via » da seguire per essere discepoli del Risorto (cf At 2,37- 41; 3,17-20).

Come e ancor più che per le verità di fede, la nuova evangelizzazione che propone i fondamenti e i contenuti della morale cristiana manifesta la sua autenticità, e nello stesso tempo sprigiona tutta la sua forza missionaria, quando si compie attraverso il dono non solo della parola annunciata, ma anche di quella vissuta. In particolare è la vita di santità, che risplende in tanti membri del Popolo di Dio, umili e spesso nascosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e affascinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la bellezza della verità, la forza liberante dell'amore di Dio, il valore della fedeltà incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore, anche nelle circostanze più difficili. Per questo la Chiesa, nella sua sapiente pedagogia morale, ha sempre invitato i credenti a cercare e a trovare nei santi e nelle sante, e in primo luogo nella Vergine Madre di Dio « piena di grazia » e « tutta santa », il modello, la forza e la gioia per vivere una vita secondo i comandamenti di Dio e le Beatitudini del Vangelo.

La vita dei santi, riflesso della bontà di Dio — di Colui che « solo è buono » —, costituisce non solo una vera confessione di fede e un impulso alla sua comunicazione agli altri, ma anche una glorificazione di Dio e della sua infinita santità. La vita santa porta così a pienezza di espressione e di attuazione il triplice e unitario munus propheticum, sacerdotale et regale che ogni cristiano riceve in dono nella rinascita battesimale « da acqua e da Spirito » (Gv 3,5). La sua vita morale possiede il valore di un « culto spirituale » (Rm 12,1; cf Fil 3,3), attinto e alimentato da quella inesauribile sorgente di santità e di glorificazione di Dio che sono i Sacramenti, in specie l'Eucaristia: infatti, partecipando al sacrificio della Croce, il cristiano comunica con l'amore di donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell'esistenza morale si rivela e si attua anche il servizio regale del cristiano: quanto più, con l'aiuto della grazia, egli obbedisce alla legge nuova dello Spirito Santo, tanto più cresce nella libertà alla quale è chiamato mediante il servizio della verità, della carità e della giustizia.

108. Alla radice della nuova evangelizzazione e della vita morale nuova, che essa propone e suscita nei suoi frutti di santità e di missionarietà, sta lo Spirito di Cristo, principio e forza della fecondità della santa Madre Chiesa, come ci ricorda Paolo VI: « L'evangelizzazione non sarà mai possibile senza l'azione dello Spirito Santo ».167 Allo Spirito di Gesù, accolto dal cuore umile e docile del credente, si devono dunque il fiorire della vita morale cristiana e la testimonianza della santità nella grande varietà delle vocazioni, dei doni, delle responsabilità e delle condizioni e situazioni di vita: è lo Spirito Santo — rilevava già Novaziano, in questo esprimendo l'autentica fede della Chiesa — « Colui che ha dato fermezza agli animi ed alle menti dei discepoli, che ha dischiuso i misteri evangelici, che ha illuminato in loro le cose divine; da Lui rinvigoriti, essi non ebbero timore né delle carceri né delle catene per il nome del Signore; anzi calpestarono gli stessi poteri e i tormenti del mondo, armati ormai e rafforzati per mezzo suo, avendo in sé i doni che questo stesso Spirito elargisce ed invia come gioielli alla Chiesa sposa di Cristo. È Lui, infatti, che nella Chiesa suscita i profeti, istruisce i maestri, guida le lingue, compie prodigi e guarigioni, produce opere mirabili, concede il discernimento degli spiriti, assegna i compiti di governo, suggerisce i consigli, ripartisce ed armonizza ogni altro dono carismatico, e perciò rende dappertutto ed in tutto compiutamente perfetta la Chiesa del Signore ».168

Nel contesto vivo di questa nuova evangelizzazione, destinata a generare e a nutrire « la fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5,6) e in rapporto all'opera dello Spirito Santo possiamo ora comprendere il posto che nella Chiesa, comunità dei credenti, spetta alla riflessione che la teologia deve sviluppare sulla vita morale, così come possiamo presentare la missione e la responsabilità propria dei teologi moralisti.

Il servizio dei teologi moralisti

109. Chiamata all'evangelizzazione e alla testimonianza di una vita di fede è tutta la Chiesa, resa partecipe del munus propheticum del Signore Gesù mediante il dono del suo Spirito. Grazie alla presenza permanente in essa dello Spirito di verità (cf Gv 14,16-17) « la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l'unzione dello Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20. 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi ».169

Per compiere la sua missione profetica, la Chiesa deve continuamente risvegliare o « ravvivare » la propria vita di fede (cf 2 Tm 1,6), in particolare mediante una riflessione sempre più approfondita, sotto la guida dello Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa. È al servizio di questa « ricerca credente dell'intelligenza della fede » che si pone, in modo specifico, la « vocazione » del teologo nella Chiesa: « Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella Chiesa — leggiamo nell'Istruzione Donum veritatis — si distingue quella del teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in comunione con il Magistero, un'intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura la fede fa appello all'intelligenza, perché svela all'uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente insondabile (cf Ef 3,19), essa invita tuttavia la ragione — dono di Dio fatto per cogliere la verità — ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto. La scienza teologica, che, rispondendo all'invito della voce della verità, cerca l'intelligenza della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento dell'Apostolo (cf 1 Pt 3,15), a rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono ».170

È fondamentale per definire l'identità stessa e, di conseguenza, per attuare la missione propria della teologia riconoscerne l'intimo e vivo nesso con la Chiesa, il suo mistero, la sua vita e missione: « La teologia è scienza ecclesiale, perché cresce nella Chiesa e agisce sulla Chiesa... Essa è a servizio della Chiesa e deve quindi sentirsi dinamicamente inserita nella missione della Chiesa, particolarmente nella sua missione profetica ».171 Per sua natura e dinamismo la teologia autentica può fiorire e svilupparsi solo mediante una convinta e responsabile partecipazione e « appartenenza » alla Chiesa quale « comunità di fede », così come a questa stessa Chiesa e alla sua vita di fede torna il frutto della ricerca e dell'approfondimento teologico.

110. Quanto si è detto circa la teologia in genere può e dev'essere riproposto per la teologia morale, colta nella sua specificità di riflessione scientifica sul Vangelo come dono e comandamento di vita nuova, sulla vita « secondo la verità nella carità » (Ef 4,15), sulla vita di santità della Chiesa, nella quale risplende la verità del bene portato sino alla sua perfezione. Non solo nell'ambito della fede, ma anche e in modo indivisibile nell'ambito della morale, interviene il Magistero della Chiesa, il cui compito è « di discernere, mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l'espressione nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze ».172 Predicando i comandamenti di Dio e la carità di Cristo, il Magistero della Chiesa insegna ai fedeli anche i precetti particolari e determinati e chiede loro di considerarli in coscienza come moralmente obbligatori. Svolge, inoltre, un importante compito di vigilanza, avvertendo i fedeli della presenza di eventuali errori, anche solo impliciti, quando la loro coscienza non giunge a riconoscere la giustezza e la verità delle regole morali che il Magistero insegna.

S'inserisce qui il compito specifico di quanti per mandato dei legittimi Pastori insegnano teologia morale nei Seminari e nelle Facoltà Teologiche. Essi hanno il grave dovere di istruire i fedeli — specialmente i futuri Pastori — su tutti i comandamenti e le norme pratiche che la Chiesa dichiara con autorità.173 Nonostante gli eventuali limiti delle argomentazioni umane presentate dal Magistero, i teologi moralisti sono chiamati ad approfondire le ragioni dei suoi insegnamenti, ad illustrare la fondatezza dei suoi precetti e la loro obbligatorietà, mostrandone la mutua connessione e il rapporto con il fine ultimo dell'uomo.174 Spetta ai teologi moralisti esporre la dottrina della Chiesa e dare, nell'esercizio del loro ministero, l'esempio di un assenso leale, interno ed esterno, all'insegnamento del Magistero sia nel campo del dogma che in quello della morale.175 Unendo le loro forze per collaborare col Magistero gerarchico, i teologi avranno a cuore di mettere sempre meglio in luce i fondamenti biblici, le significazioni etiche e le motivazioni antropologiche che sostengono la dottrina morale e la visione dell'uomo proposte dalla Chiesa.

111. Il servizio che nell'ora attuale i teologi moralisti sono chiamati a dare è di primaria importanza, non solo per la vita e la missione della Chiesa, ma anche per la società e la cultura umana. Tocca a loro, in intima e vitale connessione con la teologia biblica e dogmatica, sottolineare nella riflessione scientifica « l'aspetto dinamico che fa risaltare la risposta, che l'uomo deve dare all'appello divino nel processo della sua crescita nell'amore, nell'ambito di una comunità salvifica. In tal modo la teologia morale acquisterà una dimensione spirituale interna, rispondendo alle esigenze di sviluppo pieno della imago Dei, che è nell'uomo, e alle leggi del processo spirituale descritto nell'ascetica e mistica cristiane ».176

Certamente oggi la teologia morale e il suo insegnamento si trovano di fronte a una particolare difficoltà. Poiché la morale della Chiesa implica necessariamente una dimensione normativa, la teologia morale non può ridursi a un sapere elaborato solo nel contesto delle cosiddette scienze umane. Mentre queste si occupano del fenomeno della moralità come fatto storico e sociale, la teologia morale, che pur deve servirsi delle scienze dell'uomo e della natura, non è però subordinata ai risultati dell'osservazione empirico-formale o della comprensione fenomenologica. In realtà, la pertinenza delle scienze umane in teologia morale è sempre da commisurare alla domanda originaria: Che cosa è il bene o il male? Che cosa fare per ottenere la vita eterna?

112. Il teologo moralista deve pertanto esercitare un accurato discernimento nel contesto dell'odierna cultura prevalentemente scientifica e tecnica, esposta ai pericoli del relativismo, del pragmatismo e del positivismo. Dal punto di vista teologico, i principi morali non sono dipendenti dal momento storico nel quale sono scoperti. Il fatto poi che taluni credenti agiscano senza seguire gli insegnamenti del Magistero o considerino a torto come moralmente giusta una condotta dichiarata dai loro Pastori come contraria alla legge di Dio, non può costituire argomento valido per rifiutare la verità delle norme morali insegnate dalla Chiesa. L'affermazione dei principi morali non è di competenza dei metodi empirico-formali. Senza negare la validità di tali metodi, ma anche senza restringere ad essi la sua prospettiva, la teologia morale, fedele al senso soprannaturale della fede, prende in considerazione soprattutto la dimensione spirituale del cuore umano e la sua vocazione all'amore divino.

Infatti, mentre le scienze umane, come tutte le scienze sperimentali, sviluppano un concetto empirico e statistico di « normalità », la fede insegna che una simile normalità porta in sé le tracce di una caduta dell'uomo dalla sua situazione originaria, ossia è intaccata dal peccato. Solo la fede cristiana indica all'uomo la via del ritorno al « principio » (cf Mt 19,8), una via che spesso è ben diversa da quella della normalità empirica. In tal senso le scienze umane, nonostante il grande valore delle conoscenze che offrono, non possono essere assunte come indicatori decisivi delle norme morali. È il Vangelo che svela la verità integrale sull'uomo e sul suo cammino morale, e così illumina e ammonisce i peccatori annunciando loro la misericordia di Dio, il quale incessantemente opera per preservarli tanto dalla disperazione di non poter conoscere ed osservare la legge divina quanto dalla presunzione di potersi salvare senza merito. Egli inoltre ricorda loro la gioia del perdono, che solo concede la forza di riconoscere nella legge morale una verità liberatrice, una grazia di speranza, un cammino di vita.

113. L'insegnamento della dottrina morale implica l'assunzione consapevole di queste responsabilità intellettuali, spirituali e pastorali. Perciò, i teologi moralisti, che accettano l'incarico di insegnare la dottrina della Chiesa, hanno il grave dovere di educare i fedeli a questo discernimento morale, all'impegno per il vero bene e al ricorso fiducioso alla grazia divina.

Se gli incontri e i conflitti di opinione possono costituire espressioni normali della vita pubblica nel contesto di una democrazia rappresentativa, la dottrina morale non può certo dipendere dal semplice rispetto di una procedura; essa infatti non viene minimamente stabilita seguendo le regole e le forme di una deliberazione di tipo democratico. Il dissenso, fatto di calcolate contestazioni e di polemiche attraverso i mezzi della comunicazione sociale, è contrario alla comunione ecclesiale e alla retta comprensione della costituzione gerarchica del Popolo di Dio. Nell'opposizione all'insegnamento dei Pastori non si può riconoscere una legittima espressione né della libertà cristiana né delle diversità dei doni dello Spirito. In questo caso, i Pastori hanno il dovere di agire in conformità con la loro missione apostolica, esigendo che sia sempre rispettato il diritto dei fedeli a ricevere la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità: « Il teologo, non dimenticando mai di essere anch'egli membro del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede ».177

Le nostre responsabilità di Pastori

114. La responsabilità verso la fede e la vita di fede del Popolo di Dio grava in una forma peculiare e propria sui Pastori, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Tra le funzioni principali dei Vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I Vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono i Dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, che illustrano questa fede alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cf Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tener lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cf 2 Tm 4,1-4) ».178

È nostro comune dovere, e prima ancora nostra comune grazia, insegnare ai fedeli come Pastori e Vescovi della Chiesa, ciò che li conduce sulla via di Dio, così come fece un giorno il Signore Gesù con il giovane del Vangelo. Rispondendo alla sua domanda: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? », Gesù ha rimandato a Dio, Signore della creazione e dell'Alleanza; ha ricordato i comandamenti morali, già rivelati nell'Antico Testamento; ne ha indicato lo spirito e la radicalità invitando alla sua sequela nella povertà, nell'umiltà e nell'amore: « Vieni e seguimi! ». La verità di questa dottrina ha avuto il suo sigillo sulla Croce nel sangue di Cristo: essa è divenuta, nello Spirito Santo, la legge nuova della Chiesa e di ogni cristiano.

Questa « risposta » alla domanda morale è affidata da Gesù Cristo in un modo particolare a noi Pastori della Chiesa, chiamati a renderla oggetto del nostro insegnamento, nell'adempimento dunque del nostro munus propheticum. Nello stesso tempo la nostra responsabilità di Pastori, nei riguardi della dottrina morale cristiana, deve attuarsi anche nella forma del munus sacerdotale: ciò avviene quando dispensiamo ai fedeli i doni di grazia e di santificazione come risorsa per obbedire alla legge santa di Dio, e quando con la nostra costante e fiduciosa preghiera sosteniamo i credenti perché siano fedeli alle esigenze della fede e vivano secondo il Vangelo (cf Col 1,9-12). La dottrina morale cristiana deve costituire, oggi soprattutto, uno degli ambiti privilegiati della nostra vigilanza pastorale, dell'esercizio del nostro munus regale.

115. È la prima volta, infatti, che il Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli elementi fondamentali di tale dottrina, e presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche.

Alla luce della Rivelazione e dell'insegnamento costante della Chiesa e specialmente del Concilio Vaticano II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della libertà, i valori fondamentali connessi con la dignità della persona e con la verità dei suoi atti, così da poter riconoscere, nell'obbedienza alla legge morale, una grazia e un segno della nostra adozione nel Figlio unico (cf Ef 1,4-6). In particolare, con questa Enciclica, vengono proposte valutazioni su alcune tendenze attuali nella teologia morale. Le comunico ora, in obbedienza alla parola del Signore che a Pietro ha affidato l'incarico di confermare i suoi fratelli (cf Lc 22,32), per illuminare e aiutare il nostro comune discernimento.

Ciascuno di noi conosce l'importanza della dottrina che rappresenta il nucleo dell'insegnamento di questa Enciclica e che oggi viene richiamata con l'autorità del successore di Pietro. Ciascuno di noi può avvertire la gravità di quanto è in causa, non solo per le singole persone ma anche per l'intera società, con la riaffermazione dell'universalità e della immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi.

Nel riconoscere tali comandamenti il cuore cristiano e la nostra carità pastorale ascoltano l'appello di Colui che « ci ha amati per primo » (1 Gv 4,19). Dio ci chiede di essere santi come egli è santo (cf Lv 19,2), di essere — in Cristo — perfetti come egli è perfetto (cf Mt 5,48): l'esigente fermezza del comandamento si fonda sull'inesauribile amore misericordioso di Dio (cf Lc 6, 36), e il fine del comandamento è di condurci, con la grazia di Cristo, sulla via della pienezza della vita propria dei figli di Dio.

116. Abbiamo il dovere, come Vescovi, di vigilare perché la Parola di Dio sia fedelmente insegnata. Miei Confratelli nell'Episcopato, fa parte del nostro ministero pastorale vegliare sulla trasmissione fedele di questo insegnamento morale e ricorrere alle misure opportune perché i fedeli siano custoditi da ogni dottrina e teoria ad esso contraria. In questo compito siamo tutti aiutati dai teologi; tuttavia, le opinioni teologiche non costituiscono né la regola né la norma del nostro insegnamento. La sua autorità deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo e nella comunione cum Petro et sub Petro, dalla nostra fedeltà alla fede cattolica ricevuta dagli Apostoli. Come Vescovi, abbiamo l'obbligo grave di vigilare personalmente perché la « sana dottrina » (1 Tm 1,10) della fede e della morale sia insegnata nelle nostre diocesi.

Una particolare responsabilità si impone ai Vescovi per quanto riguarda le istituzioni cattoliche. Si tratti di organismi per la pastorale familiare o sociale, oppure di istituzioni dedicate all'insegnamento o alle cure sanitarie, i Vescovi possono erigere e riconoscere queste strutture e delegare loro alcune responsabilità; tuttavia non sono mai esonerati dai loro propri obblighi. Spetta a loro, in comunione con la Santa Sede, il compito di riconoscere, o di ritirare in casi di grave incoerenza, l'appellativo di « cattolico » a scuole,179 università,180 cliniche e servizi socio-sanitari, che si richiamano alla Chiesa.

117. Nel cuore del cristiano, nel nucleo più segreto del- l'uomo, risuona sempre la domanda che un giorno il giovane del Vangelo rivolse a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt 19,16). Occorre però che ciascuno la rivolga al Maestro « buono », perché è l'unico che possa rispondere nella pienezza della verità, in ogni situazione, nelle più diverse circostanze. E quando i cristiani gli rivolgono la domanda che sale dalla loro coscienza, il Signore risponde con le parole dell'Alleanza Nuova affidate alla sua Chiesa. Ora, come dice di sé l'Apostolo, noi siamo mandati « a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non sia resa vana la croce di Cristo » (1 Cor 1,17). Per questo la risposta della Chiesa alla domanda dell'uomo ha la saggezza e la potenza di Cristo crocifisso, la Verità che si dona.

Quando gli uomini pongono alla Chiesa le domande della loro coscienza, quando nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai Vescovi e ai Pastori, nella risposta della Chiesa c'è la voce di Gesù Cristo, la voce della verità circa il bene e il male. Nella parola pronunciata dalla Chiesa risuona, nell'intimo delle persone, la voce di Dio, che « solo è buono » (Mt 19,17), che solo « è amore » (1 Gv 4,8.16).

Nell'unzione dello Spirito questa parola dolce ed esigente si fa luce e vita per l'uomo. È ancora l'apostolo Paolo ad invitarci alla fiducia, perché « la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito... Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3,5-6.17-18).


CONCLUSIONE

Maria Madre di misericordia

118. Affidiamo, al termine di queste considerazioni, noi stessi, le sofferenze e le gioie della nostra esistenza, la vita morale dei credenti e degli uomini di buona volontà, le ricerche degli studiosi di morale a Maria, Madre di Dio e Madre di misericordia.

Maria è Madre di misericordia perché Gesù Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre come Rivelazione della misericordia di Dio (cf Gv 3, 16-18). Egli è venuto non per condannare ma per perdonare, per usare misericordia (cf Mt 9,13). E la misericordia più grande sta nel suo essere in mezzo a noi e nella chiamata che ci è rivolta ad incontrare Lui e a confessarlo, insieme con Pietro, come « il Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16). Nessun peccato dell'uomo può cancellare la misericordia di Dio, può impedirle di sprigionare tutta la sua forza vittoriosa, se appena la invochiamo. Anzi, lo stesso peccato fa risplendere ancora di più l'amore del Padre che, per riscattare lo schiavo, ha sacrificato il suo Figlio: 181 la sua misericordia per noi è redenzione. Questa misericordia giunge a pienezza con il dono dello Spirito, che genera ed esige la vita nuova. Per quanto numerosi e grandi siano gli ostacoli opposti dalla fragilità e dal peccato dell'uomo, lo Spirito, che rinnova la faccia della terra (cf Sal 1031,30), rende possibile il miracolo del compimento perfetto del bene. Questo rinnovamento, che dà la capacità di fare ciò che è buono, nobile, bello, gradito a Dio e conforme alla sua volontà, è in un certo senso la fioritura del dono della misericordia, che libera dalla schiavitù del male e dà la forza di non peccare più. Attraverso il dono della vita nuova Gesù ci rende partecipi del suo amore e ci conduce al Padre nello Spirito.

119. È questa la consolante certezza della fede cristiana, alla quale essa deve la sua profonda umanità e la sua straordinaria semplicità. Talvolta, nelle discussioni sui nuovi complessi problemi morali, può sembrare che la morale cristiana sia in se stessa troppo difficile, ardua da comprendere e quasi impossibile da praticare. Ciò è falso, perché essa consiste, in termini di semplicità evangelica, nel seguire Gesù Cristo, nell'abbandonarsi a Lui, nel lasciarsi trasformare dalla sua grazia e rinnovare dalla sua misericordia, che ci raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa. « Chi vuole vivere — ci ricorda sant'Agostino —, ha dove vivere, ha donde vivere. Si avvicini, creda, si lasci incorporare per essere vivificato. Non rifugga dalla compagine delle membra ».182 Può capire dunque l'essenza vitale della morale cristiana, con la luce dello Spirito, ogni uomo, anche il meno dotto, anzi soprattutto chi sa conservare un « cuore semplice » (Sal 852,11). D'altra parte, questa semplicità evangelica non esime dall'affrontare la complessità del reale, ma può introdurre alla sua più vera comprensione, perché la sequela di Cristo metterà progressivamente in luce i caratteri dell'autentica moralità cristiana e darà, al tempo stesso, l'energia di vita per la sua realizzazione. È compito del Magistero della Chiesa vegliare perché il dinamismo della sequela di Cristo si sviluppi in modo organico, senza che ne vengano falsate o occultate le esigenze morali, con tutte le loro conseguenze. Chi ama Cristo osserva i suoi comandamenti (cf Gv 14,15).

120. Maria è Madre di misericordia anche perché a lei Gesù affida la sua Chiesa e l'intera umanità. Ai piedi della Croce, quando accetta Giovanni come figlio, quando chiede, insieme con Cristo, il perdono al Padre per coloro che non sanno quello che fanno (cf Lc 23,34), Maria in perfetta docilità allo Spirito sperimenta la ricchezza e l'universalità dell'amore di Dio, che le dilata il cuore e la fa capace di abbracciare l'intero genere umano. È resa, in tal modo, Madre di tutti noi, e di ciascuno di noi, Madre che ci ottiene la misericordia divina.

Maria è segno luminoso ed esempio affascinante di vita morale: « la vita di lei sola è insegnamento per tutti », scrive sant'Ambrogio,183 che rivolgendosi in particolare alle vergini ma in un orizzonte aperto a tutti così afferma: « Il primo ardente desiderio di imparare lo dà la nobiltà del maestro. E chi è più nobile della Madre di Dio? o più splendida di Colei che fu eletta dallo stesso Splendore? ».184 Maria vive e realizza la propria libertà donando se stessa a Dio ed accogliendo in sé il dono di Dio. Custodisce nel suo grembo verginale il Figlio di Dio fatto uomo fino al tempo della nascita, lo alleva, lo fa crescere e lo accompagna in quel gesto supremo di libertà, che è il sacrificio totale della propria vita. Con il dono di se stessa, Maria entra pienamente nel disegno di Dio, che si dona al mondo. Accogliendo e meditando nel suo cuore avvenimenti che non sempre comprende (cf Lc 2,19), diventa il modello di tutti coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano (cf Lc 11, 28) e merita il titolo di « Sede della Sapienza ». Questa Sapienza è Gesù Cristo stesso, il Verbo eterno di Dio, che rivela e compie perfettamente la volontà del Padre (cf Eb 10,5-10). Maria invita ogni uomo ad accogliere questa Sapienza. Anche a noi rivolge l'ordine dato ai servi, a Cana in Galilea durante il banchetto di nozze: « Fate quello che egli vi dirà » (Gv 2,5).

Maria condivide la nostra condizione umana, ma in una totale trasparenza alla grazia di Dio. Non avendo conosciuto il peccato, ella è in grado di compatire ogni debolezza. Comprende l'uomo peccatore e lo ama con amore di Madre. Proprio per questo sta dalla parte della verità e condivide il peso della Chiesa nel richiamare a tutti e sempre le esigenze morali. Per lo stesso motivo non accetta che l'uomo peccatore venga ingannato da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa che in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio. Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti dottrine anche filosofiche o teologiche, può rendere l'uomo veramente felice: solo la Croce e la gloria di Cristo risorto possono donare pace alla sua coscienza e salvezza alla sua vita.

O Maria,
Madre di misericordia,
veglia su tutti
perché non venga resa vana la croce di Cristo,
perché l'uomo non smarrisca la via del bene,perché l'uomo non smarrisca la via del bene,
non perda la coscienza del peccato,non perda la coscienza del peccato,
cresca nella speranza in Dio
« ricco di misericordia » (Ef 2,4),
compia liberamente le opere buone
da Lui predisposte (cf Ef 2,10)
e sia così con tutta la vita
« a lode della sua gloria » (Ef 1,12).

Dato a Roma, presso San Pietro, il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, dell'anno 1993, decimoquinto del mio Pontificato.

 

 

UT UNUM SINT

LETTERA ENCICLICA
UT UNUM SINT
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
SULL'IMPEGNO ECUMENICO


INTRODUZIONE

1. Ut unum sint ! L'appello all'unità dei cristiani, che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha riproposto con così appassionato impegno, risuona con sempre maggiore vigore nel cuore dei credenti, specie all'approssimarsi dell'Anno Duemila che sarà per loro un Giubileo sacro, memoria dell'Incarnazione del Figlio di Dio, che si è fatto uomo per salvare l'uomo.

La testimonianza coraggiosa di tanti martiri del nostro secolo, appartenenti anche ad altre Chiese e Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Chiesa cattolica, infonde nuova forza all'appello conciliare e ci richiama l'obbligo di accogliere e mettere in pratica la sua esortazione. Questi nostri fratelli e sorelle, accomunati nell'offerta generosa della loro vita per il Regno di Dio, sono la prova più significativa che ogni elemento di divisione può essere trasceso e superato nel dono totale di sé alla causa del Vangelo.

Cristo chiama tutti i suoi discepoli all'unità. L'ardente desiderio che mi muove è di rinnovare oggi questo invito, di riproporlo con determinazione, ricordando quanto ebbi a sottolineare al Colosseo romano il Venerdì Santo 1994, concludendo la meditazione della Via Crucis, guidata dalle parole del venerato fratello Bartolomeo, Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Ho affermato in quella circostanza che, uniti nella sequela dei martiri, i credenti in Cristo non possono restare divisi. Se vogliono veramente ed efficacemente combattere la tendenza del mondo a rendere vano il Mistero della Redenzione, essi debbono professare insieme la stessa verità sulla Croce.1 La Croce! La corrente anticristiana si propone di mortificarne il valore, di svuotarla del suo significato, negando che l'uomo ha in essa le radici della sua nuova vita; pretendendo che la Croce non sappia nutrire né prospettive né speranze: l'uomo, si dice, è soltanto un essere terreno, che deve vivere come se Dio non esistesse.

2. A nessuno sfugge la sfida che tutto ciò pone ai credenti. Essi non possono non raccoglierla. Come potrebbero, infatti, rifiutarsi di fare tutto il possibile, con l'aiuto di Dio, per abbattere muri di divisione e di diffidenza, per superare ostacoli e pregiudizi, che impediscono l'annuncio del Vangelo della salvezza mediante la Croce di Gesù, unico Redentore dell'uomo, di ogni uomo?

Ringrazio il Signore perché ci ha indotto a progredire lungo la via difficile, ma tanto ricca di gioia, dell'unità e della comunione fra i cristiani. I dialoghi interconfessionali a livello teologico hanno dato frutti positivi e tangibili: ciò incoraggia ad andare avanti.

Tuttavia, oltre alle divergenze dottrinali da risolvere, i cristiani non possono sminuire il peso delle ataviche incomprensioni che essi hanno ereditato dal passato, dei fraintendimenti e dei pregiudizi degli uni nei confronti degli altri. Non di rado, poi, l'inerzia, l'indifferenza ed una insufficiente conoscenza reciproca aggravano tale situazione. Per questo motivo, l'impegno ecumenico deve fondarsi sulla conversione dei cuori e sulla preghiera, le quali indurranno anche alla necessaria purificazione della memoria storica. Con la grazia dello Spirito Santo, i discepoli del Signore, animati dall'amore, dal coraggio della verità e dalla volontà sincera di perdonarsi a vicenda e di riconciliarsi, sono chiamati ariconsiderare insieme il loro doloroso passato e quelle ferite che esso continua purtroppo a provocare anche oggi. Sono invitati dalla forza sempre giovane del Vangelo a riconoscere insieme con sincera e totale obiettività gli errori commessi e i fattori contingenti intervenuti all'origine delle loro deprecabili separazioni. Occorre un pacato e limpido sguardo di verità, vivificato dalla misericordia divina, capace di liberare gli spiriti e di suscitare in ciascuno una rinnovata disponibilità, proprio in vista dell'annuncio del Vangelo agli uomini di ogni popolo e nazione.

3. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica, ponendosi così all'ascolto dello Spirito del Signore, che insegna come leggere attentamente i « segni dei tempi ». Le esperienze, che essa ha vissuto in questi anni e che continua a vivere, la illuminano ancor più profondamente sulla sua identità e sulla sua missione nella storia. La Chiesa cattolica riconosce e confessa le debolezze dei suoi figli, consapevole che i loro peccati costituiscono altrettanti tradimenti ed ostacoli alla realizzazione del disegno del Salvatore. Sentendosi costantemente chiamata al rinnovamento evangelico, essa non cessa dunque di fare penitenza. Al tempo stesso, però, riconosce ed esalta ancora di più la potenza del Signore il quale, avendola colmata del dono della santità, l'attira e la conforma alla Sua passione e alla Sua resurrezione.

Edotta dalle molteplici vicende della sua storia, la Chiesa è impegnata a liberarsi da ogni sostegno puramente umano, per vivere in profondità la legge evangelica delle Beatitudini. Consapevole che la verità non si impone se non « in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente ed insieme con vigore »,2 nulla ricerca per sé se non la libertà d'annunciare il Vangelo. La sua autorità infatti si esercita nel servizio della verità e della carità.

Io stesso intendo promuovere ogni utile passo affinché la testimonianza dell'intera comunità cattolica possa essere compresa nella sua integrale purezza e coerenza, soprattutto in vista di quell'appuntamento che attende la Chiesa alle soglie del nuovo Millennio, ora eccezionale per la quale essa domanda al Signore che l'unità di tutti i cristiani cresca fino a raggiungere la piena comunione.3 A questo nobilissimo scopo mira anche la presente Lettera enciclica, che nella sua indole essenzialmente pastorale vuol contribuire a sostenere lo sforzo di quanti lavorano per la causa dell'unità.

4. È questo un preciso impegno del Vescovo di Roma in quanto successore dell'apostolo Pietro. Io lo svolgo con la convinzione profonda di ubbidire al Signore e con la piena consapevolezza della mia umana fragilità. Infatti, se Cristo stesso ha affidato a Pietro questa speciale missione nella Chiesa e gli ha raccomandato di confermare i fratelli, Egli gli ha fatto conoscere allo stesso tempo la sua debolezza umana ed il suo particolare bisogno di conversione: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » (Lc 22, 32). Proprio nell'umana debolezza di Pietro si manifesta pienamente come, per adempiere questo speciale ministero nella Chiesa, il Papa dipenda totalmente dalla grazia e dalla preghiera del Signore: « Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede » (Lc 22, 32). La conversione di Pietro e dei suoi successori trova appoggio sulla preghiera stessa del Redentore e la Chiesa costantemente partecipa a questa invocazione. Nella nostra epoca ecumenica, segnata dal Concilio Vaticano II, la missione del Vescovo di Roma si rivolge particolarmente a ricordare l'esigenza della piena comunione dei discepoli di Cristo.

Il Vescovo di Roma in prima persona deve far sua con fervore la preghiera di Cristo per la conversione, che è indispensabile a « Pietro » per poter servire i fratelli. Di cuore chiedo che partecipino a questa preghiera i fedeli della Chiesa cattolica e tutti i cristiani. Insieme a me, tutti preghino per questa conversione.

Sappiamo che la Chiesa nel suo peregrinare terreno ha sofferto e continuerà a soffrire di opposizioni e persecuzioni. La speranza che la sostiene è tuttavia incrollabile, come è indistruttibile la gioia che da tale speranza scaturisce. Infatti, la roccia salda e perenne, su cui essa è fondata, è Gesù Cristo suo Signore.


I

L'IMPEGNO ECUMENICO
DELLA CHIESA CATTOLICA

Il disegno di Dio e la comunione

5. Assieme a tutti i discepoli di Cristo, la Chiesa cattolica fonda sul disegno di Dio il suo impegno ecumenico di radunare tutti nell'unità. Infatti « la Chiesa non è una realtà ripiegata su se stessa bensì permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad annunciare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce: raccogliere tutti e tutto in Cristo; ad essere per tutti "sacramento inseparabile di unità" ».4

Già nell'Antico Testamento, riferendosi a quella che era allora la situazione del popolo di Dio, il profeta Ezechiele, ricorrendo al semplice simbolo di due legni prima distinti, poi accostati l'uno all'altro, esprimeva la volontà divina di « radunare da ogni parte » i membri del suo popolo lacerato: « Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele » (cfr 37, 16-28). Il Vangelo giovanneo, da parte sua, e di fronte alla situazione del popolo di Dio a quel tempo, vede nella morte di Gesù la ragione dell'unità dei figli di Dio: « Doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi » (11, 51-52). Infatti, spiegherà la Lettera agli Efesini, « abbattendo il muro di separazione, [...] per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia », di ciò che era diviso egli ha fatto una unità (cfr 2, 14-16).

6. L'unità di tutta l'umanità lacerata è volontà di Dio. Per questo motivo Egli ha inviato il suo Figlio perché, morendo e risorgendo per noi, ci donasse il suo Spirito d'amore. Alla vigilia del sacrificio della Croce, Gesù stesso chiede al Padre per i suoi discepoli, e per tutti i credenti in lui, che siano una cosa sola, una comunione vivente. Da ciò deriva non soltanto il dovere, ma anche la responsabilità che incombe davanti a Dio, di fronte al suo disegno, su quelli e quelle che per mezzo del Battesimo diventano il Corpo di Cristo, Corpo nel quale debbono realizzarsi in pienezza la riconciliazione e la comunione. Come è mai possibile restare divisi, se con il Battesimo noi siamo stati « immersi » nella morte del Signore, vale a dire nell'atto stesso in cui, per mezzo del Figlio, Dio ha abbattuto i muri della divisione? La « divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura ».5

La via ecumenica: via della Chiesa

7. « Il Signore dei secoli, che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato ad effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l'interiore ravvedimento ed il desiderio dell'unione. Moltissimi uomini in ogni parte del mondo sono stati toccati da questa grazia, e anche tra i nostri fratelli separati è sorto, per impulso della grazia dello Spirito Santo, un movimento ogni giorno più ampio per il ristabilimento dell'unità di tutti i cristiani. A questo movimento per l'unità, chiamato ecumenico, partecipano quelli che invocano la Trinità e professano la fede in Gesù Signore e Salvatore, e non solo singole persone separatamente, ma anche riunite in gruppi, nei quali hanno ascoltato il Vangelo e che i singoli dicono essere la Chiesa loro e di Dio. Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano alla Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata a tutto il mondo, perché il mondo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio ».6

8. Tale affermazione del Decreto Unitatis redintegratio va letta nel contesto dell'intero magistero conciliare. Il Concilio Vaticano II esprime la decisione della Chiesa di assumere il compito ecumenico a favore dell'unità dei cristiani e di proporlo con convinzione e con vigore: « Questo Santo Concilio esorta tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all'opera ecumenica ».7

Nell'indicare i principi cattolici dell'ecumenismo, l'Unitatis redintegratio si ricollega prima di tutto all'insegnamento sulla Chiesa della Costituzione Lumen gentium, nel suo capitolo che tratta del popolo di Dio.8 Allo stesso tempo, esso ha presente quanto affermato dalla Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa.9

La Chiesa cattolica accoglie con speranza l'impegno ecumenico come un imperativo della coscienza cristiana illuminata dalla fede e guidata dalla carità. Anche qui si può applicare la parola di san Paolo ai primi cristiani di Roma: « L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo »; così la nostra « speranza non delude » (Rm 5, 5). Questa è la speranza dell'unità dei cristiani, che nell'unità Trinitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo trova la sua fonte divina.

9. Gesù stesso nell'ora della sua Passione ha pregato « perché tutti siano una sola cosa » (Gv 17, 21). Questa unità, che il Signore ha donato alla sua Chiesa e nella quale egli vuole abbracciare tutti, non è un accessorio, ma sta al centro stesso della sua opera. Né essa equivale ad un attributo secondario della comunità dei suoi discepoli. Appartiene invece all'essere stesso di questa comunità. Dio vuole la Chiesa, perché egli vuole l'unità e nell'unità si esprime tutta la profondità della sua agape.

Infatti, questa unità data dallo Spirito Santo non consiste semplicemente nel confluire insieme di persone che si sommano l'una all'altra. È una unità costituita dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e della comunione gerarchica.10 I fedeli sono uno perché, nello Spirito, essi sono nella comunione del Figlio e, in lui, nella sua comunione col Padre: « La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo » (1 Gv 1, 3). Dunque, per la Chiesa cattolica, la comunione dei cristiani non è altro che la manifestazione in loro della grazia per mezzo della quale Dio li rende partecipi della sua propria comunione, che è la sua vita eterna. Le parole di Cristo « che tutti siano una cosa sola », sono dunque la preghiera rivolta al Padre perché il suo disegno si compia pienamente, così che risplenda « agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, Creatore dell'universo » (Ef 3, 9). Credere in Cristo significa volere l'unità; volere l'unità significa volere la Chiesa; volere la Chiesa significa volere la comunione di grazia che corrisponde al disegno del Padre da tutta l'eternità. Ecco qual è il significato della preghiera di Cristo: « Ut unum sint ».

10. Nell'attuale situazione di divisione fra i cristiani e di fiduciosa ricerca della piena comunione, i fedeli cattolici si sentono profondamente interpellati dal Signore della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha rafforzato il loro impegno con una visione ecclesiologica lucida e aperta a tutti i valori ecclesiali presenti tra gli altri cristiani. I fedeli cattolici affrontano la problematica ecumenica in spirito di fede.

Il Concilio dice che « la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui » e nel contempo riconosce che « al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica ».11

« Perciò le Chiese e Comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto prive di significato e valore. Lo spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui efficacia deriva dalla stessa pienezza di grazia e di verità che è stata affidata alla Chiesa cattolica ».12

11. In questo modo la Chiesa cattolica afferma che, durante i duemila anni della sua storia, è stata conservata nell'unità con tutti i beni con i quali Dio vuole dotare la sua Chiesa, e ciò malgrado le crisi spesso gravi che l'hanno scossa, le carenze di fedeltà di alcuni suoi ministri e gli errori in cui quotidianamente si imbattono i suoi membri. La Chiesa cattolica sa che, in nome del sostegno che le proviene dallo Spirito, le debolezze, le mediocrità, i peccati, a volte i tradimenti di alcuni dei suoi figli, non possono distruggere ciò che Dio ha infuso in essa in funzione del suo disegno di grazia. Anche « le porte degli inferi non prevarranno contro di essa » (Mt 16, 18). Tuttavia la Chiesa cattolica non dimentica che molti nel suo seno opacizzano il disegno di Dio. Evocando la divisione dei cristiani, il Decreto sull'ecumenismo non ignora la « colpa di uomini di entrambe le parti »,13 riconoscendo che la responsabilità non può essere attribuita unicamente agli « altri ». Per grazia di Dio, non è stato però distrutto ciò che appartiene alla struttura della Chiesa di Cristo e neppure quella comunione che permane con le altre Chiese e Comunità ecclesiali.

Infatti, gli elementi di santificazione e di verità presenti nelle altre Comunità cristiane, in grado differenziato dall'una all'altra, costituiscono la base oggettiva della pur imperfetta comunione esistente tra loro e la Chiesa cattolica.

Nella misura in cui tali elementi si trovano nelle altre Comunità cristiane, l'unica Chiesa di Cristo ha in esse una presenza operante. Per questo motivo il Concilio Vaticano II parla di una certa comunione, sebbene imperfetta. La Costituzione Lumen gentium sottolinea che la Chiesa cattolica « sa di essere per più ragioni unita » 14 a queste Comunità con una certa vera unione nello Spirito Santo.

12. La stessa Costituzione ha lungamente esplicitato « gli elementi di santificazione e verità » che, in modo diversificato, si trovano ed agiscono oltre le frontiere visibili della Chiesa cattolica: « Ci sono infatti molti che hanno in onore la Sacra Scrittura come norma della fede e della vita, mostrano un sincero zelo religioso, credono con amore in Dio Padre onnipotente e in Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, sono segnati dal Battesimo, col quale vengono uniti con Cristo; anzi riconoscono e accettano nelle proprie chiese e comunità ecclesiali anche altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche l'Episcopato, celebrano la sacra Eucaristia e coltivano la devozione alla Vergine Madre di Dio. A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi una certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro lo Spirito con la sua virtù vivificante opera per mezzo di doni e grazie, e ha fortificati alcuni di loro fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo il desiderio e l'azione, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo pastore ».15

Il Decreto conciliare sull'ecumenismo, riferendosi alle Chiese ortodosse, è pervenuto in particolare a dichiarare che « per mezzo della celebrazione dell'Eucaristia del Signore in queste singole chiese la Chiesa di Dio è edificata e cresce ».16 Riconoscere tutto questo è una esigenza di verità.

13. Di questa situazione, il medesimo Documento enuclea con sobrietà le implicazioni dottrinali. A proposito dei membri di tali Comunità, esso dichiara: « Giustificati nel Battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore ».17

Riferendosi ai molteplici beni presenti nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali, il Decreto aggiunge: « Tutte queste cose, che provengono da Cristo e a lui conducono, giustamente appartengono all'unica Chiesa di Cristo. Anche non poche azioni sacre della religione cristiana vengono compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo la diversa condizione di ciascuna chiesa o comunità, possono senza dubbio produrre realmente la vita della grazia e si devono dire atte ad aprire l'ingresso nella comunione della salvezza ».18

Si tratta di testi ecumenici della massima importanza. Oltre i limiti della comunità cattolica non c'è il vuoto ecclesiale. Parecchi elementi di grande valore (eximia) che, nella Chiesa cattolica sono integrati alla pienezza dei mezzi di salvezza e dei doni di grazia che fanno la Chiesa, si trovano anche nelle altre Comunità cristiane.

14. Tutti questi elementi portano in sé il richiamo all'unità per trovare in essa la loro pienezza. Non si tratta di sommare insieme tutte le ricchezze disseminate nelle Comunità cristiane, al fine di pervenire ad una Chiesa a cui Dio mirerebbe per il futuro. Secondo la grande Tradizione attestata dai Padri d'Oriente e d'Occidente, la Chiesa cattolica crede che nell'evento di Pentecoste Dio ha già manifestato la Chiesa nella sua realtà escatologica, che egli preparava « sin dal tempo di Abele il Giusto ».19 Essa è già data. Per questo motivo noi siamo già nei tempi ultimi. Gli elementi di questa Chiesa già data esistono, congiunti nella loro pienezza, nella Chiesa cattolica e, senza tale pienezza, nelle altre Comunità,20 dove certi aspetti del mistero cristiano sono stati a volte messi più efficacemente in luce. L'ecumenismo intende precisamente far crescere la comunione parziale esistente tra i cristiani verso la piena comunione nella verità e nella carità.

Rinnovamento e conversione

15. Passando dai principi, dall'imperativo della coscienza cristiana, alla realizzazione della via ecumenica verso l'unità, il Concilio Vaticano II mette soprattutto in rilievo la necessità della conversione del cuore. L'annuncio messianico « il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino » e l'appello conseguente « convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15) con cui Gesù inaugura la sua missione, indicano l'elemento essenziale che deve caratterizzare ogni nuovo inizio: la fondamentale esigenza dell'evangelizzazione in ogni tappa del cammino salvifico della Chiesa. Ciò riguarda, in modo particolare, il processo al quale il Concilio Vaticano II ha dato avvio, inscrivendo nel rinnovamento il compito ecumenico di unire i cristiani tra loro divisi. «Ecumenismo vero non c'è senza interiore conversione ».21

Il Concilio chiama sia alla conversione personale che a quella comunitaria. L'aspirazione di ogni Comunità cristiana all'unità va di pari passo con la sua fedeltà al Vangelo. Quando si tratta di persone che vivono la loro vocazione cristiana, esso parla di conversione interiore, di un rinnovamento della mente.22

Ciascuno deve dunque convertirsi più radicalmente al Vangelo e, senza mai perdere di vista il disegno di Dio, deve mutare il suo sguardo. Con l'ecumenismo la contemplazione delle « meraviglie di Dio » (mirabilia Dei) si è arricchita di nuovi spazi nei quali il Dio Trinitario suscita l'azione di grazie: la percezione che lo Spirito agisce nelle altre Comunità cristiane, la scoperta di esempi di santità, l'esperienza delle ricchezze illimitate della comunione dei santi, il contatto con aspetti insospettabili dell'impegno cristiano. Per correlazione, il bisogno di penitenza si è anch'esso esteso: la consapevolezza di certe esclusioni che feriscono la carità fraterna, di certi rifiuti a perdonare, di un certo orgoglio, di quel rinchiudersi non evangelico nella condanna degli « altri », di un disprezzo che deriva da una malsana presunzione. Così la vita intera dei cristiani è contrassegnata dalla preoccupazione ecumenica ed essi sono chiamati a farsi come plasmare da essa.

16. Nel magistero del Concilio vi è un chiaro nesso tra rinnovamento, conversione e riforma. Esso afferma: « La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno, in modo che se alcune cose [...] sono state, secondo le circostanze di fatto e di tempo, osservate meno accuratamente, siano in tempo opportuno rimesse nel giusto e debito ordine ».23 Nessuna Comunità cristiana può sottrarsi a tale appello.

Dialogando con franchezza, le Comunità si aiutano a guardarsi insieme alla luce della Tradizione apostolica. Questo le induce a chiedersi se veramente esse esprimano in modo adeguato tutto ciò che lo Spirito ha trasmesso per mezzo degli Apostoli.24 Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, a più riprese, come ad esempio in occasione dell'anniversario del Battesimo della Rus',25 o del ricordo, dopo undici secoli, dell'opera evangelizzatrice dei santi Cirillo e Metodio,26 ho richiamato tali esigenze e prospettive. Più recentemente, il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo, pubblicato con la mia approvazione dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, le ha applicate al campo pastorale.27

17. Per quanto riguarda gli altri cristiani, i principali documenti della Commissione Fede e Costituzione 28 e le dichiarazioni di numerosi dialoghi bilaterali hanno già fornito alle Comunità cristiane utili strumenti per discernere ciò che è necessario al movimento ecumenico e alla conversione che esso deve suscitare. Tali studi sono importanti sotto una duplice angolatura: essi mostrano i notevoli progressi già raggiunti ed infondono speranza perché costituiscono una base sicura per la ricerca che va proseguita ed approfondita.

La crescente comunione in una continua riforma, realizzata alla luce della Tradizione apostolica, è senza dubbio, nell'attuale situazione del popolo cristiano, uno dei tratti distintivi e più importanti dell'ecumenismo. D'altra parte, essa è anche una essenziale garanzia per il suo avvenire. I fedeli della Chiesa cattolica non possono ignorare che lo slancio ecumenico del Concilio Vaticano II è uno dei risultati di quanto la Chiesa si era allora adoperata a fare per scrutarsi alla luce del Vangelo e della grande Tradizione. Il mio Predecessore, Papa Giovanni XXIII, lo aveva ben compreso, lui che, convocando il Concilio, rifiutò di separare aggiornamento e apertura ecumenica.29 Al termine di quell'assise conciliare, Papa Paolo VI, riannodando il dialogo della carità con le Chiese in comunione con il Patriarca di Costantinopoli e compiendo con lui il gesto concreto e altamente significativo che ha « relegato nell'oblio » — e ha fatto « sparire dalla memoria e dal mezzo della Chiesa » — le scomuniche del passato, ha consacrato la vocazione ecumenica del Concilio. Vale ricordare che la creazione di uno speciale organismo per l'ecumenismo coincide con l'avvio stesso della preparazione del Concilio Vaticano II 30 e che, per il tramite di tale organismo, i pareri e le valutazioni delle altre Comunità cristiane hanno avuto la loro parte nei grandi dibattiti sulla Rivelazione, sulla Chiesa, sulla natura dell'ecumenismo e sulla libertà religiosa.

Importanza fondamentale della dottrina

18. Riprendendo un'idea che lo stesso Papa Giovanni XXIII aveva espresso in apertura del Concilio,31 il Decreto sull'ecumenismo menziona il modo di esporre la dottrina tra gli elementi della continua riforma.32 Non si tratta in questo contesto di modificare il deposito della fede, di cambiare il significato dei dogmi, di eliminare da essi delle parole essenziali, di adattare la verità ai gusti di un'epoca, di cancellare certi articoli del Credo con il falso pretesto che essi non sono più compresi oggi. L'unità voluta da Dio può realizzarsi soltanto nella comune adesione all'integrità del contenuto della fede rivelata. In materia di fede, il compromesso è in contraddizione con Dio che è Verità. Nel Corpo di Cristo, il quale è « via, verità e vita » (Gv 14, 6), chi potrebbe ritenere legittima una riconciliazione attuata a prezzo della verità? La Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae attribuisce alla dignità umana la ricerca della verità, « specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa » 33 e l'adesione alle sue esigenze. Uno « stare insieme » che tradisse la verità sarebbe dunque in opposizione con la natura di Dio che offre la sua comunione e con l'esigenza di verità che alberga nel più profondo di ogni cuore umano.

19. Tuttavia, la dottrina deve essere presentata in un modo che la renda comprensibile a coloro ai quali Dio stesso la destina. Nell'Epistola enciclica Slavorum apostoli, ricordavo come Cirillo e Metodio, per questo stesso motivo, si adoperassero a tradurre le nozioni della Bibbia e i concetti della teologia greca in un contesto di esperienze storiche e di pensiero molto diversi. Essi volevano che l'unica parola di Dio fosse « resa così accessibile secondo le forme espressive, proprie di ciascuna civiltà ».34 Compresero di non poter dunque « imporre ai popoli assegnati alla loro predicazione neppure l'indiscutibile superiorità della lingua greca e della cultura bizantina, o gli usi e i comportamenti della società più progredita, in cui essi erano cresciuti ».35 Essi mettevano così in atto quella « perfetta comunione nell'amore [che] preserva la Chiesa da qualsiasi forma di particolarismo o di esclusivismo etnico o di pregiudizio razziale, come da ogni alterigia nazionalistica ».36 Nello stesso spirito, non ho esitato a dire agli aborigeni d'Australia: « Non dovete essere un popolo diviso in due parti [...]. Gesù vi chiama ad accettare le sue parole e i suoi valori all'interno della vostra propria cultura ».37 Poiché per sua natura il dato di fede è destinato a tutta l'umanità, esso esige di essere tradotto in tutte le culture. Infatti, l'elemento che decide della comunione nella verità è il significato della verità. L'espressione della verità può essere multiforme. E il rinnovamento delle forme di espressione si rende necessario per trasmettere all'uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato.38

« Questo rinnovamento ha quindi un'importanza ecumenica singolare ».39 E non soltanto rinnovamento nel modo di esprimere la fede, ma della stessa vita di fede. Ci si potrebbe allora chiedere: chi deve attuarlo? Il Concilio risponde chiaramente a questa domanda: esso « riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i Pastori, e tocca ognuno secondo la propria capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici ».40

20. Tutto ciò è estremamente importante e di fondamentale significato per l'attività ecumenica. Ne risulta inequivocabilmente che l'ecumenismo, il movimento a favore dell'unità dei cristiani, non è soltanto una qualche « appendice », che s'aggiunge all'attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo.

Così credeva nell'unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all'unità di tutti i cristiani. Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: « È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide ». Ed il Concilio Vaticano II, da parte sua, esorta: « Si ricordino tutti i fedeli che tanto meglio promuoveranno, anzi vivranno in pratica l'unione dei cristiani, quanto più si studieranno di condurre una vita conforme al Vangelo. Pertanto con quanta più stretta comunione saranno uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potranno accrescere la mutua fraternità ».41

Primato della preghiera

21. « Questa conversione del cuore e questa santità della vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l'unità dei cristiani, si devono ritenere come l'anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale ».42

Si avanza sulla via che conduce alla conversione dei cuori al ritmo dell'amore che si rivolge a Dio e, allo stesso tempo, ai fratelli: a tutti i fratelli, anche quelli che non sono in piena comunione con noi. Dall'amore nasce il desiderio dell'unità anche in coloro che ne hanno sempre ignorato l'esigenza. L'amore è artefice di comunione tra le persone e tra le Comunità. Se ci amiamo, noi tendiamo ad approfondire la nostra comunione, ad orientarla verso la perfezione. L'amore si rivolge a Dio quale fonte perfetta di comunione — l'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo —, per attingervi la forza di suscitare la comunione tra le persone e le Comunità, o di ristabilirla tra i cristiani ancora divisi. L'amore è la corrente profondissima che dà vita ed infonde vigore al processo verso l'unità.

Tale amore trova la sua più compiuta espressione nella preghiera comune. Quando i fratelli che non sono in perfetta comunione tra loro si riuniscono insieme per pregare, il Concilio Vaticano II definisce la loro preghiera anima dell'intero movimento ecumenico. Essa è « un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell'unità », « una genuina manifestazione dei vincoli, con i quali i cattolici sono ancora uniti con i fratelli separati ».43 Anche quando non si prega in senso formale per l'unità dei cristiani, ma per altri motivi, come, ad esempio, per la pace, la preghiera diventa di per sé espressione e conferma dell'unità. La preghiera comune dei cristiani invita Cristo stesso a visitare la comunità di coloro che lo implorano: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt 18, 20).

22. Quando si prega insieme tra cristiani, il traguardo dell'unità appare più vicino. La lunga storia dei cristiani segnata da molteplici frammentazioni sembra ricomporsi, tendendo a quella Fonte della sua unità che è Gesù Cristo. Egli « è lo stesso ieri, oggi e sempre! » (Eb 13, 8). Nella comunione di preghiera Cristo è realmente presente; prega « in noi », « con noi » e « per noi ». È Lui che guida la nostra preghiera nello Spirito Consolatore che ha promesso e ha dato alla sua Chiesa già nel Cenacolo di Gerusalemme, quando Egli l'ha costituita nella sua originaria unità.

Sulla via ecumenica verso l'unità, il primato spetta senz'altro alla preghiera comune, all'unione orante di coloro che si stringono insieme attorno a Cristo stesso. Se i cristiani, nonostante le loro divisioni, sapranno sempre di più unirsi in preghiera comune attorno a Cristo, crescerà la loro consapevolezza di quanto sia limitato ciò che li divide a paragone di ciò li unisce. Se si incontreranno sempre più spesso e più assiduamente davanti a Cristo nella preghiera, essi potranno trarre coraggio per affrontare tutta la dolorosa ed umana realtà delle divisioni, e si ritroveranno insieme in quella comunità della Chiesa che Cristo forma incessantemente nello Spirito Santo, malgrado tutte le debolezze e gli umani limiti.

23. Infine, la comunione di preghiera induce a guardare con occhi nuovi la Chiesa e il cristianesimo. Non si deve dimenticare, infatti, che il Signore ha implorato dal Padre l'unità dei suoi discepoli, perché essa rendesse testimonianza alla sua missione ed il mondo potesse credere che il Padre lo aveva inviato (cfr Gv 17, 21). Si può dire che il movimento ecumenico abbia in un certo senso preso l'avvio dall'esperienza negativa di quanti, annunciando l'unico Vangelo, si richiamavano ciascuno alla propria Chiesa o Comunità ecclesiale; una contraddizione che non poteva sfuggire a chi ascoltava il messaggio di salvezza e che vi trovava un ostacolo all'accoglimento dell'annuncio evangelico. Purtroppo questo grave impedimento non è superato. È vero: non siamo ancora in piena comunione. Eppure, malgrado le nostre divisioni, noi stiamo percorrendo la via verso la piena unità, quell'unità che caratterizzava la Chiesa apostolica ai suoi esordi, e che noi cerchiamo sinceramente: guidata dalla fede, la nostra comune preghiera ne è la prova. In essa, ci raduniamo nel nome di Cristo che è Uno. Egli è la nostra unità.

La preghiera « ecumenica » è a servizio della missione cristiana e della sua credibilità. Per questo essa deve essere particolarmente presente nella vita della Chiesa ed in ogni attività che abbia lo scopo di favorire l'unità dei cristiani. È come se noi dovessimo sempre ritornare a radunarci nel Cenacolo del Giovedì Santo, sebbene la nostra presenza insieme, in tale luogo, attenda ancora il suo perfetto compimento, fino a quando, superati gli ostacoli frapposti alla perfetta comunione ecclesiale, tutti i cristiani si riuniranno nell'unica celebrazione dell'Eucaristia.44

24. È motivo di gioia il costatare come i tanti incontri ecumenici comportino quasi sempre la preghiera ed anzi culminino con essa. La Settimana di Preghiera per l'unità dei cristiani, che si celebra nel mese di gennaio, o intorno a Pentecoste in alcuni Paesi, è diventata una tradizione diffusa e consolidata. Ma anche al di fuori di essa, molte sono le occasioni che, durante l'anno, inducono i cristiani a pregare insieme. In questo contesto, desidero richiamarmi a quell'esperienza particolare che è il peregrinare del Papa tra le Chiese, nei diversi continenti e nei vari paesi dell'oikoumene contemporanea. È stato il Concilio Vaticano II, ne sono ben consapevole, ad orientare il Papa verso questo particolare esercizio del suo ministero apostolico. Si può dire di più. Il Concilio ha fatto di questo peregrinare del Papa un preciso dovere, in adempimento del ruolo del Vescovo di Roma a servizio della comunione.45 Queste mie visite hanno quasi sempre comportato un incontro ecumenico e lapreghiera comune di fratelli che cercano l'unità in Cristo e nella sua Chiesa. Ricordo con una emozione tutta speciale la preghiera assieme al Primate della Comunione anglicana nella cattedrale di Canterbury, il 29 maggio 1982, quando, in quel mirabile edificio, riconoscevo una « dimostrazione eloquente dei nostri lunghi anni di retaggio comune e dei tristi anni di separazione che ad esso seguirono »; 46 né posso dimenticare quelle nei Paesi scandinavi e nordici (1-10 giugno 1989), nelle Americhe o in Africa, o quella presso la sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese (12 giugno 1984), l'organismo che si prefigge lo scopo di chiamare le Chiese e le Comunità ecclesiali che ne fanno parte « alla mèta dell'unità visibile in un'unica fede ed in un'unica comunità eucaristica, espressa nel culto e nella vita comune in Cristo ».47 E come potrei mai dimenticare la mia partecipazione alla liturgia eucaristica nella chiesa di san Giorgio, al Patriarcato ecumenico (30 novembre 1979), e la celebrazione nella Basilica di San Pietro, durante la visita a Roma del mio venerato Fratello, il Patriarca Dimitrios I (6 dicembre 1987)? In quella circostanza, presso l'altare della Confessione, noi professammo insieme il Simbolo niceno-costantinopolitano, secondo il testo originale greco. Poche parole non bastano a descrivere i tratti specifici che hanno caratterizzato ciascuno di questi incontri di preghiera. Per i condizionamenti del passato che, in modo differenziato, gravavano su ciascuno di essi, tutti hanno una propria e singolare eloquenza; tutti sono scolpiti nella memoria della Chiesa che è orientata dal Paraclito alla ricerca dell'unità di tutti i credenti in Cristo.

25. Non soltanto il Papa si è fatto pellegrino. In questi anni, tanti degni rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali mi hanno fatto visita a Roma e con loro ho potuto pregare, in circostanze pubbliche e private. Ho già accennato alla presenza del Patriarca ecumenico Dimitrios I. Vorrei ora anche ricordare quell'incontro di preghiera che mi ha unito, nella stessa Basilica di San Pietro, per la celebrazione dei Vespri, con gli Arcivescovi luterani, primati di Svezia e di Finlandia, in occasione del VI centenario della Canonizzazione di santa Brigida (5 ottobre 1991). Si tratta di un esempio, perché la consapevolezza del dovere di pregare per l'unità è diventata parte integrante della vita della Chiesa. Non vi è evento importante, significativo, che non benefici della presenza reciproca e della preghiera dei cristiani. Mi è impossibile elencare tutti questi incontri, benché ciascuno meriti di essere nomi- nato. Veramente il Signore ci ha preso per mano e ci guida. Questi scambi, queste preghiere hanno già scritto pagine e pagine del nostro « Libro dell'unità », un « Libro » che dobbiamo sempre sfogliare e rileggere per trarne ispirazione e speranza.

26. La preghiera, la comunità di preghiera, ci permette sempre di ritrovare la verità evangelica delle parole « uno solo è il Padre vostro » (Mt 23, 9), quel Padre, Abbà, che Cristo stesso interpella, Lui che è Figlio unigenito e della sua stessa sostanza. E poi: « Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli » (Mt 23, 8). La preghiera « ecumenica » svela questa fondamentale dimensione di fratellanza in Cristo, che è morto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi, perché noi, diventando figli nel Figlio (cfr Ef 1, 5), rispecchiassimo più pienamente l'inscrutabile realtà della paternità di Dio e, al contempo, la verità sull'umanità propria di ciascuno e di tutti.

La preghiera « ecumenica », la preghiera dei fratelli e delle sorelle, esprime tutto questo. Essi, proprio perché separati tra di loro, con tanta maggiore speranza si uniscono in Cristo, affidandogli il futuro della loro unità e della loro comunione. A questo contesto si potrebbe ancora una volta applicare felicemente l'insegnamento del Concilio: « Il Signore Gesù quando prega il Padre, "perché tutti siano uno [...] come noi siamo una cosa sola" (Gv 17, 21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nella carità ».48

La stessa conversione del cuore, condizione essenziale di ogni autentica ricerca dell'unità, scaturisce dalla preghiera e da essa è orientata al suo compimento: « Il desiderio dell'unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall'abnegazione di se stesso e dalla liberissima effusione della carità. Perciò dobbiamo implorare dallo Spirito divino la grazia della sincera abnegazione, dell'umiltà e mansuetudine nel servizio e della fraterna generosità di animo verso gli altri ».49

27. Pregare per l'unità non è tuttavia riservato a chi vive in un contesto di divisione tra i cristiani. In quell'intimo e personale dialogo che ciascuno di noi deve intrattenere con il Signore nella preghiera, la preoccupazione dell'unità non può essere esclusa. Soltanto così, infatti, essa farà pienamente parte della realtà della nostra vita e degli impegni che abbiamo assunto nella Chiesa. Per riaffermare questa esigenza, ho voluto proporre ai fedeli della Chiesa cattolica un modello che mi sembra esemplare, quello di una suora trappista, Maria Gabriella dell'Unità, che ho proclamato beata il 25 gennaio 1983.50 Suor Maria Gabriella, chiamata dalla sua vocazione ad essere fuori del mondo, ha dedicato la sua esistenza alla meditazione e alla preghiera incentrate sul capitolo 17 del vangelo di san Giovanni e l'ha offerta per l'unità dei cristiani. Ecco, questo è il fulcro di ogni preghiera: l'offerta totale e senza riserve della propria vita al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo. L'esempio di suor Maria Gabriella ci istruisce, ci fa comprendere come non vi siano tempi, situazioni o luoghi particolari per pregare per l'unità. La preghiera di Cristo al Padre è modello per tutti, sempre e in ogni luogo.

Dialogo ecumenico

28. Se la preghiera è l'« anima » del rinnovamento ecumenico e dell'aspirazione all'unità, su di essa si fonda e da essa trae sostentamento tutto ciò che il Concilio definisce « dialogo ». Tale definizione non è certo senza nesso con il pensiero personalistico odierno. L'atteggiamento di « dialogo » si situa al livello della natura della persona e della sua dignità. Dal punto di vista filosofico, una tale posizione si ricollega alla verità cristiana sull'uomo espressa dal Concilio: egli infatti « in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa »; l'uomo non può pertanto « ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé ».51 Il dialogo è passaggio obbligato del cammino da percorrere verso l'autocompimento dell'uomo, del singolo individuo come anche di ciascuna comunità umana. Sebbene dal concetto di « dialogo » sembri emergere in primo piano il momento conoscitivo (dia-logos), ogni dialogo ha in sé una dimensione globale, esistenziale. Esso coinvolge il soggetto umano nella sua interezza; il dialogo tra le comunità impegna in modo particolare la soggettività di ciascuna di esse.

Tale verità sul dialogo, tanto profondamente espressa dal Papa Paolo VI nella sua Enciclica Ecclesiam suam,52 è stata assunta anche dalla dottrina e dalla pratica ecumenica del Concilio. Il dialogo non è soltanto uno scambio di idee. In qualche modo esso è sempre uno « scambio di doni ».53

29. Per questo motivo, anche il Decreto conciliare sull'ecumenismo pone in primo piano « tutti gli sforzi per eliminare parole, giudizi e opere che non rispecchiano con equità e verità la condizione dei fratelli separati e perciò rendono più difficili le mutue relazioni con essi ».54 Questo Documento affronta la questione dal punto di vista della Chiesa cattolica e si riferisce al criterio che essa deve applicare nei confronti degli altri cristiani. Vi è però in tutto questo una esigenza di reciprocità. Attenersi a tale criterio è impegno di ciascuna delle parti che vogliono fare dialogo ed è condizione previa per avviarlo. Occorre passare da una posizione di antagonismo e di conflitto ad un livello nel quale l'uno e l'altro si riconoscono reciprocamente partner. Quando si inizia a dialogare, ciascuna delle parti deve presupporre una volontà di riconciliazione nel suo interlocutore, di unità nella verità. Per realizzare tutto questo, le manifestazioni del reciproco contrapporsi debbono sparire. Soltanto così il dialogo aiuterà a superare la divisione e potrà avvicinare all'unità.

30. Si può affermare, con viva gratitudine verso lo Spirito di verità, che il Concilio Vaticano II è stato un tempo benedetto, durante il quale si sono realizzate le condizioni basilari della partecipazione della Chiesa cattolica al dialogo ecumenico. D'altra parte, la presenza dei numerosi osservatori di varie Chiese e Comunità ecclesiali, il loro profondo coinvolgimento nell'evento conciliare, i tanti incontri e le preghiere comuni che il Concilio ha reso possibili, hanno contribuito a porre in atto le condizioni per dialogare insieme. Durante il Concilio, i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità cristiane hanno sperimentato la disponibilità al dialogo dell'episcopato cattolico del mondo intero e, in particolare, della Sede Apostolica.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

Strutture locali di dialogo

31. L'impegno per il dialogo ecumenico, così come esso si è palesato sin dai tempi del Concilio, lungi dall'essere prerogativa della Sede Apostolica, incombe anche alle singole Chiese locali o particolari. Speciali commissioni per la promozione dello spirito e dell'azione ecumenica sono state istituite dalle Conferenze Episcopali e dai Sinodi delle Chiese orientali cattoliche. Analoghe ed opportune strutture operano a livello delle singole diocesi. Tali iniziative attestano il coinvolgimento concreto e generale della Chiesa cattolica nell'applicare gli orientamenti conciliari sull'ecumenismo: è questo un aspetto essenziale del movimento ecumenico.55 Il dialogo non soltanto è stato intrapreso; esso è diventato una necessità dichiarata, una delle priorità della Chiesa; si è di conseguenza affinata la « tecnica » per dialogare, favorendo nel contempo la crescita dello spirito di dialogo. In questo contesto ci si vuole prima di tutto riferire al dialogo tra i cristiani delle diverse Chiese o Comunità, « avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche ».56 Tuttavia giova ad ogni fedele conoscere il metodo che permette il dialogo.

32. Come afferma la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, « la verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l'aiuto del Magistero o dell'insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; e alla verità conosciuta si deve aderire fermamente con assenso personale ».57

Il dialogo ecumenico ha una importanza essenziale. « Infatti con questo dialogo tutti acquistano una conoscenza più vera e una più giusta stima della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune e, nel modo come è permesso, si radunino per pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com'è dovere, intraprendono con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma ».58

Dialogo come esame di coscienza

33. Nell'intento del Concilio, il dialogo ecumenico ha il carattere di una comune ricerca della verità, in particolare sulla Chiesa. Infatti, la verità forma le coscienze ed orienta il loro agire a favore dell'unità. Allo stesso tempo, essa esige che la coscienza dei cristiani, fratelli fra loro divisi, e le loro opere siano sottomesse alla preghiera di Cristo per l'unità. Vi è sinergia tra preghiera e dialogo. Una preghiera più profonda e consapevole rende il dialogo più ricco di frutti. Se da una parte, la preghiera è la condizione per il dialogo, dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto.

34. Grazie al dialogo ecumenico possiamo parlare di maggiore maturità della nostra reciproca preghiera comune. Ciò è possibile in quanto il dialogo adempie anche e contemporaneamente alla funzione di un esame di coscienza. Come non ricordare in questo contesto le parole della Prima Lettera di Giovanni? « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli (Dio) che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8-9). Giovanni si spinge ancora più in là quando afferma: « Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi » (1, 10). Unaesortazione tanto radicale a riconoscere la nostra condizione di peccatori deve anche essere una caratteristica dello spirito con il quale si affronta il dialogo ecumenico. Se esso non diventasse un esame di coscienza, come un « dialogo delle coscienze », potremmo noi contare su quella certezza che la medesima Lettera ci trasmette? « Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » (2, 1-2). Tutti i peccati del mondo sono stati compresi nel sacrificio salvifico di Cristo, e dunque anche quelli commessi contro l'unità della Chiesa: i peccati dei cristiani, dei pastori non meno che dei fedeli. Anche dopo i tanti peccati che hanno contribuito alle storiche divisioni,l'unità dei cristiani è possibile, a patto di essere umilmente consapevoli di aver peccato contro l'unità e convinti della necessità della nostra conversione. Non soltanto i peccati personali debbono essere rimessi e superati, ma anche quelli sociali, come a dire le « strutture » stesse del peccato, che hanno contribuito e possono contribuire alla divisione e al suo consolidamento.

35. Ancora una volta il Concilio Vaticano II ci viene in aiuto. Si può dire che l'intero Decreto sull'ecumenismo sia pervaso dallo spirito di conversione.59 Il dialogo ecumenico acquista in questo documento un carattere proprio; esso si trasforma in « dialogo della conversione », e dunque, secondo l'espressione di Papa Paolo VI, in autentico « dialogo della salvezza ».60 Il dialogo non può svolgersi seguendo un andamento esclusivamente orizzontale, limitandosi all'incontro, allo scambio di punti di vista, o persino di doni propri a ciascuna Comunità. Esso tende anche e soprattutto ad una dimensione verticale, la quale lo orienta verso Colui che, Redentore del mondo e Signore della storia, è la nostra riconciliazione. La dimensione verticale del dialogo sta nel comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato. È proprio esso ad aprire nei fratelli che vivono entro Comunità non in piena comunione fra di loro, quello spazio interiore in cui Cristo, fonte dell'unità della Chiesa, può agire efficacemente, con tutta la potenza del suo Spirito Paraclito.

Dialogo per risolvere le divergenze

36. Il dialogo è anche strumento naturale per mettere a confronto i diversi punti di vista e soprattutto esaminare quelle divergenze che sono di ostacolo alla piena comunione dei cristiani tra di loro. Il Decreto sull'ecumenismo si sofferma, in primo luogo, a descrivere le disposizioni morali con le quali vanno affrontate le conversazioni dottrinali: « Nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà ».61

L'amore della verità è la dimensione più profonda di una autentica ricerca della piena comunione tra i cristiani. Senza quest'amore, sarebbe impossibile affrontare le obiettive difficoltà teologiche, culturali, psicologiche e sociali che si incontrano nell'esaminare le divergenze. A questa dimensione interiore e personale va inseparabilmente associato lo spirito di carità e di umiltà. Carità verso l'interlocutore, umiltà verso la verità che si scopre e che potrebbe richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti.

Per quanto riguarda lo studio delle divergenze, il Concilio richiede che tutta la dottrina sia esposta con chiarezza. Nello stesso tempo, esso domanda che il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non sia di ostacolo al dialogo con i fratelli.62 Certamente è possibile testimoniare la propria fede e spiegarne la dottrina in un modo che sia corretto, leale e comprensibile, e tenga contemporaneamente presenti sia le categorie mentali che l'esperienza storica concreta dell'altro.

Ovviamente, la piena comunione dovrà realizzarsi nell'accettazione della verità tutta intera, alla quale lo Spirito Santo introduce i discepoli di Cristo. Va pertanto ed assolutamente evitata ogni forma di riduzionismo o di facile « concordi- smo ». Le questioni serie vanno risolte perché se non lo fossero, esse riapparirebbero in altri tempi, con identica configurazione o sotto altre spoglie.

37. Il Decreto Unitatis redintegratio indica anche un criterio da seguire quando si tratta per i cattolici di presentare o mettere a confronto le dottrine: « Si ricordino che esiste un ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via, nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo ».63

38. Nel dialogo ci si imbatte inevitabilmente nel problema delle differenti formulazioni con le quali è espressa la dottrina nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali, ciò che ha più di una conseguenza per il compito ecumenico.

In primo luogo, davanti a formulazioni dottrinali che si discostano da quelle abituali alla comunità alla quale si appartiene, conviene senz'altro appurare se le parole non sottintendano un identico contenuto, come è stato, ad esempio, constatato in recenti dichiarazioni comuni, firmate dai miei Predecessori e da me, assieme a Patriarchi di Chiese con le quali esisteva da secoli un contenzioso cristologico. Per quanto riguarda la formulazione delle verità rivelate, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae afferma: « Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente ».64 A questo riguardo, il dialogo ecumenico, che stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni.

Uno dei vantaggi dell'ecumenismo è che per suo tramite le Comunità cristiane sono aiutate a scoprire l'insondabile ricchezza della verità. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli « altri » può contribuire all'edificazione di ogni comunità 65 e in un certo modo ad istruirla sul mistero di Cristo. L'ecumenismo autentico è una grazia di verità.

39. Il dialogo infine pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede. Soprattutto queste divergenze vanno affrontate con sincero spirito di carità fraterna, di rispetto delle esigenze della propria coscienza e della coscienza del prossimo, con profonda umiltà e amore verso la verità. Il confronto in questa materia ha due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa.

La collaborazione pratica

40. Le relazioni tra i cristiani non tendono alla sola conoscenza reciproca, alla preghiera comune ed al dialogo. Esse prevedono ed esigono sin da ora ogni possibile collaborazione pratica ai vari livelli: pastorale, culturale, sociale, e anche nella testimonianza al messaggio del Vangelo.66

« La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione, che già vige tra di loro, e pone in una luce più piena il volto di Cristo servo ».67 Una tale cooperazione fondata sulla fede comune, non soltanto è densa di comunione fraterna, ma è una epifania di Cristo stesso.

Inoltre, la cooperazione ecumenica è una vera scuola di ecumenismo, è una via dinamica verso l'unità. L'unità di azione conduce alla piena unità di fede: « Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare, come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».68

Agli occhi del mondo la cooperazione tra i cristiani assume le dimensioni della comune testimonianza cristiana e diventa strumento di evangelizzazione a beneficio degli uni e degli altri.

II

I FRUTTI DEL DIALOGO

La fraternità ritrovata

41. Quanto detto sopra a proposito del dialogo ecumenico dalla conclusione del Concilio in poi induce a rendere grazie allo Spirito di verità promesso da Cristo Signore agli Apostoli e alla Chiesa (cfr Gv 14, 26). È la prima volta nella storia che l'azione in favore dell'unità dei cristiani ha assunto proporzioni così grandi e si è estesa ad un ambito tanto vasto. Ciò è già un immenso dono che Dio ha concesso e che merita tutta la nostra gratitudine. Dalla pienezza di Cristo riceviamo « grazia su grazia » (Gv 1, 16). Riconoscere quanto Dio ha già concesso è la condizione che ci predispone a ricevere quei doni ancora indispensabili per condurre a compimento l'opera ecumenica dell'unità.

Uno sguardo d'insieme sugli ultimi trent'anni fa meglio comprendere molti dei frutti di questa comune conversione al Vangelo di cui lo Spirito di Dio ha fatto strumento il movimento ecumenico.

42. Avviene ad esempio che — nello stesso spirito del Discorso della montagna — i cristiani appartenenti ad una confessione non considerino più gli altri cristiani come nemici o stranieri, ma vedano in essi dei fratelli e delle sorelle. D'altro canto, persino all'espressione fratelli separati, l'uso tende a sostituire oggi vocaboli più attenti ad evocare la profondità della comunione — legata al carattere battesimale — che lo Spirito alimenta malgrado le rotture storiche e canoniche. Si parla degli « altri cristiani », degli « altri battezzati », dei « cristiani delle altre Comunità ». Il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo designa le Comunità alle quali appartengono questi cristiani come « Chiese e Comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica ».69 Tale ampliamento del lessico traduce una notevole evoluzione delle mentalità. La consapevolezza della comune appartenenza a Cristo si approfondisce. L'ho potuto constatare molte volte di persona, durante le celebrazioni ecumeniche che sono uno degli eventi importanti dei miei viaggi apostolici nelle varie parti del mondo, o negli incontri e nelle celebrazioni ecumeniche che hanno avuto luogo a Roma. La « fraternità universale » dei cristiani è diventata una ferma convinzione ecumenica. Relegando nell'oblio le scomuniche del passato, le Comunità un tempo rivali oggi in molti casi si aiutano a vicenda; a volte gli edifici di culto vengono prestati, si offrono borse di studio per la formazione dei ministri delle Comunità più prive di mezzi, si interviene presso le autorità civili per la difesa di altri cristiani ingiustamente incriminati, si dimostra l'infondatezza delle calunnie di cui sono vittime certi gruppi.

In una parola, i cristiani si sono convertiti ad una carità fraterna che abbraccia tutti i discepoli di Cristo. Se accade che, a motivo di sommovimenti politici violenti, affiori in situazioni concrete una certa aggressività, oppure uno spirito di rivalsa, le autorità delle parti in causa si adoperano in genere per far prevalere la « Legge nuova » dello spirito di carità. Purtroppo, un tale spirito non ha potuto trasformare tutte le situazioni di conflitto cruento. L'impegno ecumenico in queste circostanze richiede non di rado da chi lo esercita scelte di autentico eroismo.

Bisogna ribadire a questo riguardo che il riconoscimento della fraternità non è la conseguenza di un filantropismo liberale o di un vago spirito di famiglia. Esso si radica nel riconoscimento dell'unico Battesimo e nella conseguente esigenza che Dio sia glorificato nella sua opera. Il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo auspica un reciproco e ufficiale riconoscimento dei Battesimi70. Ciò che va ben al di là di un atto di cortesia ecumenica e costituisce una basilare affermazione ecclesiologica.

Va opportunamente ricordato che il carattere fondamentale del Battesimo nell'opera di edificazione della Chiesa è stato chiaramente evidenziato anche grazie al dialogo multilaterale.71

La solidarietà nel servizio all'umanità

43. Accade sempre più spesso che i responsabili delle Comunità cristiane prendano insieme posizione, in nome di Cristo, su problemi importanti che toccano la vocazione umana, la libertà, la giustizia, la pace, il futuro del mondo. Così facendo essi « comunicano » in uno degli elementi costitutivi della missione cristiana: ricordare alla società, in un modo che sappia essere realista, la volontà di Dio, mettendo in guardia le autorità e i cittadini perché non seguano la china che condurrebbe a calpestare i diritti umani. È chiaro, e l'esperienza lo dimostra, che in alcune circostanze la voce comune dei cristiani ha più impatto di una voce isolata.

I responsabili delle Comunità non sono tuttavia i soli ad unirsi in questo impegno per l'unità. Numerosi cristiani di tutte le Comunità, a motivo della loro fede, partecipano insieme a progetti coraggiosi che si propongono di cambiare il mondo nel senso di far trionfare il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri, degli umiliati e degli indifesi. Nella Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis ho constatato con gioia questa collaborazione, sottolineando che la Chiesa cattolica non può sottrarvisi.72 Infatti i cristiani, che un tempo agivano in modo indipendente, sono ora impegnati insieme a servizio di questa causa, perché la benevolenza di Dio possa trionfare.

La logica è già quella del Vangelo. Per questo motivo, ribadendo quanto avevo scritto nella mia prima Lettera enciclica, la Redemptor hominis, ho avuto occasione « di insistere su questo punto e di incoraggiare ogni sforzo compiuto in questa direzione, a tutti i livelli in cui ci incontriamo con gli altri nostri fratelli cristiani » 73 ed ho ringraziato Dio « di ciò che egli ha già compiuto nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali e per mezzo loro », come anche per mezzo della Chiesa cattolica.74 Oggi constato con soddisfazione che la già vasta rete di collaborazione ecumenica si estende sempre di più. Anche per influsso del Consiglio ecumenico delle Chiese, si compie un grande lavoro in questo campo.

Convergenze nella parola di Dio e nel culto divino

44. I progressi della conversione ecumenica sono significativi anche in un altro settore, quello relativo alla Parola di Dio. Penso prima di tutto ad un evento così importante per svariati gruppi linguistici come le traduzioni ecumeniche della Bibbia. Dopo la promulgazione, da parte del Concilio Vaticano II, della Costituzione Dei Verbum, la Chiesa cattolica non poteva non accogliere con gioia questa realizzazione.75 Tali traduzioni, opera di specialisti, offrono generalmente una base sicura alla preghiera e all'attività pastorale di tutti i discepoli di Cristo. Chi ricorda quanto abbiano influito sulle divisioni, specie in Occidente, i dibattiti attorno alla Scrittura, può comprendere quale notevole passo avanti rappresentino tali traduzioni comuni.

45. Al rinnovamento liturgico compiuto dalla Chiesa cattolica, ha corrisposto in diverse Comunità ecclesiali l'iniziativa di rinnovare il loro culto. Alcune di esse, sulla base dell'auspicio espresso a livello ecumenico,76 hanno abbandonato la consuetudine di celebrare la loro liturgia della Cena soltanto in rare occasioni ed hanno optato per una celebrazione domenicale. D'altra parte, paragonando i cicli delle letture liturgiche di diverse Comunità cristiane occidentali, si constata che essi convergono per l'essenziale. Sempre a livello ecumenico,77 si è dato un rilievo del tutto speciale alla liturgia e ai segni liturgici (immagini, icone, paramenti, luce, incenso, gestualità). Inoltre, negli istituti di teologia dove si formano i futuri ministri, lo studio della storia e del significato della liturgia comincia a far parte dei programmi, come un bisogno che si sta riscoprendo.

Si tratta di segni di convergenza che riguardano vari aspetti della vita sacramentale. Certamente, a causa di divergenze che toccano la fede, non è ancora possibile concelebrare la stessa liturgia eucaristica. Eppure noi abbiamo il desiderio ardente di celebrare insieme l'unica Eucaristia del Signore, e questo desiderio diventa già una lode comune, una stessa implorazione. Insieme ci rivolgiamo al Padre e lo facciamo sempre di più « con un cuore solo ». A volte, il poter finalmente suggellare questa comunione « reale sebbene non ancora piena » sembra essere più vicino. Chi avrebbe potuto un secolo fa anche solo pensarlo?

46. In questo contesto, è motivo di gioia ricordare che i ministri cattolici possano, in determinati casi particolari, amministrare i sacramenti dell'Eucaristia, della Penitenza, dell'Unzione degli infermi ad altri cristiani che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, ma che desiderano ardentemente riceverli, li domandano liberamente, e manifestano la fede che la Chiesa cattolica confessa in questi sacramenti. Reciprocamente, in determinati casi e per particolari circostanze, anche i cattolici possono fare ricorso per gli stessi sacramenti ai ministri di quelle Chiese in cui essi sono validi. Le condizioni per tale reciproca accoglienza sono stabilite in norme e la loro osservanza si impone per la promozione ecumenica.78

Apprezzare i beni presenti tra gli altri cristiani

47. Il dialogo non si articola esclusivamente attorno alla dottrina, ma coinvolge tutta la persona: esso è anche un dialogo d'amore. Il Concilio ha affermato: « È necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati. Riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo, talora sino all'effusione del sangue, è cosa giusta e salutare: perché Dio è sempre stupendo e sorprendente nelle sue opere ».79

48. Le relazioni che i membri della Chiesa cattolica hanno stabilito con gli altri cristiani dal Concilio in poi, hanno fatto scoprire ciò che Dio opera in coloro che appartengono alle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Questo contatto diretto, a vari livelli, tra i pastori e tra i membri delle Comunità, ci ha fatto prendere coscienza della testimonianza che gli altri cristiani rendono a Dio e a Cristo. Si è così aperto un vastissimo spazio per tutta l'esperienza ecumenica, che è allo stesso tempo la sfida che si pone a questa nostra epoca. Il XX secolo non è forse un tempo di grande testimonianza, che va « fino all'effusione del sangue »? Ed essa non riguarda forse anche le varie Chiese e Comunità ecclesiali, che traggono il loro nome da Cristo, crocifisso e risorto?

Tale comune testimonianza della santità, come fedeltà all'unico Signore, è un potenziale ecumenico straordinariamente ricco di grazia. Il Concilio Vaticano II ha sottolineato che i beni presenti negli altri cristiani possono contribuire all'edificazione dei cattolici: « Né si deve dimenticare che quanto dalla grazia dello Spirito Santo viene fatto nei fratelli separati, può contribuire alla nostra edificazione. Tutto ciò che è veramente cristiano mai è contrario ai veri benefici della fede, anzi può sempre far sì, che lo stesso mistero di Cristo e della Chiesa sia raggiunto più perfettamente ».80 Il dialogo ecumenico, come vero dialogo di salvezza, non mancherà di stimolare questo processo, già in se stesso ben avviato, a progredire verso la vera e piena comunione.

Crescita della comunione

49. Frutto prezioso delle relazioni tra i cristiani e del dialogo teologico che essi intrattengono è la crescita della comunione. Le une e l'altro hanno reso consapevoli i cristiani degli elementi di fede che essi hanno in comune. Ciò è servito a cementare ulteriormente il loro impegno verso la piena unità. In tutto questo il Concilio Vaticano II rimane potente centro di propulsione e di orientamento.

La Costituzione dogmatica Lumen gentium collega la dottrina concernente la Chiesa cattolica al riconoscimento degli elementi salvifici che si trovano nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali.81 Non si tratta di una presa di coscienza di elementi statici, passivamente presenti in tali Chiese e Comunità. In quanto beni della Chiesa di Cristo, per loro natura essi spingono verso il ristabilimento dell'unità. Ne consegue che la ricerca dell'unità dei cristiani non è un atto facoltativo o di opportunità, ma un'esigenza che scaturisce dall'essere stesso della comunità cristiana.

Similmente, i dialoghi teologici bilaterali con le maggiori Comunità cristiane partono dal riconoscimento del grado di comunione già in atto, per discutere poi in modo progressivo le divergenze esistenti con ciascuna. Il Signore ha concesso ai cristiani del nostro tempo di poter ridurre il contenzioso tradizionale.

Il dialogo con le Chiese d'Oriente

50. A questo riguardo, si deve innanzitutto constatare, con particolare gratitudine alla Provvidenza divina, che il legame con le Chiese d'Oriente, incrinato durante i secoli, si è rinsaldato con il Concilio Vaticano II. Gli osservatori di queste Chiese presenti al Concilio, assieme a rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali di Occidente, hanno manifestato pubblicamente, in un momento così solenne per la Chiesa cattolica, la comune volontà di ricercare la comunione.

Il Concilio, da parte sua, ha considerato con oggettività e con profondo affetto le Chiese d'Oriente, mettendo in rilievo la loro ecclesialità e gli oggettivi vincoli di comunione che le legano alla Chiesa cattolica. Il Decreto sull'ecumenismo afferma: « Per mezzo della celebrazione dell'Eucaristia del Signore in queste singole chiese la Chiesa di Dio è edificata e cresce », aggiungendo, di conseguenza, che tali chiese « quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l'Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli ».82

Delle Chiese d'Oriente è stata riconosciuta la grande tradizione liturgica e spirituale, il carattere specifico del loro sviluppo storico, le discipline da loro seguite sin dai primi tempi e sancite dai santi Padri e dai Concili ecumenici, il modo che è loro proprio di enunciare la dottrina. Tutto ciò nella convinzione che la legittima diversità non si oppone affatto all'unità della Chiesa, anzi ne accresce il decoro e contribuisce non poco al compimento della sua missione.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II vuole fondare il dialogo sulla comunione esistente e richiama l'attenzione proprio sulla ricca realtà delle Chiese d'Oriente: « Perciò il santo Concilio esorta tutti, ma specialmente quelli che intendono lavorare al ristabilimento della desiderata piena comunione tra le Chiese orientali e la Chiesa cattolica, affinché tengano in debita considerazione questa speciale condizione della nascita e della crescita delle Chiese d'Oriente, e la natura delle relazioni vigenti fra esse e la sede di Roma prima della separazione, e si formino un equo giudizio su tutte queste cose ».83

51. Questo orientamento conciliare è stato fecondo sia per le relazioni di fraternità, che sono andate sviluppandosi per mezzo del dialogo della carità, sia per la discussione dottrinale nell'ambito della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme. Esso è stato altrettanto ricco di frutti nelle relazioni con le antiche Chiese dell'Oriente.

Si è trattato di un processo lento e laborioso, che è stato però fonte di molta gioia; ed è stato anche entusiasmante, poiché ha permesso di ritrovare progressivamente la fraternità.

La ripresa dei contatti

52. Per quanto riguarda la Chiesa di Roma e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il processo a cui abbiamo appena fatto cenno ha preso avvio grazie alla reciproca apertura mostrata dai Papi Giovanni XXIII e Paolo VI, da una parte, e dal Patriarca ecumenico Athenagoras I e dai suoi successori, dall'altra. Il mutamento operato ha la sua espressione storica nell'atto ecclesiale per il cui tramite « si è tolto dalla memoria e dal mezzo delle Chiese » 84 il ricordo delle scomuniche che novecento anni prima, nel 1054, erano diventate simbolo dello scisma tra Roma e Costantinopoli. Quell'evento ecclesiale, tanto denso di impegno ecumenico, avvenne negli ultimi giorni del Concilio, il 7 dicembre del 1965. L'assise conciliare si concludeva così con un atto solenne che era al tempo stesso purificazione della memoria storica, perdono reciproco e solidale impegno per la ricerca della comunione.

Questo gesto era stato preceduto dall'incontro di Paolo VI e del Patriarca Athenagoras I a Gerusalemme, nel gennaio del 1964, durante il pellegrinaggio del Papa in Terra Santa. In quell'occasione egli poté anche incontrare il Patriarca ortodosso di Gerusalemme, Benedictos. In seguito, Papa Paolo poteva far visita al Patriarca Athenagoras al Fanar (Istanbul) il 25 luglio del 1967 e, nel mese di ottobre dello stesso anno, il Patriarca era accolto solennemente a Roma. Questi incontri nella preghiera additavano la via da seguire per il riavvicinamento tra la Chiesa d'Oriente e la Chiesa d'Occidente ed il ristabilimento dell'unità che esisteva tra loro nel primo millennio.

Dopo la morte di Papa Paolo VI ed il breve pontificato di Papa Giovanni Paolo I, quando mi è stato affidato il ministero di Vescovo di Roma, ho ritenuto che fosse uno dei primi doveri del mio servizio pontificio rinnovare un personale contatto con il Patriarca ecumenico Dimitrios I, il quale aveva nel frattempo assunto, nella sede di Costantinopoli, la successione del Patriarca Athenagoras. Durante la mia visita al Fanar il 29 novembre del 1979, potemmo, il Patriarca ed io, decidere di inaugurare il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e tutte le Chiese ortodosse in comunione canonica con la sede di Costantinopoli. Sembra importante aggiungere, a questo proposito, che allora erano già in corso i preparativi per la convocazione del futuro Concilio delle Chiese ortodosse. La ricerca della loro armonia è un contributo alla vita e alla vitalità di quelle Chiese sorelle, e ciò anche in considerazione della funzione che esse sono chiamate a svolgere nel cammino verso l'unità. Il Patriarca ecumenico ha voluto restituirmi la visita che gli avevo reso, e nel dicembre del 1987 ho avuto la gioia di accoglierlo a Roma, con affetto sincero e con la solennità che gli era dovuta. In questo contesto di fraternità ecclesiale, va ricordata la consuetudine, ormai stabilita da vari anni, di accogliere a Roma, per la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, una delegazione del Patriarcato ecumenico, così come di inviare al Fanar una delegazione della Santa Sede per la solenne celebrazione di sant'Andrea.

53. Questi regolari contatti permettono tra l'altro uno scambio diretto di informazioni e di pareri per un fraterno coordinamento. D'altra parte, la nostra reciproca partecipazione alla preghiera ci riabitua a vivere fianco a fianco, ci induce ad accogliere insieme, e dunque a mettere in pratica, la volontà del Signore per la sua Chiesa.

Lungo il cammino che abbiamo percorso dal Concilio Vaticano II in poi, vanno menzionati almeno due eventi particolarmente eloquenti e di grande rilevanza ecumenica nelle relazioni tra Oriente ed Occidente: in primo luogo, il Giubileo del 1984, indetto per commemorare l'XI centenario dell'opera evangelizzatrice di Cirillo e Metodio e che mi ha permesso di proclamare compatroni d'Europa i due santi apostoli degli Slavi, messaggeri di fede. Già Papa Paolo VI nel 1964, durante il Concilio, aveva proclamato san Benedetto patrono d'Europa. Associare i due Fratelli di Tessalonica al grande fondatore del monachesimo occidentale vale a mettere indirettamente in risalto quella duplice tradizione ecclesiale e culturale tanto significativa per i duemila anni di cristianesimo che hanno caratterizzato la storia del continente europeo. Non è quindi superfluo ricordare che Cirillo e Metodio provenivano dall'ambito della Chiesa bizantina del loro tempo, epoca durante la quale essa era in comunione con Roma. Nel proclamarli, assieme a san Benedetto, patroni d'Europa, desideravo non soltanto confermare la verità storica sul cristianesimo nel continente europeo, ma anche fornire un importante tema a quel dialogo tra Oriente ed Occidente, che tante speranze ha suscitato nel dopo Concilio. Come in san Benedetto, nei santi Cirillo e Metodio l'Europa ritrova le sue radici spirituali. Ora che volge al termine il secondo millennio dalla nascita di Cristo, essi debbono essere venerati insieme, come patroni del nostro passato e come santi ai quali le Chiese e le nazioni del continente europeo affidano il loro avvenire.

54. L'altro evento che mi piace richiamare alla mente è la celebrazione del Millennio del Battesimo della Rus' (988-1988). La Chiesa cattolica, ed in modo particolare la Sede Apostolica, hanno voluto prendere parte alle celebrazioni giubilari ed hanno cercato di sottolineare come il Battesimo conferito a Kiev a san Vladimiro sia stato uno degli eventi centrali per l'evangelizzazione del mondo. Ad esso debbono la loro fede non soltanto le grandi nazioni slave dell'Est europeo, ma anche quei popoli che vivono oltre i monti Urali e fino all'Alaska.

In questa prospettiva, un'espressione che ho più volte adoperato trova il suo motivo più profondo: la Chiesa deve respirare con i suoi due polmoni! Nel primo millennio della storia del cristianesimo essa si riferisce soprattutto alla dualità Bisanzio-Roma; dal Battesimo della Rus' in poi, tale espressione dilata i suoi confini: l'evangelizzazione si è estesa ad un ambito ben più vasto, così che essa abbraccia ormai l'intera Chiesa. Se si considera poi che tale evento salvifico, avvenuto lungo le sponde del Dniepr, risale ad una epoca durante la quale la Chiesa in Oriente e quella in Occidente non erano divise, si comprende chiaramente come la prospettiva secondo la quale la piena comunione va ricercata sia quella dell'unità nella legittima diversità. È quanto ho affermato con forza nell'Epistola enciclica Slavorum apostoli 85 dedicata ai santi Cirillo e Metodio e nella Lettera apostolica Euntes in mundum 86 diretta ai fedeli della Chiesa cattolica nella commemorazione del Millennio del Battesimo della Rus' di Kiev.

Chiese sorelle

55. Il Decreto conciliare Unitatis redintegratio nel suo orizzonte storico tiene presente l'unità che, malgrado tutto, fu vissuta nel primo millennio. Essa assume in un certo senso configurazione di modello. « È cosa gradita per il sacro Concilio [...] richiamare alla mente di tutti, che in Oriente prosperano molte Chiese particolari o locali, tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e non poche di queste si gloriano d'essere state fondate dagli stessi Apostoli ».87 Il cammino della Chiesa è iniziato a Gerusalemme il giorno di Pentecoste e tutto il suo originale sviluppo nell'oikoumene di allora si concentrava attorno a Pietro e agli Undici (cfr At 2, 14). Le strutture della Chiesa in Oriente e in Occidente si formavano dunque in riferimento a quel patrimonio apostolico. La sua unità, entro i limiti del primo millennio, si manteneva in quelle stesse strutture mediante i Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Vescovo di Roma. Se oggi noi cerchiamo, al termine del secondo millennio, di ristabilire la piena comunione, è a questa unità così strutturata che dobbiamo riferirci.

Il Decreto sull'ecumenismo mette in rilievo un ulteriore aspetto caratteristico, grazie al quale tutte le Chiese particolari permanevano nell'unità, la « preoccupazione — cioè — e la cura di conservare, nella comunione della fede e della carità, quelle fraterne relazioni che, come tra sorelle, ci devono essere tra le Chiese locali ».88

56. Dopo il Concilio Vaticano II e ricollegandosi a quella tradizione, si è ristabilito l'uso di attribuire l'appellativo di « Chiese sorelle » alle Chiese particolari o locali radunate attorno al loro Vescovo. La soppressione poi delle reciproche scomuniche, rimovendo un doloroso ostacolo di ordine canonico e psicologico, è stato un passo molto significativo nel cammino verso la piena comunione.

Le strutture d'unità esistenti prima della divisione sono un patrimonio d'esperienza che guida il nostro cammino verso il ritrovamento della piena comunione. Ovviamente, durante il secondo millennio, il Signore non ha cessato di dare alla sua Chiesa abbondanti frutti di grazia e di crescita. Ma purtroppo il progressivo reciproco allontanamento tra le Chiese d'Occidente e d'Oriente le ha private delle ricchezze di mutui doni ed aiuti. Occorre compiere con la grazia di Dio un grande sforzo per ristabilire fra esse la piena comunione, fonte di tanti beni per la Chiesa di Cristo. Tale sforzo richiede tutta la nostra buona volontà, la preghiera umile e una collaborazione perseverante che nulla deve scoraggiare. San Paolo ci sprona: « Portate i pesi gli uni degli altri » (Gal 6, 2). Come si adatta a noi e come è attuale l'esortazione dell'Apostolo! L'appellativo tradizionale di « Chiese sorelle » dovrebbe incessantemente accompagnarci in questo cammino.

57. Come auspicava Papa Paolo VI, il nostro scopo dichiarato è di ritrovare insieme la piena unità nella legittima diversità: « Dio ci ha concesso di ricevere nella fede questa testimonianza degli Apostoli. Per mezzo del Battesimo noi siamo uno in Cristo Gesù (cfr Gal 3, 28). In virtù della successione apostolica, il sacerdozio e l'Eucaristia ci uniscono più intimamente; partecipando ai doni di Dio alla sua Chiesa, noi siamo in comunione con il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo [...]. In ogni Chiesa locale si realizza questo mistero dell'amore divino. Non è forse questa la ragione dell'espressione tradizionale e tanto bella per cui le Chiese locali amavano designarsi quali Chiese sorelle? (cfr Decr. Unitatis redintegratio, 14). Questa vita di Chiese sorelle, noi l'abbiamo vissuta durante secoli, celebrando insieme i Concili ecumenici, che hanno difeso il deposito della fede da ogni alterazione. Ora, dopo un lungo periodo di divisione e incomprensione reciproca, il Signore ci concede di riscoprirci come Chiese sorelle, nonostante gli ostacoli che nel passato si sono frapposti tra di noi ».89 Se oggi, alle soglie del terzo millennio, noi ricerchiamo il ristabilimento della piena comunione, è all'attuazione di questa realtà che dobbiamo tendere ed è a questa realtà che dobbiamo fare riferimento.

Il contatto con questa gloriosa tradizione è fecondo per la Chiesa. « Le Chiese d'Oriente — afferma il Concilio — hanno fin dall'origine un tesoro, dal quale la Chiesa d'Occidente molte cose ha prese nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell'ordine giuridico ».90

Sono parte di questo « tesoro » anche « le ricchezze di quelle tradizioni spirituali, che sono state espresse specialmente dal monachesimo. Ivi infatti fin dai gloriosi tempi dei santi Padri fiorì quella spiritualità monastica, che si estese poi all'Occidente ».91 Come ho avuto modo di rilevare nella recente Lettera apostolica Orientale lumen, le Chiese d'Oriente hanno vissuto con grande generosità l'impegno testimoniato dalla vita monastica, « a cominciare dalla evangelizzazione, che è il servizio più alto che il cristiano possa offrire al fratello, per proseguire in molte altre forme di servizio spirituale e materiale. Si può anzi dire che il monachesimo sia stato nell'antichità — e, a varie riprese, anche in tempi successivi — lo strumento privilegiato per l'evangelizzazione dei popoli ».92

Il Concilio non si limita a mettere in rilievo tutto ciò che rende le Chiese in Oriente ed in Occidente simili tra loro. In armonia con la verità storica, esso non esita ad affermare: « Non fa meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall'uno che non dall'altro, cosicché si può dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi ».93 Lo scambio di doni fra le Chiese nella loro complementarità rende feconda la comunione.

58. Dalla riaffermata comunione di fede già esistente, il Concilio Vaticano II ha tratto delle conseguenze pastorali utili alla vita concreta dei fedeli e alla promozione dello spirito d'unità. A ragione degli strettissimi vincoli sacramentali esistenti tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, il Decreto Orientalium ecclesiarum ha rilevato che « la prassi pastorale dimostra, per quanto riguarda i fratelli orientali, che si possono e si devono considerare varie circostanze di singole persone, nelle quali né si lede l'unità della Chiesa, né vi sono pericoli da evitare, e invece urgono la necessità della salvezza e il bene spirituale delle anime. Perciò la Chiesa cattolica, secondo le circostanze di tempi, di luoghi e di persone, ha usato spesso e usa una più mite maniera di agire, offrendo a tutti tra i cristiani i mezzi della salvezza e la testimonianza della carità, per mezzo della partecipazione nei sacramenti e nelle altre funzioni e cose sacre ».94

Tale orientamento teologico e pastorale, con l'esperienza fatta negli anni del dopo Concilio, è stato assunto dai due Codici di Diritto Canonico.95 Esso è stato esplicitato dal punto di vista pastorale dal Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo.96

In questa materia tanto importante e delicata, è necessario che i Pastori istruiscano con cura i fedeli affinché essi conoscano con chiarezza le precise ragioni sia di tale condivisione per quanto riguarda il culto liturgico che delle diverse discipline esistenti al riguardo.

Non si deve mai perdere di vista la dimensione ecclesiologica della partecipazione ai sacramenti, soprattutto della santa Eucaristia.

Progressi del dialogo

59. Dalla sua creazione nel 1979, la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme ha lavorato intensamente, orientando progressivamente la sua ricerca a quelle prospettive che, di comune accordo, erano state determinate, con lo scopo di ristabilire la piena comunione tra le due Chiese. Tale comunione fondata nell'unità di fede, in continuità con l'esperienza e la tradizione della Chiesa antica, troverà la sua espressione piena nella concelebrazione della santa Eucaristia. Con spirito positivo, basandoci su quanto abbiamo in comune, la commissione mista ha potuto progredire sostanzialmente e, come ho avuto modo di dichiarare insieme al venerato Fratello, Sua Santità Dimitrios I, Patriarca ecumenico, essa è pervenuta ad esprimere « ciò che la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa possono già professare insieme quale fede comune nel mistero della Chiesa ed il vincolo tra la fede ed i sacramenti ».97 La commissione ha poi potuto constatare ed affermare che « nelle nostre Chiese la successione apostolica è fondamentale per la santificazione e l'unità del popolo di Dio ».98 Si tratta di punti di riferimento importanti per la continuazione del dialogo. E c'è di più: queste affermazioni fatte insieme costituiscono la base che abilita i cattolici e gli ortodossi a rendere sin da ora, nel nostro tempo, una comune testimonianza fedele e concorde perché il nome del Signore sia annunciato e glorificato.

60. Più recentemente, la commissione mista internazionale ha compiuto un significativo passo nella questione tanto delicata del metodo da seguire nella ricerca della piena comunione tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, questione che ha spesso inasprito le relazioni fra cattolici ed ortodossi. Essa ha posto le basi dottrinali per una positiva soluzione del problema, che si fonda sulla dottrina delle Chiese sorelle. Anche in questo contesto è apparso chiaramente che il metodo da seguire verso la piena comunione è il dialogo della verità, nutrito e sostenuto dal dialogo della carità. Il diritto riconosciuto alle Chiese orientali cattoliche ad organizzarsi e svolgere il loro apostolato, così come l'effettivo coinvolgimento di queste Chiese nel dialogo della carità e in quello teologico, favoriranno non soltanto un reale e fraterno rispetto reciproco tra gli ortodossi e i cattolici che vivono in uno stesso territorio, ma anche il loro comune impegno nella ricerca dell'unità.99 Un passo avanti è stato compiuto. L'impegno deve continuare. Sin da ora si può constatare, però, una pacificazione degli spiriti, che rende la ricerca più feconda.

Per quanto riguarda le Chiese orientali in comunione con la Chiesa cattolica, il Concilio aveva espresso il seguente apprezzamento: « Questo Sacro Concilio, ringraziando Dio che molti Orientali figli della Chiesa cattolica 1 vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale, dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni, appartiene alla piena cattolicità ed apostolicità della Chiesa ».100 Certamente le Chiese orientali cattoliche, nello spirito del Decreto sull'ecumenismo, sapranno partecipare positivamente al dialogo della carità e al dialogo teologico, sia a livello locale che a livello universale, contribuendo così alla reciproca comprensione e ad una dinamica ricerca della piena unità.101

61. In questa prospettiva, la Chiesa cattolica null'altro vuole se non la piena comunione tra Oriente ed Occidente. In ciò si ispira alla esperienza del primo millennio. In tale periodo, infatti, « lo sviluppo di differenti esperienze di vita ecclesiale non impediva che, mediante reciproche relazioni, i cristiani potessero continuare a provare la certezza di essere a casa propria in qualsiasi Chiesa, perché da tutte si levava, in mirabile varietà di lingue e modulazioni, la lode dell'unico Padre, per Cristo nello Spirito Santo; tutte erano adunate per celebrare l'Eucaristia, cuore e modello per la comunità non solo per quanto riguarda la spiritualità o la vita morale, ma anche per la struttura stessa della Chiesa, nella varietà dei ministeri e dei servizi sotto la presidenza del Vescovo successore degli Apostoli. I primi Concili sono una testimonianza eloquente di questa perdurante unità nella diversità ».102 In che modo ricomporre tale unità dopo quasi mille anni? Ecco il grande compito che essa deve assolvere e che incombe anche alla Chiesa ortodossa. Si comprende da qui tutta l'attualità del dialogo, sostenuto dalla luce e dalla potenza dello Spirito Santo.

Relazioni con le antiche Chiese dell'Oriente

62. Dal Concilio Vaticano II in poi, la Chiesa cattolica, con modalità e ritmi diversi, ha riallacciato fraterne relazioni anche con quelle antiche Chiese dell'Oriente che hanno contestato le formule dogmatiche dei Concili di Efeso e di Calcedonia. Tutte queste Chiese hanno inviato osservatori delegati al Concilio Vaticano II; i loro Patriarchi ci hanno onorato della loro visita e con essi il Vescovo di Roma ha potuto parlare come a dei fratelli che, dopo lungo tempo, si ritrovano nella gioia.

La ripresa delle relazioni fraterne con le antiche Chiese dell'Oriente, testimoni della fede cristiana in situazioni spesso ostili e tragiche, è un segno concreto di come Cristo ci unisca nonostante le barriere storiche, politiche, sociali e culturali. E proprio per quanto riguarda il tema cristologico, abbiamo potuto dichiarare insieme ai Patriarchi di alcune di queste Chiese la nostra fede comune in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Papa Paolo VI di venerata memoria aveva firmato delle dichiarazioni in questo senso con Sua Santità Shenouda III, Papa e Patriarca copto ortodosso; 103 e con il Patriarca siro ortodosso d'Antiochia, Sua Santità Jacoub III.104 Io stesso ho potuto confermare tale accordo cristologico e trarne delle conseguenze: per lo sviluppo del dialogo con il Papa Shenouda,105 e per la collaborazione pastorale con il Patriarca siro d'Antiochia Mar Ignazio Zakka I Iwas.106

Con il venerato Patriarca della Chiesa d'Etiopia, Abuna Paulos, che mi ha fatto visita a Roma l'11 giugno 1993, abbiamo sottolineato la profonda comunione esistente tra le nostre due Chiese: « Noi condividiamo la fede ricevuta dagli Apostoli, gli stessi sacramenti e lo stesso ministero radicato nella successione apostolica[...]. Oggi infatti possiamo affermare di avere la stessa fede in Cristo, allorché per lungo tempo essa è stata causa di divisione tra di noi ».107

Più recentemente, il Signore mi ha dato la grande gioia di sottoscrivere una dichiarazione comune cristologica con il Patriarca assiro dell'Oriente, Sua Santità Mar Dinkha IV, che ha voluto per questo motivo farmi visita a Roma nel mese di novembre 1994. Tenendo conto delle formulazioni teologiche differenziate, abbiamo così potuto professare insieme la vera fede in Cristo.108 Voglio dire la mia esultanza per tutto questo con le parole della Vergine: « L'anima mia magnifica il Signore » (Lc 1, 46).

63. Per le tradizionali controversie sulla cristologia, i contatti ecumenici hanno reso dunque possibili chiarimenti essenziali, tanto da permetterci di confessare insieme quella fede che ci è comune. Ancora una volta, si deve constatare che tale importante acquisizione è sicuramente frutto della ricerca teologica e del dialogo fraterno. E non soltanto questo. Essa ci è di incoraggiamento: ci mostra, infatti, che la via percorsa è giusta e che si può ragionevolmente sperare di trovare insieme la soluzione per le altre questioni controverse.

Dialogo con le altre Chiese e Comunità ecclesiali in Occidente

64. Nell'ampio piano tracciato per il ristabilimento dell'unità fra tutti i cristiani, il Decreto sull'ecumenismo prende ugualmente in considerazione le relazioni con le Chiese e Comunità ecclesiali d'Occidente. Con l'intento di instaurare un clima di fraternità cristiana e di dialogo, il Concilio situa le sue indicazioni nell'ambito di due considerazioni di ordine generale: l'una a carattere storico-psicologico e l'altra a carattere teologico-dottrinale. Da una parte, il suddetto documento rileva: « Le Chiese e le Comunità ecclesiali, che o in quel gravissimo sconvolgimento incominciato in Occidente già alla fine del Medioevo o in tempi posteriori si sono separate dalla sede apostolica romana, sono unite alla Chiesa cattolica da una speciale affinità e stretta relazione, dato il lungo periodo di vita che il popolo cristiano nei secoli passati trascorse nella comunione ecclesiastica ».109 D'altra parte, con altrettanto realismo si constata: « Bisogna però riconoscere che tra queste Chiese e Comunità e la Chiesa cattolica vi sono importanti divergenze, non solo d'indole storica, sociologica, psicologica e culturale, ma soprattutto d'interpretazione della verità rivelata ».110

65. Sono comuni le radici e sono simili, nonostante le differenze, gli orientamenti che hanno guidato in Occidente lo sviluppo della Chiesa cattolica e delle Chiese e Comunità sorte dalla Riforma. Di conseguenza esse possiedono una comune caratteristica occidentale. Le « divergenze », pur importanti sopra accennate non escludono quindi reciproche influenze e complementarietà.

Il movimento ecumenico ha preso avvio proprio nell'ambito delle Chiese e Comunità della Riforma. Contemporaneamente, e già nel gennaio del 1920, il Patriarcato ecumenico aveva espresso l'auspicio che si organizzasse una collaborazione tra le Comunioni cristiane. Questo fatto mostra che l'incidenza dello sfondo culturale non è decisiva. Essenziale è invece la questione della fede. La preghiera di Cristo, nostro unico Signore, Redentore e Maestro, parla a tutti nello stesso modo, all'Oriente come all'Occidente. Essa diventa un imperativo che impone di abbandonare le divisioni per ricercare e ritrovare l'unità, sospinti anche dalle stesse amare esperienze della divisione.

66. Il Concilio Vaticano II non intende fare la « descrizione » del cristianesimo del « dopo Riforma », poiché le Chiese e le Comunità ecclesiali « differiscono non solo da noi, ma anche non poco tra di loro » e questo « per la loro diversità di origine, di dottrina e di vita spirituale ».111 Inoltre, lo stesso Decreto osserva che il movimento ecumenico e il desiderio di pace con la Chiesa cattolica non è ancora invalso dappertutto.112 Indipendentemente da queste circostanze, però, il Concilio propone il dialogo.

Il Decreto conciliare cerca poi di « mettere in risalto alcuni punti che possono 3 costituire il fondamento di questo dialogo ed un incitamento ad esso ».113

« Il nostro pensiero si rivolge 4 a quei cristiani che apertamente confessano Gesù Cristo come Dio e Signore e unico mediatore tra Dio e gli uomini, per la gloria di un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo ».114

Questi fratelli coltivano amore e venerazione per le Sacre Scritture: « Invocando lo Spirito Santo, essi cercano nelle stesse Scritture Dio che parla ad essi in Cristo, preannunciato dai Profeti, Verbo di Dio per noi incarnato. In esse contemplano la vita di Cristo e quanto il Divino Maestro ha insegnato e compiuto per la salvezza degli uomini, specialmente i misteri della sua morte e della sua resurrezione 5; essi affermano la divina autorità dei libri sacri ».115

Allo stesso tempo, però, « pensano diversamente da noi 6 circa il rapporto tra le Sacre Scritture e la Chiesa, nella quale, secondo la fede cattolica, il Magistero autentico ha un posto speciale nell'esporre e predicare la parola di Dio scritta ».116 Malgrado ciò, « la Sacra Scrittura nello stesso dialogo 7 costituisce l'eccellente strumento nella potente mano di Dio per il raggiungimento di quella unità, che il Salvatore offre a tutti gli uomini ».117

Inoltre, il sacramento del Battesimo che abbiamo in comune rappresenta « il vincolo sacramentale dell'unità, che vige tra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati ».118 Le implicazioni teologiche, pastorali ed ecumeniche del comune Battesimo sono molte ed importanti. Sebbene di per sé costituisca « soltanto l'inizio e l'esordio », questo sacramento « è ordinato all'integra professione della fede, all'integrale incorporazione nell'istituzione della salvezza, come lo stesso Cristo ha voluto e, infine, alla integra inserzione nella comunione eucaristica ».119

67. Divergenze dottrinali e storiche del tempo della Riforma sono emerse a proposito della Chiesa, dei sacramenti e del Ministero ordinato. Il Concilio richiede pertanto che « la dottrina circa la Cena del Signore, gli altri sacramenti, il culto e i ministeri della Chiesa costituiscano l'oggetto del dialogo ».120

Il Decreto Unitatis redintegratio, rilevando come alle Comunità del dopo Riforma faccia difetto la « piena unità con noi, derivante dal Battesimo », osserva che esse « specialmente per la mancanza del sacramento dell'Ordine, non hanno conservata la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico », anche se « nella Santa Cena fanno memoria della morte e della risurrezione del Signore, professano che nella comunione di Cristo è significata la vita e aspettano la sua venuta gloriosa ».121

68. Il Decreto non dimentica la vita spirituale e le conseguenze morali: « La vita cristiana di questi fratelli è alimentata dalla fede in Cristo ed è aiutata dalla grazia del Battesimo e dall'ascolto della parola di Dio. Si manifesta nella preghiera privata, nella meditazione della Bibbia, nella vita della famiglia cristiana, nel culto della comunità riunita a lodare Dio. Del resto il loro culto mostra talora importanti elementi della comune liturgia antica ».122

Il documento conciliare, peraltro, non si limita a questi aspetti spirituali, morali e culturali, ma estende il suo apprezzamento al vivo sentimento della giustizia e alla sincera carità verso il prossimo, che sono presenti in questi fratelli; esso inoltre non dimentica le loro iniziative per rendere più umane le condizioni sociali della vita e per ristabilire la pace. Tutto questo nella sincera volontà di aderire alla parola di Cristo quale sorgente della vita cristiana.

In tal modo il testo rileva una problematica che, in campo etico-morale, diventa sempre più urgente nel nostro tempo: « Molti fra i cristiani non sempre 8 intendono il Vangelo alla stessa maniera dei cattolici ».123 In questa vasta materia vi è un grande spazio di dialogo attorno ai principi morali del Vangelo e alle loro applicazioni.

69. Gli auspici e l'invito del Concilio Vaticano II sono stati attuati e si è progressivamente avviato il dialogo teologico bilaterale con le varie Chiese e Comunità cristiane mondiali d'Occidente.

D'altra parte, per il dialogo multilaterale, già nel 1964 si iniziava il processo di costituzione di un « Gruppo Misto di Lavoro » con il Consiglio Ecumenico delle Chiese e, dal 1968, dei teologi cattolici entravano a far parte, come membri a pieno titolo, del Dipartimento teologico di detto Consiglio, la Commissione « Fede e Costituzione ».

Il dialogo è stato ed è fecondo, ricco di promesse. I temi suggeriti dal Decreto conciliare come materia di dialogo sono stati già affrontati, o lo saranno a breve scadenza. La riflessione dei vari dialoghi bilaterali, con una dedizione che merita l'elogio di tutta la comunità ecumenica, si è concentrata su molte questioni controverse quali il Battesimo, l'Eucaristia, il Ministero ordinato, la sacramentalità e l'autorità della Chiesa, la successione apostolica. Si sono delineate così delle prospettive di soluzione insperate e nel contempo si è compreso come fosse necessario scandagliare più profondamente alcuni argomenti.

70. Tale ricerca difficile e delicata, che implica problemi di fede e rispetto della propria coscienza e di quella dell'altro, è stata accompagnata e sostenuta dalla preghiera della Chiesa cattolica e delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. La preghiera per l'unità, già così radicata e diffusa nel tessuto connettivo ecclesiale, mostra che ai cristiani non sfugge l'importanza della questione ecumenica. Proprio perché la ricerca della piena unità esige un confronto di fede fra credenti che si riferiscono all'unico Signore, la preghiera è la fonte dell'illuminazione sulla verità da accogliere tutta intera.

Inoltre, attraverso la preghiera, la ricerca dell'unità, lungi dall'essere confinata nell'ambito di specialisti, si estende ad ogni battezzato. Tutti, indipendentemente dal loro ruolo nella Chiesa e dalla loro formazione culturale, possono dare un contributo attivo, in una dimensione misteriosa e profonda.

Relazioni ecclesiali

71. Bisogna rendere grazie alla Divina Provvidenza anche per tutti gli eventi che testimoniano il progresso sulla via della ricerca dell'unità. Accanto al dialogo teologico vanno opportunamente menzionate le altre forme d'incontro, la preghiera comune e la collaborazione pratica. Papa Paolo VI ha dato un forte impulso a questo processo con la sua visita alla sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra, avvenuta il 10 giugno 1969, ed incontrando molte volte i rappresentanti di varie Chiese e Comunità ecclesiali. Questi contatti contribuiscono efficacemente a far migliorare la reciproca conoscenza e a far crescere la fraternità cristiana.

Papa Giovanni Paolo I, durante il suo tanto breve pontificato, espresse la volontà di continuare il cammino.124 Il Signore ha concesso a me di operare in questa direzione. Oltre agli importanti incontri ecumenici a Roma, una parte significativa delle mie visite pastorali è regolarmente dedicata alla testimonianza a favore dell'unità dei cristiani. Alcuni dei miei viaggi mostrano perfino una « priorità » ecumenica, specie nei paesi in cui le comunità cattoliche costituiscono una minoranza rispetto alle Comunioni del dopo Riforma; o dove queste ultime rappresentano una considerevole porzione dei credenti in Cristo di una data società.

72. Ciò vale soprattutto per i paesi europei, dove hanno avuto inizio queste divisioni, e per l'America del Nord. In questo contesto, e senza voler sminuire le altre visite, meritano speciale attenzione quelle che, nel continente europeo, mi hanno condotto a due riprese in Germania, nel novembre del 1980 e nell'aprile-maggio del 1987; la visita nel Regno Unito (Inghilterra, Scozia e Galles), nel maggio-giugno del 1982; in Svizzera nel giugno del 1984; e nei Paesi scandinavi e nordici (Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda), dove mi sono recato nel giugno del 1989. Nella gioia, nel reciproco rispetto, nella solidarietà cristiana e nella preghiera, ho incontrato tanti e tanti fratelli, tutti impegnati nella ricerca della fedeltà al Vangelo. Constatare tutto questo è stato per me fonte di grande incoraggiamento. Abbiamo sperimentato la presenza del Signore tra di noi.

Vorrei a questo riguardo richiamare un atteggiamento dettato da fraterna carità ed improntato a profonda lucidità di fede che ho vissuto con intensa partecipazione. Esso si riferisce alle celebrazioni eucaristiche che ho presieduto in Finlandia ed in Svezia durante il mio viaggio nei Paesi scandinavi e nordici. Al momento della comunione, i Vescovi luterani si sono presentati al celebrante. Essi hanno voluto dimostrare con un gesto concordato il desiderio di giungere al momento in cui noi, cattolici e luterani, potremo condividere la stessa Eucaristia, e hanno voluto ricevere la benedizione del celebrante. Con amore, io li ho benedetti. Lo stesso gesto, tanto ricco di significato è stato ripetuto a Roma, durante la messa che ho presieduto in Piazza Farnese in occasione del VI centenario della canonizzazione di santa Brigida, il 6 ottobre 1991.

Ho incontrato analoghi sentimenti anche oltre oceano, in Canada, nel settembre del 1984; e specie nel settembre del 1987 negli Stati Uniti dove si avverte una grande apertura ecumenica. È il caso, per fare un esempio, dell'incontro ecumenico a Columbia, in South Carolina l'11 settembre 1987. È per sé importante il fatto stesso che avvengono con regolarità questi incontri tra i fratelli del « dopo Riforma » ed il Papa. Sono profondamente grato perché essi mi hanno accettato di buon grado, sia i responsabili delle varie Comunità, che le Comunità nel loro insieme. Da questo punto di vista, ritengo significativa la celebrazione ecumenica della Parola, svoltasi a Columbia, ed avente come tema la famiglia.

73. È motivo, poi, di grande gioia il constatare come nel periodo postconciliare e nelle singole Chiese locali abbondino le iniziative e le azioni a favore dell'unità dei cristiani, le quali estendono le loro coinvolgenti incidenze a livello delle Conferenze episcopali, delle singole diocesi e comunità parrocchiali, come pure dei diversi ambienti e movimenti ecclesiali.

Collaborazioni realizzate

74. « Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mt 7, 21). La coerenza e l'onestà delle intenzioni e delle affermazioni di principio si verificano applicandole alla vita concreta. Il Decreto conciliare sull'ecumenismo nota che negli altri cristiani « la fede con cui si crede a Cristo produce i frutti della lode e del ringraziamento per i benefici ricevuti da Dio; si aggiunge il vivo sentimento della giustizia e la sincera carità verso il prossimo ».125

Quello appena delineato è un terreno fertile non soltanto per il dialogo, ma anche per un'attiva collaborazione: la « fede operosa ha pure creato non poche istituzioni per sollevare la miseria spirituale e corporale, per coltivare l'educazione della gioventù, per render più umane le condizioni sociali della vita, per ristabilire la pace universale ».126

La vita sociale e culturale offre ampi spazi di collaborazione ecumenica. Sempre più spesso i cristiani si ritrovano insieme per difendere la dignità umana, per promuovere il bene della pace, l'applicazione sociale del Vangelo, per rendere presente lo spirito cristiano nelle scienze e nelle arti. Essi si ritrovano sempre più insieme quando si tratta di venire incontro ai bisogni e alle miserie del nostro tempo: la fame, le calamità, l'ingiustizia sociale.

75. Questa cooperazione, che trae ispirazione dallo stesso Vangelo, per i cristiani non è mai una mera azione umanitaria. Essa ha la sua ragione d'essere nella parola del Signore: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare » (Mt 25, 35). Come ho già sottolineato, la cooperazione di tutti i cristiani manifesta chiaramente quel grado di comunione che già esiste tra di loro.127

Di fronte al mondo, l'azione congiunta dei cristiani nella società riveste allora il trasparente valore di una testimonianza resa insieme al nome del Signore. Essa assume anche le dimensioni di un annuncio perché rivela il volto di Cristo.

Le divergenze dottrinali che permangono esercitano un influsso negativo e pongono dei limiti anche alla collaborazione. La comunione di fede già esistente tra i cristiani offre però una solida base non soltanto alla loro azione congiunta in campo sociale, ma anche nell'ambito religioso.

Questa cooperazione faciliterà la ricerca dell'unità. Il Decreto sull'ecumenismo notava che da essa « i credenti in Cristo possono facilmente imparare come gli uni possano meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri e come si appiani la via verso l'unità dei cristiani ».128

76. Come non ricordare, in questo contesto, l'interesse ecumenico per la pace che si esprime nella preghiera e nell'azione con una crescente partecipazione dei cristiani ed una motivazione teologica a mano a mano più profonda? Non potrebbe essere altrimenti. Non crediamo forse noi in Gesù Cristo, Principe della pace? I cristiani sono sempre più compatti nel rifiutare la violenza, ogni tipo di violenza, dalle guerre all'ingiustizia sociale.

Siamo chiamati ad un impegno sempre più attivo, perché appaia ancora più chiaramente che le motivazioni religiose non sono la vera causa dei conflitti in corso, anche se, purtroppo, non è scongiurato il rischio di strumentalizzazioni a fini politici e polemici.

Nel 1986, ad Assisi, durante la Giornata Mondiale di preghiera per la pace, i cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali hanno invocato con una sola voce il Signore della storia per la pace nel mondo. In quel giorno, in modo distinto ma parallelo, hanno pregato per la pace anche gli Ebrei e i Rappresentanti delle religioni non cristiane, in una sintonia di sentimenti che hanno fatto vibrare le corde più profonde dello spirito umano.

Né vorrei dimenticare la Giornata di preghiera per la pace in Europa specialmente nei Balcani, che mi ha ricondotto pellegrino nella città di san Francesco il 9 e 10 gennaio 1993 e la Messa per la pace nei Balcani e in particolare nella Bosnia-Erzegovina, che ho presieduto il 23 gennaio 1994 nella Basilica di San Pietro e nel contesto della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.

Quando il nostro sguardo percorre il mondo, la gioia invade il nostro animo. Constatiamo infatti che i cristiani si sentono sempre più interpellati dalla questione della pace. Essi la considerano strettamente connessa con l'annuncio del Vangelo e con l'avvento del Regno di Dio.

III

QUANTA EST NOBIS VIA?

Continuare ed intensificare il dialogo

77. Ora possiamo chiederci quanta strada ci separa ancora dal quel giorno benedetto in cui sarà raggiunta la piena unità nella fede e potremo concelebrare nella concordia la santa Eucaristia del Signore. La migliore conoscenza reciproca già realizzata tra di noi, le convergenze dottrinali raggiunte, che hanno avuto come conseguenza una crescita affettiva ed effettiva di comunione, non possono bastare alla coscienza dei cristiani che professano la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Il fine ultimo del movimento ecumenico è il ristabilimento della piena unità visibile di tutti i battezzati.

In vista di questa mèta, tutti i risultati raggiunti sinora non sono che una tappa, anche se promettente e positiva.

78. Nel movimento ecumenico, non è soltanto la Chiesa cattolica, insieme con le Chiese ortodosse, a possedere questa esigente concezione dell'unità voluta da Dio. La tendenza verso una tale unità è espressa anche da altri.129

L'ecumenismo implica che le Comunità cristiane si aiutino a vicenda affinché in esse sia veramente presente tutto il contenuto e tutte le esigenze dell'« eredità tramandata dagli Apostoli ».130 Senza di ciò, la piena comunione non sarà mai possibile. Questo vicendevole aiuto nella ricerca della verità è una forma suprema della carità evangelica.

La ricerca dell'unità si è espressa nei vari documenti delle numerose Commissioni miste internazionali di dialogo. In tali testi si tratta del Battesimo, dell'Eucaristia, del Ministero e dell'autorità partendo da una certa unità fondamentale di dottrina.

Da tale unità fondamentale, ma parziale, si deve ora passare all'unità visibile necessaria e sufficiente, che si iscriva nella realtà concreta, affinché le Chiese realizzino veramente il segno di quella piena comunione nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica che si esprimerà nella concelebrazione eucaristica.

Questo cammino verso l'unità visibile necessaria e sufficiente, nella comunione dell'unica Chiesa voluta da Cristo, esige ancora un lavoro paziente e coraggioso. Nel far ciò bisogna non imporre altri obblighi all'infuori degli indispensabili (cfr At 15, 28).

79. Sin da ora è possibile individuare gli argomenti da approfondire per raggiungere un vero consenso di fede: 1) le relazioni tra sacra Scrittura, suprema autorità in materia di fede e la sacra Tradizione, indispensabile interpretazione della parola di Dio; 2) l'Eucaristia, sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, offerta di lode al Padre, memoriale sacrificale e presenza reale di Cristo, effusione santificatrice dello Spirito Santo; 3) l'Ordinazione, come sacramento, al triplice ministero dell'episcopato, del presbiterato e del diaconato; 4) il Magistero della Chiesa, affidato al Papa e ai Vescovi in comunione con lui, inteso come responsabilità e autorità a nome di Cristo per l'insegnamento e la salvaguardia della fede; 5) la Vergine Maria, Madre di Dio e icona della Chiesa, Madre spirituale che intercede per i discepoli di Cristo e tutta l'umanità.

In questo coraggioso cammino verso l'unità, la lucidità e la prudenza della fede ci impongono di evitare il falso irenismo e la noncuranza per le norme della Chiesa.131 Inversamente, la stessa lucidità e la stessa prudenza ci raccomandano di sfuggire la tiepidezza nell'impegno per l'unità ed ancor più l'opposizione preconcetta, o il disfattismo che tende a vedere tutto al negativo.

Mantenere una visione dell'unità che tenga conto di tutte le esigenze della verità rivelata non significa mettere un freno al movimento ecumenico.132 Al contrario significa evitargli di accomodarsi in soluzioni apparenti, che non perverrebbero a nulla di stabile e di solido.133 L'esigenza della verità deve andare fino in fondo. E non è forse questa la legge del Vangelo?

Ricezione dei risultati raggiunti

80. Mentre prosegue il dialogo su nuove tematiche o si sviluppa a livelli più profondi, abbiamo un compito nuovo da assolvere: come recepire i risultati sino ad ora raggiunti. Essi non possono rimanere affermazioni delle Commissioni bilaterali, ma debbono diventare patrimonio comune. Perché ciò avvenga e si rafforzino così i legami di comunione, occorre un serio esame che, in modi, forme e competenze diverse, deve coinvolgere il popolo di Dio nel suo insieme. Si tratta infatti di questioni che spesso riguardano la fede ed esse esigono l'universale consenso, che si estende dai Vescovi ai fedeli laici, i quali hanno tutti ricevuto l'unzione dello Spirito Santo.134 È lo stesso Spirito che assiste il Magistero e suscita il sensus fidei.

Per recepire i risultati del dialogo occorre pertanto un ampio ed accurato processo critico che li analizzi e ne verifichi con rigore la coerenza con la Tradizione di fede ricevuta dagli Apostoli e vissuta nella comunità dei credenti radunata attorno al Vescovo, suo legittimo Pastore.

81. Questo processo, che si dovrà fare con prudenza e in atteggiamento di fede, sarà assistito dallo Spirito Santo. Perché esso dia esito favorevole, è necessario che i suoi risultati siano opportunamente divulgati da persone competenti. Di grande rilievo, a tal fine, è il contributo che i teologi e le facoltà di teologia sono chiamati ad offrire in adempimento al loro carisma nella Chiesa. È chiaro, inoltre, che le commissioni ecumeniche hanno, a questo riguardo, responsabilità e compiti del tutto singolari.

L'intero processo è seguito ed aiutato dai Vescovi e dalla Santa Sede. L'autorità docente ha la responsabilità di esprimere il giudizio definitivo.

In tutto questo, sarà di grande aiuto attenersi metodologicamente alla distinzione fra il deposito della fede e la formulazione in cui esso è espresso, come raccomandava Papa Giovanni XXIII nel discorso pronunciato in apertura del Concilio Vaticano II.135

Continuare l'ecumenismo spirituale e testimoniare la santità

82. Si comprende come la gravità dell'impegno ecumenico interpelli in profondità i fedeli cattolici. Lo Spirito li invita ad un serio esame di coscienza. La Chiesa cattolica deve entrare in quello che si potrebbe chiamare « dialogo della conversione », nel quale è posto il fondamento interiore del dialogo ecumenico. In tale dialogo, che si compie davanti a Dio, ciascuno deve ricercare i propri torti, confessare le sue colpe, e rimettere se stesso nelle mani di Colui che è l'Intercessore presso il Padre, Gesù Cristo.

Certamente, in questa relazione di conversione alla volontà del Padre e, al tempo stesso, di penitenza e di fiducia assoluta nella potenza riconciliatrice della verità che è Cristo, si trova la forza per condurre a buon fine il lungo ed arduo pellegrinaggio ecumenico. Il « dialogo della conversione » di ogni comunità con il Padre, senza indulgenze per se stessa, è il fondamento di relazioni fraterne che siano una cosa diversa da una cordiale intesa o da una convivialità tutta esteriore. I legami della koinonia fraterna vanno intrecciati davanti a Dio e in Cristo Gesù.

Soltanto il porsi davanti a Dio può offrire una base solida a quella conversione dei singoli cristiani e a quella continua riforma della Chiesa in quanto istituzione anche umana e terrena,136 che sono le condizioni preliminari di ogni impegno ecumenico. Uno dei procedimenti fondamentali del dialogo ecumenico è lo sforzo di coinvolgere le Comunità cristiane in questo spazio spirituale, tutto interiore, in cui il Cristo, nella potenza dello Spirito, le induce tutte, senza eccezioni, ad esaminarsi davanti al Padre e a chiedersi se sono state fedeli al suo disegno sulla Chiesa.

83. Ho parlato della volontà del Padre, dello spazio spirituale in cui ogni comunità ascolta l'appello ad un superamento degli ostacoli all'unità. Ebbene, tutte le Comunità cristiane sanno che una tale esigenza, un tale superamento, per mezzo della forza che dà lo Spirito, non sono fuori della loro portata. Tutte, infatti, hanno dei martiri della fede cristiana.137 Malgrado il dramma della divisione, questi fratelli hanno conservato in se stessi un attaccamento a Cristo e al Padre suo tanto radicale e assoluto da poter arrivare fino all'effusione del sangue. Ma non è forse questo stesso attaccamento ad essere chiamato in causa in ciò che ho qualificato come « dialogo della conversione »? Non è proprio questo dialogo a sottolineare la necessità di andare fino in fondo all'esperienza di verità per la piena comunione?

84. In una visione teocentrica, noi cristiani già abbiamo unMartirologio comune. Esso comprende anche i martiri del nostro secolo, più numerosi di quanto non si pensi, e mostra come, ad un livello profondo, Dio mantenga fra i battezzati la comunione nell'esigenza suprema della fede, manifestata col sacrificio della vita.138 Se si può morire per la fede, ciò dimostra che si può raggiungere la mèta quando si tratta di altre forme della stessa esigenza. Ho già constatato, e con gioia, come la comunione, imperfetta ma reale, è mantenuta e cresce a molti livelli della vita ecclesiale. Ritengo ora che essa sia già perfetta in ciò che tutti noi consideriamo l'apice della vita di grazia, la martyria fino alla morte, la comunione più vera che ci sia con Cristo che effonde il suo sangue e, in questo sacrificio, fa diventare vicini coloro che un tempo erano lontani (cfr Ef 2, 13).

Se per tutte le Comunità cristiane i martiri sono la prova della potenza della grazia, essi non sono tuttavia i soli a testimoniare di tale potenza. Sebbene in modo invisibile, la comunione non ancora piena delle nostre comunità è in verità cementata saldamente nella piena comunione dei santi, cioè di coloro che, alla conclusione di una esistenza fedele alla grazia, sono nella comunione di Cristo glorioso. Questi santi vengono da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, che hanno aperto loro l'ingresso nella comunione della salvezza. Quando si parla di un patrimonio comune si devono iscrivere in esso non soltanto le istituzioni, i riti, i mezzi di salvezza, le tradizioni che tutte le comunità hanno conservato e dalle quali esse sono state plasmate, ma in primo luogo e innanzitutto questa realtà della santità.139

Nell'irradiazione che emana dal « patrimonio dei santi » appartenenti a tutte le Comunità, il « dialogo della conversione » verso l'unità piena e visibile appare allora sotto una luce di speranza. Questa presenza universale dei santi dà, infatti, la prova della trascendenza della potenza dello Spirito. Essa è segno e prova della vittoria di Dio sulle forze del male che dividono l'umanità. Come cantano le liturgie, « incoronando i santi, Dio incorona i suoi propri doni ».140

Laddove esiste la sincera volontà di seguire Cristo, spesso lo Spirito sa effondere la sua grazia in sentieri diversi da quelli ordinari. L'esperienza ecumenica ci ha permesso di comprenderlo meglio. Se, nello spazio spirituale interiore che ho descritto, le Comunità sapranno veramente « convertirsi » alla ricerca della comunione piena e visibile, Dio farà per esse ciò che ha fatto per i loro santi. Egli saprà superare gli ostacoli ereditati dal passato e le condurrà sulle sue vie dove egli vuole: alla koinonia visibile che è al tempo stesso lode della sua gloria e servizio al suo disegno di salvezza.

85. Poiché nella sua infinita misericordia, Dio può sempre trarre il bene anche dalle situazioni che recano offesa al suo disegno, possiamo allora scoprire che lo Spirito ha fatto sì che le opposizioni servissero in alcune circostanze ad esplicitare aspetti della vocazione cristiana, come avviene nella vita dei santi. Malgrado la frammentazione, che è un male da cui dobbiamo guarire, si è dunque realizzata come una comunicazione della ricchezza della grazia che è destinata ad abbellire la koinonia. La grazia di Dio sarà con tutti coloro che, seguendo l'esempio dei santi, si impegnano ad assecondarne le esigenze. E noi, come possiamo esitare a convertirci alle attese del Padre? Egli è con noi.

Contributo della Chiesa cattolica nella ricerca dell'unità dei cristiani

86. La Costituzione Lumen gentium in una sua affermazione fondamentale che il Decreto Unitatis redintegratio riecheggia,141 scrive che l'unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica.142 Il Decreto sull'ecumenismo sottolinea la presenza in essa della pienezza (plenitudo) degli strumenti di salvezza.143 La piena unità si realizzerà quando tutti parteciperanno alla pienezza dei mezzi di salvezza che Cristo ha affidato alla sua Chiesa.

87. Lungo il cammino che conduce verso la piena unità, il dialogo ecumenico si adopera a suscitare un fraterno aiuto reciproco per mezzo del quale le Comunità si applicano a darsi scambievolmente ciò di cui ciascuna ha bisogno per crescere secondo il disegno di Dio verso la pienezza definitiva (cfr Ef 4, 11-13). Ho detto come siamo consapevoli, in quanto Chiesa cattolica, di aver ricevuto molto dalla testimonianza, dalla ricerca e finanche dalla maniera in cui sono stati sottolineati e vissuti dalle altre Chiese e Comunità ecclesiali certi beni cristiani comuni. Tra i progressi compiuti durante gli ultimi trent'anni, bisogna attribuire un posto di rilievo a tale fraterno influsso reciproco. Nella tappa alla quale siamo pervenuti,144 tale dinamismo di mutuo arricchimento deve essere preso seriamente in considerazione. Basato sulla comunione che già esiste grazie agli elementi ecclesiali presenti nelle Comunità cristiane, esso non mancherà di spingere verso la comunione piena e visibile, mèta sospirata del cammino che stiamo compiendo. È la forma ecumenica della legge evangelica della condivisione. Questo mi incita a ripetere: « Occorre dimostrare in ogni cosa la premura di venire incontro a ciò che i nostri fratelli cristiani, legittimamente, desiderano e si attendono da noi, conoscendo il loro modo di pensare e la loro sensibilità [...]. Bisogna che i doni di ciascuno si sviluppino per l'utilità e a vantaggio di tutti ».145

Il ministero d'unità del Vescovo di Roma

88. Tra tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, la Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato il ministero del Successore dell'apostolo Pietro, il Vescovo di Roma, che Dio ha costituito quale « perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità »,146 e che lo Spirito sostiene perché di questo essenziale bene renda partecipi tutti gli altri. Secondo la bella espressione di Papa Gregorio Magno, il mio ministero è quello di servus servorum Dei. Tale definizione salvaguarda nel modo mi- gliore dal rischio di separare la potestà (ed in particolare il primato) dal ministero, ciò che sarebbe in contraddizione con il significato di potestà secondo il Vangelo: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22, 27), dice il Signore nostro Gesù Cristo, Capo della Chiesa. D'altra parte, come ho avuto modo di affermare nell'importante occasione dell'incontro al Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra, il 12 giugno 1984, la convinzione della Chiesa cattolica di aver conservato, in fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei Padri, nel ministero del Vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell'unità, costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio Predecessore Paolo VI imploro perdono.147

89. È tuttavia significativo ed incoraggiante che la questione del primato del Vescovo di Roma sia attualmente diventata oggetto di studio, immediato o in prospettiva, e significativo ed incoraggiante è pure che tale questione sia presente quale tema essenziale non soltanto nei dialoghi teologici che la Chiesa cattolica intrattiene con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, ma anche più generalmente nell'insieme del movimento ecumenico. Recentemente, i partecipanti alla quinta assemblea mondiale della Commissione « Fede e Costituzione » del Consiglio ecumenico delle Chiese, tenutasi a Santiago de Compostela, hanno raccomandato che essa « dia l'avvio ad un nuovo studio sulla questione di un ministero universale dell'unità cristiana ».148 Dopo secoli di aspre polemiche, le altre Chiese e Comunità ecclesiali sempre di più scrutano con uno sguardo nuovo tale ministero di unità.149

90. Il Vescovo di Roma è il Vescovo della Chiesa che conserva l'impronta del martirio di Pietro e di quello di Paolo: « Per un misterioso disegno della Provvidenza, è a Roma che egli [Pietro] conclude il suo cammino al seguito di Gesù ed è a Roma che dà questa massima prova d'amore e di fedeltà. A Roma, Paolo, l'apostolo delle genti, dà anche lui la testimonianza suprema. La Chiesa di Roma diventava così la Chiesa di Pietro e di Paolo ».150

Nel Nuovo Testamento, la persona di Pietro ha un posto eminente. Nella prima parte degli Atti degli Apostoli, egli appare come il capo ed il portavoce del collegio apostolico designato come « Pietro [...] con gli altri Undici » (2,14; cfr anche 2, 37; 5, 29). Il posto assegnato a Pietro è fondato sulle parole stesse di Cristo, così come esse sono ricordate nelle tradizioni evangeliche.

91. Il Vangelo di Matteo delinea e precisa la missione pastorale di Pietro nella Chiesa: « Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli » (16, 17-19). Luca evidenzia che Cristo raccomanda a Pietro di confermare i fratelli, ma che allo stesso tempo gli fa conoscere la sua debolezza umana ed il suo bisogno di conversione (cfr Lc 22, 31-32). È proprio come se, sullo sfondo dell'umana debolezza di Pietro, si manifestasse pienamente che il suo particolare ministero nella Chiesa proviene totalmente dalla grazia; è come se il Maestro si dedicasse in modo speciale alla sua conversione per prepararlo al compito che si appresta ad affidargli nella sua Chiesa e fosse molto esigente con lui. La stessa funzione di Pietro, sempre legata ad una realistica affermazione della sua debolezza, si ritrova nel quarto Vangelo: « Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? [...] Pasci le mie pecorelle » (cfr Gv 21, 15-19). È inoltre significativo che secondo la Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, il Cristo risorto appaia a Cefa e quindi ai Dodici (cfr 15, 5).

È importante rilevare come la debolezza di Pietro e di Paolo manifesti che la Chiesa si fonda sulla infinita potenza della grazia (cfr Mt 16, 17; 2 Cor 12, 7-10). Pietro, subito dopo la sua investitura, è redarguito con rara severità da Cristo che gli dice: « Tu mi sei di scandalo » (Mt 16, 23). Come non vedere nella misericordia di cui Pietro ha bisogno una relazione con il ministero di quella misericordia che egli sperimenta per primo? Ugualmente, tre volte egli rinnegherà Gesù. Anche il Vangelo di Giovanni sottolinea che Pietro riceve l'incarico di pascere il gregge in una triplice professione d'amore (cfr 21, 15-17) che corrisponde al suo triplice tradimento (cfr 13, 38). Luca, da parte sua, nella parola di Cristo già citata, alla quale aderirà la prima tradizione nell'intento di delineare la missione di Pietro, insiste sul fatto che questi dovrà « confermare i suoi fratelli una volta che si sarà ravveduto » (cfr Lc 22, 32).

92. Quanto a Paolo, egli può concludere la descrizione del suo ministero con la sconvolgente affermazione che gli è dato raccogliere dalle labbra del Signore: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza », e può esclamare quindi: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 9-10). È questa una caratteristica fondamentale dell'esperienza cristiana.

Erede della missione di Pietro, nella Chiesa fecondata dal sangue dei corifei degli Apostoli, il Vescovo di Roma esercita un ministero che ha la sua origine nella multiforme misericordia di Dio, la quale converte i cuori e infonde la forza della grazia laddove il discepolo conosce il gusto amaro della sua debolezza e della sua miseria. L'autorità propria di questo ministero è tutta per il servizio del disegno misericordioso di Dio e va sempre vista in questa prospettiva. Il suo potere si spiega con essa.

93. Ricollegandosi alla triplice professione d'amore di Pietro che corrisponde al triplice tradimento, il suo successore sa di dover essere segno di misericordia. Il suo è un ministero di misericordia nato da un atto di misericordia di Cristo. Tutta questa lezione del Vangelo deve essere costantemente riletta, affinché l'esercizio del ministero petrino nulla perda della sua autenticità e trasparenza.

La Chiesa di Dio è chiamata da Cristo a manifestare ad un mondo ripiegato nel groviglio delle sue colpevolezze e dei suoi biechi propositi che, malgrado tutto, Dio può, nella sua misericordia, convertire i cuori all'unità, facendoli accedere alla sua propria comunione.

94. Tale servizio dell'unità, radicato nell'opera della misericordia divina, è affidato, all'interno stesso del collegio dei Vescovi, ad uno di coloro che hanno ricevuto dallo Spirito l'incarico, non di esercitare il potere sul popolo — come fanno i capi delle nazioni e i grandi (cfr Mt 20, 25; Mc 10, 42) —, ma di guidarlo perché possa dirigersi verso pascoli tranquilli. Questo incarico può esigere di offrire la propria vita (cfr Gv 10, 11-18). Dopo aver mostrato come Cristo sia « il solo Pastore, nell'unità del quale tutti sono uno », sant'Agostino esorta: « Che tutti i pastori siano dunque nel solo Pastore, che essi facciano udire la voce unica del Pastore; che le pecore odano questa voce, seguano il loro Pastore, cioè non questo o quello, ma il solo; che tutti in lui facciano intendere una sola voce e non delle voci discordanti [...] la voce sgombra da ogni divisione, purificata da ogni eresia, che le pecore ascoltano ».151 La missione del Vescovo di Roma nel gruppo di tutti i Pastori consiste appunto nel « vegliare » (episkopein) come una sentinella, in modo che, grazie ai Pastori, si oda in tutte le Chiese particolari la vera voce di Cristo-Pastore. Così, in ciascuna delle Chiese particolari loro affidate si realizza l'una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. Tutte le Chiese sono in comunione piena e visibile, perché tutti i Pastori sono in comunione con Pietro, e così nell'unità di Cristo.

Con il potere e l'autorità senza i quali tale funzione sarebbe illusoria, il Vescovo di Roma deve assicurare la comunione di tutte le Chiese. A questo titolo, egli è il primo tra i servitori dell'unità. Tale primato si esercita a svariati livelli, che riguardano la vigilanza sulla trasmissione della Parola, sulla celebrazione sacramentale e liturgica, sulla missione, sulla disciplina e sulla vita cristiana. Spetta al Successore di Pietro di ricordare le esigenze del bene comune della Chiesa, se qualcuno fosse tentato di dimenticarlo in funzione dei propri interessi. Egli ha il dovere di avvertire, mettere in guardia, dichiarare a volte inconciliabile con l'unità di fede questa o quella opinione che si diffonde. Quando le circostanze lo esigono, egli parla a nome di tutti i Pastori in comunione con lui. Egli può anche — in condizioni ben precise, chiarite dal Concilio Vaticano I — dichiarare ex cathedra che una dottrina appartiene al deposito della fede.152 Testimoniando così della verità, egli serve l'unità.

95. Tutto questo si deve però compiere sempre nella comunione. Quando la Chiesa cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all'insieme dei Vescovi, anch'essi « vicari e delegati di Cristo ».153 Il Vescovo di Roma appartiene al loro « collegio » ed essi sono i suoi fratelli nel ministero.

Ciò che riguarda l'unità di tutte le Comunità cristiane rientra ovviamente nell'ambito delle preoccupazioni del primato. Quale Vescovo di Roma so bene, e lo ho riaffermato nella presente Lettera enciclica, che la comunione piena e visibile di tutte le Comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova. Per un millennio i cristiani erano uniti « dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina ».154

In tal modo il primato esercitava la sua funzione di unità. Rivolgendomi al Patriarca ecumenico, Sua Santità Dimitrios I, ho detto di essere consapevole che « per delle ragioni molto diverse, e contro la volontà degli uni e degli altri, ciò che doveva essere un servizio ha potuto manifestarsi sotto una luce abbastanza diversa. Ma [...] è per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato, come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero [...]. Lo Spirito Santo ci doni la sua luce, ed illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre Chiese, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri ».155

96. Compito immane, che non possiamo rifiutare e che non posso portare a termine da solo. La comunione reale, sebbene imperfetta, che esiste tra tutti noi, non potrebbe indurre i responsabili ecclesiali e i loro teologi ad instaurare con me e su questo argomento un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche, avendo a mente soltanto la volontà di Cristo per la sua Chiesa, lasciandoci trafiggere dal suo grido « siano anch'essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 21)?

La comunione di tutte le Chiese particolari con la Chiesa di Roma: condizione necessaria per l'unità

97. La Chiesa cattolica, sia nella sua praxis che nei testi ufficiali, sostiene che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro Vescovi con il Vescovo di Roma, è un requisito essenziale — nel disegno di Dio — della comunione piena e visibile. Bisogna, infatti, che la piena comunione, di cui l'Eucaristia è la suprema manifestazione sacramentale, abbia la sua espressione visibile in un ministero nel quale tutti i Vescovi si riconoscano uniti in Cristo e tutti i fedeli trovino la conferma della propria fede. La prima parte degli Atti degli Apostoli presenta Pietro come colui che parla a nome del gruppo apostolico e serve l'unità della comunità — e ciò nel rispetto dell'autorità di Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme. Questa funzione di Pietro deve restare nella Chiesa affinché, sotto il suo solo Capo, che è Cristo Gesù, essa sia visibilmente nel mondo la comunione di tutti i suoi discepoli.

Non è forse un ministero di questo tipo di cui molti di coloro che sono impegnati nell'ecumenismo esprimono oggi il bisogno? Presiedere nella verità e nell'amore affinché la barca — il bel simbolo che il Consiglio ecumenico delle Chiese ha scelto come emblema — non sia squassata dalle tempeste e possa un giorno approdare alla sua riva.

Piena unità ed evangelizzazione

98. Il movimento ecumenico del nostro secolo, più delle imprese ecumeniche dei secoli scorsi, di cui tuttavia non va sottovalutata l'importanza, è stato contraddistinto da una prospettiva missionaria. Nel versetto giovanneo che serve da ispirazione e da motivo conduttore — « siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 21) — è stato sottolineato perché il mondo creda con tanto vigore da correre il rischio di dimenticare a volte che, nel pensiero dell'evangelista, l'unità è, soprattutto, per la gloria del Padre. È evidente, comunque, che la divisione dei cristiani è in contraddizione con la Verità che essi hanno la missione di diffondere, e dunque essa ferisce gravemente la loro testimonianza. L'aveva ben compreso ed affermato il mio Predecessore, Papa Paolo VI, nella sua Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: « In quanto evangelizzatori, noi dobbiamo offrire ai fedeli di Cristo l'immagine non di uomini divisi da litigi che non edificano affatto, ma di persone mature nella fede, capaci di ritrovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità. Sì, la sorte dell'evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità della Chiesa [...]. A questo punto vogliamo sottolineare il segno dell'unità tra tutti i cristiani come via e strumento di evangelizzazione. La divisione dei cristiani è un grave stato di fatto che perviene ad intaccare la stessa opera di Cristo ».156

Come, infatti, annunciare il Vangelo della riconciliazione, senza al contempo impegnarsi ad operare per la riconciliazione dei cristiani? Se è vero che la Chiesa, per impulso dello Spirito Santo e con la promessa dell'indefettibilità, ha predicato e predica il Vangelo a tutte le nazioni, è anche vero che essa deve affrontare le difficoltà derivanti dalle divisioni. Messi di fronte a missionari in disaccordo fra loro, sebbene essi si richiamino tutti a Cristo, sapranno gli increduli accogliere il vero messaggio? Non penseranno che il Vangelo sia fattore di divisione, anche se esso è presentato come la legge fondamentale della carità?

99. Quando affermo che per me, Vescovo di Roma, l'impegno ecumenico è « una delle priorità pastorali » del mio pontificato,157 il mio pensiero va al grave ostacolo che la divisione costituisce per l'annuncio del Vangelo. Una Comunità cristiana che crede a Cristo e desidera, con l'ardore del Vangelo, la salvezza dell'umanità, in nessun modo può chiudersi all'appello dello Spirito che orienta tutti i cristiani verso l'unità piena e visibile. Si tratta di uno degli imperativi della carità che va accolto senza compromessi. L'ecumenismo non è soltanto una questione interna delle Comunità cristiane. Esso riguarda l'amore che Dio destina in Gesù Cristo all'insieme dell'umanità, e ostacolare questo amore è una offesa a Lui e al suo disegno di radunare tutti in Cristo. Papa Paolo VI scriveva al Patriarca ecumenico Athenagoras I: « Possa lo Spirito Santo guidarci sulla via della riconciliazione, affinché l'unità delle nostre Chiese diventi un segno sempre più luminoso di speranza e di conforto per l'umanità tutta ».158


ESORTAZIONE

100. Rivolgendomi recentemente ai Vescovi, al clero e ai fedeli della Chiesa cattolica per indicare la via da seguire verso la celebrazione del Grande Giubileo dell'Anno Duemila, ho tra l'altro affermato che « la migliore preparazione alla scadenza bimillenaria non potrà che esprimersi nel rinnovato impegno di applicazione, per quanto possibile fedele, dell'insegnamento del Vaticano II alla vita di ciascuno e di tutta la Chiesa ».159 Il Concilio è il grande inizio — come l'Avvento —, di quell'itinerario che ci conduce alle soglie del Terzo Millennio. Considerando l'importanza che l'Assise conciliare ha attribuito all'opera di ricomposizione dell'unità dei cristiani, in questa nostra epoca di grazia ecumenica, mi è sembrato necessario ribadire le fondamentali convinzioni che il Concilio ha scolpito nella coscienza della Chiesa cattolica, ricordandole alla luce dei progressi nel frattempo compiuti verso la piena comunione di tutti i battezzati.

Non vi è dubbio che lo Spirito Santo agisca in quest'opera e che stia conducendo la Chiesa verso la piena realizzazione del disegno del Padre, in conformità alla volontà di Cristo, espressa con tanto accorato vigore nella preghiera che, secondo il quarto Vangelo, le sue labbra pronunciano nel momento in cui Egli s'avvia verso il dramma salvifico della sua Pasqua. Così come allora, anche oggi Cristo chiede che uno slancio nuovo ravvivi l'impegno di ciascuno per la comunione piena e visibile.

101. Esorto, dunque, i miei Fratelli nell'episcopato a porre ogni attenzione a tale impegno. I due Codici di Diritto Canonico annoverano tra le responsabilità del Vescovo quella di promuovere l'unità di tutti i cristiani, sostenendo ogni azione o iniziativa intesa a promuoverla nella consapevolezza che la Chiesa è tenuta a ciò per volontà stessa di Cristo.160 Ciò fa parte della missione episcopale ed è un obbligo che deriva direttamente dalla fedeltà a Cristo, Pastore della Chiesa. Tutti i fedeli, però, sono invitati dallo Spirito di Dio a fare il possibile, perché si rinsaldino i legami di comunione tra tutti i cristiani e cresca la collaborazione dei discepoli di Cristo: « La cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo la propria capacità ».161

102. La potenza dello Spirito di Dio fa crescere ed edifica la Chiesa attraverso i secoli. Volgendo lo sguardo al nuovo millennio, la Chiesa domanda allo Spirito la grazia di rafforzare la sua propria unità e di farla crescere verso la piena comunione con gli altri cristiani.

Come ottenerlo? In primo luogo con la preghiera. La preghiera dovrebbe sempre farsi carico di quell'inquietudine che è anelito verso l'unità, e perciò una delle forme necessarie dell'amore che nutriamo per Cristo e per il Padre ricco di misericordia. La preghiera deve avere la priorità in questo cammino che intraprendiamo con gli altri cristiani verso il nuovo millennio. Come ottenerlo? Con l'azione di grazie, perché non ci presentiamo a mani vuote a questo appuntamento: « Anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza [...] e intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili » (Rm 8, 26), per disporci a chiedere a Dio quello di cui abbiamo bisogno. Come ottenerlo? Conla speranza nello Spirito, che sa allontanare da noi gli spettri del passato e le memorie dolorose della separazione; Egli sa concederci lucidità, forza e coraggio per intraprendere i passi necessari, in modo che il nostro impegno sia sempre più autentico.

E se volessimo chiederci se tutto ciò è possibile, la risposta sarebbe sempre: sì. La stessa risposta udita da Maria di Nazaret, perché nulla è impossibile a Dio.

Mi tornano alla mente le alle parole con le quali san Cipriano commenta il Padre Nostro, la preghiera di tutti i cristiani: « Dio non accoglie il sacrificio di chi è in discordia, anzi comanda di ritornare indietro dall'altare e di riconciliarsi prima col fratello. Solo così le nostre preghiere saranno ispirate alla pace e Dio le gradirà. Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ».162

All'alba del nuovo millennio, come non sollecitare dal Signore, con rinnovato slancio e più matura consapevolezza, la grazia di predisporci, tutti, a questo sacrificio dell'unità?

103. Io, Giovanni Paolo, umile servus servorum Dei, mi permetto di fare mie le parole dell'apostolo Paolo, il cui martirio, unito a quello dell'apostolo Pietro, ha conferito a questa sede di Roma lo splendore della sua testimonianza, e dico a voi, fedeli della Chiesa cattolica, e a voi, fratelli e sorelle delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, « tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi [...]. La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi » (2 Cor 13, 11.13).

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 maggio, solennità dell'Ascensione del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato.

 

 

 

SOLLECITUDO REI SOCIALIS

LETTERA ENCICLICA
SOLLICITUDO REI SOCIALIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
NEL VENTESIMO ANNIVERSARIO
DELLA"POPULORUM PROGRESSIO"

 

Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione

CAPITOLO I

INTRODUZIONE

1. La sollecitudine sociale della Chiesa, finalizzata ad un autentico sviluppo dell'uomo e della società, che rispetti e promuova la persona umana in tutte le sue dimensioni, si è sempre espressa nei modi più svariati. Uno dei mezzi privilegiati di intervento è stato nei tempi recenti il Magistero dei Romani Pontefici, che, partendo dall'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII come da un punto di riferimento, (1) ha trattato di frequente la questione facendo alcune volte coincidere le date di pubblicazione dei vari documenti sociali con gli anniversari di quel primo documento. (2) Né i Sommi Pontefici hanno trascurato di illuminare con tali interventi anche aspetti nuovi della dottrina sociale della Chiesa. Pertanto, cominciando dal validissimo apporto di Leone XIII, arricchito dai successivi contributi magisteriali, si è ormai costituito un aggiornato «corpus» dottrinale, che si articola man mano che la Chiesa, nella pienezza della Parola rivelata da Cristo Gesù (3) e con l'assistenza dello Spirito Santo (Gv14,16); (Gv16,13), va leggendo gli avvenimenti mentre si svolgono nel corso della storia. Essa cerca così di guidare gli uomini a rispondere, anche con l'ausilio della riflessione razionale e delle scienze umane, alla loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena.

2. In tale cospicuo corpo di insegnamento sociale si inserisce e distingue l'Enciclica Populorum Progressio, (4) che il mio venerato predecessore Paolo VI pubblicò il 26 marzo 1967. La perdurante attualità di questa Enciclica si riconosce agevolmente registrando la serie di commemorazioni che si sono tenute durante questo anno, in varie forme e in molti ambienti del mondo ecclesiastico e civile. A questo medesimo scopo la Pontificia Commissione Iustitia et Pax inviò l'anno scorso una lettera circolare ai Sinodi delle Chiese cattoliche Orientali e alle Conferenze Episcopali, sollecitando opinioni e proposte circa il modo migliore di celebrare l'anniversario dell'Enciclica, arricchirne gli insegnamenti ed all'occorrenza attualizzarli. La stessa Commissione promosse, alla scadenza del ventesimo anniversario, una solenne commemorazione, alla quale volli prender parte tenendo l'allocuzione conclusiva. (5) Ed ora, prendendo anche in considerazione i contenuti delle risposte alla citata circolare credo opportuno, a chiusura dell'anno 1987, dedicare un'Enciclica alla tematica della Populorum Progressio.

3. Con ciò intendo raggiungere principalmente due obiettivi di non piccola importanza: da una parte, rendere omaggio a questo storico documento di Paolo VI e al suo insegnamento; dall'altra, nella linea tracciata dai miei venerati predecessori sulla Cattedra di Pietro, riaffermare la continuità della dottrina sociale ed insieme il suo costante rinnovamento. In effetti, continuità e rinnovamento sono una riprova del perenne valore dell'insegnamento della Chiesa. Questa doppia connotazione e tipica del suo insegnamento nella sfera sociale. Esso, da un lato, è costante perché si mantiene identico nella sua ispirazione di fondo, nei suoi «principi di riflessione», nei suoi «criteri di giudizio», nelle sue basilari «direttrici di azione» (6) e, soprattutto, nel suo vitale collegamento col Vangelo del Signore; dall'altro lato, è sempre nuovo, perché è soggetto ai necessari e opportuni adattamenti suggeriti dal variare delle condizioni storiche e dall'incessante fluire degli avvenimenti, in cui si muove la vita degli uomini e delle società.

4. Nella convinzione che gli insegnamenti dell'Enciclica Populorum Progressio, indirizzata agli uomini ed alla società degli anni Sessanta, conservano tutta la loro forza di richiamo alla coscienza oggi, sullo scorcio degli anni Ottanta, nello sforzo di indicare le linee portanti del mondo odierno_sempre nell'ottica del motivo ispiratore, lo «sviluppo dei popoli», ancora ben lontano dall'essere raggiunto_, mi propongo di prolungarne l'eco, collegandoli con le possibili applicazioni al presente momento storico, non meno drammatico di quello di venti anni fa. Il tempo_lo sappiamo bene_scorre sempre secondo il medesimo ritmo; oggi, tuttavia, si ha l'impressione che sia sottoposto a un moto di continua accelerazione, in ragione soprattutto della moltiplicazione e complessità dei fenomeni in mezzo ai quali viviamo. Di conseguenza, la configurazione del mondo, nel corso degli ultimi venti anni, pur conservando alcune costanti fondamentali, ha subito notevoli cambiamenti e presenta aspetti del tutto nuovi. Questo periodo di tempo, caratterizzato alla vigilia del terzo Millennio cristiano da una diffusa attesa, quasi di un nuovo «avvento», (7) che in qualche modo tocca tutti gli uomini, offre l'occasione di approfondire l'insegnamento dell'Enciclica, per vederne anche le prospettive. La presente riflessione ha lo scopo di sottolineare, con l'aiuto dell'indagine teologica sulla realtà contemporanea, la necessità di una concezione più ricca e differenziata dello sviluppo, secondo le proposte dell'Enciclica, e di indicare alcune forme di attuazione. Nella convinzione che gli insegnamenti dell'Enciclica Populorum Progressio, indirizzata agli uomini ed alla società degli anni Sessanta, conservano tutta la loro forza di richiamo alla coscienza oggi, sullo scorcio degli anni Ottanta, nello sforzo di indicare le linee portanti del mondo odierno_sempre nell'ottica del motivo ispiratore, lo «sviluppo dei popoli», ancora ben lontano dall'essere raggiunto_, mi propongo di prolungarne l'eco, collegandoli con le possibili applicazioni al presente momento storico, non meno drammatico di quello di venti anni fa. Il tempo_lo sappiamo bene_scorre sempre secondo il medesimo ritmo; oggi, tuttavia, si ha l'impressione che sia sottoposto a un moto di continua accelerazione, in ragione soprattutto della moltiplicazione e complessità dei fenomeni in mezzo ai quali viviamo. Di conseguenza, la configurazione del mondo, nel corso degli ultimi venti anni, pur conservando alcune costanti fondamentali, ha subito notevoli cambiamenti e presenta aspetti del tutto nuovi. Questo periodo di tempo, caratterizzato alla vigilia del terzo Millennio cristiano da una diffusa attesa, quasi di un nuovo «avvento», (7) che in qualche modo tocca tutti gli uomini, offre l'occasione di approfondire l'insegnamento dell'Enciclica, per vederne anche le prospettive. La presente riflessione ha lo scopo di sottolineare, con l'aiuto dell'indagine teologica sulla realtà contemporanea, la necessità di una concezione più ricca e differenziata dello sviluppo, secondo le proposte dell'Enciclica, e di indicare alcune forme di attuazione.

CAPITOLO II

NOVITÀ DELL'ENCICLICA "POPULORUM PROGRESSIO"

5. Già al suo apparire, il documento di Papa Paolo VI richiamò l'attenzione dell'opinione pubblica per la sua novità. Si ebbe modo di verificare, in concreto e con grande chiarezza, dette caratteristiche della continuità e del rinnovamento all'interno della dottrina sociale della Chiesa. Perciò, l'intento di riscoprire numerosi aspetti di questo insegnamento, mediante una rilettura attenta dell'Enciclica, costituirà il filo conduttore delle presenti riflessioni. Ma prima desidero soffermarmi sulla data di pubblicazione: l'anno 1967. Il fatto stesso che il Papa Paolo VI prese la decisione di pubblicare una sua Enciclica sociale in quell'anno, invita a considerare il documento in relazione al Concilio Ecumenico Vaticano II, che si era chiuso l'8 dicembre 1965.

6. In tale fatto dobbiamo vedere qualcosa di più che una semplice vicinanza cronologica. L'Enciclica Populorum Progressio si pone, in certo modo, quale documento di applicazione degli insegnamenti del Concilio. E ciò non tanto perché essa fa continui riferimenti ai testi conciliari, (8) quanto perché scaturisce dalla preoccupazione della Chiesa, che ispirò tutto il lavoro conciliare_in particolar modo la Costituzione pastorale Gaudium et spes_nel coordinare e sviluppare non pochi temi del suo insegnamento sociale. Possiamo affermare, pertanto, che l'Enciclica Populorum Progressio è come la risposta all'appello conciliare, col quale ha inizio la Costituzione Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è più genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». (9) Queste parole esprimono il motivo fondamentale che ispirò il grande documento del Concilio, il quale parte dalla constatazione dello stato di miseria e di sottosviluppo, in cui vivono milioni e milioni di esseri umani. Questa miseria e sottosviluppo sono, sotto altro nome, «le tristezze e le angosce» di oggi, «dei poveri soprattutto»: di fronte a questo vasto panorama di dolore e di sofferenza, il Concilio vuole prospettare orizzonti di gioia e di speranza. Al medesimo obiettivo punta l'Enciclica di Paolo VI, in piena fedeltà all'ispirazione conciliare.

7. Ma anche nell'ordine tematico l'Enciclica, attenendosi alla grande tradizione dell'insegnamento sociale della Chiesa, riprende in maniera diretta la nuova esposizione e la ricca sintesi, che il Concilio ha elaborato segnatamente nella Costituzione Gaudium et spes. Quanto ai contenuti e temi, riproposti dall'Enciclica, sono da sottolineare: la coscienza del dovere che ha la Chiesa, «esperta in umanità», di «scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo»; (10) la coscienza, egualmente profonda, della sua missione di «servizio», distinta dalla funzione dello Stato, anche quando essa si preoccupa della sorte delle persone in concreto; (11) il riferimento alle differenze clamorose nelle situazioni di queste stesse persone; (12) la conferma dell'insegnamento conciliare, eco fedele della tradizione secolare della Chiesa, circa la «destinazione universale dei beni»; (13) l'apprezzamento della cultura e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell'uomo, (14) senza trascurare di riconoscere i loro limiti; (15) infine, sul tema dello sviluppo, che è proprio dell'Enciclica, l'insistenza sul «dovere gravissimo», che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di «aiutare i Paesi in via di sviluppo». (16) Lo stesso concetto di sviluppo, proposto dall'Enciclica, scaturisce direttamente dall'impostazione che la Costituzione pastorale dà a questo problema. (17) Questi ed altri espliciti riferimenti alla Costituzione pastorale portano alla conclusione che l'Enciclica si presenta come applicazione dell'insegnamento conciliare in materia sociale al problema specifico dello sviluppo e del sottosviluppo dei popoli.

8. La breve analisi, ora fatta, ci aiuta a valutar meglio la novità dell'Enciclica, che si può precisare in tre punti. Il primo è costituito dal fatto stesso di un documento, emanato dalla massima autorità della Chiesa cattolica e destinato, a un tempo, alla stessa Chiesa e «a tutti gli uomini di buona volontà», (18) sopra una materia che a prima vista è solo economica e sociale: lo sviluppo dei popoli. Qui il termine «sviluppo» è desunto dal vocabolario delle scienze sociali ed economiche. Sotto tale profilo l'Enciclica Populorum Progressio si colloca direttamente nel solco dell'Enciclica Rerum Novarum, che tratta della «condizione degli operai». (19) Considerati superficialmente, entrambi i temi potrebbero sembrare estranei alla legittima preoccupazione della Chiesa vista come istituzione religiosa; anzi, lo «sviluppo» ancor più della «condizione operaia».

In continuità con l'Enciclica di Leone XIII, al documento di Paolo VI bisogna riconoscere il merito di aver sottolineato il carattere etico e culturale della problematica relativa allo sviluppo e, parimenti, la legittimità e la necessità dell'intervento in tale campo da parte della Chiesa. Con ciò la dottrina sociale cristiana ha rivendicato ancora una volta il suo carattere di applicazione della Parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo «principi di riflessione», «criteri di giudizio» e «direttrici di azione». (20) Ora, nel documento di Paolo VI si ritrovano tutti i tre elementi con un orientamento prevalentemente pratico, ordinato cioè alla condotta morale. Di conseguenza, quando la Chiesa si occupa dello «sviluppo dei popoli», non può essere accusata di oltrepassare il suo campo specifico di competenza e, tanto meno, il mandato ricevuto dal Signore.

9. Il secondo punto è la novità della Populorum Progressio, quale si rivela dall'ampiezza di orizzonte aperto a quella che comunemente è conosciuta come la «questione sociale». In verità, l'Enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte (21) ed il Concilio se ne era fatto eco nella Costituzione Gaudium et spes. (22) Tuttavia, il magistero sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, (23) né aveva fatto di questa affermazione, e dell'analisi che l'accompagna, una «direttrice di azione», come fa Papa Paolo VI nella sua Enciclica. Una simile presa di posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è opportuno indicare.

Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la «questione sociale» abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto che sia venuta meno la sua forza d ,incidenza, o che abbia perduto la sua importanza nell'ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall'influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali. Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo, dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni naturali o dall'insieme delle circostanze. L'Enciclica di Paolo VI, nel dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento nell'analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell'Enciclica, «ognuno deve prendere coscienza» di questo fatto, (24) appunto perché tocca direttamente la coscienza, ch'è fonte delle decisioni morali. In tale quadro, la novità dell'Enciclica non consiste tanto nell'affermazione, di carattere storico circa l'universalità della questione sociale quanto nella valutazione morale di questa realtà. Perciò, i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l'obbligo morale_secondo il rispettivo grado di responsabilità_di tenere in considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggior precisione l'Enciclica paolina traduce l'obbligo morale come «dovere di solidarietà», (25) ed una tale affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono cambiate, ha oggi la stessa forza e validità di quando fu scritta.

D'altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità dell'Enciclica consiste anche nell'impostazione di fondo, secondo cui la concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva dell'interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell'essere umano. (26)

10. Come terzo punto l'Enciclica fornisce un considerevole apporto di novità alla dottrina sociale della Chiesa nel suo complesso ed alla concezione stessa di sviluppo.

Questa novità è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo del documento e che può esser considerata come la sua formula riassuntiva, oltre che la sua qualifica storica: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». (27) In realtà, se la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, è perché l'esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo su questo stesso piano. Disattendere tale esigenza potrebbe favorire l'insorgere di una tentazione di risposta violenta da parte delle vittime dell'ingiustizia, come avviene all'origine di molte guerre. Le popolazioni escluse dalla equa distribuzione dei beni destinati originariamente a tutti, potrebbero domandarsi: perché non rispondere con la violenza a quanti ci trattano per primi con la violenza? E se si esamina la situazione alla luce della divisione del mondo in blocchi ideologici_già esistente nel 1967_e delle conseguenti ripercussioni e dipendenze economiche e politiche, il pericolo risulta ben maggiore.

A questa prima considerazione sul drammatico contenuto della formula dell'Enciclica se ne aggiunge un'altra, a cui lo stesso documento fa allusione: (28) come giustificare il fatto che ingenti somme di danaro che potrebbero e dovrebbero essere destinate a incrementare lo sviluppo dei popoli, sono invece utilizzate per l'arricchimento di individui o di gruppi, ovvero assegnate all'ampliamento degli arsenali di armi, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, sconvolgendo così le vere priorità? Ciò è ancor più grave attese le difficoltà che non di rado ostacolano il passaggio diretto dei capitali destinati a portare aiuto ai Paesi in condizione di bisogno. Se «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», la guerra e i preparativi militari sono il maggior nemico dello sviluppo integrale dei popoli.

In tal modo, alla luce dell'espressione di Papa Paolo VI, siamo invitati a rivedere il concetto di sviluppo, che non coincide certamente con quello che si limita a soddisfare le necessità materiali mediante la crescita dei beni, senza prestare attenzione alle sofferenze dei più e facendo dell'egoismo delle persone e delle Nazioni la principale motivazione. Come acutamente ci ricorda la Lettera di san Giacomo, è da qui che «derivano le guerre e le liti. [...] Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere» (Gc4,1). Al contrario, in un mondo diverso, dominato dalla sollecitudine per il bene comune di tutta l'umanità, ossia dalla preoccupazione per lo «sviluppo spirituale e umano di tutti», anziché dalla ricerca del profitto particolare, la pace sarebbe possibile come frutto di una «giustizia più perfetta tra gli uomini». (29)

Anche questa novità dell'Enciclica ha un valore permanente ed attuale, considerata la mentalità di oggi che è così sensibile all'intimo legame esistente tra il rispetto della giustizia e l'instaurazione della vera pace.

CAPITOLO III

PANORAMA DEL MONDO CONTEMPORANEO

11. L'insegnamento fondamentale dell'Enciclica Populorum Progressio ebbe a suo tempo grande risonanza per il suo carattere di novità. Il contesto sociale, nel quale viviamo oggi, non si può dire del tutto identico a quello di venti anni fa. E perciò vorrei ora soffermarmi, con una breve esposizione, su alcune caratteristiche del mondo odierno al fine di approfondire l'insegnamento dell'Enciclica di Paolo VI, sempre sotto il punto di vista dello «sviluppo dei popoli».

12. Il primo fatto da rilevare è che le speranze di sviluppo, allora così vive, appaiono oggi molto lontane dalla realizzazione. In proposito, l'Enciclica non si faceva illusioni. Il suo linguaggio grave, a volte drammatico, si limitava a sottolineare la pesantezza della situazione ed a proporre alla coscienza di tutti l'obbligo urgente di contribuire a risolverla. In quegli anni era diffuso un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il ritardo economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture ed assisterli nel processo di industrializzazione. In quel contesto storico, al di là degli sforzi di ogni Paese, l'Organizzazione delle Nazioni Unite promosse consecutivamente due decenni di sviluppo. (30) Furono prese, infatti, alcune misure, bilaterali e multilaterali, per venire in aiuto a molte Nazioni, alcune indipendenti da tempo, altre_per la maggior parte_nate appena come Stati dal processo di decolonizzazione. Da parte sua, la Chiesa sentì il dovere di approfondire i problemi posti dalla nuova situazione, pensando di sostenere con la sua ispirazione religiosa ed umana questi sforzi, per dar loro un'«anima» ed un impulso efficace.

13. Non si può dire che queste diverse iniziative religiose, umane, economiche e tecniche siano state vane, dato che hanno potuto raggiungere alcuni risultati. Ma in linea generale, tenendo conto dei diversi fattori, non si può negare che la presente situazione del mondo, sotto questo profilo dello sviluppo, offra un'impressione piuttosto negativa. Per questo desidero richiamare l'attenzione su alcuni indici generici, senza escluderne altri specifici. Tralasciando l'analisi di cifre o statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che son privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e bisogno, in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle, è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci (Mt25,31).

14. La prima costatazione negativa da fare e la persistenza, e spesso l'allargamento del fossato tra l'area del cosiddetto Nord sviluppato e quella del Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via di sviluppo. Difatti, come esistono diseguaglianze sociali fino a livelli di miseria nei Paesi ricchi, così, parallelamente, nei Paesi meno sviluppati si vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto sconcertanti quanto scandalose. All'abbondanza di beni e di servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo-politica che vive la maggior parte del genere umano. A guardare la gamma dei vari settori_produzione e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita ed altri indici economici e sociali_, il quadro generale risulta deludente, a considerarlo sia in se stesso sia in relazione ai dati corrispondenti dei Paesi più sviluppati. La parola «fossato» ritorna spontanea sulle labbra. Forse non è questo il vocabolo appropriato per indicare la vera realtà, in quanto può dare l'impressione di un fenomeno stazionario. Non è così. Nel cammino dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo si è verificata in questi anni una diversa velocità di accelerazione, che porta ad allargare le distanze. Così, i Paesi in via di sviluppo, specie i più poveri, vengono a trovarsi in una situazione di gravissimo ritardo. Occorre aggiungere ancora le differenze di cultura e dei sistemi di valori tra i vari gruppi di popolazione, che non sempre coincidono col grado di sviluppo economico, ma che contribuiscono a creare distanze. Sono questi gli elementi e gli aspetti che rendono molto più complessa la questione sociale, appunto perché ha assunto dimensione universale.

Osservando le varie parti del mondo separate dalla crescente distanza di un tale fossato, notando come ognuna di esse sembra seguire una propria rotta con proprie realizzazioni, si comprende perché nel linguaggio corrente si parli di mondi diversi all'interno del nostro unico mondo: Primo Mondo, Secondo Mondo, Terzo Mondo, e talvolta Quarto Mondo. (31) Simili espressioni, che non pretendono certo di classificare in modo esauriente tutti i Paesi, appaiono significative: esse sono il segno della diffusa sensazione che l'unità del mondo, in altri termini l'unità del genere umano sia seriamente compromessa. Tale fraseologia, al di là del suo valore più o meno obiettivo, nasconde senza dubbio un contenuto morale, di fronte al quale la Chiesa, che è «sacramento o segno e strumento [...] dell'unità di tutto il genere umano», (32) non può rimanere indifferente.

15. Il quadro precedentemente tracciato sarebbe, però, incompleto, se agli «indici economici e sociali» del sottosviluppo non si aggiungessero altri indici egualmente negativi, anzi ancor più preoccupanti, a cominciare dal piano culturale. Essi sono: l'analfabetismo, la difficoltà o impossibilità di accedere ai livelli superiori di istruzione, l'incapacità di partecipare alla costruzione della propria Nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione economica, sociale, politica ed anche religiosa della persona umana e dei suoi diritti, le discriminazioni di ogni tipo, specialmente quella più odiosa fondata sulla differenza razziale. Se qualcuna di queste piaghe si lamenta in aree del Nord più sviluppato senza dubbio esse sono più frequenti, più durature e difficili da estirpare nei Paesi in via di sviluppo e meno avanzati.

Occorre rilevare che nel mondo d'oggi, tra gli altri diritti, viene spesso soffocato il diritto di iniziativa economica. Eppure si tratta di un diritto importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune. L'esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto, o la sua limitazione in nome di una pretesa «eguaglianza» di tutti nella società riduce, o addirittura distrugge di fatto lo spirito d'iniziativa, cioè la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge, in questo modo, non tanto una vera eguaglianza, quanto un «livellamento in basso». Al posto dell'iniziativa creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all'apparato burocratico che, come unico organo «disponente» e «decisionale»_se non addirittura «possessore»_della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta, che è simile alla tradizionale dipendenza dell'operaio-proletario dal capitalismo. Ciò provoca un senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale, spingendo molti all'emigrazione e favorendo, altresì, una forma di emigrazione «psicologica». Una tale situazione ha le sue conseguenze anche dal punto di vista dei «diritti delle singole Nazioni». Infatti, accade spesso che una Nazione viene privata della sua soggettività, cioè della «sovranità» che le compete nel significato economico ed anche politico-sociale e in certo qual modo culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita sono collegate tra di loro. Bisogna ribadire, inoltre, che nessun gruppo sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle persone-cittadini, come avviene in ogni totalitarismo. In questa situazione l'uomo e il popolo diventano «oggetto», nonostante tutte le dichiarazioni in contrario e le assicurazioni verbali.

A questo punto conviene aggiungere che nel mondo d'oggi ci sono molte altre forme di povertà. In effetti, certe carenze o privazioni non meritano forse questa qualifica? La negazione o la limitazione dei diritti umani_quali, ad esempio, il diritto alla libertà religiosa, il diritto di partecipare alla costruzione della società, la libertà di associarsi, o di costituire sindacati, o di prendere iniziative in materia economica_ non impoveriscono forse la persona umana altrettanto, se non maggiormente della privazione dei beni materiali? E uno sviluppo, che non tenga conto della piena affermazione di questi diritti, è davvero sviluppo a dimensione umana? In breve, il sottosviluppo dei nostri giorni non è soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano, come già rilevava venti anni fa l'Enciclica Populorum Progressio. Sicché, a questo punto, occorre domandarsi se la realtà così triste di oggi non sia, almeno in parte, il risultato di una concezione troppo limitata, ossia prevalentemente economica, dello sviluppo.

16. É da rilevare che, nonostante i lodevoli sforzi fatti negli ultimi due decenni da parte delle Nazioni più sviluppate o in via di sviluppo e delle Organizzazioni internazionali, allo scopo di trovare una via d'uscita alla situazione, o almeno di rimediare a qualcuno dei suoi sintomi, le condizioni si sono notevolmente aggravate. Le responsabilità di un simile peggioramento risalgono a cause diverse. Sono da segnalare le indubbie, gravi omissioni da parte delle stesse Nazioni in via di sviluppo e, specialmente, da parte di quanti ne detengono il potere economico e politico. Né tanto meno si può fingere di non vedere le responsabilità delle Nazioni sviluppate, che non sempre, almeno non nella debita misura, hanno sentito il dovere di portare aiuto ai Paesi separati dal mondo del benessere, al quale esse appartengono. Tuttavia, è necessario denunciare l'esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati--in modo diretto o indiretto --dai Paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o condizionare le economie dei Paesi meno sviluppati. Sarà necessario sottoporre più avanti questi meccanismi a un'attenta analisi sotto l'aspetto etico-morale. Già la Populorum Progressio prevedeva che con tali sistemi potesse aumentare la ricchezza dei ricchi, rimanendo confermata la miseria dei poveri. (33) Una riprova di questa previsione si è avuta con l'apparizione del cosiddetto Quarto Mondo.

17. Quantunque la società mondiale offra aspetti di frammentazione, espressa con i nomi convenzionali di Primo, Secondo, Terzo ed anche Quarto Mondo, rimane sempre molto stretta la loro interdipendenza che, quando sia disgiunta dalle esigenze etiche, porta a conseguenze funeste per i più deboli. Anzi, questa interdipendenza, per una specie di dinamica interna e sotto la spinta di meccanismi che non si possono non qualificare come perversi, provoca effetti negativi perfino nei Paesi ricchi. Proprio all'interno di questi Paesi si riscontrano, seppure in misura minore, le manifestazioni specifiche del sottosviluppo. Sicché dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso. Fenomeno, questo, particolarmente indicativo della natura dell'autentico sviluppo: o vi partecipano tutte le Nazioni del mondo, o non sarà veramente tale. Tra gli indici specifici del sottosviluppo, che colpiscono in maniera crescente anche i Paesi sviluppati, ve ne sono due particolarmente rivelatori di una situazione drammatica. In primo luogo, la crisi degli alloggi. In questo Anno internazionale dei senzatetto, voluto dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'attenzione si rivolge ai milioni di esseri umani privi di un'abitazione adeguata o addirittura senza abitazione alcuna, al fine di risvegliare la coscienza di tutti e trovare una soluzione a questo grave problema che ha conseguenze negative sul piano individuale, familiare e sociale. (34) La carenza di abitazioni si verifica su un piano universale ed è dovuta, in gran parte, al fenomeno sempre crescente dell'urbanizzazione. (35) Perfino gli stessi popoli più sviluppati presentano il triste spettacolo di individui e famiglie che si sforzano letteralmente di sopravvivere, senza un tetto o con uno così precario che è come se non ci fosse. La mancanza di abitazioni, che è un problema di per se stesso assai grave, è da considerare segno e sintesi di tutta una serie di insufficienze economiche, sociali, culturali o semplicemente umane e, tenuto conto dell'estensione del fenomeno, non dovrebbe essere difficile convincersi di quanto siamo lontani dall'autentico sviluppo dei popoli.

18. Altro indice, comune alla stragrande maggioranza delle Nazioni, è il fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione. Non c'è chi non si renda conto dell'attualità e della crescente gravità di un simile fenomeno nei Paesi industrializzati.(36) Se esso appare allarmante nei Paesi in via di sviluppo, con il loro alto tasso di crescita demografica e la massa della popolazione giovanile, nei Paesi di grande sviluppo economico sembra che si contraggano le fonti di lavoro, e così le possibilità di occupazione, invece di crescere, diminuiscono.

Anche questo fenomeno, con la sua serie di effetti negativi a livello individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni uomo o donna deve a se stesso, ci spinge a interrogarci seriamente sul tipo di sviluppo, che si è perseguito nel corso di questi venti anni. A tale proposito torna quanto mai opportuna la considerazione dell'Enciclica Laborem exercens: «Bisogna sottolineare che l'elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa proclama e per il quale non cessa di pregare [...], è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto l'aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l'aspetto della dignità del soggetto di ogni lavoro, che è l'uomo». Al contrario, «non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense», e cioè che «esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati [...]: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all'interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale--per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e dell'occupazione--c'è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti critici e di maggiore rilevanza sociale». (37) Come il precedente, anche quest'altro fenomeno, per il suo carattere universale e in certo senso moltiplicatore, rappresenta un segno sommamente indicativo, per la sua incidenza negativa, dello stato e della qualità dello sviluppo dei popoli, di fronte al quale ci troviamo oggi.

19. Un altro fenomeno, anch'esso tipico del più recente periodo _pur se non si riscontra dappertutto_, è senza dubbio egualmente indicativo dell'interdipendenza esistente tra Paesi sviluppati e meno. É la questione del debito internazionale, a cui la Pontificia Commissione Iustitia et Pax ha dedicato un suo Documento. (38) Non si può qui passare sotto silenzio lo stretto collegamento tra simile problema, la cui crescente gravità era stata già prevista dalla Populorum Progressio, (39) e la questione dello sviluppo dei popoli. La ragione che spinse i popoli in via di sviluppo ad accogliere l'offerta di abbondanti capitali disponibili fu la speranza di poterli investire in attività di sviluppo. Di conseguenza, la disponibilità dei capitali e il fatto di accettarli a titolo di prestito possono considerarsi un contributo allo sviluppo stesso, cosa desiderabile e in sé legittima, anche se forse imprudente e, in qualche occasione, affrettata. Cambiate le circostanze, tanto nei Paesi indebitati quanto nel mercato internazionale finanziatore, lo strumento prescelto per dare un contributo allo sviluppo si è trasformato in un congegno controproducente. E ciò sia perché i Paesi debitori, per soddisfare gli impegni del debito, si vedono obbligati a esportare i capitali che sarebbero necessari per accrescere o, addirittura, per mantenere il loro livello di vita, sia perché, per la stessa ragione, non possono ottenere nuovi finanziamenti del pari indispensabili. Per questo meccanismo il mezzo destinato allo sviluppo dei popoli si è risolto in un freno, anzi, in certi casi, addirittura in un'accentuazione del sottosviluppo.

Queste costatazioni debbono spingere a riflettere _ come dice il recente Documento della Pontificia Commissione Iustitia et Pax (40) _ sul carattere etico dell'interdipendenza dei popoli; e, per stare nella linea della presente considerazione, sulle esigenze e condizioni, ispirate egualmente a principi etici, della cooperazione allo sviluppo.

20. Se, a questo punto, esaminiamo le cause di tale grave ritardo nel processo dello sviluppo, verificatosi in senso opposto alle indicazioni dell'Enciclica Populorum Progressio, che aveva sollevato tante speranze, la nostra attenzione si ferma in particolare sulle cause politiche della situazione odierna. Trovandoci di fronte ad un insieme di fattori indubbiamente complessi, non è possibile giungere qui a un'analisi completa. Ma non si può passare sotto silenzio un fatto saliente del quadro politico, che caratterizza il periodo storico seguito al secondo conflitto mondiale ed è un fattore non trascurabile nell'andamento dello sviluppo dei popoli. Ci riferiamo all'esistenza di due blocchi contrapposti, designati comunemente con i nomi convenzionali di Est e Ovest' oppure di Oriente e Occidente. La ragione di questa connotazione non è puramente politica, ma anche, come si dice, geo politica. Ciascuno dei due blocchi tende ad assimilare o ad aggregare intorno a sé, con diversi gradi di adesione o partecipazione, altri Paesi o gruppi di Paesi.

La contrapposizione è innanzitutto politica, in quanto ogni blocco trova la propria identità in un sistema di organizzazione della società e di gestione del potere, che tende ad essere alternativo all'altro; a sua volta, la contrapposizione politica trae origine da una contrapposizione più profonda, che è di ordine ideologico. In Occidente esiste, infatti, un sistema che storicamente si ispira ai principi del capitalismo liberista, quale si sviluppò nel secolo scorso con l'industrializzazione; in Oriente c'è un sistema ispirato al collettivismo marxista, che nacque dall'interpretazione della condizione delle classi proletarie, alla luce di una peculiare lettura della storia. Ciascuna delle due ideologie, facendo riferimento a due visioni così diverse dell'uomo, della sua libertà e del suo ruolo sociale, ha proposto e promuove, sul piano economico, forme antitetiche di organizzazione del lavoro e di strutture della proprietà, specialmente per quanto riguarda i cosiddetti mezzi di produzione.

Era inevitabile che la contrapposizione ideologica, sviluppando sistemi e centri antagonisti di potere, con proprie forme di propaganda e di indottrinamento, evolvesse in una crescente contrapposizione militare, dando origine a due blocchi di potenze armate, ciascuno diffidente e timoroso del prevalere dell'altro. A loro volta, le relazioni internazionali non potevano non risentire gli effetti di questa «logica dei blocchi» e delle rispettive «sfere di influenza». Nata dalla conclusione della seconda guerra mondiale, la tensione tra i due blocchi ha dominato tutto il quarantennio successivo, assumendo ora il carattere di «guerra fredda», ora di «guerre per procura» mediante la strumentalizzazione di conflitti locali, ora tenendo sospesi e angosciati gli animi con la minaccia di una guerra aperta e totale. Se al presente un tale pericolo sembra divenuto più remoto, pur senza essere del tutto scomparso, e se si è pervenuti ad un primo accordo sulla distruzione di un tipo di armamenti nucleari, l'esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro mondiale.

21. Ciò si verifica con effetto particolarmente negativo nelle relazioni internazionali, che riguardano i Paesi in via di sviluppo. Infatti, com'è noto, la tensione tra Oriente ed Occidente non riguarda di per sé un'opposizione tra due diversi gradi di sviluppo, ma piuttosto tra due concezioni dello sviluppo stesso degli uomini e dei popoli, entrambe imperfette e tali da esigere una radicale correzione. Detta opposizione viene trasferita in seno a quei Paesi, contribuendo così ad allargare il fossato, che già esiste sul piano economico tra Nord e Sud ed e conseguenza della distanza tra i due mondi più sviluppati e quelli meno sviluppati. É, questa, una delle ragioni per cui la dottrina sociale della Chiesa assume un atteggiamento critico nei confronti sia del capitalismo liberista sia del collettivismo marxista. Infatti, dal punto di vista dello sviluppo viene spontanea la domanda: in qual modo o in che misura questi due sistemi sono suscettibili di trasformazioni e di aggiornamenti, tali da favorire o promuovere un vero ed integrale sviluppo dell'uomo e dei popoli nella società contemporanea? Di fatto, queste trasformazioni e aggiornamenti sono urgenti e indispensabili per la causa di uno sviluppo comune a tutti.

I Paesi di recente indipendenza, che, sforzandosi di conseguire una propria identità culturale e politica, avrebbero bisogno del contributo efficace e disinteressato dei Paesi più ricchi e sviluppati, si trovano coinvolti_e talora anche travolti _nei conflitti ideologici, che generano inevitabili divisioni al loro interno, fino a provocare in certi casi vere guerre civili. Ciò anche perché gli investimenti e gli aiuti allo sviluppo sono spesso distolti dal proprio fine e strumentalizzati per alimentare i contrasti, al di fuori e contro gli interessi dei Paesi che dovrebbero beneficiarne. Molti di questi diventano sempre più consapevoli del pericolo di cadere vittime di un neo-colonialismo e tentano di sottrarvisi. É tale consapevolezza che ha dato origine, pur tra difficoltà, oscillazioni e talvolta contraddizioni, al Movimento internazionale dei Paesi non allineati, il quale, in ciò che ne forma la parte positiva, vorrebbe effettivamente affermare il diritto di ogni popolo alla propria identità, alla propria indipendenza e sicurezza, nonché alla partecipazione, sulla base dell'eguaglianza e della solidarietà, al godimento dei beni che sono destinati a tutti gli uomini.

22. Fatte queste considerazioni, riesce agevole avere una visione più chiara del quadro degli ultimi venti anni e comprender meglio i contrasti esistenti nella parte Nord del mondo, cioè tra Oriente e Occidente, quale causa non ultima del ritardo o del ristagno del Sud. I Paesi in via di sviluppo, più che trasformarsi in Nazioni autonome, preoccupate del proprio cammino verso la giusta partecipazione ai beni ed ai servizi destinati a tutti, diventano pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco. Ciò si verifica spesso anche nel campo dei mezzi di comunicazione sociale, i quali, essendo per lo più gestiti da centri nella parte Nord del mondo, non tengono sempre nella dovuta considerazione le priorità ed i problemi propri di questi Paesi né rispettano la loro fisionomia culturale, ma non di rado impongono una visione distorta della vita e dell'uomo e cosi non rispondono alle esigenze del vero sviluppo.

Ognuno dei due blocchi nasconde dentro di sé, a suo modo, la tendenza all'imperialismo, come si dice comunemente, o a forme di neo-colonialismo: tentazione facile, nella quale non di rado si cade, come insegna la storia anche recente. É questa situazione anormale_conseguenza di una guerra e di una preoccupazione ingigantita, oltre il lecito, da motivi della propria sicurezza_che mortifica lo slancio di cooperazione solidale di tutti per il bene comune del genere umano, a danno soprattutto di popoli pacifici, bloccati nel loro diritto di accesso ai beni destinati a tutti gli uomini. Vista così, la presente divisione del mondo è di diretto ostacolo alla vera trasformazione delle condizioni di sottosviluppo nei Paesi in via di sviluppo o in quelli meno avanzati. I popoli, però, non sempre si rassegnano alla loro sorte. Inoltre, gli stessi bisogni di un'economia soffocata dalle spese militari, come dal burocratismo e dall'intrinseca inefficienza, sembrano adesso favorire dei processi che potrebbero rendere meno rigida la contrapposizione e più facile l'avvio di un proficuo dialogo e di una vera collaborazione per la pace.

23. L'affermazione dell'Enciclica Populorum Progressio, secondo cui le risorse e gli investimenti destinati alla produzione delle armi debbono essere impiegati per alleviare la miseria delle popolazioni indigenti, (41) rende più urgente l'appello a superare la contrapposizione tra i due blocchi. Oggi, in pratica tali risorse servono a mettere ciascuno dei due blocchi in condizione di potersi avvantaggiare sull'altro, e garantire così la propria sicurezza. Questa distorsione, che è un vizio d'origine, rende difficile a quelle Nazioni, che sotto l'aspetto storico, economico e politico hanno la possibilità di svolgere un ruolo di guida, l'adempiere adeguatamente il loro dovere di solidarietà in favore dei popoli che aspirano al pieno sviluppo. É qui opportuno affermare, e non sembri un'esagerazione, che una funzione di guida tra le Nazioni si può giustificare solo con la possibilità e la volontà di contribuire, in maniera ampia e generosa, al bene comune. Una Nazione che cedesse, più o meno consapevolmente, alla tentazione di chiudersi in se stessa, venendo meno alle responsabilità conseguenti ad una superiorità nel concerto delle Nazioni, mancherebbe gravemente ad un suo preciso dovere etico. E questo e facilmente ravvisabile nella contingenza storica, nella quale i credenti intravedono le disposizioni della divina Provvidenza, pronta a servirsi delle Nazioni per la realizzazione dei suoi progetti, così come a rendere «vani i disegni dei popoli» (Sal32,10). Quando l'Occidente dà l'impressione di abbandonarsi a forme di crescente ed egoistico isolamento, e l'Oriente a sua volta, sembra ignorare per discutibili motivi il dovere di cooperazione nell'impegno di alleviare la miseria dei popoli, non ci si trova soltanto di fronte ad un tradimento delle legittime attese dell'umanità, foriero di imprevedibili conseguenze ma ad una vera e propria defezione rispetto ad un obbligo morale.

24. Se la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno rispetto alle vere necessità degli uomini e all'impiego dei mezzi adatti a soddisfarle, non lo è meno il commercio delle stesse armi. Anzi, a proposito di questo, è necessario aggiungere che il giudizio morale è ancora più severo. Come si sa, si tratta di un commercio senza frontiere capace di oltrepassare perfino le barriere dei blocchi. Esso sa superare la divisione tra Oriente e Occidente e, soprattutto, quella tra Nord e Sud sino a inserirsi_e questo è più grave_tra le diverse componenti della zona meridionale del mondo. Ci troviamo così di fronte a uno strano fenomeno: mentre gli aiuti economici e i piani di sviluppo si imbattono nell'ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato, le armi di qualsiasi provenienza circolano con quasi assoluta libertà nelle varie parti del mondo. E nessuno ignora_come rileva il recente Documento della Pontificia Commissione Iustitia et Pax sul debito internazionale (42) _ che in certi casi i capitali, dati in prestito dal mondo dello sviluppo, son serviti ad acquistare armamenti nel mondo non sviluppato. Se a tutto questo si aggiunge il pericolo tremendo, universalmente conosciuto, rappresentato dalle armi atomiche accumulate fino all'incredibile, la conclusione logica appare questa: il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che conduca tutti verso una vita «più umana» _ come auspicava l'Enciclica Populorum Progressio (43) _, sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte. Le conseguenze di tale stato di cose si manifestano nell'acuirsi di una piaga tipica e rivelatrice degli squilibri e dei conflitti del mondo contemporaneo: i milioni di rifugiati, a cui guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo hanno sottratto la casa, il lavoro, la famiglia e la patria. La tragedia di queste moltitudini si riflette nel volto disfatto di uomini, donne e bambini, che, in un mondo diviso e divenuto inospitale, non riescono a trovare più un focolare.

Né si possono chiudere gli occhi su un'altra dolorosa piaga del mondo odierno: il fenomeno del terrorismo, inteso come proposito di uccidere e distruggere indistintamente uomini e beni e di creare appunto un clima di terrore e di insicurezza, spesso anche con la cattura di ostaggi. Anche quando si adduce come motivazione di questa pratica inumana una qualsiasi ideologia o la creazione di una società migliore, gli atti di terrorismo non sono mai giustificabili. Ma tanto meno lo sono quando, come accade oggi, tali decisioni e gesti, che diventano a volte vere stragi, certi rapimenti di persone innocenti ed estranee ai conflitti si prefiggono un fine propagandistico a vantaggio della propria causa; ovvero, peggio ancora, sono fine a se stessi, sicché si uccide soltanto per uccidere. Di fronte a tanto orrore e a tanta sofferenza mantengono sempre il loro valore le parole che ho pronunciato alcuni anni fa e che vorrei ripetere ancora: «Il Cristianesimo proibisce [...] il ricorso alle vie dell'odio, all'assassinio di persone indifese, ai metodi del terrorismo». (44)

25. A questo punto occorre fare un riferimento al problema demografico ed al modo di parlarne oggi, seguendo quanto Paolo VI ha indicato nell'Enciclica (45) ed io stesso ho esposto diffusamente nell'Esortazione Apostolica Familiaris Consorzio. (46) Non si può negare l'esistenza, specie nella zona Sud del nostro pianeta, di un problema demografico tale da creare difficoltà allo sviluppo. É bene aggiungere subito che nella zona Nord questo problema si pone con connotazioni inverse: qui, a preoccupare, è la caduta del tasso di natalità, con ripercussioni sull'invecchiamento della popolazione, incapace perfino di rinnovarsi biologicamente. Fenomeno, questo, in grado di ostacolare di per sé lo sviluppo. Come non è esatto affermare che tali difficoltà provengono soltanto dalla crescita demografica, così non è neppure dimostrato che ogni crescita demografica sia incompatibile con uno sviluppo ordinato.

D'altra parte, appare molto allarmante costatare in molti Paesi il lancio di campagne sistematiche contro la natalità per iniziativa dei loro governi, in contrasto non solo con l'identità culturale e religiosa degli stessi Paesi, ma anche con la natura del vero sviluppo. Avviene spesso che tali campagne sono dovute a pressioni e sono finanziate da capitali provenienti dall'estero e, in qualche caso, ad esse sono addirittura subordinati gli aiuti e l'assistenza economico-finanziaria. In ogni caso, si tratta di assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle persone interessate, uomini e donne, sottoposte non di rado a intolleranti pressioni, comprese quelle economiche, per piegarle a questa forma nuova di oppressione. Sono le popolazioni più povere a subirne i maltrattamenti: e ciò finisce con l'ingenerare, a volte, la tendenza a un certo razzismo, o col favorire l'applicazione di certe forme, egualmente razzistiche, di eugenismo. Anche questo fatto, che reclama la condanna più energica, è indizio di un concetto errato e perverso del vero sviluppo umano.

26. Simile panorama prevalentemente negativo, della reale situazione dello sviluppo del mondo contemporaneo, non sarebbe completo se non si segnalasse la coesistenza di aspetti positivi.

La prima nota positiva è la piena consapevolezza, in moltissimi uomini e donne, della dignità propria e di ciascun essere umano. Tale consapevolezza si esprime, per esempio, con la preoccupazione dappertutto più viva per il rispetto dei diritti umani e col più deciso rigetto delle loro violazioni. Ne è segno rivelatore il numero delle associazioni private, alcune di portata mondiale, di recente istituzione, e quasi tutte impegnate a seguire con grande cura e lodevole obiettività gli avvenimenti internazionali in un campo così delicato. Su questo piano bisogna riconoscere l'influsso esercitato dalla Dichiarazione dei Diritti Umani, promulgata circa quaranta anni fa dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. La sua stessa esistenza e la sua progressiva accettazione da parte della comunità internazionale sono già segno di una consapevolezza che si va affermando. Lo stesso bisogna dire, sempre nel campo dei diritti umani, per gli altri strumenti giuridici della medesima Organizzazione delle Nazioni Unite o di altri Organismi internazionali. (47) La consapevolezza, di cui parliamo, non va riferita soltanto agli individui, ma anche alle Nazioni e ai popoli, che, quali entità aventi una determinata identità culturale, sono particolarmente sensibili alla conservazione, alla libera gestione e alla promozione del loro prezioso patrimonio.

Contemporaneamente, nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale. Oggi forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti. Dal profondo dell'angoscia, della paura e dei fenomeni di evasione come la droga, tipici del mondo contemporaneo, emerge via via l'idea che il bene, al quale siamo tutti chiamati, e la felicità, a cui aspiriamo, non si possono conseguire senza lo sforzo e l'impegno di tutti, nessuno escluso, e con la conseguente rinuncia al proprio egoismo.

Qui s'inserisce anche, come segno del rispetto per la vita--nonostante tutte le tentazioni di distruggerla, dall'aborto all'eutanasia--, la preoccupazione concomitante per la pace; e, di nuovo, la coscienza che questa è indivisibile: o è di tutti, o non è di nessuno. Una pace che esige sempre più il rispetto rigoroso della giustizia e, conseguentemente, l'equa distribuzione dei frutti del vero sviluppo. (48)

Tra i segnali positivi del presente occorre registrare ancora la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l'integrità e i ritmi della natura e di tenerne conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso. É quella che oggi va sotto il nome di preoccupazione ecologica. É giusto riconoscere pure l'impegno di uomini di governo, politici, economisti, sindacalisti, personalità della scienza e funzionari internazionali _molti dei quali ispirati dalla fede religiosa_ a risolvere generosamente, con non pochi sacrifici personali, i mali del mondo e ad adoperarsi con ogni mezzo, perché un sempre maggior numero di uomini e donne possa godere del beneficio della pace e di una qualità di vita degna di questo nome. A ciò contribuiscono in non piccola misura le grandi Organizzazioni internazionali ed alcune Organizzazioni regionali, i cui sforzi congiunti consentono interventi di maggiore efficacia. É stato anche per questi contributi che alcuni Paesi del Terzo Mondo, nonostante il peso di numerosi condizionamenti negativi, sono riusciti a raggiungere una certa autosufficienza alimentare, o un grado di industrializzazione che consente di sopravvivere degnamente e di garantire fonti di lavoro alla popolazione attiva. Pertanto, non tutto è negativo nel mondo contemporaneo, e non potrebbe essere altrimenti, perché la Provvidenza del Padre celeste vigila con amore perfino sulle nostre preoccupazioni quotidiane (Mt6,25); (Mt10,23); (Lc12,6); (Lc22,1); anzi i valori positivi, che abbiamo rilevato, attestano una nuova preoccupazione morale soprattutto in ordine ai grandi problemi umani, quali sono lo sviluppo e la pace. Questa realtà mi spinge a portare la riflessione sulla vera natura dello sviluppo dei popoli, in linea con l'Enciclica di cui celebriamo l'anniversario, e come omaggio al suo insegnamento.

CAPITOLO IV

L'AUTENTICO SVILUPPO UMANO

27. Lo sguardo che l'Enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita. (49) Simile concezione, legata ad una nozione di «progresso» dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di «sviluppo», (50) adoperata in senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell'umanità.

28. Al tempo stesso, però, è entrata in crisi la stessa concezione «economica» o «economicista», legata al vocabolo sviluppo. Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di beni e dl servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica, compresa l'informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al contrario, l'esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell'uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo. Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante costatazione del più recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell'eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del «possesso» e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre ancora più perfette. É la cosiddetta civiltà dei «consumi», o consumismo, che comporta tanti «scarti» e «rifiuti». Un oggetto posseduto, e già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza tener conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano più povero. Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende subito che _se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari e l'offerta incessante e tentatrice dei prodotti _quanto più si possiede tanto più si desidera mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate.

L'Enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d'oggi così frequentemente accentuata, tra l'«avere» e l'«essere», (51) in precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II. (52) L'«avere» oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all'arricchimento del suo «essere», cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra «essere» e «avere», il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore dell'«essere» non deve trasformarsi necessariamente in un'antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. É l'ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti . Ecco allora il quadro: ci sono quelli _ i pochi che possiedono molto _ che non riescono veramente ad «essere», perché, per un capovolgimento della gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell'«avere»; e ci sono quelli _ i molti che possiedono poco o nulla _, i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il male non consiste nell'«avere» in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso della qualità e dell'ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all'«essere» dell'uomo ed alla sua vera vocazione. Con ciò resta dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la disponibilità di beni indispensabili per «essere», tuttavia non si esaurisce in tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, «più umano», che_senza negare le esigenze economiche_sia in grado di mantenersi all'altezza dell'autentica vocazione dell'uomo e della donna, sono state descritte da Paolo VI. (53)

29. Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo e necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza (Gen1,26). Natura corporale e spirituale, simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai due elementi: la terra, con cui Dio plasma il fisico dell'uomo, e l'alito di vita, soffiato nelle sue narici (Gen2,7). L'uomo così viene ad avere una certa affinità con le altre creature: è chiamato a utilizzarle a occuparsi di esse e sempre secondo la narrazione della Genesi (Gen2,15) è posto nel giardino col compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri collocati da Dio sotto il suo dominio (Gen1,25). Ma nello stesso tempo l'uomo deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive limiti nell'uso e nel dominio delle cose (Gen2,16), così come gli promette l'immortalità (Gen2,9); (Sap2,23). L'uomo, pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera affinità anche con lui.

Sulla base di questo insegnamento, lo sviluppo non può consistere soltanto nell'uso, nel dominio e nel possesso indiscriminato delle cose create e dei prodotti dell'industria umana, ma piuttosto nel subordinare il possesso, il dominio e l'uso alla somiglianza divina dell'uomo e alla sua vocazione all'immortalità. Ecco la realtà trascendente dell'essere umano, la quale appare partecipata fin dall'origine ad una coppia di uomo e donna (Gen1,27) ed è quindi fondamentalmente sociale.

30. Secondo la Sacra Scrittura, dunque, la nozione di sviluppo non è soltanto «laica» o «profana», ma appare anche, pur con una sua accentuazione socio-economica, come l'espressione moderna di un'essenziale dimensione della vocazione dell'uomo. L'uomo, infatti, non è stato creato, per così dire, immobile e statico. La prima raffigurazione, che di lui offre la Bibbia, lo presenta senz'altro come creatura e immagine, definita nella sua profonda realtà dall'origine e dall'affinità, che lo costituiscono. Ma tutto questo immette nell'essere umano, uomo e donna, il germe e l'esigenza di un compito originario da svolgere, sia ciascuno individualmente sia come coppia. Il compito è di «dominare» sulle altre creature, «coltivare il giardino», ed è da assolvere nel quadro dell'ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell'immagine ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento (Gen1,26); (Gen2,12); (Sap9,2). Quando l'uomo disobbedisce a Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la natura gli si ribella e non lo riconosce più come «signore», perché egli ha appannato in sé l'immagine divina. L'appello al possesso e all'uso dei mezzi creati rimane sempre valido, ma dopo il peccato l'esercizio ne diviene arduo e carico di sofferenze (Gen3,17). Infatti, il successivo capitolo della Genesi ci mostra la discendenza di Caino, la quale costruisce «una città», si dedica alla pastorizia, si dà alle arti (la musica) e alla tecnica (la metallurgia), mentre al tempo stesso si comincia «ad invocare il nome del Signore» (Gen4,17). La storia del genere umano, delineata dalla Sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una storia di realizzazioni continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo dal peccato, si ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla vocazione divina, assegnata sin dal principio all'uomo e alla donna (Gen1,26) e impressa nell'immagine, da loro ricevuta.

É logico concludere, almeno da parte di quanti credono nella Parola di Dio, che lo «sviluppo» di oggi deve essere visto come un momento della storia iniziata con la creazione e di continuo messa in pericolo a motivo dell'infedeltà alla volontà del Creatore, soprattutto per la tentazione dell'idolatria; ma esso corrisponde fondamentalmente alle premesse iniziali. Chi volesse rinunciare al compito, difficile ma esaltante, di elevare la sorte di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, sotto il pretesto del peso della lotta e dello sforzo incessante di superamento, o addirittura per l'esperienza della sconfitta e del ritorno al punto di partenza, verrebbe meno alla volontà di Dio creatore. Sotto questo aspetto nell'Enciclica Laborem exercens ho fatto riferimento alla vocazione dell'uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che e sempre lui il protagonista dello sviluppo. (54) Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella parabola dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi osò nascondere il dono ricevuto: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [...]. Toglietegli, dunque, il talento e datelo a chi ha dieci talenti» (Mt25,26). A noi, che riceviamo i doni di Dio per farli fruttificare, tocca «seminare» e «raccogliere». Se non lo faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo. L'approfondimento di queste severe parole potrà spingerci a impegnarci con più decisione nel dovere, oggi per tutti urgente di collaborare allo sviluppo pieno degli altri: «Sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini». (55)

31. La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è «il primogenito di tutta la creazione» e che «tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui» (Col1,15). Infatti, ogni cosa «ha consistenza in lui», perché «piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col1,20). In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, «immagine» perfetta del Padre, e che culmina in lui, «primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col1,15), s'inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che «risiede nel Signore» e che egli comunica «al suo corpo, che è la Chiesa» (Col1,18); (Ef1,22), mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane è vinto e riscattato dalla «riconciliazione» operata da Cristo (Col1, 20).

Qui le prospettive si allargano. Il sogno di un «progresso indefinito» si ritrova trasformato radicalmente dall'ottica nuova aperta dalla fede cristiana, assicurandoci che tale progresso è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin dal principio di rendere l'uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto, «nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati» (Ef1,7), e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più grande, (56) che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe realizzare. Possiamo dire allora_mentre ci dibattiamo in mezzo alle oscurità e alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo_che un giorno «questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità» (1Cor15,54), quando il Signore «consegnerà il Regno a Dio Padre» (1Cor15,24) e tutte le opere e azioni, degne dell'uomo, saranno riscattate.

La concezione della fede inoltre, mette bene in chiaro le ragioni che spingono la Chiesa a preoccuparsi della problematica dello sviluppo, a considerarlo un dovere del suo ministero pastorale, a stimolare la riflessione di tutti circa la natura e le caratteristiche dell'autentico sviluppo umano. Col suo impegno essa desidera, da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare tutte le cose alla pienezza che abita in Cristo (Col1,19), e che egli comunicò al suo corpo, e dall'altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale di «sacramento», ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano». (57)

Alcuni Padri della Chiesa si sono ispirati a tale visione per elaborare a loro volta in forme originali, una concezione circa il significato della storia e il lavoro umano, come indirizzato a un fine che lo supera e definito sempre dalla relazione con l'opera di Cristo. In altre parole, è possibile ritrovare nell'insegnamento patristico una visione ottimistica della storia e del lavoro, ossia del valore perenne delle autentiche realizzazioni umane, in quanto riscattate dal Cristo e destinate al Regno promesso. (58) Così fa parte dell'insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione_essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri_ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col «superfluo», ma anche col «necessario». Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. (59) Come si è già notato, ci viene qui indicata una «gerarchia di valori»_nel quadro del diritto di proprietà_tra l'«avere» e l'«essere», specie quando l'«avere» di alcuni può risolversi a danno dell'«essere» di tanti altri. Nella sua Enciclica Papa Paolo VI sta nella linea di tale insegnamento, ispirandosi alla Costituzione pastorale Gaudium et spes.(60) Per parte mia, desidero insistere ancora sulla sua gravità e urgenza, implorando dal Signore forza a tutti i cristiani per poter passare fedelmente all'applicazione pratica.

32. L'obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto individuale, né tanto meno individualistico, come se fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, cosi ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti. In questa ricerca dello sviluppo integrale dell'uomo possiamo fare molto anche con i credenti delle altre religioni, come del resto si sta facendo in diversi luoghi. La collaborazione allo sviluppo di tutto l'uomo e di ogni uomo, infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al tempo stesso, essere comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e Sud; o, per adoperare il termine oggi in uso, ai diversi «mondi». Se, al contrario, si cerca di realizzarlo in una sola parte, o in un solo mondo, esso è fatto a spese degli altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono ignorati, si ipertrofizza e si perverte. I popoli o le Nazioni hanno anch'essi diritto al proprio pieno sviluppo, che, se implica_come si è detto_gli aspetti economici e sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e l'apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria fede religiosa.

33. Né sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli. Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggior chiarezza l'intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo. L'intrinseca connessione tra sviluppo autentico e rispetto dei diritti dell'uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale: la vera elevazione dell'uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno non si raggiunge sfruttando solamente l'abbondanza dei beni e dei servizi, o disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull'identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto_disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale_ risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo, richiamando l'attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: «Qual vantaggio avrà l'uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?» (Mt16,26).

Un vero sviluppo, secondo le esigenze proprie dell'essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva coscienza del valore dei diritti di tutti e di ciascuno nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno all'utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica.

Sul piano interno di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell'esistenza; i diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base, o «cellula della società»; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell'essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso. Sul piano internazionale, ossia dei rapporti tra gli Stati o, secondo il linguaggio corrente, tra i vari «mondi», è necessario il pieno rispetto dell'identità di ciascun popolo con le sue caratteristiche storiche e culturali. É indispensabile, altresì, come già auspicava l'Enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l'eguale diritto «ad assidersi alla mensa del banchetto comune»», (61) invece di giacere come Lazzaro fuori della porta, mentre «i cani vengono a leccare le sue piaghe» (Lc16,21). Sia i popoli che le persone singole debbono godere dell'eguaglianza fondamentale, (62) su cui si basa, per esempio, la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno sviluppo.

Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai l'una e l'altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati quando c'è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall'ordine della verità e del bene, propri della creatura umana. Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell'uomo l'immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l'impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori dell'osservanza e del rispetto della dignità unica di questa «immagine». In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull'amore di Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società. Ecco la «civiltà dell'amore», di cui parlava spesso il Papa Paolo VI.

34. Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il «cosmo». Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere. La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati _ animali, piante, elementi naturali _come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch'è appunto il cosmo.

La seconda considerazione, invece, si fonda sulla costatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.

La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione e, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione.

Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di «usare e abusare», o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di «mangiare il frutto dell'albero» (Gen2,16), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni_relative all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata _, le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo sviluppo. (63)

CAPITOLO V

UNA LETTURA TEOLOGICA DEI PROBLEMI MODERNI

35. Alla luce dello stesso essenziale carattere morale proprio dello sviluppo, sono da considerare anche gli ostacoli che ad esso si oppongono. Se durante gli anni trascorsi dalla pubblicazione dell'Enciclica paolina lo sviluppo non c'è stato_o c'è stato in misura scarsa, irregolare, se non addirittura contraddittoria_, le ragioni non possono essere di natura soltanto economica. Come si e già accennato, vi intervengono anche moventi politici. Le decisioni propulsive o frenanti lo sviluppo dei popoli, infatti, non sono che fattori di carattere politico. Per superare i meccanismi perversi, sopra ricordati, e sostituirli con nuovi, più giusti e conformi al bene comune dell'umanità, è necessaria un'efficace volontà politica. Purtroppo, dopo aver analizzato la situazione, occorre concludere che essa è stata insufficiente.

In un documento pastorale, come il presente, un'analisi limitata esclusivamente alle cause economiche e politiche del sottosviluppo (e, fatti i debiti riferimenti, anche del cosiddetto supersviluppo) sarebbe incompleta. É necessario, perciò, individuare le cause di ordine morale che, sul piano del comportamento degli uomini considerati persone responsabili, interferiscono per frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento. Parimenti, quando siano disponibili risorse scientifiche e tecniche, che con le necessarie e concrete decisioni di ordine politico debbono contribuire finalmente a incamminare i popoli verso un vero sviluppo, il superamento dei maggiori ostacoli avverrà soltanto in forza di determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, s'ispireranno ai principi della fede con l'aiuto della grazia divina.

36. É da rilevare, pertanto, che un mondo diviso in blocchi, sostenuti da ideologie rigide, dove, invece dell'interdipendenza e della solidarietà, dominano differenti forme di imperialismo, non può che essere un mondo sottomesso a «strutture di peccato». La somma dei fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all'esigenza di favorirlo, dà l'impressione di creare, in persone e istituzioni, un ostacolo difficile da superare. (64) Se la situazione di oggi è da attribuire a difficoltà di diversa indole, non è fuori luogo parlare di «strutture di peccato», le quali_come ho affermato nell'Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia_si radicano nel peccato personale e, quindi, son sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. (65) E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.

«Peccato» e «strutture di peccato» sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono. Si può parlare certo di «egoismo» e di «corta veduta»; si può fare riferimento a «calcoli politici sbagliati», a «decisioni economiche imprudenti». E in ciascuna di tali valutazioni si nota un'eco di natura etico-morale. La condizione dell'uomo è tale da rendere difficile un'analisi più profonda delle azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o nell'altra, giudizi o riferimenti di ordine etico. Questa valutazione è di per sé positiva, specie se diventa coerente fino in fondo e se si basa sulla fede in Dio e sulla sua legge, che ordina il bene e proibisce il male.

In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il riferimento formale al «peccato» e alle «strutture di peccato». Secondo quest'ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte Santo, il suo progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio ricco in misericordia, redentore dell'uomo, Signore e datore della vita, esige dagli uomini atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni o omissioni nei riguardi del prossimo. Si ha qui un riferimento alla «seconda tavola» dei dieci Comandamenti (Es20,12); (Dt5,16): con l'inosservanza di questi si offende Dio e si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo. S'interferisce anche nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce.

37. A questa analisi generale di ordine religioso si possono aggiungere alcune considerazioni particolari, per notare che tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le «strutture» che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e dall'altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l'espressione: «a qualsiasi prezzo». In altre parole, siamo di fronte all'assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze. Anche se di per sé sono separabili, sicché l'uno potrebbe stare senza l'altro, entrambi gli atteggiamenti si ritrovano_nel panorama aperto davanti ai nostri occhi_indissolubilmente uniti, sia che predomini l'uno o l'altro. Ovviamente, a cader vittime di questo duplice atteggiamento di peccato non sono solo gli individui. possono essere anche le Nazioni e i blocchi. E ciò favorisce di più l'introduzione delle «strutture di peccato», di cui ho parlato. Se certe forme di «imperialismo» moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall'economia o dalla politica si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell'ideologia, della classe, della tecnologia. Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia la vera natura del male a cui ci si trova di fronte nella questione dello «sviluppo dei popoli»: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a «strutture di peccato». Diagnosticare così il male significa identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo.

38. É un cammino lungo e complesso e, per di più, tenuto sotto costante minaccia sia per l'intrinseca fragilità dei propositi e delle realizzazioni umane, sia per la mutabilità delle circostanze esterne tanto imprevedibili. Bisogna, tuttavia, avere il coraggio d'intraprenderlo e, dove sono stati fatti alcuni passi o percorsa una parte del tragitto, andare fino in fondo. Nel quadro di tali riflessioni, la decisione di mettersi sulla strada o di continuare la marcia comporta, innanzitutto, un valore morale che gli uomini e le donne credenti riconoscono come richiesto dalla volontà di Dio, unico vero fondamento di un'etica assolutamente vincolante.

É da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l'essere umano, in valori assoluti. Perciò, è sperabile che quanti, in una misura o l'altra, sono responsabili di una «vita più umana» verso i propri simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto dell'urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che definiscono I rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la natura. in virtù di valori superiori, come il bene comune, o, per riprendere la felice espressione dell'Enciclica Populorum Progressio, il pieno sviluppo «di tutto l'uomo e di tutti gli uomini». (66)

Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso significato teologico della parola «peccato», il cambiamento di condotta o di mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, «conversione» (Mc1,15); (Lc13,3); (Is30,15). Questa conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. É Dio, nelle «cui mani sono i cuori dei potenti», (67) e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez36,26). Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell'interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza, acquistando così connotazione morale.

Si tratta, innanzitutto, dell'interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l'interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come «virtù»», è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e «strutture di peccato» si vincono solo_presupposto l'aiuto della grazia divina_con un atteggiamento diametralmente opposto: l'impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a «perdersi» a favore dell'altro invece di sfruttarlo e a «servirlo» invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (Mt10,40); (Mt20,25); (Mc10,42); (Lc22, 25).

39. L'esercizio della solidarietà all'interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri. Segni positivi nel mondo contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei poveri tra di loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni pubbliche nella scena sociale, senza far ricorso alla violenza, ma prospettando i propri bisogni e i propri diritti di fronte all'inefficienza o alla corruzione dei pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei gruppi nel quadro del bene comune. Lo stesso criterio si applica, per analogia, nelle relazioni internazionali. L'interdipendenza deve trasformarsi in solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a tutti: ciò che l'industria umana produce con la lavorazione delle materie prime, col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.

Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema internazionale, che si regga sul fondamento dell'eguaglianza di tutti i popoli e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi economicamente più deboli, o rimasti al limite della sopravvivenza, con l'assistenza degli altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere messi in grado di dare anch'essi un contributo al bene comune con i loro tesori di umanità e di cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre. La solidarietà ci aiuta a vedere l'«altro»_persona, popolo o Nazione_non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro «simile», un «aiuto» (Gen2,18), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio. Di qui l'importanza di risvegliare la coscienza religiosa degli uomini e dei popoli. Sono così esclusi lo sfruttamento, l'oppressione, l'annientamento degli altri. Questi fatti, nella presente divisione del mondo in blocchi contrapposti, vanno a confluire nel pericolo di guerra e nell'eccessiva preoccupazione per la propria sicurezza a spese non di rado dell'autonomia, della libera decisione della stessa integrità territoriale delle Nazioni più deboli, che son comprese nelle cosiddette «zone d'influenza» o nelle «cinture di sicurezza ». Le «strutture di peccato» e i peccati, che in esse sfociano, si oppongono con altrettanta radicalità alla pace e allo sviluppo, perché lo sviluppo, secondo la nota espressione dell'Enciclica paolina, è «il nuovo nome della pace». (68)

In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l'interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione. Questo è, appunto, l'atto proprio della solidarietà tra individui e Nazioni. Il motto del pontificato del mio venerato predecessore Pio XII era Opus iustitiae pax, la pace come frutto della giustizia. Oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica (Is32,17); (Gc3,18). Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della solidarietà. Il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruirne uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore.

40. La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana. Già nella precedente esposizione era possibile intravedere numerosi punti di contatto tra essa e la carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv13,35). Alla luce della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l'azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: «Dare la vita per i propri fratelli» (1Gv3,16). Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, «figli nel Figlio», della presenza e dell'azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola «comunione». Tale comunione, specificamente cristiana, gelosamente custodita, estesa e arricchita, con l'aiuto del Signore, è l'anima della vocazione della Chiesa ad essere «sacramento», nel senso già indicato. La solidarietà, perciò, deve contribuire all'attuazione di questo disegno divino tanto sul piano individuale, quanto su quello della società nazionale e internazionale. I «meccanismi perversi» e le «strutture di peccato», di cui abbiamo parlato, potranno essere vinte solo mediante l'esercizio della solidarietà umana e cristiana, a cui la Chiesa invita e che promuove instancabilmente. Solo così tante energie positive potranno pienamente sprigionarsi a vantaggio dello sviluppo e della pace. Molti Santi canonizzati dalla Chiesa offrono mirabili testimonianze di tale solidarietà e possono servire di esempio nelle difficili circostanze presenti. Fra tutti desidero ricordare san Pietro Claver, col suo servizio agli schiavi di Cartagena de Indias, e san Massimiliano Maria Kolbe, con l'offerta della sua vita in favore di un prigioniero a lui sconosciuto nel campo di concentramento di Auschwitz-Oswiecim.

CAPITOLO VI

ALCUNI ORIENTAMENTI PARTICOLARI

41. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo in quanto tale, come affermò già Papa Paolo VI nella sua Enciclica. (69) Essa, infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o per gli altri, purché la dignità dell'uomo sia debitamente rispettata e promossa ed a lei stessa sia lasciato lo spazio necessario per esercitare il suo ministero nel mondo. Ma la Chiesa è «esperta in umanità», (70) e ciò la spinge a estendere necessariamente la sua missione religiosa ai diversi campi in cui uomini e donne dispiegano le loro attività, in cerca della felicità, pur sempre relativa, che è possibile in questo mondo, in linea con la loro dignità di persone. Sull'esempio dei miei predecessori, debbo ripetere che non può ridursi a problema «tecnico» ciò che, come lo sviluppo autentico, tocca la dignità dell'uomo e dei popoli. Così ridotto, lo sviluppo sarebbe svuotato del suo vero contenuto e si compirebbe un atto di tradimento verso l'uomo e i popoli, al cui servizio esso deve essere messo. Ecco perché la Chiesa ha una parola da dire oggi, come venti anni fa, ed anche in futuro, intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell'autentico sviluppo ed agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono. Così facendo, la Chiesa adempie la missione di evangelizzare, poiché dà il suo primo contributo alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta. (71)

Quale strumento per raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina sociale. Nell'odierna difficile congiuntura, per favorire sia la corretta impostazione dei problemi che la loro migliore soluzione, potrà essere di grande aiuto una conoscenza più esatta e una diffusione più ampia dell'«insieme dei principi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttrici di azione» proposti dal suo insegnamento. (72) Si avvertirà così immediatamente che le questioni che ci stanno di fronte sono innanzitutto morali. e che né l'analisi del problema dello sviluppo in quanto tale, ne i mezzi per superare le presenti difficoltà possono prescindere da tale essenziale dimensione. La dottrina sociale della Chiesa non è una «terza via» tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un'ideologia, ma l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell'ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale.

L'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l'«impegno per la giustizia» secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno. All'esercizio del ministero dell'evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei mali e delle ingiustizie. Ma conviene chiarire che l'annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta.

42. La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II, (73) con le più recenti Encicliche (74) e, in particolare, con quella che stiamo ricordando. (75) Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal Magistero in questi anni. Desidero qui segnalarne uno: l'opzione, o amore preferenziale per i poveri. É, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, (76) questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell'esistenza di queste realtà. L'ignorarle significherebbe assimilarci al «ricco epulone», che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (77) (Lc16,19).

La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l'obbligo di tener sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà. Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente sviluppati.

Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. (78) Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava «un'ipoteca sociale», (79) cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni. Né sarà da trascurare, in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì, all'iniziativa economica.

43. La preoccupazione stimolante verso i poveri _ i quali, secondo la significativa formula, sono «i poveri del Signore» (80) _ deve tradursi, a tutti i livelli, in atti concreti fino a giungere con decisione a una serie di necessarie riforme. Dipende dalle singole situazioni locali individuare le più urgenti ed i modi per realizzarle; ma non bisogna dimenticare quelle richieste dalla situazione di squilibrio internazionale, sopra descritto. Al riguardo, desidero ricordare in particolare: la riforma del sistema internazionale di commercio, ipotecato dal protezionismo e dal crescente bilateralismo; la riforma del sistema monetario e finanziario mondiale, oggi riconosciuto insufficiente; la questione degli scambi delle tecnologie e del loro uso appropriato; la necessità di una revisione della struttura delle Organizzazioni internazionali esistenti, nella cornice di un ordine giuridico internazionale. Il sistema internazionale di commercio oggi discrimina frequentemente i prodotti delle industrie incipienti dei Paesi in via di sviluppo, mentre scoraggia i produttori di materie prime. Esiste, peraltro, una sorta di divisione internazionale del lavoro, per cui i prodotti a basso costo di alcuni Paesi, privi di leggi efficaci sul lavoro o troppo deboli per applicarle, sono venduti in altre parti del mondo con considerevoli guadagni per le imprese dedite a questo tipo di produzione, che non conosce frontiere. Il sistema monetario e finanziario mondiale si caratterizza per l'eccessiva fluttuazione dei metodi di scambio e di interesse, a detrimento della bilancia dei pagamenti e della situazione di indebitamento dei Paesi poveri. Le tecnologie e i loro trasferimenti costituiscono oggi uno dei principali problemi dell'interscambio internazionale e dei gravi danni, che ne derivano. Non sono rari i casi di Paesi in via di sviluppo, a cui si negano le tecnologie necessarie o si inviano quelle inutili. Le Organizzazioni internazionali, secondo l'opinione di molti, sembrano trovarsi a un momento della loro esistenza, in cui i meccanismi di funzionamento, i costi operativi e la loro efficacia richiedono un attento riesame ed eventuali correzioni. Evidentemente, un processo così delicato non si potrà ottenere senza la collaborazione di tutti. Esso suppone il superamento delle rivalità politiche e la rinuncia ad ogni volontà di strumentalizzare le stesse Organizzazioni, che hanno per unica ragion d'essere il bene comune. Le Istituzioni e le Organizzazioni esistenti hanno operato bene a favore dei popoli. Tuttavia l'umanità, di fronte a una fase nuova e più difficile dei suo autentico sviluppo, ha oggi bisogno di un grado superiore di ordinamento internazionale, a servizio delle società, delle economie e delle culture del mondo intero.

44. Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d'iniziativa da parte degli stessi Paesi che ne hanno bisogno. (81) Ciascuno di essi deve agire secondo le proprie responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti ed operando in collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione. Ciascuno deve scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria libertà. Ciascuno dovrà rendersi capace di iniziative rispondenti alle proprie esigenze di società. Ciascuno dovrà pure rendersi conto delle reali necessità, nonché dei diritti e dei doveri che gli impongono di risolverle. Lo sviluppo dei popoli inizia e trova l'attuazione più adeguata nell'impegno di ciascun popolo per il proprio sviluppo, in collaborazione con gli altri. É importante allora che le stesse Nazioni in via di sviluppo favoriscano l'autoaffermazione di ogni cittadino mediante l'accesso a una maggiore cultura ed a una libera circolazione delle informazioni. Tutto quanto potrà favorire l'alfabetizzazione e l'educazione di base che l'approfondisce e completa, come proponeva l'Enciclica Populorum Progressio (82) _ mete ancora lontane dall'attuazione in tante parti del mondo _ è un diretto contributo al vero sviluppo. Per incamminarsi su questa via, le stesse Nazioni dovranno individuare le proprie priorità e riconoscer bene i propri bisogni secondo le particolari condizioni della popolazione, dell'ambiente geografico e delle tradizioni culturali. Alcune Nazioni dovranno incrementare la produzione alimentare, per aver sempre a disposizione il necessario al nutrimento e alla vita. Nel mondo contemporaneo_ in cui la fame miete tante vittime, specie in mezzo all'infanzia_ci sono esempi di Nazioni non particolarmente sviluppate, che pure sono riuscite a conseguire l'obiettivo dell'autosufficienza alimentare e a divenire perfino esportatrici di generi alimentari.

Altre Nazioni hanno bisogno di riformare alcune ingiuste strutture e, in particolare, le proprie istituzioni politiche, per sostituire regimi corrotti, dittatoriali o autoritari con quelli democratici e partecipativi. É un processo che ci auguriamo si estenda e si consolidi, perché la «salute» di una comunità politica_in quanto si esprime mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti i cittadini alla cosa pubblica, la sicurezza del diritto, il rispetto e la promozione dei diritti umani_è condizione necessaria e garanzia sicura di sviluppo di «tutto l'uomo e di tutti gli uomini».

45. Quanto si è detto non si potrà realizzare senza la collaborazione di tutti specialmente della comunità internazionale, nel quadro di una solidarietà che abbracci tutti, a cominciare dai più emarginati. Ma le stesse Nazioni in via di sviluppo hanno il dovere di praticare la solidarietà fra se stesse e con i Paesi più emarginati del mondo. É desiderabile, per esempio, che Nazioni di una stessa area geografica stabiliscano forme di cooperazione che le rendano meno dipendenti da produttori più potenti. aprano le frontiere ai prodotti della zona. esaminino le eventuali complementarità dei prodotti. si associno per dotarsi dei servizi, che ciascuna da sola non è in grado di provvedere. estendano la cooperazione al settore monetario e finanziario. L'interdipendenza è già una realtà in molti di questi Paesi. Riconoscerla, in maniera da renderla più attiva, rappresenta un'alternativa all'eccessiva dipendenza da Paesi più ricchi e potenti, nell'ordine stesso dell'auspicato sviluppo, senza contrapporsi a nessuno, ma scoprendo e valorizzando al massimo le proprie possibilità. I Paesi in via di sviluppo di una stessa area geografica, anzitutto quelli compresi nella denominazione «Sud», possono e debbono costituire_come già si comincia a fare con promettenti risultati_nuove organizzazioni regionali, ispirate a criteri di eguaglianza, libertà e partecipazione nel concerto delle Nazioni. La solidarietà universale richiede, come condizione indispensabile, autonomia e libera disponibilità di se stessi, anche all'interno di associazioni come quelle indicate. Ma, nello stesso tempo, richiede disponibilità ad accettare i sacrifici necessari per il bene della comunità mondiale.

CAPITOLO VII

CONCLUSIONE

46. Popoli e individui aspirano alla propria liberazione: la ricerca del pieno sviluppo è il segno del loro desiderio di superare i molteplici ostacoli che impediscono di fruire di una «vita più umana». Recentemente, nel periodo seguito alla pubblicazione dell'Enciclica Populorum Progressio, in alcune aree della Chiesa cattolica, in particolare nell'America Latina, si è diffuso un nuovo modo di affrontare i problemi della miseria e del sottosviluppo, che fa della liberazione la categoria fondamentale e il primo principio di azione. I valori positivi, ma anche le deviazioni e i pericoli di deviazione, connessi a questa forma di riflessione e di elaborazione teologica, sono stati convenientemente segnalati dal Magistero ecclesiastico. (83) É bene aggiungere che l'aspirazione alla liberazione da ogni forma di schiavitù, relativa all'uomo e alla società, è qualcosa di nobile e valido. A questo mira propriamente lo sviluppo, o piuttosto la liberazione e lo sviluppo, tenuto conto dell'intima connessione esistente tra queste due realtà. Uno sviluppo soltanto economico non è in grado di liberare l'uomo, anzi, al contrario, finisce con l'asservirlo ancora di più. Uno sviluppo, che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religiose dell'uomo e della società nella misura in cui non riconosce l'esistenza di tali dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno contribuisce alla vera liberazione. L'essere umano è totalmente libero solo quando e se stesso, nella pienezza dei suoi diritti e doveri: la stessa cosa si deve dire dell'intera società.

L'ostacolo principale da superare per una vera liberazione è il peccato e le strutture da esso indotte, man mano che si moltiplica e si estende. (84) La libertà, con la quale Cristo ci ha liberati (Gal5,1), stimola a convertirci in servi di tutti. Così il processo dello sviluppo e della liberazione si concreta in esercizio di solidarietà, ossia di amore e servizio al prossimo, particolarmente ai più poveri: «Là dove vengono meno la verità e l'amore, il processo di liberazione porta alla morte di una libertà, che non ha più sostegno». (85)

47. Nel quadro delle tristi esperienze degli anni recenti e del panorama prevalentemente negativo del momento presente la Chiesa deve affermare con forza la possibilità del superamento degli intralci che, per eccesso o per difetto, si frappongono allo sviluppo, e la fiducia per una vera liberazione. Fiducia e possibilità fondate, in ultima istanza sulla consapevolezza che ha la Chiesa della promessa divina, volta a garantire che la storia presente non resta chiusa in se stessa, ma è aperta al Regno di Dio. La Chiesa ha fiducia anche nell'uomo, pur conoscendo la malvagità di cui è capace, perché sa bene che_nonostante il peccato ereditato e quello che ciascuno può commettere_ci sono nella persona umana sufficienti qualità ed energie, c'è una fondamentale «bontà» (Gen1,31), perché è immagine del Creatore, posta sotto l'influsso redentore di Cristo, «che si è unito in certo modo a ogni uomo», (86) e perché l'azione efficace dello Spirito Santo «riempie la terra» (Sap1,7). Non sono, pertanto, giustificabili né la disperazione né il pessimismo, né la passività. Anche se con amarezza occorre dire che, come si può peccare per egoismo, per brama di guadagno esagerato e di potere, si può anche mancare, di fronte alle urgenti necessità di moltitudini umane immerse nel sottosviluppo, per timore, indecisione e, in fondo, per codardia. Siamo tutti chiamati, anzi obbligati, ad affrontare la tremenda sfida dell'ultima decade del secondo Millennio. Anche perché i pericoli incombenti minacciano tutti: una crisi economica mondiale, una guerra senza frontiere, senza vincitori né vinti. Di fronte a simile minaccia, la distinzione tra persone e Paesi ricchi, tra persone e Paesi poveri, avrà poco valore, salvo la maggiore responsabilità gravante su chi ha di più e può di più.

Ma tale motivazione non è né l'unica né la principale. É in gioco la dignità della persona umana la cui difesa e promozione ci sono state affidate dal Creatore, e di cui sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia. Il panorama odierno_come già molti più o meno chiaramente avvertono_non sembra rispondente a questa dignità. Ciascuno è chiamato a occupare il proprio posto in questa campagna pacifica, da condurre con mezzi pacifici, per conseguire lo sviluppo nella pace, per salvaguardare la stessa natura e il mondo che ci circonda. Anche la Chiesa si sente profondamente implicata in questo cammino, nel cui felice esito finale spera Perciò, sull'esempio di Papa Paolo VI con l'Enciclica Populorum Progressio, (87) desidero rivolgermi con semplicità e umiltà a tutti, uomini e donne senza eccezione, perché, convinti della gravità del momento presente e della rispettiva, individuale responsabilità, mettano in opera_con lo stile personale e familiare della vita, con l'uso dei beni, con la partecipazione come cittadini, col contributo alle decisioni economiche e politiche e col proprio impegno nei piani nazionali e internazionali_le misure ispirate alla solidarietà e all'amore preferenziale per i poveri. Così richiede il momento, così richiede soprattutto la dignità della persona umana, immagine indistruttibile di Dio creatore, ch'è identica in ciascuno di noi.

In questo impegno debbono essere di esempio e di guida i figli della Chiesa, chiamati, secondo il programma enunciato da Gesù stesso nella sinagoga di Nazareth, ad «annunciare ai poveri un lieto messaggio [...], a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc4,18). Conviene sottolineare il ruolo preponderante, che spetta ai laici, uomini e donne, come è stato ripetuto nella recente Assemblea sinodale. A loro compete animare, con impegno cristiano, le realtà temporali e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia. Desidero rivolgermi specialmente a quanti, per il sacramento del Battesimo e la professione dello stesso Credo, sono compartecipi di una vera comunione, sia pure imperfetta, con noi. Sono sicuro che sia la sollecitudine che questa Lettera esprime, sia le motivazioni chela animano saranno loro familiari, perché ispirate dal Vangelo di Cristo Gesù. Possiamo trovare qui un nuovo invito a dare testimonianza unanime delle nostre comuni convinzioni sulla dignità dell'uomo, creato da Dio, redento da Cristo, santificato dallo Spirito, e chiamato in questo mondo a vivere una vita conforme a questa dignità. A coloro che condividono con noi l'eredità di Abramo «nostro padre nella fede» (88) (Rm4,11), e la tradizione dell'Antico Testamento, ossia gli Ebrei, a coloro che, come noi, credono in Dio giusto e misericordioso, ossia i Mussulmani, rivolgo parimenti questo appello, che si estende, altresì, a tutti i seguaci delle grandi religioni del mondo. L'incontro del 27 ottobre dell'anno passato ad Assisi, la città di san Francesco, per pregare ed impegnarci per la pace_ognuno in fedeltà alla propria professione religiosa_ha rivelato a tutti fino a che punto la pace e, quale sua necessaria condizione, lo sviluppo di «tutto l'uomo e di tutti gli uomini» siano una questione anche religiosa, e come la piena attuazione dell'una e dell'altro dipenda dalla fedeltà alla nostra vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio.

48. La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s'identifica col Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l'attesa non potrà esser mai una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa_ora soprattutto_condiziona quella.

Nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere «più umana» la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano. Questo insegna il Concilio Vaticano II in un testo luminoso della Costituzione Gaudium et spes: «I beni della dignità umana, l'unione fraterna e la libertà, in una parola tutti i frutti eccellenti della natura e del nostro sforzo, dopo averli diffusi per la terra nello Spirito del Signore e in accordo al suo mandato, torneremo a ritrovarli, purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, quando Cristo consegnerà al Padre il Regno eterno e universale [...], già misteriosamente presente sulla nostra terra». (89) Il Regno di Dio si fa presente, ora, soprattutto con la celebrazione del Sacramento dell'Eucaristia, che è il Sacrificio del Signore. In tale celebrazione i frutti della terra e del lavoro umano_il pane e il vino_sono trasformati misteriosamente, ma realmente e sostanzialmente per opera dello Spirito Santo e delle parole del ministro nel Corpo e nel Sangue del Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Maria, per il quale il Regno del Padre si è fatto presente in mezzo a noi. I beni di questo mondo e l'opera delle nostre mani_il pane e il vino_servono per la venuta del Regno definitivo, giacché il Signore mediante il suo Spirito li assume in se, per offrirsi al Padre e offrire noi con lui nel rinnovamento del suo unico sacrificio, che anticipa il Regno di Dio e ne annuncia la venuta finale. Così il Signore mediante l'Eucaristia, sacramento e sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi con un vincolo più forte di ogni unione naturale; e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell'amore di Dio, preparando la venuta del suo Regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente. Quanti partecipiamo dell'Eucaristia, siamo chiamati a scoprire, mediante questo Sacramento, il senso profondo della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace; ed a ricevere da esso le energie per impegnarci sempre più generosamente, sull'esempio di Cristo che in tale Sacramento dà la vita per i suoi amici (Gv15,13). Come quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale impegno non sarà inutile, ma certamente fecondo.

49. In quest'Anno Mariano, che ho indetto perché i fedeli cattolici guardino sempre di più a Maria, che ci precede nel pellegrinaggio della fede (90) e con materna premura intercede per noi davanti al suo Figlio, nostro Redentore, desidero affidare a lei e alla sua intercessione la difficile congiuntura del mondo contemporaneo, gli sforzi che si fanno e si faranno, spesso con grandi sofferenze, per contribuire al vero sviluppo dei popoli, proposto e annunciato dal mio predecessore Paolo VI. Come sempre ha fatto la pietà cristiana, noi presentiamo alla Santissima Vergine le difficili situazioni individuali, perché, esponendole a suo Figlio, ottenga da lui che siano alleviate e cambiate. Ma le presentiamo, altresì, le situazioni sociali e la stessa crisi internazionale nei loro aspetti preoccupanti di miseria, disoccupazione, carenza di vitto, corsa agli armamenti, disprezzo dei diritti umani, stati o pericoli di conflitto, parziale o totale. Tutto ciò vogliamo filialmente deporre davanti ai suoi «occhi misericordiosi», ripetendo ancora una volta con fede e speranza l'antica antifona: «Santa Madre di Dio non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, o Vergine gloriosa e benedetta». Madre Santissima nostra Madre e Regina, è colei che volgendosi a suo Figlio, dice: «Non hanno più vino» (Gv2,3), ed è anche colei che loda Dio Padre, perché: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc1,52). La sua materna sollecitudine si interessa degli aspetti personali e sociali della vita degli uomini sulla terra. (91) Davanti alla Santissima Trinità, io affido a Maria quanto in questa Lettera ho esposto invitando tutti a riflettere e ad impegnarsi attivamente nel promuovere il vero sviluppo dei popoli, come efficacemente afferma l'orazione della Messa omonima: «O Dio, che hai dato a tutte le genti una unica origine e vuoi riunirle in una sola famiglia, fa, che gli uomini si riconoscano fratelli e promuovano nella solidarietà lo sviluppo di ogni popolo, perché [...] si affermino i diritti di ogni persona e la comunità umana conosca un'era di eguaglianza e di pace». (92)

Questo concludendo, io chiedo a nome di tutti i fratelli e sorelle, ai quali, in segno di saluto e di augurio invio una speciale Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 dicembre dell'anno 1987, decimo di Pontificato


NOTE

(1) LEONE XIII, Lett. Enc. Rerum Novarum ( 15 maggio 1891): Leonis XIII P.M. Acta, XI, Romae 1892, pp. 97- 144.

(2) PIO XI, Lett. Enc. Quadragesimo Anno (15 maggio 1931): A,AS 23 (1931), pp. 177-228; GIOVANNI XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra (15 maggio 1961): A,AS 53 (1961), pp. 401 -464; PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971): A,AS 63 (1971), pp. 401-441: GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Laborem Exercens (14 settembre 1981): A,AS 73 (1981), pp. 577-647. Anche Pio XII aveva diffuso un Messaggio radiofonico (1 giugno 1941) per il cinquantesimo anniversario dell'Enciclica di Leone XIII: A,AS 33 (1941), pp. 195205.

(3) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione, Dei Verbum, 4.

(4) PAOLO VI, Lett. Enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967): A,AS 59 (1967), pp. 257-299.

(5) Cf. L'Osservatore Romano, 25 marzo 1987.

(6) Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 72: A,AS 79 (1987), P. 586; PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), PP. 403 S.

(7) Cf. Lett. Enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 3: A,AS 79 (1987), PP. 363 S.; Omelia nella Messa del 1° gennaio 1987: L'Osservatore Romano, 2 gennaio 1987.

(8) L'Enciclica Populorum Progressio cita i Documenti del Concilio Vaticano II 19 volte, di cui ben 16 si riferiscono alla Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes.

(9) Gaudium et Spes, 1.

(10) Ibid., 4; cf. Lett. Enc. Populorum Progressio. 13: l.c.. nn. 263-264.

(11) Cf. Gaudium et Spes, 3; Lett. Enc. Populorum Progressio, 13: l.c., p. 264.

(12) Cf. Gaudium et Spes, 63; Lett. Enc. Populorum Progressio, 9: l..c., pp. 261s.

(13) Cf. Gaudium et Spes, 69; Lett. Enc. Populorum Progressio, 22:

(14) Cf. Gaudium et Spes, 57; Lett. Enc. Populorum Progressio, 41: l.c., p. 277.

(15) Cf. Gaudium et Spes, 19; Lett. Enc. Populorum Progressio, 41: l.c., pp. 277 s.

(16) Cf. Gaudium et Spes, 86; Lett. Enc. Populorum Progressio, 48: l.c., p. 281.

(17) Cf. Gaudium et Spes, 69: Lett. Enc. Populorum Progressio, 1421:1.c.,pp.264-268.

(18) Cf. l'inscriptio dell'Enciclica Populorum Progressio: l.c., p. 257.

(19) L'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII ha come argomento principale «la condizione degli operai»: Leonis XIII P. M. Acta Romae 1892, p. 97.

(20) Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione: Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 72: A,AS 79 (1987), P. 586; PAOLO VI Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), PP. 403 S.

(21) Cf. Lett. Enc. Mater et Magistra (15 maggio 1961): A,AS 53 (1961), P. 440.

(22) Gaudium et Spes, 63.

(23) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 3: L.c., p. 258; cf. anche ibid., 9: l.c., p. 261.

(24) Cf. ibid., 3 I.C., P. 258.

(25) Ibid., 48.

(26) Cf. ibid., 14: 1.c., p. 264: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l uomo».

(27) Ibid., 87: I.C., p- 299

(28) Cf. ibid., 53: l.c., p. 283.

(29) Cf. ibid., 76: l.c., p. 295.

(30) I decenni si riferiscono agli anni 1960- 1970 e 1970- 1980; adesso n corso il terzo decennio (1980-1990).

(31) L'espressione «Quarto Mondo» viene adoperata non solo occasionalmente per i Paesi cosiddetti meno avanzati (PMA) ma anche e soprattutto per le fasce di grande o estrema povertà dei Paesi a medio e alto reddito.

(32) CONC. ECUM. VATIC. II, Cost. dogm. su la Chiesa Lumen Gentium, 1.

(33) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 33: l.c., p. 273.

(34) Come è noto, la Santa Sede si è associata alla celebrazione di questo Anno internazionale con uno speciale Documento della Pontificia Commissione «Iustitia et Pax»: Che ne hai fatto del tuo fratello senza tetto? - La Chiesa e il problema dell'alloggio (27 dicembre 1987).

(35) Cf. PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 8-9: A,AS 63 (1971), PP. 406-408.

(36) Il recente Étude sur l'èconomie mondiale 1987, pubblicato dalle Nazioni Unite, contiene gli ultimi dati al riguardo (cf. pp. 8-9). La percentuale dei disoccupati nei Paesi sviluppati a economia di mercato è passata dal 3% della forza lavoro nel 1970 all'8% nel 1986. Ora, essi ammontano a 29 milioni.

(37) Lett. Enc. Laborem Exercens (14 settembre 1981), 18: A,AS 73 (1981), pp. 624 s.

(38) Al servizio della comunità umana: un approccio etico del debito internazionale (27 dicembre 1986).

(39) Lett. Enc. Populorum Progressio, 54: l.c., pp. 283 s.: «I Paesi in via di sviluppo non correranno più il rischio di vedersi sopraffatti dai debiti, il cui soddisfacimento fi1nisce coll'assorbire il meglio dei loro guadagni. Tassi di interesse e durata dei prestiti potranno essere distribuiti in maniera sopportabile per gli uni e per gli altri, equilibrando i doni graduiti, i prestiti senza interesse o a interesse minimo, e la durata degli ammortamenti».

(40) Cf. «presentazione» del Documento: Al servizio della comunità umana: un approccio etico del debito internazionale (27 dicembre 1 986).

(41) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 53: l.c., p. 283.

(42) Al servizio della comunità umana: un approccio etico del debito internazionale (27 dicembre 1986), III.2.1.

(43) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 20-21: l.c., pp. 267 s.

(44) Omelia presso Drogheda, Irlanda (29 settembre 1979), 5 71 (1979), II, p. 1079.

(45) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 37: l.c., pp. 275 s.

(46) Cf. Esort. Apost. Familiaris Consortio (22 novembre 1981), specialmente al n. 30: A,AS 74 ( 1 982), pp. 115-117.

(47) Cf. Droits de l'homme. Recueil d'instruments internationaux, Nations Unies, New York 1983. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptor Hominis (4 marzo 1979), 17: A,AS 71 (1979), p. 296.

(48) Cf. CONC. ECUM. VATC. II, Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 78; PAOLO VI, Lett. Enc. Populorum Progressio, 76: l.c., pp. 294 s.: «Combattere la miseria e lottare contro l'ingiustizia è promuovere, insieme con il miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell'umanità. La pace... si costruisce giorno dopo giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini».

(49) Cf. Esort. Apost. Familiaris Consortio (22 novembre 1981), 6: AAS 74 (1982), p. 88: «La storia non è semplicemente un progresso necessario verso il meglio, bensì un evento di libertà, ed anzi un combattimento fra libertà».

(50) Per questo motivo, si è preferito adoperare nel testo di questa Enciclica la parola «sviluppo» anziché la parola «progresso», cercando però di dare alla parola «sviluppo» il senso più pieno.

(51) Lett. Enc. Populorum Progressio, 19: l.c., pp. 266 s.: «Avere di più, per i popoli come per le persone, non è dunque lo scopo ultimo. Ogni crescita è ambivalente... La ricerca esclusiva dell'avere diventa così un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le Nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale»; cf. anche dello stesso PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 9: AAS 63 (1971), pp. 407 s.

(52) Cf. Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 35; PAOLO VI, Allocuzione al Corpo Diplomatico (7 gennaio 1965): A,AS 57 (1965), p. 232.

(53) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 20-21: I.c. pp. 267 s.

(54) Cf. Lett. Enc. Laborem Exercens (14 settembre 1981),4: A,AS 73 (1981), PP. 584 S.: PAOLO VI, Lett. Enc. Populorum Progressio, 15: l.c., p. 265.

(55) Lett. Enc. Populorum Progressio, 42: I.C., P. 278.

(56) Cf. Praeconium Paschale: Missale Romanum, ed. typ. altera 1975, P.272: «Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!».

(57) CONC. ECUM. VATIC. II, Cost. dogm. su la Chiesa Lumen Gentium, 1.

(58) Cf. ad esempio S. BASILIO il Grande, Regulae fusius tractatae, interrogatio XXXVII, 1 -2: PG 31, 1009- 1012; TEODORETO di Ciro, De Providentia, Oractio VII: PG 83, 665-686; S. AGOSTINO, De Civitate Dei, XIX 17: CCL 48, 683-685.

(59) Cf. ad esempio S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In Evang, S. Matthaei, hom. 50,3-4: PG 58,508-510; S. AMBROGIO, De Officiis Ministrorum, lib. II, XXVIII, 136- 140: PL 16, 139- 141; POSSIDIO, Vita S. Augustini Episcopi, XXIV: PL 32, 53 S.

(60) Lett. Enc. Populorum Progressio, 23: l.c., p. 268: « "Se qualcuno, in possesso delle ricchezze che offre il mondo, vede il suo fratello nella necessità e chiude a lui le sue viscere, come potrebbe l'amore di Dio abitare in lui? " (1 Gv 3, 17). Si sa con quale fermezza i Padri della Chiesa hanno precisato quale debba essere l'atteggiamento di coloro che possiedono nei confronti di coloro che sono nel bisogno». Nel numero precedente il Papa aveva citato il n. 69 della Cost. past. Gaudium et Spes del Concilio Ecumenico Vaticano II.

(61) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 47: l.c., p. 280: «... un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco».

(62) Cf. ibid. 47: l.c., p. 280: «Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione. di nazionalità possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini...»; cf. anche CONC. ECUM. VATIC. II, Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 29. Tale eguaglianza fondamentale è uno dei motivi basilari per cui la Chiesa si è sempre opposta ad ogni forma di razzismo.

(63) Cf. Omelia a Val Visdende (12 luglio 1987), 5: L'Osservatore Romano, 13-14 luglio 1987; PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 21: AAS 63 (1971), PP. 416 s.

(64) Cf. CONC. VATIC. II, Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 25.

(65) Esort. Apost. Reconciliatio et Paenitentia (2 dicembre 1984), 16: «Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere Nazioni o gruppi di Nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l'accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta di personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrifico, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone. Una situazione e così un'istituzione, una struttura, una società_non è di per sé, soggetto di atti morali; perciò non può essere in se stessa buona o cattiva»: AAS 77 (1985), p. 217.

(66) Lett. Enc. Populorum Progressio, 42: l.c., p. 278.

(67) Cf. Liturgia Horarum, Feria III hebdomadae III temporis per annum. Preces ad Vesperas.

(68) Lett. Enc. Populorum Progressio, 87: Lc., p. 299.

(69) Cf. ibid., 13; 81: 1.c.,pp.263s.; 296s.

(70) Cf. ibid., 13: l.c.,p.263.

(71) Cf. Discorso di apertura della Terza Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano (28 gennaio 1979): MS 71 (1979), pp. 189-196.

(72) CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 72: A,AS 79 (1987), p. 586; PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens (14 maggio 1971), 4: A,AS 63 (1971), pp. 403 s.

(73) Cf. Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, parte II, c. V, sezione II: «La costruzione della comunità internazionale» (nn. 83-90).

(74) Cf. GIOVANNI XXIII, Lett. Enc. Mater et Magistra (15 maggio 1961): A,AS 53 (1961), p. 440; Lett. Enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), Parte IV: A,AS 55 (1963), PP. 291-296; PAOLO VI, Epist. Apost. Octogesima Adveniens ( 14 maggio 1971), 2-4: A,AS 63 (1971), PP. 402-404.

(75) Cf. Lett. Enc. Populorum Progressio, 3. 9: l.c., PP. 258. 261.

(76) Ibid., 3: l.c., p. 258.

(77) Lett. Ene. Populorum Progressio, 47: l.c., p. 280; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo l986),68:AAS79(1987), PP. 583s.

(78) Cf. CONC. ECUM. II, Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 69; PAOLO VI, Lett. Enc. Populorum Progressio, 22: l.c., p. 268; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 90: A,AS 79 (1987), p. 594; S. TOMMASO D AQUINO, Summa Theol. II a II ae, q. 66, art. 2.

(79) Cf. Discorso di apertura della Terza Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano (28 gennaio 1979): AAS 71 (1979), pp. 189-196; Discorso ad un gruppo di Vescovi della Polonia in visita «ad limina Apostolorum» (17 dicembre 1987), 6: L'Osservatore Romano, 18 dieembre 1987.

(80) Perché il Signore ha voluto identificarsi con loro (Mt. 25, 31-46) e se ne prende speciale cura (cf. Sal 12 L11], 6; Lc 1, 52 s.).

(81) Lett. Enc. Populorum Progressio, 55: l.c., p. 284: «Sono questi gli uomini e le donne ehe bisogna aiutare, ehe bisogna eonvineere della neeessità di por mano essi stessi al loro sviluppo, aequisendone progressivamente i mezzi»; ef. Cost. past. su la Chiesa nel mondo eontemporaneo Gaudium et Spes, 86.

(82) Lett. Enc. Populorum Progressio, 35: l.c., p. 274: «L'educazione di base e il primo obiettivo di un piano di sviluppo».

(83) Cf. CONGRES. PER LA DOrrRINA DELLA FEDE, Istruzione su aleuni aspetti della «Teologia della liberazione» Libertatis Nuntius (6 agosto 1984), Introduzione: AAS 76 (1984), pp. 876 s.

(84) Cf. Esort. Apost. Reconciliatio et Paenitentia (2 dieembre 1984), 16: AAS 77 (1985), pp. 213-217; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 38; 42: A,AS 79 (1987), pp. 569; 571.

(85) CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione SU Libertà Cristiana e Liberazione Libertatis Conscientia (22 marzo 1986), 24: AAS 79 (1987), p. 564.

(86) Cf. Cost. past. su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 22; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptor Hominis (4 marzo 1979), 8: MS 71 (1979), p. 272.

(87) Lett. Enc. Populorum Progressio, 5: l.c., p. 259: «Noi pensiamo che su tale programma possano e debbano convenire, assieme ai nostri figli cattolici e ai fratelli cri.stiani, gli uomini di buona volontà»; cf. anehe 81-83 l.c., pp. 296-298; 299.

(88) Cf. CONC. ECUM. VATIC. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane. Nostra Aetate, 4.

(89) Gaudium et Spes, 39.

(90) CONC. ECUM. VATIC. II, Cost. dogm. su la Chiesa Lumen Gentium, 58; cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 5-6: AAS 79 (1987), pp. 365-367.

(91) Cf. PAOLO VI, Esort. Apost. Marialis Cultus (2 febbraio 1974), 37: AAS 66 (1974), pp. 148 s.; GIOVANNI PAOLO II, Omelia al Santuario della B.V.M. di Zapopan, Messico (30 gennaio 1979),4: AAS 71 (1979), P. 230.

(92) Collecta Missae «pro populorum progressione»: Missale Romanum, ed. typ. altera 1975, P. 820.

 

 

 

SLAVORUM APOSTOLI



EPISTOLA ENCICLICA
SLAVORUM APOSTOLI
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI, AI SACERDOTI,
ALLE FAMIGLIE RELIGIOSE,
A TUTTI I FEDELI CRISTIANI
NEL RICORDO
DELL'OPERA EVANGELIZZATRICE
DEI SANTI CIRILLO E METODIO
DOPO UNDICI SECOLI

CAPITOLO I

INTRODUZIONE

1. GLI APOSTOLI DEGLI SLAVI, i santi Cirillo e Metodio, rimangono nella memoria della Chiesa insieme alla grande opera di evangelizzazione che hanno realizzato. Si può anzi affermare che il loro ricordo si è fatto particolarmente vivo ed attuale ai nostri giorni.

Considerando la venerazione piena di gratitudine, della quale i santi Fratelli di Salonicco (l'antica Tessalonica) godono da secoli, specialmente tra le Nazioni slave, e memore dell'inestimabile contributo da loro dato all'opera, dell'annuncio del Vangelo fra quelle genti e, al tempo stesso, alla causa della riconciliazione, dell'amichevole convivenza, dello sviluppo umano e del rispetto dell'intrinseca dignità di ogni Nazione, con la Lettera Apostolica Egregiae virtutis in data 31 dicembre 1980 proclamai i santi Cirillo e Metodio compatroni d'Europa. Ripresi in tal modo la linea tracciata dai miei Predecessori e, segnatamente, da Leone XIII, il quale oltre cento anni fa, il 30 settembre 1880, estese a tutta la Chiesa il culto dei due Santi con l'Epistola enciclica Grande munus, e da Paolo VI, che, con la Lettera Apostolica Pacis nuntius del 24 ottobre 1964, proclamò san Benedetto patrono d'Europa.

2. Il Documento di cinque anni fa mirava a ravvivare la consapevolezza di questi atti solenni della Chiesa ed intendeva richiamare l'attenzione dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà, ai quali stanno a cuore il bene, la concordia e l'unità dell'Europa, all'attualità sempre viva delle eminenti figure di Benedetto, di Cirillo e di Metodio, come concreti modelli e sostegni spirituali per i cristiani della nostra età e, specialmente, per le Nazioni del continente europeo, le quali, già da tempo, soprattutto grazie alla preghiera e all'opera di questi Santi, si sono radicate consapevolmente ed originalmente nella Chiesa e nella tradizione cristiana.

La pubblicazione della citata mia Lettera Apostolica nel 1980, dettata dalla ferma speranza di un graduale superamento in Europa e nel mondo di tutto ciò che divide le Chiese, le Nazioni, i popoli si collegava a tre circostanze, che costituirono l'oggetto della mia preghiera e riflessione. La prima fu l'XI centenario della Lettera pontificia Industriae tuae, con la quale Giovanni VIII nell'anno 880 approvò l'uso della lingua slava nella liturgia tradotta dai due santi Fratelli. La seconda era rappresentata dal primo centenario della citata Epistola enciclica Grande munus. La terza fu l'inizio, proprio nell'anno 1980, del felice e promettente dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse nell'isola di Patmos.

3. Nel presente documento desidero fare riferimento in particolare all'Epistola, con la quale papa Leone XIII volle ricordare alla Chiesa e al mondo i meriti apostolici dei entrambi i Fratelli: non solo di Metodio, il quale, secondo la tradizione, concluse la sua vita nell'anno 885 a Velehrad nella Grande Moravia, ma anche di Cirillo che la morte separò dal fratello già nell'869 a Roma, la città che ne accolse e ne custodisce tuttora con commossa venerazione le reliquie nell'antica Basilica di san Clemente.

Ricordando la santa vita ed i meriti apostolici dei due Fratelli di Salonicco, papa Leone XIII fissò la loro festa liturgica al 7 luglio. Dopo il Concilio Vaticano II, a seguito della riforma liturgica, la festa fu trasferita al 14 febbraio, data che dal punto di vista storico segna la nascita al Cielo di san Cirillo.

Ad oltre un secolo dalla pubblicazione dell'Epistola leoniana le nuove circostanze, in cui viene a cadere l'undicesima ricorrenza centenaria della beata morte di san Metodio, inducono a dare rinnovata espressione alla memoria che la Chiesa conserva di questo importante anniversario. Ed a ciò si sente particolarmente obbligato il primo papa chiamato alla sede di san Pietro dalla Polonia e, dunque, dal mezzo delle Nazioni slave.

Gli eventi dell'ultimo secolo e, specialmente, degli ultimi decenni hanno contribuito a ravvivare nella Chiesa, col ricordo religioso, l'interesse storico-culturale per i due santi Fratelli, i cui speciali carismi sono divenuti ancor meglio intelligibili alla luce delle situazioni e delle esperienze proprie della nostra epoca. A ciò hanno concorso molti avvenimenti che appartengono, quali autentici segni dei tempi, alla storia del XX secolo e, prima di tutto, quel grande evento che si è verificato nella vita della Chiesa mediante il Concilio Vaticano II. Alla luce del magistero e dell'indirizzo pastorale di quel Concilio, noi possiamo riguardare in un modo nuovo - più maturo e profondo - queste due sante Figure, dalle quali ci separano ormai undici secoli, e leggere, altresì, nella loro vita e attività apostolica i contenuti che la sapiente Provvidenza divina vi inscrisse, affinché si svelassero in una nuova pienezza nella nostra epoca e portassero nuovi frutti.

CAPITOLO II

CENNI BIOGRAFICI

4. Seguendo l'esempio offerto dall'Epistola Grande munus , desidero ricordare la vita di san Metodio, senza per questo trascurare la vicenda, che tanto strettamente le è unita, del fratello san Cirillo. Ciò farò a grandi linee, lasciando alla ricerca storica le precisazioni e le discussioni intorno ai singoli punti.

La città, che vide nascere i due santi Fratelli, è l'attuale Salonicco, che nel secolo IX costituiva un importante centro di vita commerciale e politica dell'Impero bizantino cd occupava un posto di notevole rilievo nella vita intellettuale e sociale di quella regione dei Balcani. Essendo situata al confine dei territori slavi, essa aveva certamente anche un nome slavo: Solun.

Metodio era il fratello maggiore e verosimilmente il suo nome di battesimo era Michele. Egli nacque tra gli anni 815 e 820. Minore d'età, Costantino, in seguito meglio conosciuto col nome religioso di Cirillo, venne al mondo nell'anno 827 o 828. Il padre era un alto funzionario dell'amministrazione imperiale. Le condizioni sociali della famiglia schiudevano ai due Fratelli una carriera simile, che del resto Metodio intraprese, raggiungendo la carica di arconte, ossia di preposto in una delle province di frontiera, nella quale vivevano molti Slavi. Tuttavia, già verso l'anno 840 egli la interruppe per ritirarsi in uno dei monasteri ai piedi del monte Olimpo in Bitinia, noto allora col nome di Sacra Montagna.

Il fratello Cirillo seguì con particolare profitto gli studi a Bisanzio, dove ricevette gli ordini sacri, dopo avere decisamente rifiutato una brillante affermazione politica. Per le eccezionali doti e conoscenze culturali e religiose egli si vide affidare ancor giovane delicate mansioni ecclesiastiche, come quella di bibliotecario dell'archivio annesso alla grande Chiesa di Santa Sofia in Costantinopoli e, nel contempo, l'incarico prestigioso di segretario del Patriarca di quella stessa città. Ben presto, però, mostrò di volersi esimere da tali uffici, per dedicarsi agli studi e alla vita contemplativa, fuori da ogni mira ambiziosa. Così si rifugiò nascostamente in un monastero sulle coste del Mar Nero. Ritrovato, dopo sei mesi, venne convinto ad accettare l'insegnamento delle discipline filosofiche presso la Scuola superiore di Costantinopoli, guadagnandosi per l'eccellenza del sapere l'epiteto di Filosofo, con cui è tuttora conosciuto. Più tardi fu inviato dall'imperatore e dal Patriarca in missione presso i Saraceni. Portato a termine tale incarico, si ritirò dalla vita pubblica per raggiungere il fratello maggiore Metodio e condividere con lui la vita monastica. Ma nuovamente, insieme con lui, fu incluso in una delegazione bizantina inviata presso i Khazari, in qualità di esperto religioso e culturale. Durante la permanenza in Crimea presso Cherson, essi credettero di individuare la chiesa in cui anticamente era stato sepolto san Clemente, papa romano e martire, già esiliato in quelle lontane regioni, e ne recuperarono e portarono con sé le reliquie, che accompagnarono poi i due santi Fratelli nel successivo viaggio missionario verso Occidente, fino al momento in cui essi poterono deporle solennemente a Roma, consegnandole al papa Adriano II.

5. L'evento, che doveva decidere di tutto il corso ulteriore della loro vita, fu la richiesta rivolta dal principe Rastislav della Grande Moravia all'imperatore Michele III, di inviare ai suoi popoli «un Vescovo e maestro... che fosse in grado di spiegare loro la vera fede Cristiana nella loro lingua».

Furono scelti i santi Cirillo e Metodio, i quali prontamente accettarono, poi si misero in viaggio e giunsero nella Grande Moravia - uno Stato comprendente allora diverse popolazioni slave dell'Europa centrale, al crocevia dei reciproci influssi tra Oriente e Occidente - probabilmente già nell'anno 863, intraprendendo tra quei popoli quella missione, alla quale dedicarono entrambi tutto il resto della vita, trascorso tra viaggi, privazioni, sofferenze, ostilità e persecuzioni, che per Metodio giunsero sino ad una crudele prigionia. Tutto essi sopportarono con forte fede ed invincibile speranza in Dio. Si erano, infatti, ben preparati al compito loro affidato: recavano con sé i testi della Sacra Scrittura indispensabili alla celebrazione della sacra liturgia, preparati e tradotti da loro in lingua paleoslava e scritti in un nuovo alfabeto, elaborato da Costantino Filosofo e perfettamente adatto ai suoni di tale lingua. L'attività missionaria dei due Fratelli fu accompagnata da un successo notevole, ma anche dalle comprensibili difficoltà che la precedente, iniziale cristianizzazione, condotta dalle Chiese latine limitrofe, poneva ai nuovi missionari.

Dopo circa tre anni, nel viaggio verso Roma, essi si soffermarono in Pannonia, dove il principe slavo Kocel fuggito dall'importante centro civile e religioso di Nitra offrì loro un'ospitale accoglienza. Da qui, dopo alcuni mesi, ripresero il cammino alla volta di Roma insieme con i loro discepoli, per i quali desideravano ottenere gli ordini sacri. Il loro itinerario passava per Venezia, dove vennero sottoposte a pubblica discussione le premesse innovatrici della missione che stavano svolgendo. A Roma il papa Adriano II, succeduto nel frattempo a Nicola I, li accolse molto benevolmente. Egli approvò i libri liturgici slavi, che ordinò di deporre solennemente sull'altare nella chiesa di Santa Maria ad Praesepe, oggi detta Santa Maria Maggiore, e raccomandò di ordinare Sacerdoti i loro discepoli. Questa fase delle loro fatiche si concluse in modo quanto mai favorevole. Metodio dovette, però, riprendere la tappa successiva da solo, perché il suo fratello minore, gravemente ammalato, fece appena in tempo ad emettere i voti religiosi e a rivestire l'abito monastico, poiché morì poco dopo, il 14 febbraio 869, a Roma .

6. San Metodio rimase fedele alle parole, che Cirillo gli aveva detto sul letto di morte: «Ecco, fratello, condividevamo la stessa sorte, premendo l'aratro sullo stesso solco; io ora cado sul campo al concludersi della mia giornata. Tu ami molto- lo so - la tua Montagna; tuttavia, per la Montagna non abbandonare la tua azione di insegnamento. Dove in verità puoi meglio salvarti?».

Consacrato vescovo per il territorio dell'antica diocesi di Pannonia, nominato legato pontificio «ad gentes» (per le genti slave), egli assunse il titolo ecclesiastico della ristabilita sede vescovile di Sirmio. L'attività apostolica di Metodio, però, fu interrotta in seguito a complicazioni politico-religiose, che culminarono con la sua carcerazione per due anni, sotto l'accusa di aver invaso una giurisdizione episcopale altrui. Venne liberato solo dietro personale intervento del papa Giovanni VIII. Anche il nuovo sovrano della Grande Moravia, il principe Svatopluk, alla fine si mostrò contrario all'opera di Metodio, opponendosi alla liturgia slava ed insinuando a Roma dubbi sull'ortodossia del nuovo arcivescovo. Nell'anno 880 Metodio fu convocato ad limina Apostolorum, per presentare ancora una volta tutta la questione personalmente a Giovanni VIII. Nell'Urbe, assolto da tutte le accuse, egli ottenne dal papa la pubblicazione della bolla Industriae tuae, che, almeno nella sostanza, restituiva le prerogative riconosciute alla liturgia in lingua slava dal predecessore Adriano II.

Analogo riconoscimento di perfetta legittimità ed ortodossia Metodio ebbe anche da parte dell'imperatore bizantino e del patriarca Fozio, in quel tempo in piena comunione con Roma, quando nell'anno 881 o 882 si recò a Costantinopoli. Egli dedicò gli ultimi anni della vita soprattutto ad ulteriori traduzioni della Sacra Scrittura e dei libri liturgici, delle opere dei Padri della Chiesa ed anche della raccolta delle leggi ecclesiastiche e civili bizantine, detta Nomocanone. Preoccupato per la sopravvivenza dell'opera che aveva iniziato, designò come proprio successore il discepolo Gorazd. Morì il 6 aprile 885 al servizio della Chiesa instaurata tra i popoli slavi.

7. L'azione lungimirante, la dottrina profonda ed ortodossa, l'equilibrio, la lealtà, lo zelo apostolico, la magnanimità intrepida gli guadagnarono il riconoscimento e la fiducia di Pontefici Romani, di Patriarchi Costantinopolitani, di Imperatori bizantini e di diversi Prìncipi dei nuovi popoli slavi. Perciò, Metodio divenne la guida e il legittimo pastore della Chiesa. che in quell'epoca si radicava in mezzo a quelle Nazioni, ed è unanimamente venerato, insieme col fratello Costantino, quale annunciatore del Vangelo e maestro «da parte di Dio e del santo apostolo Pietro» e come fondamento della piena unità tra le Chiese di recente fondazione e le Chiese più antiche.

Per questo, «uomini e donne, umili e potenti, ricchi e poveri, liberi e servi, vedove ed orfani, stranieri e gente del luogo, sani e malati»l ' costituivano la folla che tra le lacrime ed i canti accompagnava al luogo della sepoltura il buon maestro e pastore, che si era fatto «tutto a tutti per salvare tutti».

A dire il vero, L'opera dei santi Fratelli, dopo la morte di Metodio, subì una grave crisi, e la persecuzione contro i suoi discepoli si acuì talmente, che questi furono costretti ad abbandonare il proprio campo missionario. Ciononostante, la loro seminagione evangelica non cessò di produrre frutti e il loro atteggiamento pastorale, preoccupato di portare la verità rivelata a popoli nuovi - rispettandone l'originalità culturale -, rimane un modello vivo per la Chiesa e per i missionari di tutti i tempi.

CAPITOLO III

ARALDI DEL VANGELO

8. Bizantini di cultura, i fratelli Cirillo e Metodio seppero farsi apostoli degli Slavi nel pieno senso della parola. La separazione dalla patria che Dio talvolta esige dagli uomini eletti, accettata per la fede nella sua promessa, è sempre una misteriosa e fertile condizione per lo sviluppo e la crescita del Popolo di Dio sulla terra. Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione».

Durante la visione notturna che san Paolo ebbe a Troade nell'Asia Minore, un Macedone, dunque un abitante del continente europeo, si presentò davanti a lui e lo implorò di recarsi in viaggio nel suo paese per annunziarvi la Parola di Dio: «Passa in Macedonia e aiutaci».

La divina Provvidenza, che per i due santi Fratelli si espresse con la voce e l'autorità dell'imperatore di Bisanzio e del Patriarca della Chiesa di Costantinopoli, indirizzò loro un'esortazione simile, allorché chiese ad essi di recarsi in missione tra gli Slavi. Tale incarico significava per loro abbandonare non solo un posto di onore, ma anche la vita contemplativa; significava uscire dall'àmbito dell'impero bizantino ed intraprendere un lungo pellegrinaggio al servizio del Vangelo, tra popoli che, sotto molti aspetti, restavano lontani da un sistema di convivenza civile basato sull'avanzata organizzazione dello Stato e la raffinata cultura di Bisanzio permeata di princìpi cristiani. Analoga domanda rivolse a tre riprese a Metodio il Pontefice Romano, quando lo inviò come vescovo tra gli Slavi della Grande Moravia, nelle regioni ecclesiastiche dell'antica diocesi di Pannonia.

9. La Vita slava di Metodio presenta con queste parole la richiesta, rivolta dal principe Rastislav all'imperatore Michele III per il tramite dei suoi inviati: «Sono giunti da noi numerosi maestri cristiani dall'Italia, dalla Grecia e dalla Germania, che ci istruiscono in diversi modi. Ma noi Slavi... non abbiamo nessuno che ci indirizzi verso la verità e ci istruisca in modo comprensibile». È allora che Costantino e Metodio furono invitati a partire. La loro risposta profondamente cristiana all'invito, in questa circostanza e in tutte le occasioni simili, è mirabilmente espressa dalle parole indirizzate da Costantino all'imperatore: «Per quanto stanco e fisicamente provato, io andrò con gioia in quel paese»; «con gioia io parto per la fede cristiana».

La verità è la forza del loro mandato missionario nascevano dal profondo del mistero della Redenzione, e la loro opera evangelizzatrice tra i popoli slavi doveva costituire un importante anello nella missione affidata dal Salvatore fino alla fine dei tempi alla Chiesa universale. Essa fu adempimento - nel tempo e nelle circostanze concrete - delle parole di Cristo, il quale nella potenza della sua Croce e della sua Risurrezione ordinò agli apostoli: «Predicate il Vangelo a ogni creatura»; «andando ammaestrate tutte le nazioni». Così facendo, gli evangelizzatori e maestri dei popoli slavi si lasciarono guidare dall'ideale apostolico di san Paolo: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Accanto ad un grande rispetto per le persone e alla sollecitudine disinteressata per il loro vero bene, i due santi Fratelli ebbero adeguate risorse di energia, di prudenza, di zelo e di carità, indispensabili per portare ai futuri credenti la luce, e per indicare loro, al tempo stesso, il bene, offrendo un concreto aiuto per raggiungerlo. A tale scopo desiderarono diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e condividerne in tutto la sorte.

10. Proprio per tale motivo trovarono naturale prendere una chiara posizione in tutti i conflitti, che allora turbavano le società slave in via di organizzazione, assumendone come proprie le difficoltà e i problemi, inevitabili per dei popoli che difendevano la propria identità sotto la pressione militare e culturale del nuovo Impero romano-germanico, e tentavano di respingere quelle forme di vita che avvertivano come estranee. Era anche l'inizio di più ampie divergenze, destinate malauguratamente ad accentuarsi, tra la cristianità orientale e quella occidentale, ed i due santi missionari vi si trovarono personalmente coinvolti; ma seppero mantenere sempre un'ineccepibile ortodossia ed una coerente attenzione sia al deposito della tradizione che alle novità di vita, proprie dei popoli evangelizzati. Spesso le situazioni di contrasto si imposero in tutta la loro ambigua e dolorosa complessità; non per questo Costantino e Metodio tentarono di sottrarsi alla prova: l'incomprensione, l'aperta malafede e perfino, per san Metodio, le catene, accettate per amore di Cristo, non fecero deflettere né l'uno né l'altro dal tenace proposito di giovare e di servire al bene delle genti slave e all'unità della Chiesa universale. Fu questo il prezzo che dovettero pagare per la diffusione del Vangelo, per l'impresa missionaria, per la coraggiosa ricerca di nuove forme di vita e di vie efficaci per far giungere la Buona Novella alle Nazioni slave che si stavano formando.

Nella prospettiva dell'evangelizzazione - come indicano le loro biografie - i due santi Fratelli si volsero al difficile compito di tradurre i testi della Sacra Scrittura, noti loro in greco, nella lingua di quella stirpe slava che si era stabilita fino ai confini della loro regione e della loro città natale. Avvalendosi della loro padronanza nella lingua greca e della propria cultura per quest'opera ardua e singolare, si prefissero di comprendere e di penetrare la lingua, le usanze e le tradizioni proprie delle genti slave, interpretandone fedelmente le aspirazioni ed i valori umani che in esse sussistevano e si esprimevano.

11. Per tradurre le verità evangeliche in una lingua nuova, essi dovettero preoccuparsi di conoscere bene il mondo interiore di coloro, ai quali avevano intenzione di annunciare la Parola di Dio con immagini e concetti che suonassero loro familiari. Innestare correttamente le nozioni della Bibbia e i concetti della teologia greca in un contesto di esperienze storiche e di pensieri molto diversi, apparve loro una condizione indispensabile per la riuscita dell'attività missionaria. Si trattava di un nuovo metodo di catechesi. Per difenderne la legittimità e dimostrarne la bontà, san Metodio non esitò, prima insieme col fratello e poi da solo, ad accogliere docilmente gli inviti a Roma, ricevuti sia nell'867 dal papa Nicola I, sia nell'anno 879 del papa Giovanni VIII, i quali vollero confrontare la dottrina che essi insegnavano nella Grande Moravia con quella lasciata, insieme col trofeo glorioso delle loro reliquie, dai santi apostoli Pietro e Paolo alla prima Cattedra episcopale della Chiesa.

In precedenza, Costantino ed i suoi collaboratori si erano preoccupati di creare un nuovo alfabeto, perché le verità da annunciare e da spiegare potessero essere scritte nella lingua slava e risultassero in tal modo pienamente comprensibili ed assimilabili dai loro destinatari. Fu uno sforzo veramente degno dello spirito missionario quello di apprendere la lingua e la mentalità dei popoli nuovi, ai quali portare la fede, come fu esemplare la determinazione nell'assimilarle e nell'assumere in proprio tutte le esigenze ed attese dei popoli slavi. La scelta generosa di identificarsi con la stessa loro vita e tradizione, dopo averle purificate ed illuminate con la rivelazione, rende Cirillo e Metodio veri modelli per tutti i missionari, che nelle varie epoche hanno accolto l'invito di san Paolo di farsi tutto a tutti per riscattare tutti e, in particolare, per i missionari che, dall'antichità ai tempi moderni - dall'Europa all'Asia ed oggi in tutti i continenti - hanno lavorato per tradurre nelle lingue vive dei vari popoli la Bibbia ed i testi liturgici, al fine di fare in esse risonare l'unica Parola di Dio, resa così accessibile secondo le forme espressive, proprie di ciascuna civiltà.

La perfetta comunione nell'amore preserva la Chiesa da qualsiasi forma di particolarismo o di esclusivismo etnico o di pregiudizio razziale, come da ogni alterigia nazionalistica. Tale comunione deve elevare e sublimare ogni legittimo sentimento puramente naturale del cuore umano.

CAPITOLO IV

IMPIANTARONO LA CHIESA Dl DIO

12. Ma la caratteristica, che desidero in maniera speciale sottolineare nella condotta tenuta dagli apostoli degli Slavi, Cirillo e Metodio, è il loro modo pacifico di edificare la Chiesa, guidati dalla loro visione della Chiesa una, santa ed universale.

Anche se i cristiani slavi, più degli altri, sentono volentieri i santi Fratelli come «Slavi di cuore», questi tuttavia restano uomini di cultura ellenica e di formazione bizantina, uomini cioè in tutto appartenenti alla tradizione dell'Oriente cristiano, sia civile che ecclesiastico.

Già ai loro tempi le differenze tra Costantinopoli e Roma avevano cominciato a profilarsi come pretesti di disunione, anche se la deplorevole scissione tra le due parti della stessa cristianità era ancora lontana. Gli evangelizzatori e maestri degli Slavi si avviarono alla volta della Grande Moravia, compresi di tutta la ricchezza della tradizione e dell'esperienza religiosa che caratterizzava il cristianesimo orientale e che trovava un peculiare riflesso nell'insegnamento teologico e nella celebrazione della sacra liturgia.

Per quanto ormai da tempo tutti gli uffici sacri si celebrassero in greco in tutte le Chiese comprese nei confini dell'impero bizantino, le tradizioni proprie di molte Chiese nazionali d'Oriente - quali la Georgiana e la Siriaca -, che nel servizio divino usavano la lingua del loro popolo, erano ben note alla cultura superiore di Costantinopoli e, specialmente, a Costantino Filosofo grazie agli studi e ai ripetuti contatti che aveva avuto con cristiani di quelle Chiese sia nella capitale che nel corso dei suoi viaggi.

Entrambi i Fratelli, consapevoli dell'antichità e della legittimità di queste sacre tradizioni, non ebbero dunque timore di usare la lingua slava per la liturgia, facendone uno strumento efficace per avvicinare le verità divine a quanti parlavano in tale lingua. Ciò fecero con coscienza aliena da ogni spirito di superiorità o di dominio, per amore di giustizia e con evidente zelo apostolico verso popoli che si stavano sviluppando.

Il cristianesimo occidentale, dopo le migrazioni dei popoli nuovi, aveva amalgamato i gruppi etnici sopraggiunti con le popolazioni latine residenti, estendendo a tutti, nell'intento di unirli, la lingua, la liturgia e la cultura latina, trasmesse dalla Chiesa di Roma. Dall'uniformità così raggiunta derivava a società relativamente giovani ed in piena espansione un sentimento di forza e di compattezza, che contribuiva sia ad una loro più stretta unione, sia ad una loro più energica affermazione in Europa. Si può capire come in tale situazione ogni diversità venisse talvolta intesa come minaccia ad un'unità ancora in fieri, e come potesse diventare grande la tentazione di eliminarla, ricorrendo anche a forme di coercizione.

13. Appare a questo punto singolare ed ammirevole come i santi Fratelli, operando in situazioni tanto complesse e precarie, non tendessero ad imporre ai popoli assegnati alla loro predicazione neppure l'indiscutibile superiorità della lingua greca e della cultura bizantina, o gli usi e i comportamenti della società più progredita, in cui essi erano cresciuti e che necessariamente restavano per loro familiari e cari. Mossi dall'ideale di unire in Cristo i nuovi credenti, essi adattarono alla lingua slava i testi ricchi e raffinati della liturgia bizantina, ed adeguarono alla mentalità ed alle consuetudini dei nuovi popoli le elaborazioni sottili e complesse del diritto greco-romano. Seguendo il medesimo programma di concordia e di pace, rispettarono in ogni momento gli obblighi della loro missione, tenendo conto delle tradizionali prerogative e dei diritti ecclesiastici fissati dai canoni conciliari, cosicché credettero loro dovere - essi sudditi dell'impero d'Oriente e fedeli soggetti al Patriarcato di Costantinopoli - di rendere conto al Romano Pontefice del loro operato missionario e di sottoporre al suo giudizio, per ottenerne l'approvazione, la dottrina che professavano ed insegnavano, i libri liturgici composti in lingua slava e i metodi adottati nell'evangelizzazione di quei popoli.

Avendo intrapreso la loro missione per mandato di Costantinopoli, essi cercarono poi, in un certo senso, che fosse confermata volgendosi alla Sede Apostolica di Roma, centro visibile dell'unità della Chiesa. Essi così edificarono la Chiesa mossi dal senso della sua universalità come Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica. Questo risulta nella forma più trasparente ed esplicita da tutto il loro comportamento. Si può dire che l'invocazione di Gesù nella preghiera sacerdotale - ut unum sint - rappresenti la loro divisa missionaria secondo le parole del Salmista: «Lodate il Signore, tutte le genti, e lodatelo, popoli tutti». Per noi uomini di oggi il loro apostolato possiede anche l'eloquenza di un appello ecumenico: è un invito a riedificare, nella pace della riconciliazione, l'unità che è stata gravemente incrinata dopo i tempi dei santi Cirillo e Metodio e, in primissimo luogo, l'unità tra Oriente ed Occidente.

La convinzione dei santi Fratelli di Salonicco, secondo cui ogni Chiesa locale è chiamata ad arricchire con i propri doni il «pleroma» cattolico, era in perfetta armonia con la loro intuizione evangelica che le diverse condizioni di vita delle singole Chiese cristiane non possono mai giustificare dissonanze, discordie, lacerazioni nella professione dell'unica fede e nella pratica della carità.

14. Si sa che, secondo l'insegnamento del Concilio Vaticano II, «per movimento ecumenico" si intendono le attività e le iniziative che. a seconda delle varie necessità della Chiesa e l'opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l'unità dei cristiani». Pertanto, non sembra per nulla anacronistico vedere nei santi Cirillo e Metodio gli autentici precursori dell'ecumenismo, per aver voluto efficacemente eliminare o diminuire ogni divisione vera o anche solo apparente tra le singole Comunità, appartenenti alla stessa Chiesa. Infatti, la divisione, che purtroppo avvenne nella storia della Chiesa e sfortunatamente ancora perdura, «non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura».

La fervente sollecitudine dimostrata da entrambi i Fratelli e, specialmente, da Metodio, in ragione della sua responsabilità episcopale, nel conservare l'unità della fede e dell'amore tra le Chiese, delle quali erano membri, e cioè la Chiesa di Costantinopoli e la Chiesa Romana, da una parte, e le Chiese nascenti nelle terre slave, dall'altra, fu e resterà sempre il loro grande merito. Questo è tanto maggiore, se si tiene presente che la loro missione si svolge negli anni 863-885, dunque negli anni critici, in cui emersero e cominciarono ad approfondirsi il fatale dissidio e l'aspra controversia tra le Chiese dell'Oriente e dell'Occidente. La divisione si accentuò per la questione dell'appartenenza canonica della Bulgaria, che proprio allora aveva accettato ufficialmente il cristianesimo.

In questo periodo burrascoso, segnato anche da conflitti armati tra popoli cristiani confinanti, i santi Fratelli di Salonicco conservarono una fedeltà ferma e piena di vigilanza alla retta dottrina e alla tradizione della Chiesa perfettamente unita e, in particolare, alle «istituzioni divine» e alle «istituzioni ecclesiastiche», sulle quali. secondo i canoni degli antichi Concili, poggiavano la sua struttura e la sua organizzazione. Questa fedeltà permise loro di portare a termine i grandi compiti missionari e di rimanere in piena unità spirituale e canonica con la Chiesa Romana, con la Chiesa di Costantinopoli e con le nuove Chiese, da essi fondate fra i popoli slavi.

15. Metodio specialmente non esitava a far fronte alle incomprensioni, ai contrasti e, persino, alle diffamazioni e persecuzioni fisiche, pur di non mancare alla sua esemplare fedeltà ecclesiale, pur di tener fede ai propri doveri di cristiano e di vescovo e di agli impegni assunti nei riguardi della Chiesa di Bisanzio, che l'aveva generato ed inviato come missionario insieme a Cirillo; nei riguardi della Chiesa di Roma, grazie alla quale adempiva il suo incarico di arcivescovo pro fide nel «territorio di san Pietro»; come pure nei riguardi di quella Chiesa nascente nelle terre slave, che egli accettò come propria e che seppe difendere - convinto del giusto diritto - davanti alle autorità ecclesiastiche e civili, tutelando particolarmente la liturgia in lingua paleoslava e i fondamentali diritti propri delle Chiese nelle diverse Nazioni.

Facendo così, egli ricorreva sempre, come Costantino Filosofo, al dialogo con coloro che erano contrari alle sue idee o alle sue iniziative pastorali e mettevano in dubbio la loro legittimità. In questo modo rimarrà per sempre maestro per tutti coloro che, in qualsiasi tempo, cercano di attenuare i dissidi rispettando la pienezza multiforme della Chiesa, la quale, conformemente alla volontà del suo fondatore Gesù Cristo, deve essere sempre una, santa, cattolica ed apostolica: tale consegna trovò piena risonanza nel Simbolo dei 150 padri del II Concilio ecumenico di Costantinopoli, che costituisce l'intangibile professione di fede di tutti i cristiani.

CAPITOLO V

SENSO CATTOLICO DELLA CHIESA

16. Non è soltanto il contenuto evangelico della dottrina annunciata dai santi Cirillo e Metodio, che merita una particolare accentuazione. Molto espressivo ed istruttivo per la Chiesa d'oggi e anche il metodo catechetico e pastorale, che essi applicarono nella loro attività apostolica tra popoli che non avevano ancora sentito celebrare i divini Misteri nella loro lingua natìa, né avevano ancora udito annunciare la parola di Dio in modo pienamente conforme alla propria mentalità e nel rispetto delle concrete condizioni di vita, loro proprie.

Sappiamo che il Concilio Vaticano II, vent'anni fa, ebbe come compitò precipuo quello di risvegliare l'autocoscienza della Chiesa e, mediante il suo rinnovamento interiore, di imprimerle un nuovo impulso missionario in ordine all'annuncio dell'eterno messaggio di salvezza, di pace e di reciproca concordia tra i popoli e le Nazioni, al di là di tutte le frontiere che ancora dividono il nostro pianeta, destinato, per volontà di Dio creatore e redentore, ad essere dimora comune per l'intera umanità. Le minacce, che ai nostri tempi si accumulano sopra di esso, non possono far dimenticare la profetica intuizione di papa Giovanni XXIII, che convocò il Concilio nell'intento e nella convinzione che esso sarebbe stato in grado di preparare e di avviare un periodo di primavera e di rinascita nella vita della Chiesa.

E, in tema di universalità, lo stesso Concilio, tra l'altro, così si è espresso:

«A formare il nuovo Popolo di Dio sono chiamati tutti gli uomini. Perciò, questo Popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo ed a tutti i secoli, affinché si adempia il proposito della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una, e volle alla fine radunare insieme i suoi figli che erano dispersi (cfr. Cv 1 1, 52)... La Chiesa, cioè il Popolo di Dio, inaugurando questo Regno, nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie le capacità e le risorse e le consuetudini dei popoli, in quanto sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva... Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il Popolo di Dio, è un dono dello stesso Signore... In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti ed a tutta la Chiesa, e così il tutto e le singole parti s'accrescono comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza nell'unità».

17. Possiamo tranquillamente affermare che una tale visione, tradizionale ed insieme estremamente attuale, della cattolicità della Chiesa - sentita come una sinfonia delle varie liturgie in tutte le lingue del mondo, unite in un'unica liturgia, o come un coro armonioso che, sostenuto dalle voci di sterminate moltitudini di uomini, si leva secondo innumerevoli modulazioni, timbri ed intrecci per la lode di Dio da ogni punto del nostro globo, in ogni momento della storia -, corrisponde in modo particolare alla visione teologica e pastorale, che ispirò l'opera apostolica e missionaria di Costantino Filosofo e di Metodio e ne sostenne la missione tra le Nazioni slave.

A Venezia, davanti ai rappresentanti della cultura ecclesiastica, che essendo attaccati ad un concetto piuttosto angusto della realtà ecclesiale, erano contrari a questa visione, san Cirillo la difese con coraggio, indicando il fatto che molti popoli avevano già introdotto in passato e possedevano una liturgia scritta e celebrata nella propria lingua, come «gli Armeni, i Persiani, gli Abasgi, i Georgiani, i Sugdi, i Goti, gli Avari, i Tirsi, i Khazari, gli Arabi, i Copti, i Siriani e molti altri».

Ricordando che Dio fa sorgere il suo sole e fa cadere la pioggia su tutti gli uomini senza eccezione, egli diceva: «Non respiriamo forse tutti l'aria nel medesimo modo? E voi non vi vergognate di stabilire tre sole lingue (l'ebraico, il greco e il latino) decidendo che tutti gli altri popoli e stirpi restino ciechi e sordi! Ditemi: sostenete questo, perché considerate Dio tanto debole da non essere in grado di concederlo, oppure tanto invidioso da non volerlo?». Alle argomentazioni storiche e dialettiche, che gli venivano opposte, il Santo rispondeva facendo ricorso al fondamento ispirato della Sacra Scrittura: «Ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore per la gloria di Dio Padre» «ogni terra ti adori, levi a te canti; inneggi, Altissimo, al tuo nome» «lodate il Signore, tutte le genti, e lodatelo, popoli tutti».

18. La Chiesa è cattolica anche perché sa presentare in ogni contesto umano la verità rivelata, da essa custodita intatta nel suo contenuto divino, in modo tale da farla incontrare con i pensieri elevati e le giuste attese di ogni uomo e di ogni popolo. Del resto, l'intero patrimonio di bene, che ogni generazione trasmette ai posteri insieme con l'inestimabile dono della vita, costituisce come una variopinta ed immensa quantità di tessere che compongono il vivo mosaico del Pantocrátor, il quale si manifesterà nel suo totale splendore solo al momento della parusia.

Il Vangelo non porta all'impoverimento o allo spegnimento di ciò che ogni uomo, popolo e Nazione, ogni cultura durante la storia riconoscono ed attuano come bene, verità e bellezza. Piuttosto, esso spinge ad assimilare e a sviluppare tutti questi valori: a viverli con magnanimità e gioia ed a completarli con la misteriosa ed esaltante luce della Rivelazione.

La dimensione concreta della cattolicità, inscritta da Cristo Signore nella costituzione stessa della Chiesa, non è qualcosa di statico, astorico e piattamente uniforme, ma sorge e si sviluppa, in un certo senso, quotidianamente come una novità dall'unanime fede di tutti coloro che credono nel Dio uno e trino, rivelato da Gesù Cristo e predicato dalla Chiesa con la forza dello Spirito Santo. Questa dimensione scaturisce del tutto spontaneamente dal reciproco rispetto - proprio della carità fraterna per ogni uomo e ogni Nazione, grande o piccola, e dal riconoscimento leale degli attributi e dei diritti dei fratelli nella fede.

19. La cattolicità della Chiesa si manifesta, altresì, nell'attiva corresponsabilità e nella generosa collaborazione di tutti in favore del bene comune. La Chiesa attua dappertutto la propria universalità accogliendo, unendo ed esaltando nel modo che le è proprio, con premura materna, ogni autentico valore umano. Al tempo stesso, essa si adopera in ogni latitudine e longitudine geografica ed in ogni situazione storica per guadagnare a Dio ciascun uomo e tutti gli uomini, per unirli tra loro e con lui nella sua verità e nel suo amore.

Ogni uomo, ogni Nazione, ogni cultura e civiltà hanno un proprio ruolo da svolgere e un proprio posto nel misterioso piano di Dio e nell' universale storia della salvezza. Era questo il pensiero dei due santi Fratelli: il Dio «misericordioso e benevolo, attendendo che tutti gli uomini si pentano, perché tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità, non tollera che il genere umano soccomba alla debolezza e perisca cadendo nella tentazione del Nemico, ma in tutti gli anni e tempi non cessa di elargirci una grazia molteplice, dall'origine fino ad oggi allo stesso modo: prima, per il tramite dei patriarchi e dei padri e, dopo di loro, per il tramite dei profeti; ed ancora per il tramite degli apostoli e dei martiri, degli uomini giusti e dei dottori, che egli sceglie in mezzo a questa vita tempestosa».

20. Il messaggio evangelico, che i santi Cirillo e Metodio hanno tradotto per i popoli slavi, attingendo sapientemente dal tesoro della Chiesa «cose antiche e nuove», è stato trasmesso mediante l'annuncio e la catechesi in conformità alle verità eterne e adattandolo, nello stesso tempo, alla concreta situazione storica. Grazie agli sforzi missionari di entrambi i Santi, i popoli slavi poterono per la prima volta prender coscienza della propria vocazione a partecipare all'eterno disegno della Santissima Trinità, nell'universale piano di salvezza del mondo. Con ciò riconoscevano pure il proprio ruolo a vantaggio dell'intera storia dell'umanità creata da Dio Padre, redenta dal Figlio Salvatore e illuminata dallo Spirito Santo. Grazie a questo annuncio, approvato a suo tempo dalle autorità della Chiesa, i Vescovi di Roma e i Patriarchi di Costantinopoli, gli Slavi poterono sentirsi, insieme con le altre Nazioni della terra, discendenti ed eredi della promessa, fatta da Dio ad Abramo. In questo modo, grazie all'organizzazione ecclesiastica creata da san Metodio ed alla consapevolezza della propria identità cristiana, essi presero il posto a loro destinato nella Chiesa, ormai sorta anche in quella parte d'Europa. Per questo, i loro odierni discendenti conservano un grato ed imperituro ricordo di colui che è diventato l'anello che li unisce alla catena dei grandi araldi della divina Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento: «Dopo tutti costoro Dio misericordioso, al nostro tempo, suscitò in favore del nostro popolo - di cui nessuno si era mai preoccupato - per la buona impresa il nostro maestro, il beato Metodio, le cui virtù e lotte noi paragoniamo senza arrossire, ad una ad una, a quelle di tali uomini graditi a Dio».

CAPITOLO VI

IL VANGELO E LA CULTURA

21. I Fratelli di Salonicco erano eredi non solo della fede, ma anche della cultura della Grecia antica, continuata da Bisanzio. E si sa quale importanza questa eredità abbia per l'intera cultura europea e, direttamente o indirettamente, per quella universale. Nell'opera di evangelizzazione, che essi compirono - come pionieri in territorio abitato da popoli slavi -, è contenuto al tempo stesso un modello di ciò che oggi porta il nome di «inculturazione» - l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone - ed insieme l'introduzione di esse nella vita della Chiesa.

Incarnando il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che evangelizzavano, i santi Cirillo e Metodio ebbero particolari meriti per la formazione e lo sviluppo di quella stessa cultura o, meglio, di molte culture. Infatti, tutte le culture delle Nazioni slave debbono il proprio «inizio» o il proprio sviluppo all'opera dei Fratelli di Salonicco. Questi, infatti, con la creazione, originale e geniale, di un alfabeto per la lingua slava, diedero un contributo fondamentale alla cultura e alla letteratura di tutte le Nazioni slave.

La traduzione poi dei Libri sacri, eseguita da Cirillo e Metodio unitamente ai loro discepoli. conferì capacità e dignità culturale alla lingua liturgica paleoslava, che divenne per lunghi secoli non solo la lingua ecclesiastica, ma anche quella ufficiale e letteraria, e persino la lingua comune delle classi più colte della maggior parte delle Nazioni slave e, in particolare, di tutti gli Slavi di rito orientale. Essa veniva usata anche nella Chiesa di Santa Croce in Cracovia, presso la quale si erano stabiliti i Benedettini slavi. Qui furono pubblicati i primi libri liturgici, stampati in questa lingua. Fino ad oggi è questa la lingua usata nella liturgia bizantina delle Chiese Orientali slave di rito costantinopolitano sia cattoliche che ortodosse nell'Europa Orientale e Sud-Orientale, nonché in diversi Paesi dell'Europa Occidentale, ed è anche usata nella liturgia romana dei cattolici di Croazia.

22. Nello sviluppo storico degli Slavi di rito orientale tale lingua ebbe un ruolo pari a quello della lingua latina in Occidente. Essa, inoltre, si è conservata più a lungo in parte fino al secolo XIX - ed ha esercitato un influsso molto più diretto sulla formazione delle lingue native letterarie, grazie agli stretti rapporti di parentela con esse.

Questi meriti per la cultura di tutti i popoli e di tutte le Nazioni slave rendono l'opera di evangelizzazione svolta dai santi Cirillo e Metodio, in un certo senso, costantemente presente nella storia e nella vita di questi popoli e di queste Nazioni.

CAPITOLO VII

SIGNIFICATO E IRRADIAZIONE DEL MILLENNIO CRISTIANO NEL MONDO SLAVO

23. L'attività apostolico-missionaria dei santi Cirillo e Metodio, che cade nella seconda metà del IX secolo, può considerarsi la prima efficace evengelizzazione degli Slavi .

Essa interessò in diverso grado i singoli territori, concentrandosi principalmente su quelli dello stato della Grande Moravia di allora. Prima di tutto, abbracciò le regioni della metropolia, il cui pastore era Metodio, cioè la Moravia, la Slovacchia e la Pannonia, cioè una parte dell'odierna Ungheria. Nell'ambito del più vasto influsso esercitato da questa attività apostolica, specialmente da parte dei missionari preparati da Metodio, si trovarono gli altri gruppi di Slavi occidentali, anzitutto quelli di Boemia. Il primo principe storico della Boemia della dinastia dei Premyslidi, Bozyvoj (Borivoi), fu battezzato probabilmente secondo il rito slavo. Più tardi questo influsso raggiunse le tribù serbolusaziane, nonché i territori della Polonia meridionale. Tuttavia, dal momento della caduta della Grande Moravia (circa 905-906), a questo rito subentrò il rito latino, e la Boemia fu attribuita ecclesiasticamente al Vescovo di Ratisbona ed alla metropolia di Salisburgo. Merita, però, attenzione il fatto che ancora verso la metà del X secolo, ai tempi di san Venceslao, esisteva una forte compenetrazione degli elementi di entrambi i riti con un'avanzata simbiosi di tutte e due le lingue usate nella liturgia: la lingua slava e la lingua latina. Del resto, non era possibile la cristianizzazione del popolo senza servirsi della lingua natìa. E solamente su una tale base potè svilupparsi la terminologia cristiana nella Boemia, e da qui, successivamente, svilupparsi e consolidarsi la terminologia ecclesiastica in Polonia. La notizia sul principe dei Vislani nella Vita di Metodio è il più antico cenno storico riguardante una delle tribù polacche. Mancano i dati sufficienti per poter collegare con questa notizia l'istituzione nelle terre polacche di un'organizzazione ecclesiastica in rito slavo.

24. Il battesimo della Polonia nel 966, nella persona del primo sovrano storico Mieszko, che sposò la principessa boema Dubravka, avvenne principalmente per mezzo della Chiesa boema, e per questa via il cristianesimo giunse in Polonia da Roma nella forma latina. Resta, comunque, il fatto che i primordi del cristianesimo in Polonia si collegano in qualche modo con l'opera dei Fratelli partiti dalla lontana Salonicco.

Tra gli Slavi della penisola Balcanica le sollecitudini dei santi Fratelli fruttificarono in modo ancor più visibile. Grazie al loro apostolato si consolidò il cristianesimo già da tempo radicato in Croazia.

Principalmente per il tramite dei discepoli, espulsi dall'originario terreno di azione, la missione cirillo-metodiana si affermò e sviluppò meravigliosamente in Bulgaria. Qui, grazie a san Clemente da Ocrida, sorsero dinamici centri di vita monastica, e qui trovò sviluppo particolare l'alfabeto cirillico. Da qui pure il cristianesimo passò in altri territori, fino a raggiungere, attraverso la vicina Romania, l'antica Rus' di Kiev ed estendersi quindi da Mosca verso Oriente. Tra alcuni anni, precisamente nell'anno 1988, ricorrerà il millenario del battesimo di san Vladimiro il Grande, principe di Kiev.

25. Giustamente, dunque, i santi Cirillo e Metodio furono presto riconosciuti dalla famiglia dei popoli Slavi come padri tanto del loro cristianesimo, quanto della loro cultura. In molti dei territori già nominati, benché ci fossero stati diversi missionari, la maggioranza della popolazione slava conservava, ancora nel secolo IX, consuetudini e credenze pagane. Solamente sul terreno coltivato dai nostri Santi, o almeno da loro preparato per la coltivazione, il cristianesimo entrò in modo definitivo nella storia degli Slavi durante il secolo successivo.

La loro opera costituisce un contributo eminente per il formarsi delle comuni radici cristiane dell'Europa, quelle radici che per la loro solidità e vitalità configurano uno dei più solidi punti di riferimento, da cui non può prescindere ogni serio tentativo di ricomporre in modo nuovo ed attuale l'unità del continente.

Dopo undici secoli di cristianesimo tra gli Slavi, vediamo chiaro che il retaggio dei Fratelli di Salonicco è e resta per loro più profondo e più forte di qualunque divisione. Entrambe le tradizioni cristiane- l'orientale che deriva da Costantinopoli e l'occidentale che deriva da Roma - sono sorte nel seno dell'unica Chiesa, anche se sulla trama di diverse culture e di un diverso approccio verso gli stessi problemi. Una tale diversità, quando ne sia ben compresa l'origine e siano ben considerati il suo valore e il suo significato, può soltanto arricchire sia la cultura dell'Europa, sia la sua tradizione religiosa, e diventare, altresì, una base adeguata per il suo auspicato rinnovamento spirituale.

26. Fin dal IX secolo, quando nell'Europa cristiana si stava delineando un nuovo assetto, i santi Cirillo e Metodio ci propongono un messaggio che si rivela attualissimo per la nostra epoca, la quale, proprio in ragione dei tanti e complessi problemi di ordine religioso e culturale, civile e internazionale, cerca una vitale unità nella reale comunione di varie componenti. Dei due evangelizzatori si può dire che caratteristico fu il loro amore alla comunione della Chiesa universale sia in Oriente che in Occidente e, in essa, alla Chiesa particolare che stava nascendo nelle nazioni slave. Da essi anche per i cristiani e gli uomini del nostro tempo deriva l'invito a costruire insieme la comunione.

Ma è sul terreno specifico dell'attività missionaria che vale ancor più l'esempio di Cirillo e Metodio. Tale attività, infatti, è compito essenziale della Chiesa, ed è oggi urgente nella forma già accennata dell'«inculturazione». I due Fratelli non solo svolsero la loro missione nel pieno rispetto della cultura già esistente presso i popoli slavi. ma insieme con la religione eminentemente e incessantemente la promossero ed accrebbero. Analogamente, oggi le Chiese di antica data possono e debbono aiutare le Chiese ed i popoli giovani a maturare nella propria identità ed a progredire in essa.

27. Cirillo e Metodio sono come gli anelli di congiunzione, o come un ponte spirituale tra la tradizione orientale e la tradizione occidentale, che confluiscono entrambe nell'unica grande Tradizione della Chiesa universale. Essi sono per noi i campioni ed insieme i patroni nello sforzo ecumenico delle Chiese sorelle d'Oriente e d'Occidente, per ritrovare mediante il dialogo e la preghiera l'unità visibile nella comunione perfetta e totale, «l'unità che - come dissi in occasione della mia visita a Bari non è assorbimento e neppure fusione». L'unità è l'incontro nella verità e nell'amore, che ci sono donati dallo Spirito. Cirillo e Metodio, nella loro personalità e nella loro opera, sono figure che risvegliano in tutti i cristiani una grande «nostalgia per l'unione» e per l'unità tra le due Chiese sorelle dell'Oriente e dell'Occidente. Per la piena cattolicità, ogni Nazione, ogni cultura ha un proprio ruolo da svolgere nell'universale piano di salvezza. Ogni tradizione particolare, ogni Chiesa locale deve rimanere aperta ed attenta alle altre Chiese e tradizioni e, nel contempo, alla comunione universale e cattolica; se rimanesse chiusa in sé, correrebbe il pericolo di impoverirsi anch'essa.

Attuando il proprio carisma, Cirillo e Metodio recarono un contributo decisivo alla costruzione dell'Europa non solo nella comunione religiosa cristiana, ma anche ai fini della sua unione civile e culturale. Nemmeno oggi esiste un'altra via per superare le tensioni e riparare le rotture e gli antagonismi sia nell'Europa che nel mondo, i quali minacciano di provocare una spaventosa distruzione di vite e di valori. Essere cristiani nel nostro tempo significa essere artefici di comunione nella Chiesa e nella società. A questo fine valgono l'animo aperto ai fratelli, la mutua comprensione, la prontezza nella cooperazione mediante lo scambio generoso dei beni culturali e spirituali.

In effetti, una delle aspirazioni fondamentali dell'umanità di oggi è quella di ritrovare l'unità e la comunione per una vita veramente degna dell'uomo a livello planetario. La Chiesa, consapevole di essere segno e sacramento universale di salvezza e di unità del genere umano, si dichiara pronta ad assolvere questo suo dovere «che le condizioni del tempo rendono più urgente, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti da vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano conseguire anche la piena unità in Cristo».

CAPITOLO VIII

CONCLUSIONE

28. Conviene, pertanto, che tutta la Chiesa celebri con solennità e con gioia gli undici secoli trascorsi dalla conclusione dell'opera apostolica del primo arcivescovo ordinato a Roma per i popoli slavi, Metodio, e di suo fratello Cirillo, ricordando l'ingresso di questi popoli sulla scena della storia della salvezza e nel novero delle Nazioni europee che, già durante i secoli precedenti, avevano accolto il messaggio evangelico. Tutti possono comprendere con quale profonda esultanza intende partecipare a questa celebrazione il primo figlio della stirpe slava chiamato, dopo quasi due millenni, ad occupare la sede episcopale che fu di San. Pietro in questa città di Roma.

29. «Nelle tue mani consegno il mio spirito»: noi salutiamo l'XI centenario della morte di san Metodio con le stesse parole, che furono da lui pronunciate - secondo quanto riferisce la sua Vita in lingua paleoslava prima di morire, mentre stava per riunirsi ai suoi padri nella fede, nella speranza e nella carità: ai patriarchi, ai profeti, agli apostoli, ai dottori, ai martiri. Con la testimonianza della parola e della vita, sostenute dal carisma, dello Spirito, egli dette l'esempio di una vocazione feconda sia per il secolo in cui visse, sia per i secoli successivi e, in modo particolare, per i nostri tempi.

Il suo beato «transito» nella primavera dell'anno 885 dall'incarnazione di Cristo (e secondo il computo bizantino del tempo, nell'anno 6393 dalla creazione del mondo) avvenne in un periodo in cui inquietanti nubi si addensavano sopra Costantinopoli e ostili tensioni minacciavano sempre di più la quiete e la vita delle Nazioni, e persino i sacri vincoli della fratellanza cristiana e della comunione tra le Chiese dell'Oriente e dell'Occidente.

Nella sua Cattedrale, colma di fedeli di stirpi diverse, i discepoli di san Metodio resero solenne omaggio al defunto pastore per il messaggio di salvezza, di pace e di riconciliazione che aveva portato ed al quale aveva dedicato la sua vita: «Celebrarono un ufficio sacro in latino greco e slavo», adorando Dio e venerando il primo arcivescovo della Chiesa, da lui fondata tra gli Slavi, ai quali aveva annunciato il Vangelo insieme al fratello nella loro propria lingua. Questa Chiesa si rafforzò ancora di più, quando per esplicito consenso del Papa ricevette una gerarchia autoctona. radicata nella successione apostolica e collegata in unità di fede e di amore sia con la Chiesa di Roma, sia con quella di Costantinopoli, dalla quale la missione slava aveva preso inizio.

Mentre si compiono undici secoli dalla sua morte, desidero ritrovarmi almeno spiritualmente a Velehrad, dove - come sembra - la Provvidenza permise a Metodio di concludere la sua vita apostolica:

- desidero anche fermarmi nella Basilica di San Clemente a Roma, nel luogo ove fu sepolto san Cirillo;

- e presso le Tombe di entrambi questi Fratelli, apostoli degli Slavi, desidero raccomandare alla Santissima Trinità la loro eredità spirituale con una speciale preghiera .

30. «Nelle tue mani consegno...».

O Dio grande, uno nella Trinità, io ti affido il retaggio della fede delle Nazioni slave: conserva e benedici questa tua opera!

Ricorda, o Padre onnipotente, il momento nel quale, secondo la tua volontà, giunse per questi popoli e per queste Nazioni la «pienezza dei tempi» e i santi missionari di Salonicco adempirono fedelmente il comando che il tuo Figlio Gesù Cristo aveva rivolto ai suoi apostoli; seguendo le loro orme e quelle dei loro successori, essi recarono nelle terre abitate dagli Slavi la luce del Vangelo, la Buona Novella della salvezza, e davanti a loro, testimoniarono:

- che tu sei Creatore dell'uomo, che ci sei Padre ed in te noi uomini siamo tutti fratelli;

- che per mezzo del Figlio, tua Parola eterna, hai donato l'esistenza a tutte le cose ed hai chiamato gli uomini a partecipare alla tua vita senza fine;

- che hai tanto amato il mondo da fargli dono del tuo Figlio unigenito, il quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo;

- che, infine, hai inviato lo Spirito della potenza e della consolazione, perché ogni uomo, redento da Cristo, potesse in lui ricevere la dignità di figlio e diventare coerede delle indefettibili promesse, da te fatte all'umanità!

Il tuo piano creatore, o Padre, culminato nella Redenzione, tocca l'uomo vivente e abbraccia l'intera sua vita e la storia di tutti i popoli.

Esaudisci, o Padre, ciò che da te implora oggi tutta la Chiesa e fa' che gli uomini e le Nazioni, che, grazie alla missione apostolica dei santi Fratelli di Salonicco, conobbero ed accolsero te, Dio vero, e mediante il Battesimo entrarono nella santa comunità dei tuoi figli, possano continuare ancora, senza ostacoli, ad accogliere con entusiasmo e fiducia questo programma evangelico ed a realizzare tutte le proprie possibilità umane sul fondamento dei loro insegnamenti!

- Possano essi seguire, in conformità alla propria coscienza, la voce della tua chiamata lungo le vie loro indicate per la prima volta undici secoli or sono!

- La loro appartenenza al Regno del tuo Figlio non possa esser considerata da nessuno in contrasto col bene della patria terrena!

- Possano rendere a te la lode dovuta nella vita privata e in quella pubblica!

- Possano vivere nella verità, nella carità, nella giustizia e nel godimento della pace messianica, che abbraccia i cuori umani, le comunità, la terra e l'intero cosmo!

- Consci della loro dignità di uomini e di figli di Dio, possano avere la forza di superare ogni odio e di vincere il male col bene!

Ma anche a tutta l'Europa, o Trinità Santissima, concedi che per intercessione dei due santi Fratelli senta sempre maggiormente l'esigenza dell'unità religioso-cristiana e della fraterna comunione di tutti i suoi popoli, così che, superata l'incomprensione e la sfiducia reciproca e vinti i conflitti ideologici nella comune coscienza della verità, possa essere per il mondo intero un esempio di giusta e pacifica convivenza, nel mutuo rispetto e nell'inviolata libertà.

31. A te, dunque, Dio Padre onnipotente, Dio Figlio che hai redento il mondo, Dio Spirito che sei sostegno e maestro di ogni santità, desidero affidare l'intera Chiesa di ieri, di oggi e di domani, la Chiesa che è in Europa e che è diffusa su tutta la terra. Nelle tue mani io consegno questa singolare ricchezza, composta da tanti diversi doni, antichi e nuovi, immessi nel tesoro comune da tanti figli diversi.

Tutta la Chiesa ringrazia te, che chiamasti le Nazioni slave alla comunione della fede, per il retaggio e il contributo da esse apportato al patrimonio universale. Ti ringrazia per questo, in modo particolare, il papa di origine slava. Tale contributo non cessi mai di arricchire la Chiesa, il continente europeo e il mondo intero! Non venga meno nell'Europa e nel mondo d'oggi! Non manchi nella coscienza dei nostri contemporanei! Noi desideriamo accogliere integralmente tutto ciò che di originale e di valido le Nazioni slave hanno recato e recano al patrimonio spirituale della Chiesa e dell'umanità. La Chiesa tutta consapevole della comune ricchezza, professa la sua solidarietà spirituale con loro e ribadisce la propria responsabilità verso il Vangelo, per l'opera di salvezza che è chiamata ad attuare anche oggi in tutto il mondo, fino ai confini della terra. È indispensabile risalire al passato per comprendere, alla sua luce, la realtà attuale e presagire il domani. La missione della Chiesa è, infatti, sempre orientata e protesa con indefettibile speranza verso il futuro.

32. Il Futuro! Per quanto possa umanamente apparire gravido di minacce e di incertezze, lo deponiamo con fiducia nelle tue mani, Padre celeste, invocando l'intercessione della Madre del tuo Figlio e Madre della Chiesa, quella dei tuoi apostoli Pietro e Paolo e dei santi Benedetto, Cirillo e Metodio, di Agostino e Bonifacio e di tutti gli altri evangelizzatori dell'Europa, i quali, forti nella fede, nella speranza e nella carità, annunciarono ai nostri padri la tua salvezza e la tua pace, e con le fatiche della semina spirituale dettero inizio alla costruzione della civiltà dell'amore, al nuovo ordine basato sulla tua santa legge e sull'aiuto della tua grazia, che alla fine dei tempi vivificherà tutto e tutti nella Gerusalemme celeste. Amen .

A voi, Fratelli e Sorelle carissimi, la mia Benedizione Apostolica .

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 giugno, Solennità della Santissima Trinità, dell'anno 1985, settimo del mio Pontificato.

 

 

 

REDEMPTORIS MISSIO

 

LETTERA ENCICLICA
REDEMPTORIS MISSIO
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
CIRCA LA PERMANENTE VALIDITA'
DEL MANDATO MISSIONARIO

Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!

INTRODUZIONE

1. La missione di Cristo redentore, affidata alla chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio dalla sua venuta uno sguardo d'insieme all'umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio. È lo Spirito che spinge ad annunziare le grandi opere di Dio: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo!». (1Cor9,16) A nome di tutta la chiesa, sento imperioso il dovere di ripetere questo grido di san Paolo. Già dall'inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria, e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha ancor più convinto dell'urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica. Il concilio Vaticano II ha inteso rinnovare la vita e l'attività della chiesa secondo le necessità del mondo contemporaneo: ne ha sottolineato la «missionarietà» fondandola dinamicamente sulla stessa missione trinitaria. L'impulso missionario, quindi, appartiene all'intima natura della vita cristiana e ispira anche l'ecumenismo: «Che tutti siano una cosa sola...., perché il mondo creda che tu mi hai mandato». (Gv17,21)

2. Molti sono già stati i frutti missionari del concilio: si sono moltiplicate le chiese locali fornite di propri vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle comunità cristiane nella vita dei popoli; la comunione fra le chiese porta a un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l'impegno evangelizzatore dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le chiese particolari si aprono all'incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali.

Tuttavia, in questa «nuova primavera» del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del concilio e del magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno indebolito lo slancio missionario della chiesa verso i non cristiani, ed è un fatto, questo, che deve preoccupare tutti i credenti in Cristo.

Nella storia della chiesa, infatti, la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede. (1) A venticinque anni dalla conclusione del concilio e dalla pubblicazione del decreto sull'attività missionaria Ad gentes, a quindici anni dall'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del pontefice Paolo VI di v.m., desidero invitare la chiesa a un rinnovato impegno missionario, continuando il magistero dei miei predecessori a tale riguardo. (2)

Il presente documento ha una finalità interna: il rinnovamento della fede e della vita cristiana. La missione, infatti, rinnova la chiesa, rinvigorisce la fede e l'identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell'impegno per la missione universale. Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza. «Cristo redentore - ho scritto nella prima enciclica - rivela pienamente l'uomo a se stesso... L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo... deve avvicinarsi a Cristo... La redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo». (3) Né mancano altre motivazioni e finalità: rispondere alle molte richieste per un documento di questo genere dissipare dubbi e ambiguità circa la missione ad gentes, confermando nel loro impegno i benemeriti fratelli e sorelle dediti all'attività missionaria e tutti coloro che li aiutano; promuovere le vocazioni missionarie, incoraggiare i teologi ad approfondire ed esporre sistematicamente i vari aspetti della missione; rilanciare la missione in senso specifico, impegnando le chiese particolari specie quelle giovani, a mandare e ricevere missionari, assicurare i non cristiani e, in particolare, le autorità dei paesi verso cui si rivolge l'attività missionaria, che questa ha un unico fine: servire l'uomo rivelandogli l'amore di Dio, che si è manifestato in Gesù Cristo.

3. Popoli tutti, aprite le porte a Cristo! Il suo vangelo nulla toglie alla libertà dell'uomo, al dovuto rispetto delle culture, a quanto c'è di buono in ogni religione. Accogliendo Cristo, voi vi aprite alla parola definitiva di Dio, a colui nel quale Dio si è fatto pienamente conoscere e ci ha indicato la via per arrivare a lui. Il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della chiesa è in continuo aumento, anzi dalla fine del concilio è quasi raddoppiato. Per questa umanità immensa, amata dal Padre che per essa ha inviato il suo Figlio, è evidente l'urgenza della missione. D'altra parte, in questo campo il nostro tempo offre nuove occasioni alla chiesa: il crollo di ideologie e di sistemi politici oppressivi; l'apertura delle frontiere e il formarsi di un mondo più unito grazie all'incremento delle comunicazioni, l'affermassi tra i popoli di quei valori evangelici, che Gesù ha incarnato nella sua vita (pace, giustizia, fraternità, dedizione ai più piccoli); un tipo di sviluppo economico e tecnico senz'anima, che pur sollecita a ricercare la verità su Dio, sull'uomo, sul significato della vita. Dio apre alla chiesa gli orizzonti di un'umanità più preparata alla semina evangelica. Sento venuto il momento di impegnare tutte le forze ecclesiali per la nuova evangelizzazione e per la missione ad gentes. Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli.

PARTE I

GESÙ CRISTO UNICO SALVATORE

4. «Il compito fondamentale della chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra - ricordavo nella prima enciclica programmatica - è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo». (4)

La missione universale della chiesa nasce dalla fede in Gesù Cristo, come si dichiara nella professione della fede trinitaria: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli...

Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo». (5) Nell'evento della redenzione è la salvezza di tutti, «perché ognuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero». (6) Soltanto nella fede si comprende e si fonda la missione.

Eppure, anche a causa dei cambiamenti moderni e del diffondersi di nuove idee teologiche alcuni si chiedono:

È ancora attuale la missione tra i non cristiani? Non è forse sostituita dal dialogo inter-religioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?

«Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».

5. Risalendo alle origini della chiesa, troviamo chiaramente affermato che Cristo è l'unico salvatore (Gv14,6) di tutti colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio. Alle autorità religiose giudaiche che interrogano gli apostoli in merito alla guarigione dello storpio, da lui operata, Pietro risponde: «Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo... in nessun altro c'è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati». (At4,10) Questa affermazione, rivolta al sinedrio, ha un valore universale, poiché per tutti - giudei e gentili - la salvezza non può venire che da Gesù Cristo. L'universalità di questa salvezza in Cristo e affermata in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo riconosce in Cristo risorto il Signore: «In realtà - scrive anche se ci sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui; e c'è un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». (1Cor8,5) L'unico Dio e l'unico Signore sono affermati in contrasto con la moltitudine di «dèi» e «signori» che il popolo ammetteva. Paolo reagisce contro il politeismo dell'ambiente religioso del suo tempo e pone in rilievo la caratteristica della fede cristiana: fede in un solo Dio e in un solo Signore, inviato da Dio. Nel vangelo di san Giovanni questa universalità salvifica di Cristo comprende gli aspetti della sua missione di grazia, di verità e di rivelazione: «Il Verbo è la luce vera, che illumina ogni uomo». (Gv1,9) E ancora: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato». (Gv1,18); (Mt11,27) La rivelazione di Dio si fa definitiva e completa a opera del suo Figlio unigenito: «Dio, che nei tempi antichi aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo». (Eb1,1); (Gv14,6) In questa Parola definitiva della sua rivelazione Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso. Cristo è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Uno solo, infatti, è Dio, e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l'ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo - dico la verità, non mentisco -, maestro dei pagani nella fede e nella verità». (1Tm2,5); (Eb4,14) Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari.

6. È contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo. San Giovanni afferma chiaramente che il Verbo, che «era in principio presso Dio», è lo stesso che «si fece carne»: (Gv1,2) Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile. Non si può separare Gesù da Cristo, né parlare di un «Gesù della storia», che sarebbe diverso dal «Cristo della fede». La chiesa conosce e confessa Gesù come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente»: (Mt16,16) Cristo non è altro che Gesù di Nazareth, e questi è il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti. In Cristo «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col2,9) e «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto». (Gv1,16) «Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre», (Gv1,18) è «il Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione... Piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli». (Col1,13) È proprio questa singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e universale, per cui, mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa storia: (7) «Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine». (Ap22,13) Se, dunque, è lecito e utile considerare i vari aspetti del mistero di Cristo, non bisogna mai perdere di vista la sua unità. Mentre andiamo scoprendo e valorizzando i doni di ogni genere, soprattutto le ricchezze spirituali, che Dio ha elargito a ogni popolo, non possiamo disgiungerli da Gesù Cristo, il quale sta al centro del piano divino di salvezza. Come «con l'incarnazione il Figlio di Dio s'è unito in un certo modo a ogni uomo», così «dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. (8) Il disegno divino è «di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». (Ef1,10)

La fede in Cristo è una proposta alla libertà dell'uomo.

7. L'urgenza dell'attività missionaria emerge dalla radicale no vita di vita, portata da Cristo e vissuta dai suoi discepoli. Questa nuova vita è dono di Dio, e all'uomo è richiesto di accoglierlo e di svilupparlo, se vuole realizzarsi secondo la sua vocazione integrale in conformità a Cristo. Tutto il Nuovo Testamento è un inno alla vita nuova per colui che crede in Cristo e vive nella sua chiesa. La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla chiesa, è autocomunicazione di Dio: «È l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito santo. Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso». (9) Dio offre all'uomo questa novità di vita. «Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell'uomo? Certamente si può. L'uomo è libero. L'uomo può dire a Dio: no. L'uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: È lecito farlo? e in nome di che cosa è lecito?». (10)

8. Nel mondo moderno c'è la tendenza a ridurre l'uomo alla sola dimensione orizzontale. Ma che cosa diventa l'uomo senza apertura verso l'Assoluto? La risposta sta nell'esperienza di ogni uomo, ma è anche inscritta nella storia dell'umanità col sangue versato in nome di ideologie e da regimi politici, che hanno voluto costruire un'«umanità nuova» senza Dio. (11) Del resto, a quanti sono preoccupati di salvare la libertà di coscienza, risponde il concilio Vaticano II: «La persona umana ha il diritto alla libertà religiosa...Tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la coscienza, né sia impedito, entro certi limiti, di agire in conformità a essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata». (12) L'annunzio e la testimonianza di Cristo, quando sono fatti in modo rispettoso delle coscienze, non violano la libertà. La fede esige la libera adesione dell'uomo, ma deve essere proposta, poiché «le moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo, nel quale crediamo che tutta l'umanità può trovare, in una pienezza insospettabile, tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull'uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità... Per questo la chiesa mantiene il suo slancio missionario e vuole, altresì, intensificarlo nel nostro momento storico». (13) Bisogna dire anche, però, sempre col concilio, che «a motivo della loro dignità tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotati cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. Essi sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e a ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze». (14)

La Chiesa segno e strumento di salvezza

9. Prima beneficiaria della salvezza è la chiesa: il Cristo se l'è acquistata col suo sangue (At20,28) e l'ha fatta sua collaboratrice nell'opera della salvezza universale. Infatti, Cristo vive in essa; è il suo sposo; opera la sua crescita; compie la sua missione per mezzo di essa. Il concilio ha ampiamente richiamato il ruolo della chiesa per la salvezza dell'umanità. Mentre riconosce che Dio ama tutti gli uomini e accorda loro la possibilità della salvezza, (1Tm2,4); (15) la chiesa professa che Dio ha costituito Cristo come unico mediatore e che essa stessa è posta come sacramento universale di salvezza: (16) «Tutti gli uomini, quindi, sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio..., e a essa in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia tutti gli uomini universalmente, chiamati a salvezza dalla grazia di Dio». (17) È necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della chiesa in ordine a tale salvezza. Ambedue favoriscono la comprensione dell'unico mistero salvifico, sì da potere sperimentare la misericordia di Dio e la nostra responsabilità. La salvezza, che è sempre dono dello Spirito, esige la collaborazione dell'uomo per salvare sia se stesso che gli altri. Così ha voluto Dio, e per questo ha stabilito e coinvolto la chiesa nel piano della salvezza: «Questo popolo messianico - dice il concilio costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto quale strumento della redenzione di tutti e, come luce del mondo e sale della terra, è inviato a tutto il mondo». (18)

La salvezza è offerta a tutti gli uomini

10. L'universalità della salvezza non significa che essa è accordata solo a coloro che, in modo esplicito, credono in Cristo e sono entrati nella chiesa. Se è destinata a tutti, la salvezza deve essere messa in concreto a disposizione di tutti. Ma è evidente che, oggi come in passato, molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del vangelo, di entrare nella chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose. Per essi la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione. Per questo il concilio, dopo aver affermato la centralità del mistero pasquale, afferma: «E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti, e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò, dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale». (19)

« Noi non possiamo tacere » (At 4,20)

11. Che dire allora delle obiezioni, già ricordate, in merito alla missione ad gentes? Nel rispetto di tutte le credenze e di tutte le sensibilità, dobbiamo anzitutto affermare con semplicità la nostra fede in Cristo, unico salvatore dell'uomo, fede che abbiamo ricevuto come dono dall'alto senza nostro merito. Noi diciamo con Paolo: «Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede». (Rm1,16) I martiri cristiani di tutti i tempi anche del nostro hanno dato e continuano a dare la vita per testimoniare agli uomini questa fede, convinti che ogni uomo ha bisogno di Gesù Cristo, il quale ha sconfitto il peccato e la morte e ha riconciliato gli uomini con Dio. Cristo si è proclamato Figlio di Dio, intimamente unito al Padre e, come tale, è stato riconosciuto dai discepoli, confermando le sue parole con i miracoli e la risurrezione da morte. La chiesa offre agli uomini il vangelo, documento profetico, rispondente alle esigenze e aspirazioni del cuore umano: esso è sempre «buona novella». La chiesa non può fare a meno di proclamare che Gesù è venuto a rivelare il volto di Dio e a meritare con la croce e la risurrezione, la salvezza per tutti gli uomini. All'interrogativo: perché la missione? noi rispondiamo con la fede e con l'esperienza della chiesa che aprirsi all'amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente «la nostra pace», (Ef2,14) e «l'amore di Cristo ci spinge», (2Cor5,14) dando senso e gioia alla nostra vita. La missione è un problema di fede, è l'indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi. La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una «graduale secolarizzazione della salvezza», per cui ci si batte, sì, per l'uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale. Noi invece, sappiamo che Gesù è venuto a portare la salvezza integrale, che investe tutto l'uomo e tutti gli uomini, aprendoli ai mirabili orizzonti della filiazione divina. Perché la missione? Perché a noi, come a san Paolo, «è stata concessa la grazia di annunziare ai pagani le imperscrutabili ricchezze di Cristo». (Ef3,8) La novità di vita in lui è la «buona novella» per l'uomo di tutti i tempi: a essa tutti gli uomini sono chiamati e destinati.

Tutti di fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, e hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi. La chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per esser comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall'esigenza profonda della vita di Dio in noi. Coloro che sono incorporati nella chiesa cattolica devono sentirsi dei privilegiati, e per ciò stesso maggiormente impegnati a testimoniare la fede e la vita cristiana come servizio ai fratelli e doverosa risposta a Dio, memori che «la loro eccellente condizione non è da ascrivere ai loro meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, lungi dal salvarsi, saranno più severamente giudicati». (20)

PARTE II

IL REGNO Dl DIO

12. «Dio, ricco di misericordia, è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere». (21) Questo scrivevo all'inizio dell'enciclica Dives in misericordia, mostrando come il Cristo è la rivelazione e l'incarnazione della misericordia del Padre. La salvezza consiste nel credere e accogliere il mistero del Padre e del suo amore che si manifesta e si dona in Gesù mediante lo Spirito. Così si compie il regno di Dio, preparato già dall'antica alleanza, attuato da Cristo e in Cristo, annunciato a tutte le genti dalla chiesa, che opera e prega affinché si realizzi in modo perfetto e definitivo. L'Antico Testamento attesta che Dio si è scelto e formato un popolo, per rivelare e attuare il suo disegno d'amore. Ma, nello stesso tempo, Dio è creatore e padre di tutti gli uomini, di tutti si prende cura, a tutti estende la sua benedizione (Gen12,3) e con tutti ha stretto un'alleanza. (Gen9,1) Israele fa l'esperienza di un Dio personale e salvatore, (Dt4,37); (Dt7,6); (Is43,1) del quale diventa il testimone e il portavoce in mezzo alle nazioni. Nel corso della sua storia Israele prende coscienza che la sua elezione ha un significato universale.(Is2,2); (Is25,6); (Is60,1); (Ger3,17); (Ger16,19)

Cristo rende presente il Regno

13. Gesù di Nazareth porta a compimento il disegno di Dio. Dopo aver ricevuto lo Spirito santo nel battesimo, egli manifesta la sua vocazione messianica: percorre la Galilea «predicando il vangelo di Dio e dicendo: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"». (Mc1,14); (Mt4,17); (Lc4,43) La proclamazione e l'instaurazione del regno di Dio sono l'oggetto della sua missione: «È per questo che sono stato inviato». (Lc4,43) Ma c'è di più: Gesù è lui stesso la «buona novella», come afferma già all'inizio della missione nella sinagoga del suo paese, applicando a sé le parole di Isaia sull'Unto, inviato dallo Spirito del Signore. (Lc4,14) Essendo la «buona novella», in Cristo c'è identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l'agire e l'essere. La sua forza, il segreto dell'efficacia della sua azione sta nella totale identificazione col messaggio che annunzia: egli proclama la «buona novella» non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Il ministero di Gesù è descritto nel contesto dei viaggi nella sua terra. L'orizzonte della missione prima della pasqua è centrato su Israele; tuttavia, Gesù offre un elemento nuovo di importanza capitale. La realtà escatologica non è rinviata a una fine remota del mondo, ma si fa vicina e comincia ad attuarsi. Il regno di Dio si avvicina, (Mc1,15) si prega perché venga, (Mt6,10) la fede lo scorge già operante nei segni, quali i miracoli, (Mt11,4) gli esorcismi, (Mt3,13) l'annunzio della «buona novella» ai poveri. (Lc4,18) Negli incontri di Gesù con i pagani è chiaro che l'accesso al regno avviene mediante la fede e la conversione (Mc1,15) e non per semplice appartenenza etnica. Il regno che Gesù inaugura è il regno di Dio: Gesù stesso rivela chi è questo Dio, che chiama col termine familiare di «abbà», Padre. (Mc14,36) Il Dio, rivelato soprattutto nelle parabole, (Lc15,3); (Mt20,1) è sensibile alle necessità e alle sofferenze di ogni uomo: è un Padre amoroso e pieno di compassione, che perdona e dà gratuitamente le grazie richieste. San Giovanni ci dice che «Dio è amore». (1Gv4,8) Ogni uomo, perciò, è invitato a «convertirsi» e a «credere» all'amore misericordioso di Dio per lui: il regno crescerà nella misura in cui ogni uomo imparerà a rivolgersi a Dio nell'intimità della preghiera come a un Padre (Lc11,2); (Mt23,9) e si sforzerà di compiere la sua volontà. (Mt7,21)

Caratteristiche ed esigenze del Regno

14. Gesù rivela progressivamente le caratteristiche ed esigenze del regno mediante le sue parole, le sue opere e la sua persona. Il regno di Dio è destinato a tutti gli uomini, essendo tutti chiamati a esserne membri. Per sottolineare questo aspetto, Gesù si è avvicinato soprattutto a quelli che erano ai margini della società, dando a essi la preferenza quando annunziava la «buona novella». All'inizio dei suo ministero egli proclama di essere stato mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio. (Lc4,18) A tutte le vittime del rifiuto e del disprezzo dichiara: «Beati voi poveri» (Lc6,20); inoltre, a questi emarginati fa già vivere un'esperienza di liberazione stando con loro (Lc5,30); (Lc15,2) andando a mangiare con loro, trattandoli come uguali e amici (Lc7,34), facendoli sentire amati da Dio e rivelando così la sua immensa tenerezza verso i bisognosi e i peccatori. (Lc15,1)

La liberazione e la salvezza, portate dal regno di Dio raggiungono la persona umana nelle sue dimensioni sia fisiche che spirituali. Due gesti caratterizzano la missione di Gesù: il guarire e il perdonare. Le molteplici guarigioni dimostrano la sua grande compassione di fronte alle miserie umane; ma significano pure che nel regno non vi saranno più né malattie né sofferenze e che la sua missione mira fin dall'inizio a liberare le persone da esse. Nella prospettiva di Gesù le guarigioni sono anche segno della salvezza spirituale, cioè della liberazione dal peccato. Compiendo gesti di guarigione, Gesù invita alla fede, alla conversione, al desiderio di perdono. (Lc5,24) Ricevuta la fede, la guarigione spinge a proseguire più lontano: introduce nella salvezza. (Lc18,42) I gesti di liberazione dalla possessione del demonio, male supremo e simbolo del peccato e della ribellione contro Dio, sono segni che «il regno di Dio è giunto fra voi». (Mt12,28)

15. Il regno mira a trasformare i rapporti tra gli uomini e si attua progressivamente, man mano che essi imparano ad amarsi, a perdonarsi, a servirsi a vicenda. Gesù riprende tutta la legge, incentrandola sul comandamento dell'amore. (Mt22,34); (Lc10,25) Prima di lasciare i suoi, dà loro un «comandamento nuovo»: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato». (Gv13,34); (Gv15,12) L'amore, con cui Gesù ha amato il mondo, trova l'espressione più alta nel dono della sua vita per gli uomini, (Gv15,13) che manifesta l'amore che il Padre ha per il mondo. (Gv3,16) Perciò, la natura del regno è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio. Il regno riguarda tutti: le persone, la società, il mondo intero. Lavorare per il regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino, che è presente nella storia umana e la trasforma. Costruire il regno vuol dire lavorare per la liberazione dal male in tutte le sue forme. In sintesi, il regno di Dio è la manifestazione e l'attuazione del suo disegno di salvezza in tutta la sua pienezza.

Nel Risorto il Regno si compie ed è proclamato

16. Risuscitando Gesù dai morti, Dio ha vinto la morte e in lui ha inaugurato definitivamente il suo regno. Durante la vita terrena Gesù è il profeta del regno e, dopo la sua passione, risurrezione e ascensione al cielo, partecipa della potenza di Dio e del suo dominio sul mondo. (Mt28,18); (At2,36); (Ef1,18) La risurrezione conferisce una portata universale al messaggio di Cristo, alla sua azione e a tutta la sua missione. I discepoli avvertono che il regno è già presente nella persona di Gesù e viene a poco a poco instaurato nell'uomo e nel mondo mediante un misterioso legame con lui. Dopo la risurrezione, infatti, essi predicavano il regno annunziando Gesù morto e risorto. Filippo in Samaria «recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo». (At8,12) Paolo a Roma «annunziava il regno di Dio e insegnava le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo». (At28,31) Anche i primi cristiani annunziavano «il regno di Cristo e di Dio», (Ef5,5); (Ap11,15); (Ap12,10) oppure «il regno eterno del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo». (2Pt1,11)

È sull'annunzio di Gesù Cristo, con cui il regno si identifica, che è incentrata la predicazione della chiesa primitiva. Come allora, oggi bisogna unire l'annunzio del regno di Dio (il contenuto del «kérygma» di Gesù) e la proclamazione dell'evento Gesù Cristo (che è il «kérygma» degli apostoli). I due annunzi si completano e si illuminano a vicenda.

Il Regno in rapporto a Cristo e alla Chiesa

17. Oggi si parla molto del regno, ma non sempre in consonanza col sentire ecclesiale. Ci sono, infatti, concezioni della salvezza e della missione che si possono chiamare «antropocentriche» nel senso riduttivo del termine, in quanto sono incentrate sui bisogni terreni dell'uomo. In questa visione il regno tende a diventare una realtà del tutto umana e secolarizzata, in cui ciò che conta sono i programmi e le lotte per la liberazione socio-economica, politica e anche culturale, ma in un orizzonte chiuso al trascendente. Senza negare che anche a questo livello ci siano valori da promuovere tuttavia tale concezione rimane nei confini di un regno dell'uomo decurtato delle sue autentiche e profonde dimensioni, e si traduce facilmente in una delle ideologie di progresso puramente terreno. Il regno di Dio, invece, «non è di questo mondo..., non è di quaggiù». (Gv18,36) Ci sono, poi, concezioni che di proposito pongono l'accento sul regno e si qualificano come «regno-centriche», le quali danno risalto all'immagine di una chiesa che non pensa a se stessa, ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il regno. È una «chiesa per gli altri, si dice, come Cristo è l'«uomo per gli altri». Si descrive il compito della chiesa come se debba procedere in una duplice direzione: da un lato, promuovere i cosiddetti «valori del regno», quali la pace, la giustizia, la libertà, la fraternità; dall'altro, favorire il dialogo fra i popoli, le culture, le religioni, affinché in un vicendevole arricchimento aiutino il mondo a rinnovarsi e a camminare sempre più verso il regno. Accanto ad aspetti positivi, queste concezioni ne rivelano spesso di negativi. Anzitutto, passano sotto silenzio Cristo: il regno, di cui parlano, si fonda su un «teocentrismo», perché - dicono - Cristo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e religioni diverse si possono ritrovare nell'unica realtà divina, quale che sia il suo nome. Per lo stesso motivo esse privilegiano il mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e credenze ma tacciono sul mistero della redenzione. Inoltre, il regno, quale essi lo intendono, finisce con l'emarginare o sottovalutare la chiesa, per reazione a un supposto «ecclesiocentrismo» del passato e perché considerano la chiesa stessa solo un segno, non privo peraltro di ambiguità.

18. Ora, non è questo il regno di Dio, quale conosciamo dalla rivelazione: esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla chiesa. Come si è detto, Cristo non soltanto ha annunziato il regno, ma in lui il regno stesso si è fatto presente e si è compiuto. E non solo mediante le sue parole e le sue opere: «Innanzi tutto, il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, il quale è venuto "a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti" (Mc10,45); (22) » Il regno di Dio non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile. (23) Se si distacca il regno da Gesù, non si ha più il regno di Dio da lui rivelato e si finisce per distorcere sia il senso del regno, che rischia di trasformarsi in un obiettivo puramente umano o ideologico, sia l'identità di Cristo, che non appare più il Signore, a cui tutto deve esser sottomesso. (1Cor15,27) Parimenti, non si può disgiungere il regno dalla chiesa. Certo, questa non e fine a se stessa, essendo ordinata al regno di Dio, di cui è germe, segno e strumento. Ma, mentre si distingue dal Cristo e dal regno, la chiesa è indissolubilmente unita a entrambi. Cristo ha dotato la chiesa, suo corpo, della pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza; lo Spirito santo dimora in essa, la vivifica con i suoi doni e carismi, la santifica guida e rinnova continuamente. (24) Ne deriva una relazione singolare e unica, che` pur non escludendo l'opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della chiesa, conferisce a essa un ruolo specifico e necessario. Di qui anche lo speciale legame della chiesa col regno di Dio e di Cristo, che essa ha «la missione di annunziare e di instaurare in tutte le genti». (25)

19. È in questa visione d'insieme che si comprende la realtà del regno. Certo, esso esige la promozione dei beni umani e dei valori che si possono ben dire «evangelici», perché sono intimamente legati alla «buona novella». Ma questa promozione che pure sta a cuore alla chiesa, non deve essere distaccata né contrapposta agli altri suoi compiti fondamentali, come l'annunzio del Cristo e del suo vangelo la fondazione e lo sviluppo di comunità che attuano tra gli uomini l'immagine viva del regno. Non si tema di cadere con ciò in una forma di «ecclesiocentrismo». Paolo VI. che ha affermato l'esistenza di «un legame profondo tra il Cristo la chiesa e l'evangelizzazione» (26) ha pure detto che la chiesa «non è fine a se stessa, ma fervidamente sollecita di essere tutta di Cristo, in Cristo e per Cristo. e tutta degli uomini, fra gli uomini e per gli uomini». (27)

20. La Chiesa a servizio del Regno

La Chiesa è effettivamente e concretamente a servizio del regno. Lo è, anzitutto. con l'annunzio che chiama alla conversione: è, questo, il primo e fondamentale servizio alla venuta del regno nelle singole persone e nella società umana. La salvezza escatologica inizia già ora nella novità di vita in Cristo: «A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome». (Gv1,12) La chiesa, poi, serve il regno fondando comunità e istituendo chiese particolari e portandole alla maturazione della fede e della carità nell'apertura verso gli altri, nel servizio alla persona e alla società, nella comprensione e stima delle istituzioni umane.» La chiesa, inoltre, serve il regno diffondendo nel mondo i «valori evangelici», che del regno sono espressione e aiutano gli uomini ad accogliere il disegno di Dio. È vero, dunque, che la realtà incipiente del regno può trovarsi anche al di là dei confini della chiesa nell'umanità intera, in quanto questa viva i «valori evangelici» e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole; (Gv3,8) ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale del regno è incompleta, se non è coordinata col regno di Cristo, presente nella chiesa e proteso alla pienezza escatologica. (28) Le molteplici prospettive del regno di Dio (29) non indeboliscono i fondamenti e le finalità dell'attività missionaria, ma piuttosto li fortificano e allargano. La chiesa è sacramento di salvezza per tutta l'umanità, e la sua azione non si restringe a coloro che ne accettano il messaggio. Essa è forza dinamica nel cammino dell'umanità verso il regno escatologico, è segno e promotrice dei valori evangelici tra gli uomini. (30) A questo itinerario dl conversione al progetto di Dio la chiesa contribuisce con la sua testimonianza e con le sue attività, quali il dialogo, la promozione umana, l'impegno per la giustizia e la pace, l'educazione e la cura degli infermi, l'assistenza ai poveri e ai piccoli tenendo sempre ferma la priorità delle realtà trascendenti e spirituali, premesse della salvezza escatologica. La chiesa, infine, serve il regno anche con la sua intercessione, essendo esso per la sua natura dono e opera di Dio come ricordano le parabole evangeliche e la preghiera stessa insegnataci da Gesù. Noi dobbiamo chiederlo, accoglierlo, farlo crescere in noi; ma dobbiamo anche cooperare perché sia accolto e cresca tra gli uomini, fino a quando Cristo «consegnerà il regno a Dio Padre» e «Dio sarà tutto in tutti». (1Cor15,24)

PARTE III

LO SPIRITO SANTO PROTAGONISTA DELLA MISSIONE

21. «Al culmine della missione messianica di Gesù, lo Spirito santo diventa presente nel mistero pasquale in tutta la sua soggettività divina, come colui che deve ora continuare l'opera salvifica, radicata nel sacrificio della croce. Senza dubbio questa opera viene affidata da Gesù a uomini: agli apostoli, alla chiesa. Tuttavia, in questi uomini e per mezzo di essi, lo Spirito santo rimane il trascendente soggetto protagonista della realizzazione di tale opera nello spirito dell'uomo e nella storia del mondo». (31) Lo Spirito santo invero è il protagonista di tutta la missione ecclesiale: la sua opera rifulge eminentemente nella missione ad gentes, come appare nella chiesa primitiva per la conversione di Cornelio, (At10,1) per le decisioni circa i problemi emergenti, (At15,1) per la scelta dei territori e dei popoli. (At16,6) Lo Spirito opera per mezzo degli apostoli, ma nello stesso tempo opera anche negli uditori: «Mediante la sua azione, la buona novella prende corpo nelle coscienze e nei cuori umani e si espande nella storia. In tutto ciò è lo Spirito santo che dà la vita». (32)

L'invio «fino agli estremi confini della terra»

22. Tutti gli evangelisti, quando narrano l'incontro del Risorto con gli apostoli, concludono col mandato missionario: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... (At1,8) Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Mt28,18); (Mc16,15); (Lc24,46); (Gv20,21) Questo invio è invio nello Spirito come appare chiaramente nel testo di san Giovanni: Cristo manda i suoi nel mondo. come il Padre ha mandato lui? e per questo dona loro lo Spirito. A sua volta, Luca collega strettamente la testimonianza che gli apostoli dovranno rendere a Cristo con l'azione dello Spirito, che li metterà in grado di attuare il mandato ricevuto.

23. Le varie forme del «mandato missionario» contengono punti in comune e accenti caratteristici; due elementi però, si ritrovano in tutte le versioni. Anzitutto, la dimensione universale del compito affidato agli apostoli: «Tutte le nazioni»; (Mt28,19) «in tutto il mondo a ogni creatura»; (Mc16,15) «tutte le genti»; (Lc24,47) «fino agli estremi confini della terra». (At1,8) In secondo luogo, l'assicurazione data loro dal Signore che in questo compito non rimarranno soli, ma riceveranno la forza e i mezzi per svolgere la loro missione. È in ciò la presenza e la potenza dello Spirito e l'assistenza di Gesù: «Essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro». (Mc16,20) Quanto alle differenze di accento nel mandato, Marco presenta la missione come proclamazione, o kérygma: «Proclamate il vangelo». (Mc16,15) Scopo dell'evangelista è di condurre i lettori a ripetere la confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc8,29) e a dire, come il centurione romano dinanzi a Gesù morto in croce: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio». (Mc15,39) In Matteo l'accento missionario è posto sulla fondazione della chiesa e sul suo insegnamento; (Mt28,19); (Mt16,18) in lui, dunque, il mandato evidenzia che la proclamazione del vangelo dev'essere completata da una specifica catechesi di ordine ecclesiale e sacramentale. In Luca la missione è presentata come testimonianza, (Lc24,48); (At1,8) che verte soprattutto sulla risurrezione. (At1,22) Il missionario è invitato a credere alla potenza trasformatrice del vangelo e ad annunziare ciò che Luca illustra bene, cioè la conversione all'amore e alla misericordia di Dio, l'esperienza di una liberazione integrale fino alla radice di ogni male, il peccato. Giovanni è il solo a parlare esplicitamente di «mandato» parola che equivale a «missione» collegando direttamente la missione che Gesù affida ai suoi discepoli con quella che egli stesso ha ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi». (Gv20,21) Gesù dice rivolto al Padre: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo». (Gv17,18) Tutto il senso missionario del Vangelo di Giovanni si trova espresso nella «preghiera sacerdotale»: la vita eterna è che «conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo». (Gv17,3) Scopo ultimo della missione è di far partecipare della comunione che esiste tra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l'unità tra loro, rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda. (Gv17,21) È, questo, un significativo testo missionario, il quale fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che si è come chiesa che vive profondamente l'unità nell'amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa. I quattro Vangeli, dunque, nell'unità fondamentale della stessa missione, attestano un certo pluralismo` che riflette esperienze e situazioni diverse nelle prime comunità cristiane. Esso è anche frutto della spinta dinamica dello stesso Spirito; invita a essere attenti ai diversi carismi missionari e alle diverse condizioni ambientali e umane. Tutti gli evangelisti, però, sottolineano che la missione dei discepoli è collaborazione con quella di Cristo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. (Mt28,20) La missione, pertanto, non si fonda sulle capacità umane, ma sulla potenza del Risorto.

Lo Spirito guida la missione

24. La missione della chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o - come spesso dice Luca - opera dello Spirito. Dopo la risurrezione e l'ascensione di Gesù gli apostoli vivono un'esperienza forte che li trasforma: la Pentecoste. La venuta dello Spirito santo fa di essi dei testimoni e dei profeti, (At1,8); (At2,17) infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima. Lo Spirito dà loro la capacità di testimoniare Gesù con «franchezza». (33) Quando gli evangelizzatori escono da Gerusalemme, lo Spirito assume ancor di più la funzione di «guida» nella scelta sia delle persone, sia delle vie della missione. La sua azione si manifesta specialmente nell'impulso dato alla missione che di fatto secondo le parole di Cristo, si allarga da Gerusalemme a tutta la Giudea e Samaria e fino agli estremi confini della terra. Gli Atti riportano sei sintesi dei «discorsi missionari» che sono rivolti ai giudei agli inizi della chiesa. (At2,22); (At3,12); (At4,9); (At5,29); (At10,34); (At13,16) Questi discorsi-modello, pronunciati da Pietro e da Paolo, annunziano Gesù, invitano a «convertirsi», cioè ad accogliere Gesù nella fede e a lasciarsi trasformare in lui dallo Spirito. Paolo e Barnaba sono spinti dallo Spirito verso i pagani, (At13,46) il che non avviene senza tensioni e problemi. Come devono vivere la loro fede in Gesù i pagani convertiti? Sono essi vincolati alla tradizione del giudaismo e alla legge della circoncisione? Nel primo concilio, che riunisce a Gerusalemme intorno agli apostoli i membri di diverse chiese, viene presa una decisione riconosciuta come derivante dallo Spirito: non è necessario che il gentile si sottometta alla legge giudaica per diventare cristiano. (At15,5); (At11,28) Da quel momento la chiesa apre le sue porte e diventa la casa in cui tutti possono entrare e sentirsi a proprio agio, conservando la propria cultura e le proprie tradizioni, purché non siano in contrasto col Vangelo.

25. I missionari hanno proceduto lungo questa linea, tenendo ben presenti le attese e speranze, le angosce e sofferenze, la cultura della gente per annunziarle la salvezza in Cristo. I discorsi di Listra e di Atene (At14,15); (At17,22) sono riconosciuti come modelli per l'evangelizzazione dei pagani: in essi Paolo «entra in dialogo» con i valori culturali e religiosi dei diversi popoli. Agli abitanti della Licaonia, che praticavano una religione cosmica, egli ricorda esperienze religiose che si riferiscono al cosmo; con i greci discute di filosofia e cita i loro poeti. (At17,18) Il Dio che vuol rivelare è già presente nella loro vita: è lui, infatti, che li ha creati e dirige misteriosamente i popoli e la storia; tuttavia, per riconoscere il vero Dio, bisogna che abbandonino i falsi dèi che essi stessi hanno fabbricato e si aprano a colui che Dio ha inviato per colmare la loro ignoranza e soddisfare l'attesa del loro cuore. Sono discorsi che offrono un esempio di inculturazione del Vangelo. Sotto la spinta dello Spirito, la fede cristiana si apre decisamente alle «genti», e la testimonianza del Cristo si allarga ai centri più importanti del Mediterraneo orientale per arrivare poi a Roma e all'estremo occidente. E lo Spirito che spinge ad andare sempre oltre, non solo in senso geografico, ma anche al di là delle barriere etniche e religiose, per una missione veramente universale.

Lo Spirito rende missionaria tutta la Chiesa

26. Lo Spirito spinge il gruppo dei credenti a «fare comunità», a essere chiesa. Dopo il primo annunzio di Pietro il giorno di Pentecoste e le conversioni che ne seguirono, si forma la prima comunità. (At2,42); (At4,32) Uno degli scopi centrali della missione, infatti, è di riunire il popolo nell'ascolto del vangelo, nella comunione fraterna, nella preghiera e nell'eucaristia. Vivere la «comunione fraterna» (koinonìa) significa avere «un cuor solo e un'anima sola», (At4,32) instaurando una comunione sotto tutti gli aspetti: umano, spirituale e materiale. Difatti, la vera comunità cristiana è impegnata a distribuire i beni terreni, affinché non ci siano indigenti e tutti possano avere accesso a quei beni «secondo le necessità». (At2,45); (At4,35) Le prime comunità, in cui regnavano «la letizia e la semplicità di cuore», (At2,46) erano dinamicamente aperte e missionarie: «Godevano la stima di tutto il popolo». (At2,47) Prima ancora di essere azione, la missione è testimonianza e irradiazione. (34)

27. Gli Atti indicano che la missione, indirizzata prima a Israele e poi alle genti, si sviluppa a molteplici livelli. C'è, innanzi tutto, il gruppo dei Dodici che, come un unico corpo guidato da Pietro, proclama la buona novella. C'è, poi, la comunità dei credenti, che. col suo modo di vivere e di operare, rende testimonianza al Signore e converte i pagani. (At2,46) Ci sono, ancora, gli inviati speciali, destinati ad annunziare il vangelo. Così la comunità cristiana di Antiochia invia i suoi membri in missione: dopo aver digiunato, pregato e celebrato l'eucaristia, essa avverte che lo Spirito ha scelto Paolo e Barnaba per essere inviati. (At13,1) Alle sue origini, dunque, la missione è vista come un impegno comunitario e una responsabilità della chiesa locale, che ha bisogno appunto di «missionari» per spingersi verso nuove frontiere. Accanto a quelli inviati ce ne erano altri, che testimoniavano spontaneamente la novità che aveva trasformato la loro vita e collegavano poi le comunità in formazione alla chiesa apostolica. La lettura degli Atti ci fa capire che all'inizio della chiesa la missione gentes pur avendo anche missionari «a vita» che vi si dedicavano per una speciale vocazione, era di fatto considerata come il frutto normale della vita cristiana, l'impegno per ogni credente mediante la testimonianza personale e l'annunzio esplicito, quando possibile.

Lo Spirito è presente e operante in ogni tempo e luogo

28. Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo. (35) Il concilio Vaticano II ricorda l'opera dello Spirito nel cuore di ogni uomo mediante i «semi del Verbo», nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell'attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio. (36) Lo Spirito offre all'uomo «luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione»; mediante lo Spirito «l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano divino»; anzi, «dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale». (37) In ogni caso la chiesa sa che l'uomo, «sollecitato incessantemente dallo Spirito di Dio, non potrà mai essere del tutto indifferente al problema della religione», e «avrà sempre desiderio di sapere. almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte». (38) Lo Spirito, dunque. è all'origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell'uomo. la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti. ma dalla struttura stessa del suo essere. (39) La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui. ma la società e la storia, i popoli, le culture. le religioni. Lo Spirito. infatti, sta all'origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell'umanità in cammino: «Con mirabile provvidenza egli dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra». (40) Il Cristo risorto «opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito. non solo suscitando il desiderio del mondo futuro. ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia de li uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra». (41) È ancora lo Spirito che sparge i «semi del Verbo», presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo. (42)

29. Così lo Spirito, che «soffia dove vuole» (Gv3,8) e «operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato», (43) che «riempie l'universo abbracciando ogni cosa e conosce ogni voce», (Sap1,7) ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo. (44) È un richiamo che io stesso ho fatto ripetutamente e che mi ha guidato negli incontri con i popoli più diversi. Il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice rispetto: «Rispetto per l'uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l'azione dello Spirito nell'uomo». (45) L'incontro inter-religioso di Assisi, esclusa ogni equivoca interpretazione, ha voluto ribadire la mia convinzione che «ogni autentica preghiera è suscitata dallo Spirito santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo». (46) Questo Spirito è lo stesso che ha operato nell'incarnazione, nella vita, morte e risurrezione di Gesù e opera nella chiesa. Non è, dunque, alternativo a Cristo, né riempie una specie di vuoto, come talvolta si ipotizza esserci tra Cristo e il Lógos. Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica (47) e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l'azione dello Spirito, «per operare lui, l'Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale». (48) L'azione universale dello Spirito non va poi separata dall'azione peculiare, che egli svolge nel corpo di Cristo ch'è la chiesa. Infatti, è sempre lo Spirito che agisce sia quando vivifica la chiesa e la spinge ad annunziare il Cristo, sia quando semina e sviluppa i suoi doni in tutti gli uomini e i popoli, guidando la chiesa a scoprirli, promuoverli e recepirli mediante il dialogo. Qualsiasi presenza dello Spirito va accolta con stima e gratitudine, ma il discernerla spetta alla chiesa, alla quale Cristo ha dato il suo Spirito per guidarla alla verità tutta intera. (Gv16,13)

L'attività missionaria è solo agli inizi

30. Il nostro tempo, con l'umanità in movimento e in ricerca, esige un rinnovato impulso nell'attività missionaria della chiesa. Gli orizzonti e le possibilità della missione si allargano, e noi cristiani siamo sollecitati al coraggio apostolico, fondato sulla fiducia nello Spirito. E lui il protagonista della missione! Sono numerose nella storia dell'umanità le svolte epocali che stimolano il dinamismo missionario, e la chiesa, guidata dallo Spirito, vi ha sempre risposto con generosità e lungimiranza. Né i frutti sono mancati. Da poco è stato celebrato il millennio dell'evangelizzazione della Rus' e dei popoli slavi, mentre si sta per celebrare il cinquecentesimo anniversario dell'evangelizzazione delle Americhe. Parimenti, sono stati di recente commemorati i centenari delle prime missioni in diversi paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'Oceania. Oggi la chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l'annuncio di Cristo. Oggi a tutti i cristiani, alle chiese particolari e alla chiesa universale sono richiesti lo stesso coraggio che mosse i missionari del passato e la stessa disponibilità ad ascoltare la voce dello Spirito.

PARTE IV

GLI IMMENSI ORIZZONTI DELLA MISSIONE "AD GENTES"

31. Il Signore Gesù inviò i suoi apostoli a tutte le persone, a tutti i popoli e a tutti i luoghi della terra. Negli apostoli la chiesa ricevette una missione universale, che non ha confini e riguarda la salvezza nella sua integrità, secondo quella pienezza di vita che Cristo è venuto a portare (Gv10,10) essa fu «inviata a rivelare e comunicare la carità di Dio a tutti gli uomini e a tutti i popoli della terra». (49) Tale missione è unica, avendo la stessa origine e finalità; ma all'interno di essa si danno compiti e attività diverse. Anzitutto, c'è l'attività missionaria che chiamiamo missione ad gentes in riferimento al decreto conciliare: si tratta di un'attività primaria della chiesa, essenziale e mai conclusa. Infatti, la chiesa «non può sottrarsi alla missione permanente di portare il vangelo a quanti sono milioni e milioni di uomini e donne ancora non conoscono Cristo, redentore dell'uomo. È questo il compito più specificamente missionario che Gesù ha affidato e quotidianamente affida alla sua chiesa». (50)

Un quadro religioso complesso e in movimento

32. Oggi ci si trova di fronte a una situazione religiosa assai diversificata e cangiante: i popoli sono in movimento; realtà sociali e religiose che un tempo erano chiare e definite oggi evolvono in situazioni complesse. Basti pensare ad alcuni fenomeni come l'urbanesimo, le migrazioni di massa, il movimento dei profughi, la scristianizzazione di paesi di antica cristianità, L'influsso emergente del vangelo e dei suoi valori in paesi a grandissima maggioranza non cristiana, il pullulare di messianismi e dl sette religiose. È un rivolgimento di situazioni religiose e sociali, che rende difficile applicare in concreto certe distinzioni e categorie ecclesiali, a cui si era abituati. Già prima del concilio si diceva di alcune metropoli o terre cristiane che erano diventate «paesi di missione», né la situazione è certo migliorata negli anni successivi. D'altra parte, l'opera missionaria ha prodotto abbondanti frutti in tutte le parti del mondo, per cui esistono chiese impiantate, a volte tanto solide e mature da ben provvedere ai bisogni delle proprie comunità e inviare anche personale per l'evangelizzazione in altre chiese e territori. Di qui il contrasto con aree di antica cristianità, che è necessario rievangelizzare. Alcuni, pertanto, si chiedono se sia ancora il caso di parlare di attività missionaria specifica o di ambiti precisi di essa, o se non si debba ammettere che esiste un'unica situazione missionaria, per cui non c'è che un'unica missione, dappertutto eguale. La difficoltà di interpretare questa realtà complessa e mutevole in ordine al mandato di evangelizzazione si manifesta già nel «vocabolario missionario»: a esempio, c'è una certa esitazione a usare i termini «missioni» e «missionari», giudicati superati e carichi di risonanze storiche negative; si preferisce usare il sostantivo «missione» al singolare e l'aggettivo «missionario» per qualificare ogni attività della chiesa. Questo travaglio denota un cambiamento reale, che ha aspetti positivi. Il cosiddetto rientro o «rimpatrio» delle missioni nella missione della chiesa, il confluire della missiologia nell'ecclesiologia e l'inserimento di entrambe nel disegno trinitario di salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non già come un compito ai margini della chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno fondamentale di tutto il popolo di Dio. Occorre, però, guardarsi dal rischio di livellare situazioni molto diverse e di ridurre, se non far scomparire, la missione e i missionari ad gentes. Dire che tutta la chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes, come dire che tutti i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i «missionari ad gentes e a vita» per vocazione specifica.

La missione ad gentes conserva il suo valore

33. Le differenze nell'attività all'interno dell'unica missione della chiesa nascono non da ragioni intrinseche alla missione stessa, ma dalle diverse circostanze in cui essa si svolge. (51) Guardando al mondo d'oggi dal punto di vista dell'evangelizzazione, si possono distinguere tre situazioni. Anzitutto, quella a cui si rivolge l'attività missionaria della chiesa: popoli, gruppi umani, contesti socio-culturali in cui Cristo e il suo vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi. È, questa, propriamente la missione ad gentes. (52) Ci sono, poi, comunità cristiane che hanno adeguate e solide strutture ecclesiali, sono ferventi di fede e di vita irradiano la testimonianza del vangelo nel loro ambiente e sentono l'impegno della missione universale. In esse si svolge l'attività, o cura pastorale della chiesa. Esiste, infine, una situazione intermedia, specie nei paesi di antica cristianità, ma a volte anche nelle chiese più giovani, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della chiesa, conducendo un'esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo. In questo caso c'è bisogno di una «nuova evangelizzazione», o «rievangelizazione».

34. L'attività missionaria specifica, o missione ad gentes, ha come destinatari «i popoli e i gruppi che ancora non credono in Cristo», «coloro che sono lontani da Cristo», tra i quali la chiesa «non ha ancora messo radici» (53) e la cui cultura non è stata ancora influenzata dal vangelo. (54) Essa si distingue dalle altre attività ecclesiali, perché si rivolge a gruppi e ambienti non cristiani per l'assenza o insufficienza dell'annunzio evangelico e della presenza ecclesiale. Pertanto, si caratterizza come opera di annunzio del Cristo e del suo vangelo, di edificazione della chiesa locale. di promozione dei valori del regno. La peculiarità di questa missione ad gentes deriva dal fatto che si rivolge ai non cristiani. Occorre, perciò, evitare che tale «compito più specificamente missionario, che Gesù ha affidato e quotidianamente riaffida alla sua chiesa» (55), subisca un appiattimento nella missione globale di tutto il popolo di Dio e, quindi, sia trascurato o dimenticato. D'altronde, i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti-stagno. Bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l'annunzio e per la fondazione di nuove chiese presso popoli o gruppi umani, in cui ancora non esistono poiché questo è il compito primo della chiesa che è inviata a tutti i popoli, fino agli ultimi confini della terra. Senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare. È da notare, altresì, una reale e crescente interdipendenza tra le varie attività salvifiche della chiesa: ciascuna influisce sull'altra, la stimola e la aiuta. Il dinamismo missionario crea scambio tra le chiese e orienta verso il mondo esterno, con influssi positivi in tutti i sensi. Le chiese di antica cristianità. a esempio, alle prese col drammatico compito della nuova evangelizzazione, comprendono meglio che non possono essere missionarie verso i non cristiani di altri paesi e continenti, se non si preoccupano seriamente dei non cristiani in casa propria: la missionarietà ad intra è segno credibile e stimolo per quella ad extra, e viceversa.

A tutti i popoli, nonostante le difficoltà

35. La missione ad gentes ha davanti a sé un compito immane che non è per nulla in via di estinzione. Essa anzi, sia dal punto di vista numerico per l'aumento demografico, sia dal punto di vista socio-culturale per il sorgere di nuove relazioni, contatti e il variare delle situazioni, sembra destinata ad avere orizzonti ancora più vasti. Il compito di annunziare Gesù Cristo presso tutti i popoli appare immenso e sproporzionato rispetto alle forze umane della chiesa. Le diffìcoltà sembrano insormontabili e potrebbero scoraggiare, se si trattasse di un'opera soltanto umana. In alcuni paesi è proibito l'ingresso dei missionari, in altri è vietata non solo l'evangelizzazione, ma anche la conversione e persino il culto cristiano. Altrove gli ostacoli sono di natura culturale: la trasmissione del messaggio evangelico appare irrilevante o incomprensibile, e la conversione è vista come l'abbandono del proprio popolo e della propria cultura.

36. Né mancano le difficoltà interne al popolo di Dio, le quali anzi sono le più dolorose. Già il mio predecessore Paolo VI indicava in primo luogo «la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell'accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e di speranza». (56) Grandi ostacoli alla missionarietà della chiesa sono anche le divisioni passate e presenti tra i cristiani, (57) la scristianizzazione in paesi cristiani, la diminuzione delle vocazioni all'apostolato, le contro-testimonianze di fedeli e di comunità cristiane che non seguono nella loro vita il modello di Cristo. Ma una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l'impegno missionario è la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che «una religione vale l'altra». Possiamo aggiungere come diceva lo stesso pontefice - che ci sono anche «alibi che possono sviare dall'evangelizzazione. I più insidiosi sono certamente quelli, per i quali si pretende di trovare appoggio nel tale o tal altro insegnamento del concilio». (58) Al riguardo, raccomando vivamente ai teologi e ai professionisti della stampa cristiana di intensificare il proprio servizio alla missione, per trovare il senso profondo del loro importante lavoro lungo la retta via del sentire cum ecclesia. Le difficoltà interne ed esterne non debbono renderci pessimisti o inattivi. Ciò che conta - qui come in ogni settore della vita cristiana è la fiducia che viene dalla fede, cioè dalla certezza che non siamo noi i protagonisti della missione, ma Gesù Cristo e il suo Spirito. Noi siamo soltanto collaboratori e, quando abbiamo fatto tutto quello che ci è possibile, dobbiamo dire: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare». (Lc17,10)

Ambiti della missione "ad gentes"

37. La missione ad gentes, in forza del mandato universale di Cristo, non ha confini. Si possono, tuttavia, delineare vari ambiti in cui essa si attua, in modo da avere il quadro reale della situazione.

a) Ambiti territoriali

L'attività missionaria è stata normalmente definita in rapporto a territori precisi. Il concilio Vaticano II ha riconosciuto la dimensione territoriale della missione ad gentes, (59) anche oggi importante al fine di determinare responsabilità, competenze e limiti geografici d'azione. È vero che a una missione universale deve corrispondere una prospettiva universale: la chiesa, infatti, non può accettare che confini geografici e impedimenti politici ostacolino la sua presenza missionaria. Ma è anche vero che l'attività missionaria ad gentes, essendo diversa dalla cura pastorale dei fedeli e dalla nuova evangelizzazione dei non praticanti, si esercita in territori e presso gruppi umani ben delimitati. Il moltiplicarsi delle giovani chiese nei tempi recenti non deve illudere. Nei territori affidati a queste chiese, specie in Asia, ma anche in Africa e in America Latina e Oceania, ci sono vaste zone non evangelizzate: interi popoli e aree culturali di grande importanza in non poche nazioni non sono ancora raggiunte dall'annunzio evangelico e dalla presenza della chiesa locale. (60) Anche in paesi tradizionalmente cristiani ci sono regioni affidate al regime speciale della missione ad gentes con gruppi e aree non evangelizzate. Si impone, quindi, anche in questi paesi non solo una nuova evangelizzazione, ma in certi casi una prima evangelizzazione. (61) Le situazioni, però, non sono omogenee. Pur riconoscendo che le affermazioni circa la responsabilità missionaria della chiesa non sono credibili se non sono autenticate da un serio impegno di nuova evangelizzazione nei paesi di antica cristianità, non pare giusto equiparare la situazione di un popolo che non ha mai conosciuto Gesù Cristo con quella di un altro che l'ha conosciuto, accettato e poi rifiutato, pur continuando a vivere in una cultura che ha assorbito in gran parte i principi e valori evangelici. Sono due condizioni, in rapporto alla fede, sostanzialmente diverse. Pertanto, il criterio geografico, anche se non molto preciso e sempre provvisorio, vale ancora per indicare le frontiere verso cui deve rivolgersi l'attività missionaria. Ci sono paesi e aree geografiche e culturali in cui mancano comunità cristiane autoctone; altrove queste sono talmente piccole, da non essere un segno chiaro di presenza cristiana; oppure queste comunità mancano di dinamismo per evangelizzare le loro società o appartengono a popolazioni minoritarie, non inserite nella cultura nazionale dominante. Nel continente asiatico, in particolare, verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes, i cristiani sono una piccola minoranza, anche se a volte vi si verificano significativi movimenti di conversione ed esemplari modi di presenza cristiana.

b) Mondi e fenomeni sociali nuovi

Le rapide e profonde trasformazioni che caratterizzano oggi il mondo, in particolare il Sud, influiscono fortemente sul quadro missionario: dove prima c'erano situazioni umane e sociali stabili, oggi tutto è in movimento. Si pensi, a esempio, all'urbanizzazione e al massiccio incremento delle città, soprattutto dove più forte è la pressione demografica. Già ora in non pochi paesi più della metà della popolazione vive in alcune megalopoli, dove i problemi dell'uomo spesso peggiorano anche per l'anonimato in cui si sentono immerse le moltitudini. Nei tempi moderni l'attività missionaria si è svolta soprattutto in regioni isolate, lontane dai centri civilizzati e impervie per difficoltà di comunicazione, di lingua, di clima. Oggi l'immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la «scelta degli ultimi» deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire. un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città. Parlando del futuro, non si possono dimenticare i giovani, i quali in numerosi paesi costituiscono già più della metà della popolazione. Come far giungere il messaggio di Cristo ai giovani non cristiani, che sono il futuro di interi continenti? Evidentemente i mezzi ordinari della pastorale non bastano più: occorrono associazioni e istituzioni, gruppi e centri speciali, iniziative culturali e sociali per i giovani. Ecco un campo, dove i moderni movimenti ecclesiali hanno ampio spazio per impegnarsi. Fra le grandi mutazioni del mondo contemporaneo, le migrazioni hanno prodotto un fenomeno nuovo: i non cristiani giungono assai numerosi nei paesi di antica cristianità, creando occasioni nuove di contatti e scambi culturali, sollecitando la chiesa all'accoglienza, al dialogo, all'aiuto e, in una parola, alla fraternità. Fra i migranti occupano un posto del tutto particolare i rifugiati e meritano la massima attenzione. Essi sono ormai molti milioni nel mondo e non cessano di aumentare: sono fuggiti da condizioni di oppressione politica e di miseria disumana, da carestie e siccità di dimensioni catastrofiche. La chiesa deve assumerli nell'ambito della sua sollecitudine apostolica. Infine, si possono ricordare le condizioni di povertà, spesso intollerabile, che vengono a crearsi in non pochi paesi e sono spesso all'origine delle migrazioni di massa. La comunità dei credenti in Cristo è provocata da queste situazioni disumane: l'annunzio di Cristo e del regno di Dio deve diventare strumento di riscatto umano per queste popolazioni.

c.) Aree culturali, o aeropaghi moderni

Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all'areopago, dove annunzia il vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell'ambiente. (At17,22) L'areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il vangelo. Il primo areopago del tempo moderno è il mondo delle comunicazioni, che sta unificando l'umanità rendendola - come si suol dire - «un villaggio globale». I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi. Forse è stato un po' trascurato questo areopago: si privilegiano generalmente altri strumenti per l'annunzio evangelico e per la formazione, mentre i mass media sono lasciati all'iniziativa di singoli o di piccoli gruppi ed entrano nella programmazione pastorale in linea secondaria. L'impegno nei mass media, tuttavia, non ha solo lo scopo di moltiplicare l'annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l'evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa «nuova cultura» creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici. Il mio predecessore Paolo VI diceva che «la rottura fra il vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca», (62) e il campo dell'odierna comunicazione conferma in pieno questo giudizio. Molti altri sono gli areopaghi del mondo moderno verso cui si deve orientare l'attività missionaria della chiesa. A esempio, l'impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell'uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze. la promozione della donna e del bambino. la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del vangelo. È da ricordare, inoltre, il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita. Conviene essere attenti e impegnati in queste istanze moderne. Gli uomini avvertono di essere come naviganti nel mare della vita, chiamati a sempre maggiore unità e solidarietà: le soluzioni ai problemi esistenziali vanno studiate, discusse, sperimentate col concorso di tutti. Ecco perché organismi e convegni internazionali si dimostrano sempre più importanti in molti settori della vita umana, dalla cultura alla politica, dall'economia alla ricerca. I cristiani, che vivono e lavorano in questa dimensione internazionale, debbono sempre ricordare il loro dovere di testimoniare il vangelo.

38. Il nostro tempo è drammatico e insieme affascinante. Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall'altro si manifestano l angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera. Non solo nelle culture impregnate di religiosità. ma anche nelle società secolarizzate è ricercata la dimensione spirituale della vita come antidoto alla disumanizzazione. Questo cosiddetto fenomeno del «ritorno religioso» non è privo di ambiguità. ma contiene anche un invito. La chiesa ha un immenso patrimonio spirituale da offrire all'umanità in Cristo che si proclama «la via, la verità e la vita». (Gv14,6) È il cammino cristiano all'incontro con Dio, alla preghiera, all'ascesi, alla scoperta del senso della vita. Anche questo è un areopago da evangelizzare.

Fedeltà a Cristo e promozione della libertà dell'uomo

39. Tutte le forme dell'attività missionaria sono contrassegnate dalla consapevolezza di promuovere la libertà dell'uomo annunciando a lui Gesù Cristo. La chiesa deve essere fedele a Cristo, di cui è il corpo e continua la missione. È necessario che essa «segua la stessa strada seguita da Cristo, la strada della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di sé fino alla morte, da cui poi risorgendo uscì vincitore». (63) La chiesa, quindi, ha il dovere di fare di tutto per svolgere la sua missione nel mondo e raggiungere tutti i popoli; e ne ha anche il diritto, che le e stato dato da Dio per l'attuazione del suo piano. La libertà religiosa, talvolta ancora limitata o coartata, è la premessa e la garanzia di tutte le libertà che assicurano il bene comune delle persone e dei popoli. È da auspicare che l'autentica libertà religiosa sia concessa a tutti in ogni luogo, e a questo scopo la chiesa si adopera nei vari paesi, specie in quelli a maggioranza cattolica, dove essa ha un maggiore influsso. Ma non si tratta di un problema della religione di maggioranza o di minoranza, bensì di un diritto inalienabile di ogni persona umana. D'altra parte, la chiesa si rivolge all'uomo nel pieno rispetto della sua libertà: (64) la missione non coarta la libertà, ma piuttosto la favorisce. La chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e le culture, e si ferma davanti al sacrario della coscienza. A coloro che si oppongono con i più vari pretesti all'attività missionaria la chiesa ripete: Aprite le porte a Cristo! Mi rivolgo a tutte le chiese particolari, giovani e antiche. Il mondo va sempre più unificandosi, lo spirito evangelico deve portare al superamento di barriere culturali e nazionalistiche, evitando ogni chiusura. Benedetto XV ammoniva già i missionari del suo tempo se mai, «dimentichi della propria dignità, pensassero più alla loro patria terrestre che a quella del cielo». (65) La stessa raccomandazione vale oggi per le chiese particolari: Aprite le porte ai missionari, poiché «ogni chiesa particolare. che si separasse volontariamente dalla chiesa universale, perderebbe il suo riferimento al disegno di Dio e si impoverirebbe nella sua dimensione ecclesiale». (66)

Rivolgere l'attenzione verso il Sud e l'Oriente

40. L'attività missionaria rappresenta ancor oggi la massima sfida per la chiesa . Mentre si avvicina la fine del secondo millennio della redenzione, si fa sempre più evidente che le genti che non hanno ancora ricevuto il primo annunzio di Cristo sono la maggioranza dell'umanità. Il bilancio dell'attività missionaria nei tempi moderni è certo positivo: la chiesa è stata fondata in tutti i continenti, anzi oggi la maggioranza dei fedeli e delle chiese particolari non è più nella vecchia Europa, ma nei continenti che i missionari hanno aperto alla fede. Rimane, però, il fatto che gli «ultimi confini della terra», a cui si deve portare il vangelo, si allontanano sempre più, e la sentenza di Tertulliano, secondo cui il vangelo è stato annunziato in tutta la terra e a tutti i popoli, (67) è ben lontana dalla sua concreta attuazione: la missione ad gentes è ancora agli inizi. Nuovi popoli compaiono sulla scena mondiale e hanno anch'essi il diritto di ricevere l'annunzio della salvezza. La crescita demografica del Sud e dell'Oriente, in paesi non cristiani, fa aumentare di continuo il numero delle persone che ignorano la redenzione di Cristo. Bisogna, dunque, rivolgere l'attenzione missionaria verso quelle aree geografiche e quegli ambienti culturali che sono rimasti al di fuori dell'influsso evangelico. Tutti i credenti in Cristo debbono sentire, come parte integrante della loro fede, la sollecitudine apostolica di trasmetterne ad altri la gioia e la luce. Tale sollecitudine deve diventare, per così dire, fame e sete di far conoscere il Signore quando si allarga lo sguardo agli immensi orizzonti del mondo non cristiano.

PARTE V

LE VIE DELLA MISSIONE

41. «L'attività missionaria non è né più né meno che la manifestazione, o epifania, e la realizzazione del disegno di Dio nel mondo e nella storia, nella quale Dio, proprio mediante la missione. attua all'evidenza la storia della salvezza». (68) Quali vie segue la chiesa per giungere a questo risultato? La missione è una realtà unitaria, ma complessa. e si esplica in vari modi, tra cui alcuni sono di particolare importanza nella presente condizione della chiesa e del mondo .

La prima forma di evangelizzazione è la testimonianza

42. L'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, (69) più all'esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione: Cristo, di cui noi continuiamo la missione, è il «testimone» per eccellenza (Ap1,5); (Ap3,14) e il modello della testimonianza cristiana. Lo Spirito santo accompagna il cammino della chiesa e la associa alla testimonianza che egli rende a Cristo. (Gv15,26) La prima forma di testimonianza è la vita stessa del missionario della famiglia cristiana e della comunità ecclesiale, che rende visibile un modo nuovo di comportarsi. Il missionario che, pur con tutti i limiti e difetti umani, vive con semplicità secondo il modello di Cristo, è un segno di Dio e delle realtà trascendenti. Ma tutti nella chiesa, sforzandosi di imitare il divino Maestro, possono e debbono dare tale testimonianza, (70) che in molti casi è l'unico modo possibile di essere missionari. La testimonianza evangelica, a cui il mondo è più sensibile, è quella dell'attenzione per le persone e della carità verso i poveri e i piccoli, verso chi soffre. La gratuità di questo atteggiamento e di queste azioni, che contrastano profondamente con l'egoismo presente nell'uomo, fa nascere precise domande che orientano a Dio e al vangelo. Anche l'impegno per la pace, la giustizia, i diritti dell'uomo, la promozione umana è una testimonianza del vangelo, se e segno di attenzione per le persone ed è ordinato allo sviluppo integrale dell'uomo. (71)

43. Il cristiano e le comunità cristiane vivono profondamente inseriti nella vita dei rispettivi popoli e sono segno del vangelo anche nella fedeltà alla loro patria, al loro popolo, alla cultura nazionale, sempre però nella libertà che Cristo ha portato. Il cristianesimo è aperto alla fratellanza universale. perché tutti gli uomini sono figli dello stesso Padre e fratelli in Cristo. La chiesa è chiamata a dare la sua testimonianza a Cristo assumendo posizioni coraggiose e profetiche di fronte alla corruzione del potere politico o economico; non cercando essa stessa gloria e beni materiali; usando dei suoi beni per il servizio dei più poveri e imitando la semplicità di vita del Cristo. La chiesa e i missionari debbono dare anche la testimonianza dell'umiltà, rivolta anzitutto verso se stessi, che si traduce nella capacità di un esame di coscienza a livello personale e comunitario, per correggere nei propri comportamenti quanto è anti-evangelico e sfigura il volto di Cristo.

Il primo annunzio di Cristo Salvatore

44. L'annunzio ha la priorità permanente nella missione: la chiesa non può sottrarsi al mandato esplicito di Cristo, non può privare gli uomini della «buona novella» che sono amati e salvati da Dio. «L'evangelizzazione conterrà sempre - come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo - anche una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo... La salvezza è offerta a ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia di Dio stesso». (72) Tutte le forme dell'attività missionaria tendono verso questa proclamazione che rivela e introduce nel mistero nascosto nei secoli e svelato in Cristo (Ef3,3); (Col1,25) il quale è nel cuore della missione e della vita della chiesa, come cardine di tutta l'evangelizzazione. Nella realtà complessa della missione il primo annunzio ha un ruolo centrale e insostituibile, perché introduce «nel mistero dell'amore di Dio, che chiama a stringere in Cristo una personale relazione con lui» (73) e apre la via alla conversione. La fede nasce dall'annunzio, e ogni comunità ecclesiale trae origine e vita dalla risposta personale di ciascun fedele a tale annunzio. (74) Come l'economia salvifica è incentrata in Cristo, così l'attività missionaria tende alla proclamazione del suo mistero. L'annunzio ha per oggetto il Cristo crocifisso, morto e risorto: in lui si compie la piena e autentica liberazione dal male, dal peccato e dalla morte; in lui Dio dona la «vita nuova», divina ed eterna. È questa la «buona novella», che cambia l'uomo e la storia dell'umanità e che tutti i popoli hanno il diritto di conoscere. Tale annunzio va fatto nel contesto della vita dell'uomo e dei popoli che lo ricevono. Esso, inoltre, deve essere fatto in atteggiamento di amore e di stima verso chi ascolta, con un linguaggio concreto e adattato alle circostanze. In esso lo Spirito è all'opera e instaura una comunione tra il missionario e gli ascoltatori, possibile in quanto l'uno e gli altri entrano in comunione, per Cristo, col Padre. (75)

45. Essendo fatto in unione con l'intera comunità ecclesiale, l'annunzio non è mai un fatto personale. Il missionario è presente e opera in virtù di un mandato ricevuto e, anche se si trova solo, è collegato mediante vincoli invisibili, ma profondi all'attività evangelizzatrice di tutta la chiesa. (76) Gli ascoltatori, prima o poi, intravedono dietro a lui la comunità che lo ha mandato e lo sostiene. L'annunzio è animato dalla fede, che suscita entusiasmo e fervore nel missionario. Come si è detto, gli Atti definiscono tale atteggiamento con la parola parresìa, che significa parlare con franchezza e coraggio, e questo termine ricorre anche in san Paolo: «Nel nostro Dio abbiamo avuto il coraggio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte». (1Ts2,2) «Pregate. . . anche per me, perché quando apro la bocca, mi sia data una parola franca per far conoscere il mistero del vangelo del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere». (Ef6,18) Nell'annunziare Cristo ai non cristiani il missionario è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli, per l'azione dello Spirito, un'attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull'uomo, sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L'entusiasmo nell'annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa, sicché il missionario non si scoraggia né desiste dalla sua testimonianza, anche quando è chiamato a manifestare la sua fede in un ambiente ostile o indifferente. Egli sa che lo Spirito del Padre parla in lui (Mt10,17); (Lc12,11) e può ripetere con gli apostoli: «Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito santo». (At5,32) Egli sa che non annunzia una verità umana, ma la «Parola di Dio», la quale ha una sua intrinseca e misteriosa potenza. (Rm1,16) La prova suprema è il dono della vita, fino ad accettare la morte per testimoniare la fede in Gesù Cristo. Come sempre nella storia cristiana, i «martiri», cioè i testimoni, sono numerosi e indispensabili al cammino del vangelo. Anche nella nostra epoca ce ne sono tanti: vescovi sacerdoti, religiosi e religiose, laici, a volte eroi sconosciuti che danno la vita per testimoniare la fede. Sono essi gli annunziatori ed i testimoni per eccellenza.

Conversione e battesimo

46. L'annunzio della parola di Dio mira alla conversione cristiana, cioè all'adesione piena e sincera a Cristo e al suo vangelo mediante la fede. La conversione è dono di Dio, opera della Trinità: è lo Spirito che apre le porte dei cuori, affinché gli uomini possano credere al Signore e «confessarlo». (1Cor12,3) Di chi si accosta a lui mediante la fede Gesù dice: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato». (Gv6,44) La conversione si esprime fin dall'inizio con una fede totale e radicale, che non pone né limiti né remore al dono di Dio. Al tempo stesso, però, essa determina un processo dinamico e permanente che dura per tutta l'esistenza, esigendo un passaggio continuo dalla «vita secondo la carne» alla «vita secondo lo Spirito». (Rm8,3) Essa significa accettare, con decisione personale, la sovranità salvifica di Cristo e diventare suoi discepoli. A questa conversione la chiesa chiama tutti, sull'esempio di Giovanni Battista, che preparava la via a Cristo, «predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc1,4) e di Cristo stesso, il quale, «dopo che Giovanni fu arrestato. ... si recò in Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"». (Mc1,14) Oggi l'appello alla conversione, che i missionari rivolgono ai non cristiani, e messo in discussione o passato sotto silenzio. Si vede in esso un atto di «proselitismo»; si dice che basta aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Ma si dimentica che ogni persona ha il diritto di udire la «buona novella» di Dio che si rivela e si dona in Cristo, per attuare in pienezza la sua propria vocazione. La grandezza di questo evento risuona nelle parole di Gesù alla Samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio», e nel desiderio inconsapevole, ma ardente della donna: «Signore, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete». (Gv4,10)

47. Gli apostoli, mossi dallo Spirito santo, invitavano tutti a cambiare vita, a convertirsi e a ricevere il battesimo. Subito dopo l'evento della Pentecoste, Pietro parla alla folla in modo convincente: «All'udir tutto questo si sentirono come trafiggere il cuore e chiesero a Pietro e agli altri apostoli: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?". E Pietro disse: Convertitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito santo"». (At2,37) E battezzò in quel giorno circa tremila persone. Pietro ancora, dopo la guarigione dello storpio. parla alla folla e ripete: «Convertitevi dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati!». (At3,19) La conversione a Cristo è connessa col battesimo: lo è non solo per la prassi della chiesa, ma per volere di Cristo, che ha inviato a far discepole tutte le genti e a battezzarle (Mt28,19) lo è anche per l'intrinseca esigenza di ricevere la pienezza della vita in lui: «In verità, in verità ti dico Gesù dice a Nicodemo - se uno non nasce da acqua e da Spirito. non può entrare nel regno di Dio». (Gv3,5) Il battesimo, infatti, ci rigenera alla vita dei fili di Dio, ci unisce a Gesù Cristo, ci unge nello Spirito santo: esso non è un semplice suggello della conversione, quasi un segno esteriore che la dimostri e la attesti, bensì è sacramento che significa e opera questa nuova nascita dallo Spirito, instaura vincoli reali e inscindibili con la Trinità, rende membri del corpo di Cristo, ch'è la chiesa. Tutto questo va ricordato, perché non pochi, proprio dove si svolge la missione ad gentes tendono a scindere la conversione a Cristo dal battesimo, giudicandolo come non necessario. È vero che in certi ambienti si notano aspetti sociologici relativi al battesimo, che ne oscurano il genuino significato di fede. Ciò è dovuto a diversi fattori storici e culturali, che bisogna rimuovere dove ancora sussistono, affinché il sacramento della rigenerazione spirituale appaia in tutto il suo valore: a questo compito devono dedicarsi le comunità ecclesiali locali. È vero anche che non poche persone affermano di essere interiormente impegnate con Cristo e col suo messaggio, ma non lo vogliono essere sacramentalmente, perché, a causa dei loro pregiudizi o delle colpe dei cristiani, non riescono a percepire la vera natura della chiesa, mistero di fede e di amore. (77) Desidero incoraggiare queste persone ad aprirsi pienamente a Cristo ricordando a esse che, se sentono il fascino di Cristo, egli stesso ha voluto la chiesa come «luogo» in cui possono di fatto incontrarlo. Al tempo stesso, invito i fedeli e le comunità cristiane a testimoniare autenticamente Cristo con la loro vita nuova. Certo, ogni convertito è un dono fatto alla chiesa e comporta per essa una grave responsabilità non solo perché va preparato al battesimo col catecumenato e poi seguito con l'istruzione religiosa, ma perché, specialmente se è adulto, porta come un'energia nuova l'entusiasmo della fede, il desiderio di trovare nella chiesa stessa il vangelo vissuto. Sarebbe per lui una delusione se, entrato nella comunità ecclesiale, vi trovasse una vita priva di fervore e senza segni di rinnovamento. Non possiamo predicare la conversione, se non ci convertiamo noi stessi ogni giorno.

Formazione di Chiese locali

48. La conversione e il battesimo immettono nella chiesa, dove già esiste, o richiedono la costituzione di nuove comunità che confessano Gesù Salvatore e Signore. Ciò fa parte del disegno di Dio, a cui è piaciuto «di chiamare gli uomini a partecipare della sua stessa vita non tanto a uno a uno, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero in unità». (78) La missione ad gentes ha questo obiettivo: fondare comunità cristiane, sviluppare chiese fino alla loro completa maturazione. È, questa, una mèta centrale e qualificante dell'attività missionaria, al punto che questa non si può dire esplicata finché non riesce a edificare una nuova chiesa particolare, normalmente funzionante nell'ambiente locale. Di ciò parla ampiamente il decreto Ad gentes, (79) e dopo il concilio si è sviluppata una linea teologica per sottolineare che tutto il mistero della chiesa è contenuto in ciascuna chiesa particolare, purché questa non si isoli, ma rimanga in comunione con la chiesa universale e si faccia, a sua volta, missionaria. Si tratta di un grande e lungo lavoro, del quale è difficile indicare le tappe precise, in cui cessa l'azione propriamente missionaria e si passa all'attività pastorale. Ma alcuni punti debbono restare chiari.

49. È necessario. anzitutto, cercare di stabilire in ogni luogo comunità cristiane, che siano «segno della presenza divina nel mondo» (80) e crescano fino a divenire chiese. Nonostante l'alto numero delle diocesi, esistono tuttora vaste aree in cui le chiese locali sono del tutto assenti o insufficienti rispetto alla vastità del territorio e alla densità della popolazione: rimane da compiere un rande lavoro di impianto e di sviluppo della chiesa. Questa fase della storia ecclesiale, detta plantatio ecclesiae non è terminata, anzi in molti raggruppamenti umani deve ancora iniziare. La responsabilità di tale compito ricade sulla chiesa universale e sulle chiese particolari, su tutto il popolo di Dio e su tutte le forze missionarie. Ogni chiesa, anche quella formata da neoconvertiti, è per sua natura missionaria, è evangelizzata ed evangelizzante, e la fede va sempre presentata come dono di Dio da vivere in comunità (famiglie, parrocchie, associazioni) e da irradiare all'esterno sia con la testimonianza di vita che con la parola. L'azione evangelizzatrice della comunità cristiana, prima sul proprio territorio e poi altrove come partecipazione alla missione universale, è il segno più chiaro della maturità della fede. Occorre un radicale cambiamento di mentalità per diventare missionari, e questo vale sia per le persone sia per le comunità. Il Signore chiama sempre a uscire da se stessi, a condividere con gli altri i beni che abbiamo, cominciando da quello più prezioso che è la fede. Alla luce di questo imperativo missionario si dovrà misurare la validità degli organismi, movimenti, parrocchie e opere di apostolato della chiesa. Solo diventando missionaria la comunità cristiana potrà superare divisioni e tensioni interne e ritrovare la sua unità e il suo vigore di fede. Le forze missionarie, provenienti da altre chiese e paesi, devono operare in comunione con quelle locali per lo sviluppo della comunità cristiana. In particolare. tocca a esse - sempre secondo le direttive dei vescovi e in collaborazione con i responsabili del posto - promuovere la diffusione della fede e l'espansione della chiesa negli ambienti e gruppi non cristiani, animare in senso missionario le chiese locali, cosicché la preoccupazione pastorale sia sempre abbinata a quella per la missione ad gentes. Ogni chiesa farà allora veramente sua la sollecitudine di Cristo, buon Pastore, che si prodiga per il suo gregge, ma al tempo stesso pensa alle «altre pecore che non sono di quest'ovile». (Gv10,16)

50. Tale sollecitudine costituirà un motivo e uno stimolo per un rinnovato impegno ecumenico. I legami esistenti tra attività ecumenica e attività missionaria rendono necessario considerare due fattori concomitanti. Da una parte, si deve riconoscere che «la divisione dei cristiani è di grave pregiudizio alla santa causa della predicazione del vangelo a tutti gli uomini e chiude a molti l'accesso alla fede». (81) Il fatto che la buona novella della riconciliazione sia predicata dai cristiani tra loro divisi, ne indebolisce la testimonianza, ed è perciò urgente operare per l'unità dei cristiani, affinché l'attività missionaria possa riuscire più incisiva. Al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che gli stessi sforzi verso l'unità costituiscono di per sé un segno dell'opera di riconciliazione che Dio conduce in mezzo a noi. D'altra parte, è vero che tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo in Cristo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, tra loro. È su questa base che si fonda l'orientamento dato dal concilio: «I cattolici, esclusa ogni forma sia di indifferentismo e di sincretismo, sia di sconsiderata concorrenza, mediante una comune per quanto possibile professione di fede in Dio e in Gesù Cristo di fronte alle genti, mediante la cooperazione nel campo tecnico e sociale come in quello religioso e culturale, collaborino fraternamente con i fratelli separati secondo le norme del decreto sull'ecumenismo». (82) L'attività ecumenica e la testimonianza concorde a Gesù Cristo dei cristiani appartenenti a differenti chiese e comunità ecclesiali, hanno già recato abbondanti frutti. Ma è sempre più urgente che essi collaborino e testimonino insieme in questo tempo nel quale sètte cristiane e paracristiane seminano la confusione con la loro azione. L'espansione di queste sètte costituisce una minaccia per la chiesa cattolica e per tutte le comunità ecclesiali con le quali essa intrattiene un dialogo. Ovunque possibile e secondo le circostanze locali, la risposta dei cristiani potrà essere anch'essa ecumenica.

Le «comunità ecclesiali di base» forza di evangelizzazione

51. Un fenomeno in rapida crescita nelle giovani chiese, promosso dai vescovi e dalle loro Conferenze a volte come scelta prioritaria della pastorale, sono le comunità ecclesiali di base (conosciute anche con altri nomi), le quali stanno dando buona prova come centri di formazione cristiana e di irradiazione missionaria. Si tratta di gruppi di cristiani a livello familiare o di ambiente ristretto, i quali s'incontrano per la preghiera? la lettura della Scrittura. la catechesi, per la condivisione dei problemi umani ed ecclesiali in vista di un impegno comune. Esse sono un segno di vitalità della chiesa, strumento di formazione e di evangelizzazione, valido punto di partenza per una nuova società fondata sulla «civiltà dell'amore». Tali comunità decentrano e articolano la comunità parrocchiale, a cui rimangono sempre unite; si radicano in ambienti popolari e contadini, diventando fermento di vita cristiana, di attenzione per gli ultimi, di impegno per la trasformazione della società. In esse il singolo cristiano fa un'esperienza comunitaria, per cui anch'egli si sente un elemento attivo, stimolato a dare la sua collaborazione all'impegno di tutti. In tal modo esse sono strumento di evangelizzazione e di primo annunzio e fonte di nuovi ministeri, mentre, animate dalla carità di Cristo, offrono anche un'indicazione circa il modo di superare divisioni, tribalismi, razzismi. Ogni comunità, infatti, per essere cristiana, deve fondarsi e vivere in Cristo, nell'ascolto della parola di Dio, nella preghiera incentrata sull'eucaristia, nella comunione espressa in unità di cuore e di anima e nella condivisione secondo i bisogni dei suoi membri. (At2,42) Ogni comunità - ricordava Paolo VI - deve vivere in unità con la chiesa particolare e universale, nella sincera comunione con i pastori e il magistero, impegnandosi nell'irradiazione missionaria ed evitando ogni chiusura e strumentalizzazione ideologica. (83) E il sinodo dei vescovi ha affermato: «Poiché la chiesa è comunione, le nuove comunità di base, se veramente vivono in unità con la chiesa, sono una vera espressione di comunione e mezzo per costruire una comunione più profonda. Perciò, sono motivo di grande speranza per la vita della chiesa». (84)

Incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli

52. Svolgendo l'attività missionaria tra le genti, la chiesa incontra varie culture e viene coinvolta nel processo d'inculturazione. È, questa, un'esigenza che ne ha segnato tutto il cammino storico, ma oggi è particolarmente acuta e urgente. Il processo di inserimento della chiesa nelle culture dei popoli richiede tempi lunghi: non si tratta di un puro adattamento esteriore, poiché l'inculturazione «significa l'intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture». (85) È, dunque, un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia la riflessione e la prassi della chiesa. Ma è pure un processo difficile, perché non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede cristiana. Per l'inculturazione la chiesa incarna il vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità; (86) trasmette a esse i propri valori, assumendo ciò che di buono c'è in esse e rinnovandole dall'interno. (87) Da parte sua, con l'inculturazione la chiesa diventa segno più comprensibile di ciò che è e strumento più atto della missione. Grazie a questa azione nelle chiese locali, la stessa chiesa universale si arricchisce di espressioni e valori nei vari settori della vita cristiana, quali l'evangelizzazione, il culto, la teologia, la carità; conosce ed esprime ancor meglio il mistero di Cristo, mentre viene stimolata a un continuo rinnovamento. Questi temi, presenti nel concilio e nel magistero successivo, ho ripetutamente affrontato nelle mie visite pastorali alle giovani chiese. (88) L'inculturazione è un cammino lento, che accompagna tutta la vita missionaria e chiama in causa i vari operatori della missione ad gentes, le comunità cristiane man mano che si sviluppano, i pastori che hanno la responsabilità di discernere e stimolare la sua attuazione. (89)

53. I missionari, provenienti da altre chiese e paesi, devono inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati, superando i condizionamenti del proprio ambiente d'origine. Così devono imparare la lingua della regione in cui lavorano. conoscere le espressioni più significative di quella cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza. Soltanto con questa conoscenza essi potranno portare ai popoli in maniera credibile e fruttuosa la conoscenza del mistero nascosto. (Rm16,25); (Ef3,5) Per loro non si tratta certo di rinnegare la propria identità culturale, ma di comprendere, apprezzare, promuovere ed evangelizzare quella dell'ambiente in cui operano e, quindi, mettersi in grado di comunicare realmente con esso, assumendo uno stile di vita che sia segno di testimonianza evangelica e di solidarietà con la gente. Le comunità ecclesiali in formazione, ispirate dal vangelo, potranno esprimere progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali, purché sempre in sintonia con le esigenze oggettive della stessa fede. A questo scopo, specie in ordine ai settori di inculturazione più delicati, le chiese particolari del medesimo territorio dovranno operare in comunione fra di loro (90) e con tutta la chiesa, convinte che solo l'attenzione sia alla chiesa universale che alle chiese particolari le renderà capaci di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà delle sue espressioni. (91) Perciò, i gruppi evangelizzati offriranno gli elementi per una «traduzione» del messaggio evangelico, (92) tenendo presenti gli apporti positivi che si sono avuti nei secoli grazie al contatto del cristianesimo con le varie culture, ma senza dimenticare i pericoli di alterazioni che si sono a volte verificati. (93)

54. In proposito, restano fondamentali alcune indicazioni. L'inculturazione nel suo retto processo dev'essere guidata da due principi: «La compatibilità col vangelo e la comunione con la chiesa universale». (94) Custodi del «deposito della fede», i vescovi cureranno la fedeltà e, soprattutto, il discernimento, (95) per il quale occorre un profondo equilibrio: c'è, infatti, il rischio di passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo, quindi è segnata dal peccato. Anch'essa dev'essere «purificata, elevata e perfezionata». (96) Un tale processo ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione dell'esperienza cristiana della comunità: «Occorrerà un'incubazione del mistero cristiano nel genio del vostro popolo - diceva Paolo VI a Kampala-, perché la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle voci della chiesa universale». (97) Infine l'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista. Essa va sì guidata e stimolata, ma non forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è effetto di una fede matura.

Il dialogo con i fratelli di altre religioni

55. Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa . Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes anzi ha speciali legami con essa e ne è un'espressione. Tale missione, infatti, ha per destinatari gli uomini che non conoscono Cristo e il suo vangelo, e in gran maggioranza appartengono ad altre religioni. Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo «lacune, insufficienze ed errori». (98) Tutto ciò il concilio e il successivo magistero hanno ampiamente sottolineato, mantenendo sempre fermo che la salvezza viene da Cristo e il dialogo non dispensa dell'evangelizzazione. (99) Alla luce dell'economia di salvezza, la chiesa non vede un contrasto fra l'annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso; sente, però, la necessità di comporli nell'ambito della sua missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili. Ho scritto recentemente ai vescovi dell'Asia: «Anche se la chiesa riconosce volentieri quanto c'è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del buddismo, dell'induismo e dell'islam riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è "la via, la verità e la vita"... il fatto che i seguaci di altre religioni possano ricevere la grazia di Dio ed essere salvati da Cristo indipendentemente dai mezzi ordinari che egli ha stabilito, non cancella affatto l'appello alla fede e al battesimo che Dio vuole per tutti i popoli». (100) Cristo stesso, infatti, «inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo, ha confermato simultaneamente la necessità della chiesa, nella quale gli uomini entrano mediante il battesimo come per una porta». (101) Il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la chiesa è la via ordinaria do salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza. (102)

56. Il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un'attività che ha proprie motivazioni. esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. (103) Con esso la chiesa intende scoprire i «germi del Verbo», (104) «raggi della verità che illumina tutti gli uomini» (105) germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell'umanità. Il dialogo si fonda sulla speranza e la carità e porterà frutti nello Spirito. Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell'azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l'integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti. Deriva da qui lo spirito che deve animare tale dialogo nel contesto della missione. L'interlocutore dev'essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell'altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno. Non ci deve essere nessuna abdicazione né irenismo, ma la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa e, al tempo stesso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi. Il dialogo tende alla purificazione e conversione interiore che, se perseguìta con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa.

57. Al dialogo si apre un vasto campo, potendo esso assumere molteplici forme ed espressioni: dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto «dialogo di vita», per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell'esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna. Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma. Per esso è indispensabile l'apporto dei laici. che «con l'esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni» (106), mentre alcuni di loro potranno pure dare un contributo di ricerca e di studio. (107) Sapendo che non pochi missionari e comunità cristiane trovano nella via difficile e spesso incompresa del dialogo l'unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio all'uomo, desidero incoraggiarli a perseverare con fede e carità, anche là dove i loro sforzi non trovano accoglienza e risposta. Il dialogo è una via verso il regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se tempi e momenti sono riservati al Padre. (At1,7)

Promuovere lo sviluppo educando le coscienze

58. La missione ad gentes si svolge ancor oggi, per gran parte, in quelle regioni del Sud del mondo, dove è più urgente l'azione per lo sviluppo integrale e la liberazione da ogni oppressione. La chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso, e oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi e esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi. Nell'enciclica Sollicitudo rei sociali ho affermato che «la chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale», ma «dà il primo contributo alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta». (108) La Conferenza dei vescovi latino-americani a Puebla ha affermato che «il miglior servizio al fratello è l'evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente». (109) La missione della chiesa non è di operare direttamente sul piano economico o tecnico o politico o di dare un contributo materiale allo sviluppo, ma consiste essenzialmente nell'offrire ai popoli non un «avere di più», ma un «essere di più», risvegliando le coscienze col vangelo. «L'autentico sviluppo umano deve affondare le sue radici in un'evangelizzazione sempre più profonda» (110) La chiesa e i missionari sono promotori di sviluppo anche con le loro scuole, ospedali, tipografie, università, fattorie agricole sperimentali. Ma lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l'uomo il protagonista dello sviluppo non il denaro o la tecnica. La chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano, ma non conoscono. La grandezza dell'uomo creato a immagine di Dio e da lui amato, l'esuaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio, il dominio sulla natura creata e posta a servizio dell'uomo, il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini .

59. Col messaggio evangelico la chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo proprio perché porta alla conversione del cuore e della mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all'impegno al servizio dei fratelli, inserisce l'uomo nel progetto di Dio, che è la costruzione del regno di pace, di giustizia a partire già da questa vita. È la prospettiva biblica dei «cieli nuovi e terra nuova», (Is65,17); (2Pt3,13); (Ap21,1) la quale ha inserito nella storia lo stimolo e la metà per l'avanzamento dell'umanità. Lo sviluppo dell'uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio, e deve portare a Dio. (111) Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell'uomo c'è una stretta connessione. Il contributo della chiesa e della sua opera evangelizzatrice per lo sviluppo dei popoli riguarda non soltanto il Sud del mondo, per combattervi la miseria materiale e il sottosviluppo, (112) ma anche il Nord, che è esposto alla miseria morale e spirituale causata dal «supersviluppo». Certa modernità a-religiosa, dominante in alcune parti del mondo, si basa sull'idea che, per rendere l'uomo più uomo, basti arricchire e perseguire la crescita tecnico-economica. Ma uno sviluppo senza anima non può bastare all'uomo, e l'eccesso di opulenza gli è nocivo come l'eccesso di povertà. Il Nord del mondo ha costruito un tale «modello di sviluppo» e lo diffonde nel Sud, dove il senso di religiosità e i valori umani che vi sono presenti rischiano di esser travolti dall'ondata del consumismo. «Contro la fame cambia la vita» è il motto nato in ambienti ecclesiali, che indica ai popoli ricchi la via per diventare fratelli dei poveri: bisogna ritornare a una vita più austera che favorisca un nuovo modello di sviluppo, attento ai valori etici e religiosi. L'attività missionaria apporta ai poveri la luce e lo stimolo per il vero sviluppo, mentre la nuova evangelizzazione deve, tra l'altro, creare nei ricchi la coscienza che è venuto il momento di farsi realmente fratelli dei poveri nella comune conversione allo sviluppo integrale, aperto all'Assoluto. (113)

La carità fonte e criterio della missione

60. «La chiesa nel mondo intero - dissi durante la mia visita in Brasile - vuol essere la chiesa dei poveri. Essa vuol estrarre tutta la verità contenuta nelle beatitudini e soprattutto nella prima: "Beati i poveri in spirito"... Essa vuole insegnare questa verità e vuol metterla in pratica come Gesù, che venne a fare e a insegnare». (114) Le giovani chiese, che per lo più vivono fra popoli afflitti da una povertà assai diffusa, esprimono spesso questa preoccupazione come parte integrante della loro missione. La Conferenza generale dell'episcopato latino-americano a Puebla, dopo aver ricordato l'esempio di Gesù? scrive che «i poveri meritano un'attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò, Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù». (115) Fedele allo spirito delle beatitudini, la chiesa è chiamata alla condivisione con i poveri e gli oppressi di ogni genere. Esorto, perciò, tutti i discepoli di Cristo e le comunità cristiane, dalle famiglie alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, a fare una sincera revisione della propria vita nel senso della solidarietà con i poveri. Nello stesso tempo, ringrazio i missionari che con la loro presenza amorosa e il loro umile servizio operano per lo sviluppo integrale della persona e della società mediante scuole, centri sanitari, lebbrosari, case di assistenza per handicappati e anziani, iniziative per la promozione della donna e simili. Ringrazio i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici per la loro dedizione, mentre incoraggio i volontari di organizzazioni non governative, oggi sempre più numerosi, che si dedicano a queste opere di carità e dl promozione umana. Sono, infatti, queste opere che testimoniano l'anima di tutta l'attività missionaria: L'amore, che è e resta il movente della missione, ed è anche «l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono». (116)

PARTE VI

I RESPONSABILI E GLI OPERATORI DELLA PASTORALE MISSIONARIA

61. Non c'è testimonianza senza testimoni, come non c'è missione senza missionari. Perché collaborino alla sua missione e continuino la sua opera salvifica, Gesù sceglie e invia delle persone come suoi testimoni e apostoli: «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». (At1,8) I Dodici sono i primi operatori della missione universale: essi costituiscono un «soggetto collegiale» della missione, essendo stati scelti da Gesù per restare con lui ed essere inviati «alle pecore perdute della casa d'Israele». (Mt10,6) Questa collegialità non impedisce che nel gruppo si distinguano singole figure, come Giacomo, Giovanni e, più di tutti, Pietro, la cui persona ha tanto rilievo da giustificare l'espressione: «Pietro e gli altri apostoli». (At2,14) Grazie a lui si aprono gli orizzonti della missione universale, in cui successivamente eccellerà Paolo, che per volontà divina fu chiamato e inviato tra le genti. (Gal1,15) Nell'espansione missionaria delle origini, accanto agli apostoli troviamo altri umili operatori che non si debbono dimenticare: sono persone, gruppi, comunità. Un tipico esempio di chiesa locale è la comunità di Antiochia, che da evangelizzata si fa evangelizzatrice e invia i suoi missionari alle genti. (At13,2) La chiesa primitiva vive la missione come compito comunitario, pur riconoscendo nel suo seno degli «inviati speciali», o «missionari consacrati alle genti», come Paolo e Barnaba.

62. Quanto fu fatto all'inizio del cristianesimo per la missione universale conserva la sua validità e urgenza anche oggi. La chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e di esteriore ma raggiunge il cuore stesso della chiesa. Ne deriva che tutta la chiesa e ciascuna chiesa è inviata alle genti. Le stesse chiese più giovani, proprio «perché questo zelo missionario fiorisca nei membri della loro patria» debbono «partecipare quanto prima e di fatto alla missione universale della chiesa, inviando anch'esse dei missionari a predicare dappertutto nel mondo il vangelo anche se soffrono di scarsezza di clero». (117) Molte già fanno così. e io le incoraggio vivamente a continuare. In questo vincolo essenziale dl comunione tra la chiesa universale e le chiese particolari si esercita l'autentica e piena missionarietà: «In un mondo che col crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi fra di loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell'unica e comune missione dl annunziare e vivere il vangelo... Le chiese cosiddette giovani... hanno bisogno della forza di quelle antiche, mentre queste hanno bisogno della testimonianza e della spinta delle più giovani, in modo che le singole chiese attingano dalla ricchezza delle altre chiese». (118)

I primi responsabili dell'attività missionaria

63. Come il Signore risorto conferì al collegio apostolico con a capo Pietro il mandato della missione universale, così questa responsabilità incombe innanzitutto sul collegio dei vescovi con a capo il successore di Pietro. (119) Consapevole di questa responsabilità, negli incontri con i vescovi sento il dovere di condividerla in ordine sia alla nuova evangelizzazione che alla missione universale. Mi sono messo in cammino sulle vie del mondo «per annunciare il vangelo. per "confermare i fratelli" nella fede, per consolare la chiesa. per incontrare l'uomo. Sono viaggi di fede... Sono altrettante occasioni di catechesi itinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini. del vangelo e del magistero apostolico, dilatato alle odierne sfere planetarie». (120) I fratelli vescovi sono con me direttamente responsabili dell'evangelizzazione del mondo, sia come membri del collegio episcopale, sia come pastori delle chiese particolari. In proposito, il concilio dichiara: «La cura di annunziare in ogni parte della terra il vangelo appartiene al corpo dei pastori, ai quali in comune Cristo diede il mandato». (121) Esso afferma anche che i vescovi «sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo». (122) Questa responsabilità collegiale ha conseguenze pratiche. Parimenti, «il sinodo dei vescovi... tra gli affari d'importanza generale deve seguire con particolare sollecitudine l'attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della chiesa». (123) La stessa responsabilità si riflette, in varia misura, nelle Conferenze episcopali e nei loro organismi a livello continentale, che perciò debbono offrire un proprio contributo all'impegno missionario.(124) Ampio è pure il dovere missionario di ciascun vescovo, come pastore di una chiesa particolare. Spetta a lui «come capo e centro unitario dell'apostolato diocesano, promuovere, dirigere e coordinare l'attività missionaria... Provveda anche a che l'attività apostolica non resti limitata ai soli convertiti, ma che una giusta parte di missionari e di sussidi sia destinata all'evangelizzazione dei non cristiani». (125)

64. Ogni Chiesa particolare deve aprirsi generosamente alle necessità delle altre. La collaborazione fra le chiese, in una reale reciprocità che le rende pronte a dare ed a ricevere, è anche fonte di arricchimento per tutte ed interessa i vari settori della vita ecclesiale. A questo riguardo, resta esemplare la dichiarazione dei vescovi a Puebla: «Finalmente è giunta l'ora per l'America Latina... di proiettarsi oltre le sue frontiere, ad gentes. È certo che noi stessi abbiamo ancora bisogno di missionari, ma dobbiamo dare della nostra povertà». (126) Con questo spirito invito i vescovi e le Conferenze episcopali ad attuare generosamente quanto è previsto nella Nota direttiva, che la Congregazione per il clero ha emanato per la collaborazione tra le chiese particolari e, specialmente, per la migliore distribuzione del clero nel mondo. (127) La missione della chiesa è più vasta della «comunione fra le chiese»: questa deve essere orientata, oltre che all'aiuto per la rievangelizzazione, anche e soprattutto nel senso della missionarietà specifica. Mi appello a tutte le chiese, giovani e antiche, perché condividano con me questa preoccupazione, curando l'incremento delle vocazioni missionarie e superando le varie difficoltà.

Missionari e istituti "ad gentes"

65. Fra gli operatori della pastorale missionaria occupano tuttora, come in passato, un posto di fondamentale importanza quelle persone e istituzioni, a cui il decreto Ad gentes dedica lo speciale capitolo dal titolo: «I missionari». (128) Al riguardo, s'impone un'approfondita riflessione, anzitutto, per i missionari stessi, che dai cambiamenti della missione possono essere indotti a non capir più il senso della loro vocazione, a non saper più che cosa precisamente la chiesa si attenda oggi da loro. Punto di riferimento sono queste parole del concilio: «Benché l'impegno di diffondere la fede ricada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione delle sue possibilità, Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, per averli con sé e per inviarli a predicare alle genti. Perciò, egli? per mezzo dello Spirito santo, che distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime, accende nel cuore dei singoli la vocazione missionaria e insieme suscita in seno alla chiesa quelle istituzioni che si assumono come dovere specifico il compito dell'evangelizzazione, che riguarda tutta la chiesa». (129) Si tratta, dunque, di una «vocazione speciale», modellata su quella degli apostoli. Essa si manifesta nella totalità dell'impegno per il servizio dell'evangelizzazione: è impegno che coinvolge tutta la persona e la vita del missionario, esigendo da lui una donazione senza limiti di forze e di tempo. Coloro che sono dotati di tale vocazione, «inviati dalla legittima autorità, si portano per spirito di fede e di obbedienza verso coloro che sono lontani da Cristo, riservandosi esclusivamente per quell'opera per la quale, come ministri del vangelo, sono stati assunti». (130) I missionari devono sempre meditare sulla corrispondenza che il dono da loro ricevuto richiede e aggiornare la loro formazione dottrinale e apostoli.

66. Gli istituti missionari, poi, devono impiegare tutte le risorse necessarie, mettendo a frutto la loro esperienza e creatività nella fedeltà al carisma originario, per preparare adeguatamente i candidati e assicurare il ricambio delle energie spirituali, morali e fisiche dei loro membri. (131) Si sentano essi parte viva della comunità ecclesiale e operino in comunione con essa. Difatti «ogni istituto è nato per la chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione speciale». e di una tale fedeltà al carisma originario gli stessi vescovi sono custodi. (132) Gli istituti missionari sono nati in genere dalle chiese di antica cristianità e storicamente sono stati strumenti della congregazione di Propaganda Fide per la diffusione della fede e la fondazione di nuove chiese. Essi accolgono oggi in misura crescente candidati provenienti dalle giovani chiese che hanno fondato, mentre nuovi istituti sono sorti proprio nei paesi che prima ricevevano solo missionari e che oggi li mandano. È da lodare questa duplice tendenza, che dimostra la validità e l'attualità della specifica vocazione missionaria di questi istituti, tuttora «assolutamente necessari», (133) non solo per l'attività missionaria ad gentes, com'è nella loro tradizione, ma anche per l'animazione missionaria sia nelle chiese di antica cristianità, sia in quelle più giovani. La vocazione speciale dei missionari ad vitam conserva tutta la sua validità: essa rappresenta il paradigma dell'impegno missionario della chiesa, che ha sempre bisogno di donazioni radicali e totali, di impulsi nuovi e arditi. I missionari e le missionarie, che hanno consacrato tutta la vita per testimoniare fra le genti il Risorto, non si lascino, dunque, intimorire da dubbi, incomprensioni, rifiuti, persecuzioni. Risveglino la grazia del loro carisma specifico e riprendano con coraggio il loro cammino, preferendo - in spirito di fede, obbedienza e comunione con i propri pastori - i posti più umili e ardui.

Sacerdoti diocesani per la missione universale

67. Collaboratori del vescovo, i presbiteri in forza del sacramento dell'ordine sono chiamati a condividere la sollecitudine per la missione: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli estremi confini della terra", dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli». (134) Per questo motivo, la stessa formazione dei candidati al sacerdozio deve mirare a dar loro «quello spirito veramente cattolico che li abitui a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, per andare incontro alle necessità della missione universale, pronti a predicare dappertutto il vangelo». (135) Tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la chiesa per tutta l'umanità. Specialmente i sacerdoti che si trovano in aree a minoranza cristiana debbono essere mossi da singolare zelo e impegno missionario: il Signore affida loro non solo la cura pastorale della comunità cristiana, ma anche e soprattutto l'evangelizzazione dei loro compatrioti che non fanno parte del suo gregge. Essi «non mancheranno di rendersi concretamente disponibili allo Spirito santo e al vescovo, per essere mandati a predicare il vangelo oltre i confini del loro paese. Ciò richiederà in essi non solo maturità nella vocazione, ma pure una capacità non comune di distacco dalla propria patria, etnia e famiglia, e una particolare idoneità a inserirsi nelle altre culture con intelligenza e rispetto». (136)

68. Nell'enciclica Fidei donum Pio XII con intuito profetico incoraggiò i vescovi a offrire alcuni dei loro sacerdoti per un servizio temporaneo alle chiese d'Africa, approvando le iniziative già esistenti in proposito. A venticinque anni di distanza volli sottolineare la grande novità di quel documento, «che ha fatto superare la dimensione territoriale del servizio presbiterale, per destinarlo a tutta la chiesa». (137) Oggi risultano confermate la validità e la fruttuosità di questa esperienza: infatti, i presbiteri detti Fidei donum evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le chiese, danno un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede. Occorre certo che il servizio missionario del sacerdote diocesano risponda ad alcuni criteri e condizioni. Si devono inviare sacerdoti scelti tra i migliori, idonei e debitamente preparati al peculiare lavoro che li attende. (138) Essi dovranno inserirsi nel nuovo ambiente della chiesa che li accoglie con animo aperto e fraterno e costituiranno un unico presbiterio con i sacerdoti locali, sotto l'autorità del vescovo. (139) Auspico che lo spirito di servizio aumenti in seno al presbiterio delle chiese antiche e sia promosso in quello delle chiese più recenti.

La fecondità missionaria della consacrazione

69. Nell'inesauribile e multiforme ricchezza dello Spirito si collocano le vocazioni degli istituti di vita consacrata, i cui membri, «dal momento che si dedicano al servizio della chiesa in forza della loro stessa consacrazione, sono tenuti all'obbligo di prestare l'opera loro in modo speciale nell'azione missionaria, con lo stile proprio dell'istituto». (140) La storia attesta le grandi benemerenze delle famiglie religiose nella propagazione della fede e nella formazione di nuove chiese: dalle antiche istituzioni monastiche agli ordini medioevali, fino alle moderne congregazioni.

a) Seguendo il concilio, invito gli istituti di vita contemplativa a stabilire comunità presso le giovani chiese, per rendere «tra i non cristiani una magnifica testimonianza della maestà e della carità di Dio, come anche dell'unione che si stabilisce nel Cristo». (141) Questa presenza è dappertutto benefica nel mondo non cristiano, specialmente in quelle regioni, dove le religioni hanno in grande stima la vita contemplativa per l'ascesi e la ricerca dell'Assoluto.

b) Agli istituti di vita attiva addito gli immensi spazi della carità, dell'annunzio evangelico, dell'educazione cristiana, della cultura e della solidarietà verso i poveri, i discriminati, gli emarginati e oppressi. Tali istituti, tendano o meno a un fine strettamente missionario, si devono interrogare circa la loro possibilità e disponibilità a estendere la propria azione per espandere il regno di Dio. Questa richiesta è stata accolta nei tempi più recenti da non pochi istituti, ma vorrei che fosse meglio considerata e attuata per un autentico servizio. La chiesa deve far conoscere i grandi valori evangelici di cui è portatrice, e nessuno li testimonia più efficacemente di chi fa professione di vita consacrata nella castità, povertà e obbedienza, in totale donazione a Dio e in piena disponibilità a servire l'uomo e la società sull'esempio di Cristo. (142)

70. Una speciale parola di apprezzamento rivolgo alle religiose missionarie, nelle quali la verginità per il regno si traduce in molteplici frutti di maternità secondo lo spirito: proprio la missione ad gentes offre loro un campo vastissimo per «donarsi con amore in modo totale e indiviso». (143) L'esempio e l'operosità della donna vergine, consacrata alla carità verso Dio e verso il prossimo, specie il più povero, sono indispensabili come segno evangelico presso quei popoli e culture in cui la donna deve ancora compiere un lungo cammino in ordine alla sua promozione umana e liberazione. Auguro che molte giovani donne cristiane sentano l'attrattiva di donarsi a Cristo con generosità, attingendo dalla loro consacrazione la forza e la gioia per testimoniarlo tra i popoli che lo ignorano.

Tutti i laici sono missionari in forza del battesimo

71. I pontefici dell'età più recente hanno molto insistito sull'importanza del ruolo dei laici nell'attività missionaria. (144) Nell'esortazione Christifideles laici anch'io ho trattato esplicitamente della «missione permanente di portare il vangelo a quanti e sono milioni e milioni di uomini e di donne - ancora non conoscono Cristo redentore dell'uomo» (145) e del corrispondente impegno dei fedeli laici. La missione è di tutto il popolo di Dio: anche se la fondazione di una nuova chiesa richiede l'eucaristia e, quindi, il ministero sacerdotale, tuttavia la missione, che si esplica in svariate forme, è compito di tutti i fedeli. La partecipazione dei laici all'espansione della fede risulta chiara, fin dai primi tempi del cristianesimo, a opera sia di singoli fedeli e famiglie, sia dell'intera comunità. Ciò ricordava già Pio XII, richiamando nella prima enciclica missionaria le vicende delle missioni laicali. (146) Nei tempi moderni non è mancata la partecipazione attiva dei missionari laici e delle missionarie laiche. Come non ricordare l'importante ruolo svolto da queste, il loro lavoro nelle famiglie, nelle scuole, nella vita politica. sociale e culturale e, in particolare, il loro insegnamento della dottrina cristiana? Bisogna anzi riconoscere - ed è un titolo di onore che alcune chiese hanno avuto inizio grazie all'attività dei laici e delle laiche missionarie. Il Vaticano II ha confermato questa tradizione, illustrando il carattere missionario di tutto il popolo di Dio in particolare l'apostolato dei laici (147) e sottolineando il contributo specifico che essi son chiamati a dare nell'attività missionaria. (148) La necessità che tutti i fedeli condividano tale responsabilità non e solo questione di efficacia apostolica, ma è un dovere-diritto fondato sulla dignità battesimale per cui «i fedeli partecipano, per la loro parte, al triplice ufficio - sacerdotale profetico e regale di Gesù Cristo». (149) Essi, perciò, «sono tenuti all'obbligo generale e hanno diritto di impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l'annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancor di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Cristo se non per mezzo loro». (150) Inoltre, per l'indole secolare. che è loro propria, hanno la particolare vocazione a «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio». (151)

72. I settori di presenza e di azione missionaria dei laici sono molto ampi. «Il primo campo... è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale dell'economia...» (152) sul piano locale, nazionale e internazionale. All'interno della chiesa si presentano vari tipi di servizi, funzioni, ministeri e forme di animazione della vita cristiana. Ricordo, quale novità emersa in non poche chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei «movimenti ecclesiali», dotati di dinamismo missionario. Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle chiese locali e sono accolti cordialmente da vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali, i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l'attività missionaria propriamente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra i giovani, alla vita cristiana e all'evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi. Nell'attività missionaria sono da valorizzare le varie espressioni del laicato, rispettando la loro indole e finalità: associazioni del laicato missionario, organismi cristiani di volontariato internazionale, movimenti ecclesiali, gruppi e sodalizi di vario genere siano impegnati nella missione ad gentes e nella collaborazione con le chiese locali. In questo modo sarà favorita la crescita di un laicato maturo e responsabile, la cui «formazione... si pone nelle giovani chiese come elemento essenziale e irrinunciabile della plantatio ecclesiale». (153)

L'opera dei catechisti e la varietà dei ministeri

73. Tra i laici che diventano evangelizzatori si trovano in prima fila i catechisti. Il decreto missionario li definisce «quella schiera degna di lode, tanto benemerita dell'opera missionaria tra le genti... Essi, animati da spirito apostolico e facendo grandi sacrifici, danno un contributo singolare e insostituibile alla propagazione della fede e della chiesa». (154) Non è senza ragione che le chiese di antica data, impegnandosi nella nuova evangelizzazione, abbiano moltiplicato i catechisti e intensificato la catechesi. «Sono i catechisti in terra di missione coloro che meritano, in modo tutto speciale, questo titolo di "catechisti"... chiese ora fiorenti non sarebbero state edificate senza di loro». (155) Anche col moltiplicarsi dei servizi ecclesiali ed extraecclesiali il ministero dei catechisti rimane sempre necessario e ha peculiari caratteristiche: i catechisti sono operatori specializzati. testimoni diretti. evangelizzatori insostituibili, che rappresentano la forza basilare delle comunità cristiane, specie nelle giovani chiese, come ho più volte affermato e constatato nei miei viaggi missionari. Il nuovo codice di Diritto canonico ne riconosce i compiti, le qualità, i requisiti. (156) Ma non si può dimenticare che il lavoro dei catechisti si va facendo sempre più difficile e impegnativo per i cambiamenti ecclesiali e culturali in corso. Vale ancor oggi quanto già suggeriva il concilio: una più accurata preparazione dottrinale e pedagogica, il costante rinnovamento spirituale e apostolico, la necessità di «garantire un decoroso tenore di vita e di sicurezza sociale» ai catechisti. (157) È importante, altresì, favorire la creazione e il potenziamento delle scuole per catechisti, che, approvate dalle Conferenze episcopali, rilascino titoli ufficialmente riconosciuti da queste ultime. (158)

74. Accanto ai catechisti bisogna ricordare le altre forme di servizio alla vita della chiesa e alla missione, e gli altri operatori: animatori della preghiera, del canto e della liturgia; capi di comunità ecclesiali di base e di gruppi biblici; incaricati delle opere caritative; amministratori dei beni della chiesa; dirigenti dei vari sodalizi apostolici; insegnanti di religione nelle scuole. Tutti i fedeli laici debbono dedicare alla chiesa parte del loro tempo, vivendo con coerenza la propria fede.

La Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli e le altre strutture per l'attività missionaria

75. I responsabili e gli operatori della pastorale missionaria devono sentirsi uniti nella comunione che caratterizza il corpo mistico. Per questo Cristo ha pregato nell'ultima cena: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato». (Gv17,21) È in questa comunione il fondamento della fecondità della missione. Ma la chiesa è anche una comunione visibile e organica, e perciò la missione richiede pure una unione esterna e ordinata tra le diverse responsabilità e funzioni, in modo che tutte le membra «indirizzino in piena unanimità le loro forze all'edificazione della chiesa». (159) Spetta al dicastero missionario «dirigere e coordinare in tutto il mondo l'opera stessa dell'evangelizzazione dei popoli e la cooperazione missionaria, salva la competenza della Congregazione per le chiese orientali». (160) Per questo «è suo compito suscitare e distribuire, secondo i bisogni più urgenti delle regioni, i missionari..., elaborare un piano organico di azione, emanare norme direttive e principi adeguati in ordine all'evangelizzazione, dare l'impulso iniziale». (161) Non posso che confermare queste sagge disposizioni: per rilanciare la missione ad gentes occorre un centro di propulsione, di direzione e di coordinamento che è la Congregazione per l'evangelizzazione. Invito le Conferenze episcopali e i loro organismi, superiori maggiori degli ordini, congregazioni e istituti gli organismi laicali impegnati nell'attività missionaria a collaborare fedelmente con detta Congregazione, che ha l'autorità necessaria per programmare e dirigere l'attività e la cooperazione missionaria a livello universale. La medesima Congregazione, avendo alle spalle una lunga e gloriosa esperienza, è chiamata a svolgere un ruolo di primaria importanza sul piano della riflessione e dei programmi operativi, di cui la chiesa ha bisogno per orientarsi più decisamente verso la missione nelle sue varie forme. A questo fine, la Congregazione deve mantenere strette relazioni con gli altri dicasteri della Santa Sede, con le chiese particolari e con le forze missionarie. In un'ecclesiologia di comunione, in cui la chiesa è tutta missionaria, ma al tempo stesso si confermano sempre indispensabili vocazioni e istituzioni specifiche per il lavoro ad gentes rimane molto importante il ruolo di guida e di coordinamento del dicastero missionario per affrontare insieme le grandi questioni di comune interesse, salve le competenze proprie di ciascuna autorità e struttura.

76. Per l'indirizzo e il coordinamento dell'attività missionaria a livello nazionale e regionale rivestono grande importanza le Conferenze episcopali e i loro diversi raggruppamenti. A loro il concilio chiede di «trattare in pieno accordo le questioni più gravi e i problemi più urgenti, senza trascurare però le differenze tra luogo e luogo», (162) nonché il problema dell'inculturazione. Di fatto, c'è già un'ampia e regolare azione in questo campo e i frutti sono visibili. È un'azione che deve essere intensificata e meglio raccordata con quella di altri organismi delle stesse Conferenze affinché la sollecitudine missionaria non sia demandata alla cura di un dato settore od organismo, ma sia condivisa da tutti. Gli stessi organismi e Istituzioni, che attendono all'attività missionaria, colleghino opportunamente sforzi e iniziative. Le Conferenze dei superiori maggiori, poi, abbiano questo stesso impegno nel loro ambito, in contatto con le Conferenze episcopali, secondo le indicazioni e norme stabilite, (163) ricorrendo anche a commissioni miste. (164) Sono, infine, auspicabili incontri e forme di collaborazione tra le varie istituzioni missionarie per quanto riguarda sia la formazione e lo studio, (165) sia l'azione apostolica da svolgere.

PARTE VII

LA COOPERAZIONE ALL'ATTIVlTÀ MISSIONARIA

77. Membri della chiesa, in forza del battesimo tutti i cristiani sono corresponsabili dell'attività missionaria. La partecipazione delle comunità e dei singoli fedeli a questo diritto-dovere è chiamata «cooperazione missionaria». Tale cooperazione si radica e si vive innanzitutto nell'essere personalmente uniti a Cristo: solo se si è uniti a lui come il tralcio alle vite, (Gv15,5) si possono produrre buoni frutti. La santità di vita permette a ogni cristiano di essere fecondo nella missione della chiesa: «Il sacro concilio invita tutti a un profondo rinnovamento interiore, affinché, avendo una viva coscienza della propria responsabilità in ordine alla diffusione del vangelo, prendano la loro parte nell'attività missionaria presso le genti». (166) La partecipazione alla missione universale, quindi, non si riduce ad alcune particolari attività, ma è il segno della maturità di fede e di una vita cristiana che porta frutti. Così il credente allarga i confini della sua carità, manifestando la sollecitudine per coloro che sono lontani, come per quelli che sono vicini: prega per le missioni e per le vocazioni missionarie, aiuta i missionari, ne segue l'attività con interesse e, quando ritornano, li accoglie con quella gioia con cui le prime comunità cristiane ascoltavano dagli apostoli le meraviglie che Dio aveva operato mediante la loro predicazione. (At14,27)

Preghiera e sacrifici per i missionari

78. Tra le forme di partecipazione il primo posto spetta alla cooperazione spirituale: preghiera, sacrificio testimonianza di vita cristiana. La preghiera deve accompagnare il cammino dei missionari, perché l' annunzio della Parola sia reso efficace dalla grazia divina. San Paolo nelle sue Lettere chiede spesso ai fedeli di pregare per lui, perché gli sia concesso di annunziare il vangelo con fiducia e franchezza. Alla preghiera è necessario unire il sacrificio: il valore salvifico di ogni sofferenza, accettata e offerta a Dio con amore, scaturisce dal sacrificio di Cristo, che chiama le membra del suo mistico corpo ad associarsi ai suoi patimenti, a completarli nella propria carne. (Col1,24) Il sacrificio del missionario deve essere condiviso e sostenuto da quello dei fedeli. Perciò, a coloro che svolgono il loro ministero pastorale fra i malati raccomando di istruirli circa il valore della sofferenza, incoraggiandoli a offrirla a Dio per i missionari. Con tale offerta i malati diventano anch'essi missionari, come sottolineano alcuni movimenti sorti tra loro e per loro. Anche la solennità di Pentecoste - inizio della missione della chiesa -- è celebrata in alcune comunità come «giornata della sofferenza per le missioni».

«Eccomi, Signore, sono pronto! Manda me!» (cf Is 6,8)

79. La cooperazione si esprime, altresì, nel promuovere le vocazioni missionarie. A questo riguardo, va riconosciuta la validità delle diverse forme d'impegno missionario, ma bisogna al tempo stesso riaffermare la priorità della donazione totale e perpetua all'opera delle missioni, specialmente negli istituti e congregazioni missionari, maschili e femminili. La promozione di tali vocazioni è il cuore della cooperazione: l'annunzio del vangelo richiede annunziatori, la messe ha bisogno di operai, la missione si fa soprattutto con uomini e donne consacrati a vita all'opera del vangelo, disposti ad andare in tutto il mondo per portare la salvezza. Desidero, pertanto, richiamare e raccomandare questa sollecitudine per le vocazioni missionarie. Coscienti della responsabilità universale dei cristiani nel contribuire all'opera missionaria e allo sviluppo dei popoli poveri, dobbiamo tutti domandarci perché in varie nazioni, mentre crescono le offerte, minacciano di scomparire le vocazioni missionarie, che danno la vera misura della donazione ai fratelli. Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata sono un segno sicuro della vitalità di una chiesa.

80. Pensando a questo grave problema, rivolgo il mio appello con particolare fiducia e affetto alle famiglie e ai giovani. Le famiglie e, soprattutto, i genitori siano consapevoli di dover portare «un particolare contributo alla causa missionaria della chiesa, coltivando le vocazioni missionarie fra i loro figli e figlie». (167) Una vita di intensa preghiera, un senso reale del servizio del prossimo e una generosa partecipazione alle attività ecclesiali offrono alle famiglie le condizioni favorevoli per la vocazione dei giovani. Quando i genitori sono pronti a consentire che uno dei figli parta per la missione, quando essi hanno chiesto al Signore tale grazia, egli li ricompenserà, nella gioia, il giorno in cui un loro figlio o figlia ascolterà la sua chiamata. Ai giovani stessi io chiedo di ascoltare la parola di Cristo che dice loro, come già a Simon Pietro e ad Andrea sulla riva del lago: «Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini». (Mt4,19) Abbiano essi il coraggio di rispondere, come Isaia: «Eccomi, Signore, sono pronto, manda me». (Is4,8) Essi avranno dinanzi a sé una vita affascinante e conosceranno la vera soddisfazione di annunciare la «buona novella» ai fratelli e sorelle che condurranno sulla via della salvezza.

«C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)

81. Sono molte le necessità materiali ed economiche delle missioni: non solo per fondare la chiesa con strutture minime (cappelle, scuole per catechisti e seminaristi, case di abitazione), ma anche per sostenere le opere di carità, di educazione e di promozione umana, campo vastissimo di azione specialmente nei paesi poveri. La chiesa missionaria dà quello che riceve, distribuisce ai poveri quello che i suoi figli più dotati di beni materiali le mettono generosamente a disposizione. Desidero a questo punto ringraziare tutti coloro che donano con sacrificio per l'opera missionaria: le loro rinunzie e la loro partecipazione sono indispensabili per costruire la chiesa e testimoniare la carità. Circa gli aiuti materiali è importante riguardare allo spirito col quale si dona. Per questo occorre rivedere il proprio stile di vita: le missioni non chiedono solo un aiuto, ma una condivisione con l'annunzio e la carità verso i poveri. Tutto quello che abbiamo ricevuto da Dio la vita come i beni materiali - non è nostro. ma ci è dato in uso. La generosità nel dare va sempre illuminata e ispirata dalla fede: allora, davvero c'è più gioia nel dare che nel ricevere. La Giornata missionaria mondiale, diretta alla sensibilizzazione sul problema missionario, ma anche alla raccolta di aiuti, è un appuntamento importante nella vita della chiesa, perché insegna come donare: nella celebrazione eucaristica, cioè come offerta a Dio, e per tutte le missioni del mondo.

Nuove forme di cooperazione missionaria

82. La cooperazione si allarga oggi a forme nuove includendo non solo l'aiuto economico, ma anche la partecipazione diretta. Situa ioni nuove, connesse al fenomeno della mobilità, richiedono ai cristiani un autentico spirito missionario. Il turismo a carattere internazionale è ormai un fatto di massa e positivo, se si pratica con atteggiamento rispettoso per un mutuo arricchimento culturale, evitando ostentazione e sperperi e cercando il contatto umano. Ma ai cristiani è richiesta soprattutto la coscienza di dover essere sempre testimoni della fede e della carità di Cristo. Anche la conoscenza diretta della vita missionaria e delle nuove comunità cristiane può arricchire e rinvigorire la fede. Sono lodevoli le visite alle missioni soprattutto da parte dei giovani che vanno per servire e fare un'esperienza forte di vita cristiana. Le esigenze di lavoro portano oggi numerosi cristiani di giovani comunità in aree dove il cristianesimo è sconosciuto e, talvolta, bandito o perseguitato. Ciò avviene anche per i fedeli dei paesi di antica tradizione cristiana, che lavorano temporaneamente in paesi non cristiani. Queste circostanze sono certo un'opportunità per vivere e testimoniare la fede. Nei primi secoli il cristianesimo si diffuse soprattutto perché i cristiani, viaggiando o stabilendosi in regioni in cui Cristo non era stato annunziato. testimoniavano con coraggio la loro fede e vi fondavano le prime comunità. Più numerosi sono i cittadini dei paesi di missione e gli appartenenti a religioni non cristiane, che vanno a stabilirsi in altre nazioni per motivi di studio e di lavoro, o costretti dalle condizioni politiche o economiche dei luoghi di origine. La presenza di questi fratelli nei paesi di antica cristianità è una sfida per le comunità ecclesiali, stimolandole all'accoglienza, al dialogo, al servizio, alla condivisione, alla testimonianza e all'annunzio diretto. In pratica, anche in paesi cristiani si formano gruppi umani e culturali che richiamano la missione ad gentes, e le chiese locali, anche con l'aiuto di persone provenienti dai paesi degli immigrati e di missionari reduci, devono occuparsi generosamente di queste situazioni. La cooperazione può anche impegnare i responsabili della politica, dell'economia, della cultura, del giornalismo, oltre che gli esperti dei vari organismi internazionali. Nel mondo moderno è sempre più difficile tracciare linee di demarcazione geografica o culturale: c'è una crescente interdipendenza fra i popoli, il che stimola alla testimonianza cristiana e all'evangelizzazione.

Animazione e formazione missionaria del popolo di Dio

83. La formazione missionaria è opera della chiesa locale con l'aiuto dei missionari e dei loro istituti, nonché del personale delle giovani chiese. Questo lavoro deve essere inteso non come marginale, ma come centrale nella vita cristiana. Per la stessa nuova evangelizzazione dei popoli cristiani il tema missionario può essere di grande aiuto: la testimonianza dei missionari, infatti, conserva il suo fascino anche presso i lontani e i non credenti e trasmette valori cristiani. Le chiese locali, quindi, inseriscano l'animazione missionaria come elemento-cardine della loro pastorale ordinaria nelle parrocchie, nelle associazioni e nei gruppi, specie giovanili. A questo fine vale, anzitutto, l'informazione mediante la stampa missionaria e i vari sussidi audiovisivi. Il loro ruolo è di grande importanza, in quanto fanno conoscere la vita della chiesa universale, le voci e le esperienze dei missionari e delle chiese locali, presso cui essi lavorano. Occorre che nelle chiese più giovani, che non sono ancora in grado di dotarsi di una stampa e altri sussidi, gli istituti missionari dedichino personale e mezzi a queste iniziative. A tale formazione sono chiamati i sacerdoti e i loro collaboratori, gli educatori e insegnanti, i teologi, specie i docenti dei seminari e dei centri per i laici. L'insegnamento teologico non può né deve prescindere dalla missione universale della chiesa, dall'ecumenismo, dallo studio delle grandi religioni e della missiologia. Raccomando che soprattutto nei seminari e nelle case di formazione per religiosi e religiose si faccia un tale studio, curando anche che alcuni sacerdoti, o alunni e alunne si specializzino nei diversi campi delle scienze missiologiche. Le attività di animazione vanno sempre orientate ai loro specifici fini: informare e formare il popolo di Dio alla missione universale della chiesa, far nascere vocazioni ad gentes, suscitare cooperazione all'evangelizzazione. Non si può, infatti, dare un'immagine riduttiva dell'attività missionaria, come se fosse principalmente aiuto ai poveri, contributo alla liberazione degli oppressi, promozione dello sviluppo, difesa dei diritti umani. La chiesa missionaria è impegnata anche su questi fronti, ma il suo compito primario è un altro: i poveri hanno fame di Dio, e non solo di pane e di libertà, e l'attività missionaria prima di tutto deve testimoniare e annunziare la salvezza in Cristo, fondando le chiese locali che sono poi strumenti di liberazione in tutti i sensi.

La responsabilità primaria delle Pontificie opere missionarie

84. In questa opera di animazione il compito primario spetta alle Pontificie opere missionarie, come più volte ho affermato nei messaggi per la Giornata missionaria mondiale. Le quattro opere - Propagazione della fede, San Pietro apostolo, Infanzia missionaria e Unione missionaria - hanno in comune lo scopo di promuovere lo spirito missionario universale in seno al popolo di Dio. L'Unione missionaria ha come fine immediato e specifico la sensibilizzazione e formazione missionaria dei sacerdoti, religiosi e religiose, che devono, a loro volta, curarla nelle comunità cristiane; essa, inoltre, mira a promuovere le altre opere, di cui è l'anima. (168) «La parola d'ordine deve essere questa: Tutte le chiese per la conversione di tutto il mondo». (169) Essendo del papa e del collegio episcopale, anche nell'ambito delle chiese particolari queste opere occupano «giustamente il primo posto, perché sono mezzi sia per infondere nei cattolici, fin dall'infanzia, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire un'adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni, secondo le necessità di ciascuna». (170) Un altro scopo delle opere missionarie è quello di suscitare vocazioni ad gentes ed a vita, sia nelle chiese antiche come in quelle più giovani. Raccomando vivamente di orientare sempre più a questo fine il loro servizio di animazione. Nell'esercizio della loro attività, queste Opere dipendono, a livello universale, dalla Congregazione per l'evangelizzazione e, a livello locale, dalle Conferenze episcopali e dai vescovi delle singole chiese, collaborando con i centri di animazione esistenti: esse portano nel mondo cattolico quello spirito di universalità e di servizio alla missione, senza il quale non esiste autentica cooperazione.

Non solo dare alla missione, ma anche ricevere

85. Cooperare alla missione vuol dire non solo dare, ma anche saper ricevere: tutte le chiese particolari, giovani e antiche, sono chiamate a dare e a ricevere per la missione universale e nessuna deve chiudersi in se stessa. (171) In forza della... cattolicità - dice il concilio le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la chiesa, di modo che il tutto e le singole parti si accrescano da tutte le altre in reciproca comunione ed aspiranti alla pienezza nell'unità... Ne derivano... tra le diverse parti della chiesa vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici ed i sussidi materiali». Esorto tutte le chiese e i pastori, i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, ad aprirsi all'universalità della chiesa, evitando ogni forma di particolarismo, esclusivismo o sentimento di autosufficienza. Le chiese locali, pur radicate nel loro popolo e nella loro cultura, debbono tuttavia mantenere in concreto questo senso universalistico della fede, dando cioè e ricevendo dalle altre chiese doni spirituali esperienze pastorali, di primo annunzio e di evangelizzazione, personale apostolico e mezzi materiali. Infatti, la tendenza a chiudersi può esser forte: le chiese antiche, impegnate per la nuova evangelizzazione, pensano che ormai la missione debbono svolgerla in casa e rischiano di frenare lo slancio verso il mondo non cristiano, concedendo a malincuore le vocazioni agli istituti missionari, alle congregazioni religiose, alle altre chiese. Ma è dando generosamente del nostro che riceveremo, e già oggi le giovani chiese, non poche delle quali conoscono una prodigiosa fioritura di vocazioni, sono in grado di inviare sacerdoti, religiosi e religiose a quelle antiche. D'altra parte, esse sentono il problema della propria identità, dell'inculturazione, della libertà di crescere senza influssi esterni, con la possibile conseguenza di chiudere le porte al missionari. A queste chiese dico: Lungi dall'isolarvi, accogliete volentieri i missionari e i mezzi dalle altre chiese, e mandatene voi stesse nel mondo! Proprio per i problemi che vi angustiano avete bisogno di mantenervi in continua relazione con i fratelli e sorelle nella fede. Con ogni mezzo legittimo fate valere le libertà, a cui avete diritto, ricordandovi che i discepoli di Cristo hanno il dovere di «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». (At5,29)

Dio prepara una nuova primavera del Vangelo

86. Se si guarda in superficie il mondo odierno, si è colpiti da non pochi fatti negativi, che possono indurre al pessimismo. Ma è, questo, un sentimento ingiustificato: noi abbiamo fede in Dio Padre e Signore, nella sua bontà e misericordia. In prossimità del terzo millennio della redenzione, Dio sta preparando una grande primavera cristiana, di cui già si intravede l'inizio. Difatti, sia nel mondo non cristiano come in quello di antica cristianità, c'è un progressivo avvicinamento dei popoli agli ideali e ai valori evangelici, che la chiesa si sforza di favorire. Oggi, infatti, si manifesta una nuova convergenza da parte dei popoli per questi valori: il rifiuto della violenza e della guerra; il rispetto della persona umana e dei suoi diritti; il desiderio di libertà, di giustizia e di fraternità; la tendenza al superamento dei razzismi e dei nazionalismi; l'affermazione della dignità e la valorizzazione della donna. La speranza cristiana ci sostiene nell'impegnarci a fondo per la nuova evangelizzazione e per la missione universale, facendoci pregare come Gesù ci ha insegnato: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». (Mt6,10) Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall'annunzio evangelico o nei quali la chiesa è scarsamente presente. sono tanto ampi, da richiedere l'unità di tutte le sue forze. Preparandosi a celebrare il giubileo del Duemila, tutta la chiesa è ancor più impegnata per un nuovo avvento missionario. Dobbiamo nutrire in noi l'ansia apostolica di trasmettere ad altri la luce e la gioia della fede, e a questo ideale dobbiamo educare tutto il popolo di Dio. Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch'essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell'amore di Dio. Per il singolo credente, come per l'intera chiesa, la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio.

PARTE VIII

LA SPIRITUALITÀ MISSIONARIA

Lasciarsi condurre dallo Spirito

87. L'attività missionaria esige una specifica spiritualità che riguarda, in particolare, quanti Dio ha chiamato a essere missionari. Tale spiritualità si esprime, innanzittutto, nel vivere in piena docilità allo Spirito: essa impegna a lasciarsi plasmare interiormente da lui? per divenire sempre più conformi a Cristo. Non si può testimoniare Cristo senza riflettere la sua immagine, la quale è resa viva in noi dalla grazia e dall'opera dello Spirito. La docilità allo Spirito impegna poi ad accogliere i doni della fortezza e del discernimento, che sono tratti essenziali della stessa spiritualità. Emblematico è il caso degli apostoli, che durante la vita pubblica del Maestro, nonostante il loro amore per lui e la generosità della risposta alla sua chiamata, si dimostrano incapaci di comprendere le sue parole e restii a seguirlo sulla via della sofferenza e dell'umiliazione. Lo Spirito li trasformerà in testimoni coraggiosi del Cristo e annunziatori illuminati della sua Parola: sarà lo Spirito a condurli per le vie ardue e nuove della missione. Anche oggi la missione rimane difficile e complessa come in passato e richiede ugualmente il coraggio e la luce dello Spirito: viviamo spesso il dramma della prima comunità cristiana, che vedeva forze incredule e ostili «radunarsi insieme contro il Signore e contro il suo Cristo». (At4,26) Come allora, oggi occorre pregare, perché Dio ci doni la franchezza di proclamare il vangelo; occorre scrutare le vie misteriose dello Spirito e lasciarsi da lui condurre in tutta la verità. (Gv16,13)

Vivere il mistero di Cristo «inviato»

88. Nota essenziale della spiritualità missionaria è la comunione intima con Cristo: non si può comprendere e vivere la missione, se non riferendosi a Cristo come l'inviato a evangelizzare. Paolo ne descrive gli atteggiamenti: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». (Fil2,5) È qui descritto il mistero dell'incarnazione e della redenzione, come spoliazione totale di sé, che porta Cristo a vivere in pieno la condizione umana e ad aderire fino in fondo al disegno del Padre. Si tratta di un annientamento, che però è permeato di amore ed esprime l'amore. La missione percorre questa stessa via e ha il suo punto di arrivo ai piedi della croce. Al missionario è chiesto «di rinunziare a se stesso e a tutto quello che in precedenza possedeva in proprio e a farsi tutto a tutti»: (172) nella povertà che lo rende libero per il vangelo, nel distacco da persone e beni del proprio ambiente per farsi fratello di coloro ai quali è mandato, onde portare a essi il Cristo salvatore. È a questo che è finalizzata la spiritualità del missionario: «Mi sono fatto debole con i deboli...; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo...». (1Cor9,22) Proprio perché «inviato», il missionario sperimenta la presenza confortatrice di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita «Non aver paura.... perché io sono con te» (At18,9) e lo aspetta nel cuore di ogni uomo.

Amare la Chiesa e gli uomini come li ha amati Gesù

89. La spiritualità missionaria si caratterizza, altresì, per la carità apostolica, quella del Cristo che venne «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv11,52) buon Pastore che conosce le sue pecore, le ricerca e offre la sua vita per loro. (Gv10,1) Chi ha spirito missionario sente l'ardore di Cristo per le anime e ama la chiesa, come Cristo. Il missionario è spinto dallo «zelo per le anime», che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento ai problemi della gente. L'amore di Gesù è molto profondo: egli, che «sapeva quello che c'è in ogni uomo» (Gv2,25) amava tutti offrendo loro la redenzione e soffriva quando questa veniva rifiutata. Il missionario è l'uomo della carità: per poter annunziare a ogni fratello che è amato da Dio e che può lui stesso amare, egli deve testimoniare la carità verso tutti, spendendo la vita per il prossimo. Il missionario è il «fratello universale», porta in sé lo spirito della chiesa, la sua apertura e interesse per tutti i popoli e per tutti gli uomini, specie i più piccoli e poveri. Come tale, supera le frontiere e le divisioni di razza, casta o ideologia: è segno dell'amore di Dio nel mondo, che è amore senza nessuna esclusione né preferenza. Infine, come Cristo egli deve amare la chiesa: «Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei». (Ef5,25) Questo amore, spinto fino a dare la vita, è per lui un punto di riferimento. Solo un amore profondo per la chiesa può sostenere lo zelo del missionario; il suo assillo quotidiano - come dice san Paolo - è «la preoccupazione per tutte le chiese». (2Cor11,28) Per ogni missionario «la fedeltà a Cristo non può essere separata dalla fedeltà alla sua chiesa». (173)

Il vero missionario è il santo

90. La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità. Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità: «La santità deve dirsi un presupposto fondamentale e una condizione del tutto insostituibile perché si compia la missione di salvezza della chiesa». (174) L'universale vocazione alla santità è strettamente collegata all'universale vocazione alla missione. ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione. Tale è stato il voto ardente del concilio nell'auspicare «con la luce di Cristo, riflessa sul volto della chiesa, di illuminare tutti gli uomini, annunziando il vangelo a ogni creatura». (175) La spiritualità missionaria della chiesa è un cammino verso la santità. La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggior acutezza le basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo «ardore di santità» fra i missionari e in tutta la comunità cristiana, in particolare fra coloro che sono i più stretti collaboratori dei missionari. (176) Ripensiamo, cari fratelli e sorelle, allo slancio missionario delle prime comunità cristiane. Nonostante la scarsezza dei mezzi di trasporto e comunicazione di allora, l'annunzio evangelico raggiunse in breve tempo i confini del mondo. E si trattava della religione del figlio dell'uomo morto in croce, «scandalo per gli ebrei e stoltezza per i gentili»! (1Cor1,23) Alla base di un tale dinamismo missionario c'era la santità dei primi cristiani e delle prime comunità.

91. Mi rivolgo, perciò, ai battezzati delle giovani comunità e delle giovani chiese. Siete voi, oggi, la speranza di questa nostra chiesa, che ha duemila anni: essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani, e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo; in una parola, dovete mettervi sulla via della santità. Solo così potete essere segno di Dio nel mondo e rivivere nei vostri paesi l'epopea missionaria della chiesa primitiva. E sarete anche fermento di spirito missionario per le chiese più antiche. Da parte loro, i missionari riflettano sul dovere della santità, che il dono della vocazione richiede da essi, rinnovandosi di giorno in giorno nel loro spirito e aggiornando anche la loro formazione dottrinale e pastorale. Il missionario deve essere «un contemplativo in azione». Egli trova risposta ai problemi nella luce della parola di Dio e nella preghiera personale e comunitaria. Il contatto con i rappresentanti delle tradizioni spirituali non cristiane, in particolare di quelle dell'Asia, mi ha dato conferma che il futuro della missione dipende in gran parte dalla contemplazione. Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunziare il Cristo in modo credibile. Egli è un testimone dell'esperienza di Dio e deve poter dire come gli apostoli: «Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita. . ., noi lo annunziamo a voi». (1Gv1,1) Il missionario è l'uomo delle beatitudini. Gesù istruisce i Dodici prima di mandarli a evangelizzare, indicando loro le vie della missione: povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità, cioè proprio le beatitudini, attuate nella vita apostolica. (Mt5,1) Vivendo le beatitudini, il missionario sperimenta e dimostra concretamente che il regno di Dio è già venuto e egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede. In un mondo angosciato e oppresso da tanti problemi, che tende al pessimismo, l'annunziatore della «buona novella» deve essere un uomo che ha trovato in Cristo la vera speranza.

CONCLUSIONE

92. Mai come oggi la chiesa ha l'opportunità di far giungere il vangelo, con la testimonianza e la parola, a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Vedo albeggiare una nuova epoca missionaria, che diventerà giorno radioso e ricco di frutti, se tutti i cristiani e, in particolare, i missionari e le giovani chiese risponderanno con generosità e santità agli appelli e sfide del nostro tempo. Come gli apostoli dopo l'ascensione di Cristo, la chiesa deve radunarsi nel Cenacolo «con Maria, la Madre di Gesù», (At1,14) per implorare lo Spirito e ottenere forza e coraggio per adempiere il mandato missionario. Anche noi, ben più degli apostoli, abbiamo bisogno di essere trasformati e guidati dallo Spirito. Alla vigilia del terzo millennio tuttora la chiesa è invitata a vivere più profondamente il mistero di Cristo, collaborando con gratitudine all'opera della salvezza. Ciò essa fa con Maria e come Maria, sua madre e modello: è lei, Maria, il modello di quell'amore materno dal quale devono essere animati tutti quelli che, nella missione apostolica della chiesa, cooperano alla rigenerazione degli uomini. Perciò, «confortata dalla presenza di Cristo, la chiesa cammina nel tempo verso la consumazione dei secoli e si muove incontro al Signore che viene; ma in questo cammino... procede ricalcando l'itinerario compiuto dalla Vergine Maria». (177) Alla «mediazione di Maria, tutta orientata verso il Cristo e protesa alla rivelazione della sua potenza salvifica», (178) affido la chiesa e, in particolare, coloro che si impegnano per l'attuazione del mandato missionario nel mondo di oggi. Come Cristo inviò i suoi apostoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, così, rinnovando lo stesso mandato, io estendo a tutti voi la benedizione apostolica nel nome della stessa Trinità santissima. Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 dicembre - nel XXV anniversario del decreto conciliare "Ad gentes" - dell'anno 1990, decimoterzo del pontificato.


NOTE

(1) Cf. PAOLO VI, Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 1972: «Quante tensioni interne che debilitano e lacerano alcune chiese e istituzioni locali, scomparirehbero di fronte alla ferma convinzione che ia salvezza delle comunità locali si conquista con la cooperazione all'opera missionaria, perché questa sia estesa fino ai confini della terra!» (Insegnamenti X 1972, 522)

(2) Cf. BENEDETTO XV, epist. ap. Maximum illud (30 novembre 1919): AAS 1 1 ( 1919), 440-455; PioXI, lett.enc. Rerum ecclesiae (28febbraiol926): AA518 (1926), 65-83; Pio XI, lett.enc. Evangelii praecones (2 giugno 1951): 43 (1951), 497-528; lett.enc. Fidei donum (21 aprile 1957): AAS 49 (1957), 225-248; GIOVANNI XXIII, lett. enc. Princeps pastorum (28 novemhre 1959): AAS 51 (1959), 833-864.

(3) Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 10: AAS 71 (1979), 274s.

(4) Ibid., l.c., 275.

(5) Credo niceno-costantinopolitano: Ds 150.

(6) Lett. enc. Redemptor hominis, 13: hc., 283.

(7) Cf. CONC. ECU M, VAT, I I, cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 2.

(8) Ibid., 22.

(9) Lett. enc. Dives in misericordia (30 novembre 1980), 7: AAS 72 (1980), 1202.

(10) Omelia della celebrazione eucaristica a Cracovia, 10 giugno 1979: AAS 71 (1979), 873.

(11) GlOVANNl XXIII, lett.enc.Materetmagistra(lSmaggio 1961), IV: AAS 53(1961), 45 1 -453.

(12) Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.

(13) PAOLO VI, esort. ap. Evangeliinuntiancli(8 dicemhre 1975), 53: AAS 68 (1976), 42.

(14) Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.

(15) Cf. cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 14-17; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 3.

(16) Cf. cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 48; cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 43; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 7. 21.

(17) Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 13

(18) Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 9

(19) Cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

(20) Conc. Ecum. Vat II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 14.

(21) Lett. enc. Dives in misericordia, 1: l.c., 1177.

(22) CONC. ECUM. VAT II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 5.

(23) CONC. ECUM. VAT II, cost. dogm. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

(24) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 4.

(25) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 5.

(26) Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 16: l.c., 15.

(27) Discorso all'apertura della III sessione del CONC. ECUM. VAT. II, 14 settembre 1964: AAS 56 (1964), 810.

(28) PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 34: l.c ., 28.

(29) Cf. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti cl ecclesiologia nel Xx anniversario della chiusura del CONC. ECUM. VAT. 11 (7 ottohre 1985), 10, ((L'indole escatologica della chiesa: regno di Dio e chiesa».

(30) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 39.

(31) Lett. enc. Dominum et vivifcantem (18 maggio 1986), 42: AAS 78 (1986), 857.

(32) Ibid., 64: l.c. 892.

(33) Questo termine corrisponde al greco parresìa, che significa anche entusiasmo, vigore; cf. At 2, 29; 4, 13. 29. 31; 9, 27.28; 13, 46; 14, 3; 18, 26; 19, 8. 26; 28, 31.

(34) Cf. PAOLO VI, esort, ap. Evangelii nuntiandi, 41-42: l.c., 31-33.

(35) Cf. Iett. enc. Dominum et vivifcantem, 53: l.c., 874s.

(36) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 3.1 1.15; cost past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 10-1 1. 22.26.38.41.92-93.

(37) CONC. ECUM. VAT. II, cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 10.15.22.

(38) Ibid., 41.

(39) Cf. Lett. enc. Dominum et vivifcantem, 54: l.c., 875s.

(40) CONC. ECUM. VAT. II, cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et pes, 26.

(41) Ibid., 38, cf. 93.

(42) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. Lumen gentium, 17; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 3. 15.

(43) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 4.

(44) Cf. Iett. enc. Dominum et vivificantem, 53: l.c., 874.

(45) Discorso ad esponenti delle religioni non cristiane a Madras, 5 febbraio 1986; AAS 78 ( 1986), 767; cf. Messaggio ai popoli dell'Asia a Manila, 21 febbraio 1981, 2-4: AAS 73 (1981), 392s.; Discorso ai rappresentanti delle religioni non cristiane a Tokyo, 24 febbraio 1981, 3-4: Insegnamenti IV/I (1981), 507s.

(46) Discorso ai cardinali alla Famiglia pontificia e alla Curia e Prelatura romana, 22 dicembre 1986, 11: AAS 79 (1987), 1089.

(47) Cost. dogm. Lumen gentium, 16.

(48) CONC. ECUM. VAT. II, cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 45; lett. enc. Dominum et vivifcantem, 54: l.c., 876.

(49) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attivita missionaria della chiesa Ad gentes, 10.

(50) Esort. ap. Christifdeles laici (30 dicembre 1988), 35: AAS 81 (1989), 457.

(51) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 6.

(52) Cf. ibid.

(53) Cf. ibid., 6.23.27.

(54) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 18-20; l.c., 17-19.

(55) Esort. ap. Christifdeles laici, 35: l.c., 457.

(56) Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80: l.c., 73. 57Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 6.

(58) Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80: l.c., 73.

(59) Cf. decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 6.

(60) Cf. ibid., 20.

(61) Cf. Discorso ai membri del simposio del Consiglio delle conferenze episcopali di Europa, I I ottobre 1985: AAS 78 (1986), pp. 178-179.

(62) Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 20: l.c., 19.

(63) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 5; cf. cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 8.

(64) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 34; Paolo VI,esort.ap.Evangeliinuntiandi,79-80:1.c.,71-75; Giovanni Paolo II, lett. enc. Redemptor hominis, 12: l.c., 278-281.

(65) Epist. ap. Maximum illud: l.c., 446.

(66) PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 62: l.c., 52.

(67) Cf. De praescriptione haereticorum, XX: CCL 1, 201 s.

(68) CONC ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 9; cf. cap. II, 10-18.

(69) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 41: l.c. 31 s.

(70) Cf CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 28.35.38; cost. past. sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 43; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 11-12.

(71) Cf. PAOLO VI, lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 21.42: AAS 59 (1967), 267s., 278.

(72) PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 27: l.c., 23.

(73) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 13.

(74) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 15: l.c., 13-15; CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 13-14.

(75) Cf. Iett. enc. Dominum et vivificantem, 42. 64:1.., 857-859, 892-894.

(76) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 60: l.c., 50s.

(77) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 6-9.

(78) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 2; cf. cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 9.

(79) Cf. decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, cap. III, 19-22.

(80) CoNc. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 15.

(81) Ibid., 6.

(82) Ibid., 15; cf. decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio, 3.

(83) Cf. esort. ap. Evangelii nuntiandi, 58: l.c., 46-49.

(84) Assemblea straordinaria del 1985, Relazione finale, Il, C, 6.

(85) Ibid., Il, D, 4.

(86) Cf.esort.ap. Catechesitradendae (160ttobrel979), 53:AAS71(1979), 1320;epist. enc. Slavorum apostoli (2 giugno 1985), 21: AAS 77 (1985), 802s.

(87) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 20: l.c., 18 s.

(88) Cf. Discorso ai vescovi dello Zaire a Kinshasa, 3 maggio 1980, 4-6: A AS 72 ( 1980), 432-435; Discorso ai vescovi del Kenya a Nairobi, 7 maggio 1980, 6: AAS 72 (1980), 497; Discorso ai vescovi dell'lndia a Delhi, I febbraio 1986, 5: AAS 78 (1986), 748 s.; Omelia a Cartagena, 6 luglio 1986, 7-8: AAS 79 (1987), 105 s.; cf. anche epist. enc. Slavorum apostoli, 21-22: l.c., 802-804.

(89) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 22.

(90) Cf. ibid.

(91) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangeliinuntiandi, 64: l.c., 55.

(92) Le chiese particolari «hanno il compito di assimilare l'essenziale del messaggio evangelico, di trasfonderlo, senza la minima alterazione della sua verità fondamentale, nel linguaggio compreso da questi uomini e quindi di annunziarlo nel medesimo linguaggio... E il terrnine "linguaggio" dev'essere qui inteso non tanto nel senso semantico o letterario, quanto in quello che si può chiamare antropologico o culturale>) (Ibid., 63: l.c., 53).

(93) Cf. Discorso all'udienza generale del 13 aprile 1988: Insegnamenti, Xl/l (1988), 77-88 1 .

(94) Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 10, in cui si tratta dell'inculturazione «nell'ambito del matrimonio e della famiglia»: AAS 74 (1982), 91.

(95) Cf. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 63-65: l.c., 53-56.

(96) CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 17.

(97) Discorso ai partecipanti al simposio dei vescovi dell'Africa a Kampala, 31 luglio 1969, 2: AAS 61 (1969), 577.

(98) PAOLO VI, Discorso all'apertura della 1I Sessione del CONC. ECUM. VAT. II, 29 settembre 1963: AAS 55 (1963), 858; cf. CONC. ECUM. VAT. II, Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2; cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 16; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 9; PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 53: l.c., 41 s.

(99) Cf. PAOLO VI, lett. enc. Ecclesiam suam (6 agosto 1964): AAS 56 (1964), 609-659: CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, I I . 41; SEGRETARIATO PER I NON CRISTIANI, Latteggiamento della chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni - Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (4 settembre 1984): AAS 76 (1984), 816-828.

(100) Lettera ai vescovi dell'Asia in occasione della V Assemblea plenaria della Federazione delle loro Conferenze episcopali (23 giugno 1990), 4: L'Osservatore Romano, 18 luglio 1990.

(101) CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 14; cf. deccreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 7.

(102) Cf. CoNc. EcuM. VAT. II. decreto sull'ecumenismo Unitatisredintegratio,3; decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 7.

(103) Cf. lett. enc. Redemptor hominis, 12: l.c., 279.

(104) CONC ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 11. 15.

(105) CONC. ECUM. VAT. II, dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2

(106) Esort. ap. Christifideles laici, 35: l.c., 458.

(107) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 41.

(108) Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 41: AAS 80 (1988), 570 s.

(109) Documenti della III Conferenza generale dell'Episcopato latino-americano a Puebla (1979): 3760 (1145).

(110) Discorso ai vescovi, ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi a Jakarta, 10 ottobre 1989, 5: L'Osservatore Romano, 11 ottobre 1989.

(111) Cf. PAOLO VI, lett. enc. Populorum progressio, 14-21; 40-42: l.c., 264-268, 277 s.; GIOVANNI PAOLO II, lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 27-41: l.c., 547-572.

(112) Cf. Iett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28: l.c., 548-550.

(113) Cf. ibid, cap. IV, 27-34: l.c., 547-560; cf. PAOLO VI, lett. enc. Populorum progressio, 19-21. 41-42: l.c., 266-268, 277 s.

(114) Discorso agli abitanti della favela Vidigal a Rio de Janeiro, 2 luglio 1980, 4: AAS 72 (1980), 854.

(115) Documenti della III Conferenza generale dell'Episcopato latino-americano a Puebla (1979): 3757 (1142).

(116) ISACCO DELLA STELLA, Sermone 31: PL 194, 1793.

(117) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 20.

(118) Esort. ap. Christifideles laici, 35: l.c., 458.

(119) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes. 38.

(120) Discorso ai membri del sacro Collegio e a tutti i collaboratori della Curia romana, della Città del Vaticano e del Vicariato di Roma, 28 giugno 1980, 10: Insegnamenti III/1 (1980), 1887.

(121) Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 23.

(122) Decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gerltes, 38.

(123) Ibid, 29.

(124) Cf. Ibid., 38

(125) Ibid., 30.

(126) Docurnenti della III Conferenza Generale dell'Episcopato latino-americano a Puebla (1979): 2941 (368).

(127) Cf. note direttive per la promozione della cooperazione mutua delle chiese particolari e specialmente per la distribuzione più adatta del clero Postquam apostoli (25 marzo 1980): AAS 72 (1980), 343-364.

(128) Cf. decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, cap. IV, 23-27.

(129) Ibid., 23.

(130) Ibid.

(131) Ibid., 23-27

(132) Cf. S. CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GM ISTITUTI SECOLARI e S. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Note direttive per i rapporti mutui tra i vescovi e i religiosi nella chiesa Mutuae relationes (14 maggio 1978), 14 b: AAS 70 (978), 482; cf. n. 28: l.c., 490.

(133) CONC ECUM VAT II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 27.

(134) CONC. ECUM. VAT 11, decreto sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum Ordinis, 10; cf. decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 39.

(135) CONC. ECUM. VAT II, decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 20. Cf. «Guide de vie pastorale pour les pretres diocésains des églises qui dépendent de la Congregation pour l'evangelisation des peuples», Koma, 1989.

(136) Discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l'evangelizazione dei popoli, 14 aprile 1989; 4: AAS 81 (1989), 1140.

(137) Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 1982: Insegnamenti V/2 ( 1982), 1879.

(138) Cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto suD'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 38; S. CONGREGAZIONE PER IL CLERO, note direttive Postquam apostoli, 24-25: l.c., 361.

(139) Cf. S. CONGREGAZIONE PER IL CLERO note direttive Postquam apostoli, 29: 1. ., 362 s.; CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 20.

(140) CIC, can. 783

(141) Decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 40.

(142) Cf. PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 69: l.c., 58 s.

(143) Lett. ap. Mulieris dignitatem, (15 agosto 1988), 20: AAS 80 (1988) 1703.

(144) Cf. Plo Xll, lett. enc. Evangelii praecones: l.c., 510 ss.; lett. enc. Fidei donum: l.c., 228 ss.; GIOVANNI XXIII, lett. enc. Princeps pastorum: l.c., 855 ss.; PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 70-73: l.c., 59-63.

(145) Esort. ap. Christifideles laici, 35: l.c., 457.

(146) Cf. Iett. enc. Evangelii praecones, l.c., 510-514.

(147) Cf. cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 17.33 ss.

(148) Cf. decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 35-36.41.

(149) Esort. ap. Christifideles laici, 14: l.c., 410.

(150) CIC, can.225, 1;cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 6.13.

(151) CONC. ECUM. VAT. II, cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium 31; cf. CIC, can. 225, 2.

(152) PAOLO VI, esort. ap. Evangelii nuntiandi, 70: l.c.,60.

(153) Esort. ap. Christifideles laici, 35: l.c., 458.

(154) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 17.

(155) Esort. ap. Catechesi tradendae, 66: l.c., 1331.

(156) cf. can. 785,1.

(157) Decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 17.

(158) Cf. Assemblea plenaria della S. Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli del 1969 sui catechisti e la relativa «Istruzione» dell'aprile 1970: Bibliograf a missionaria 34 (1970), 197-212, e S.C. de Propaganda Fide Memoria Rerum, III/2 (1976), 821-831 .

(159) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 28.

(160) Cost. ap. Pastor bonus (28 giugno 1988), 85: AAS 80 (1988), 881; cf. CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 29.

(161) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 29; cf. GIOVANNI PAOLO II, cost. ap. Pastor bonus, 86: l.c., 882.

(162) Decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 31.

(163) Cf. ibid ., 33.

(164) Cf. PAOLO VI, lett. ap. in forma di motu-proprio Ecclesiae sanctae (6 agosto 1966), II, 43: AAS 58 (1966), 782.

(165) Cf. CONC. ECUM . VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 34; PAOLO VI, lett. ap. in forma di motu-proprio Ecclesiae sanctae, III, 22: l.c., 787.

(166) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 35; cf. CIC, cann. 211.781.

(167) Esort. ap. Familiaris consortio, 54: l.c., 147.

(168) Cf. PAOLO VI, epist. ap. Graves et increscentes (5 settembre 1966): AAS 58 (1966), 750-756.

(169) p. MANNA, Le nostre «chiese» e la propagazione del vangelo, Trentola Ducenta, 19522, p. 35.

(170) CONC ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 38.

(171) Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 13.

(172) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sull'attività missionaria della chiesa Ad gentes, 24.

(173) CONC. ECUM. VAT. II, decreto sul ministero e sulla vita sacerdotale Presbyterorum Ordinis, 14.

(174) Esort. ap. Christifideles laici, 17: l.c., 419.

(175) Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium, 1.

(176) Cf. Discorso all'Assemblea del CELAM a Port-au Prince, 9 marzo 1983: AAS 75 (1983), 171-779; Omelia per l'apertura del «novenario di anni», promosso dal CELAM a Santo Domingo, 12 ottobre 1984: InsegnamentiVII/2 (1984), 885-897.

(177) Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 2: AAS 79 (1987), 362 s.

(178) Ibid.. 22: l.c., 390

 

 

 

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