Sabato, 22 Marzo, 2025

Redemptoris custos

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTORIS CUSTOS
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA FIGURA E LA MISSIONE
DI SAN GIUSEPPE
NELLA VITA DI CRISTO
E DELLA CHIESA

Ai Vescovi
ai sacerdoti e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
a tutti i fedeli

INTRODUZIONE

1. Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).

Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.

Nel centenario della pubblicazione dell'epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l'amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.

In tal modo l'intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all'economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all'identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d'Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super "Missus est" Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179).

Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l'umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell'ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell'Incarnazione.

Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun'altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l'eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

I

IL QUADRO EVANGELICO

Il matrimonio con Maria

2. «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa.

L'evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l'origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l'Annunciazione della nascita di Gesù: «L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell'angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).

L'Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell'Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall'Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.

A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell'Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.

3. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all'inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati"» (Mt 1,20-21).

Esiste una stretta analogia tra l'«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che - secondo la promessa divina - adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù - Yehossua', che significa: Dio salva.

Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria.

«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero.

II

IL DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO

4. Quando Maria, poco dopo l'Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell'angelo nell'Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell'enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l'insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo.

Ora, all'inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all'«annuncio» dell'angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).

Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell'Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede", per la quale l'uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il "pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l'essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.

5. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall'Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l'adozione a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio - insegna il Concilio - nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).

Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria - ed anche in relazione a Maria - egli partecipa a questa fase culminante dell'autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria - soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste - andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63).

6. La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella - ritornato Cristo al Padre - si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L'Incarnazione e la Redenzione costituiscono un'unità organica ed indissolubile, in cui l'«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).

Il servizio della paternità

7. Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E' per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe - una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) - passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.

Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).

Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché - si chiede santo Agostino - non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (...) La Scrittura afferma, per mezzo dell'autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l'origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l'autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall'unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342).

Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c'è nessun adulterio; il sacramento, perché non c'è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810).

Analizzando la natura del matrimonio, sia sant'Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell'«indivisibile unione degli animi», nell'«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l'umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell'accogliere ed esprimere un tale amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch'esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all'inizio dell'Antico, c'è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l'opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell'amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum "Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317).

Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l'essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall'amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l'amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell'amore di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l'esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).

8. San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell'aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell'incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell'aver usato dell'autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell'aver convertito la sua umana vocazione all'amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell'amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).

La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell'opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell'onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).

Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell'amore naturale, tutta quell'affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174).

Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l'amore corrispondente, quell'amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).

Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l'umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all'economia dell'Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero...» e il riferimento dell'avvenimento descritto a un testo dell'antico testamento tendono a sottolineare l'unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento.

Con l'Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell'antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l'umile serva del Signore, preparata dall'eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l'ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l'incarico di provvedere all'inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia.

Il censimento

9. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (cfr. Gv 1,45) nell'anagrafe dell'impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l'appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt'altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l'impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).

La nascita a Betlemme

10. Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,6-7).

Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell'adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l'angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell'omaggio dei magi, venuti dall'Oriente (cfr. Mt 2,11).

La circoncisione

11. Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.

Il principio secondo il quale i riti dell'antico testamento sono l'ombra della realtà (cfr. Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L'alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).

L'imposizione del nome

12. In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore.

La presentazione di Gesù al tempio

13. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.

Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell'alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell'antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l'autore stesso del riscatto.

L'Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (cfr. Lc 2,30-34).

La fuga in Egitto

14. Dopo la presentazione al tempio l'evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).

Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo"» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall'Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l'avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio"» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).

In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l'Egitto. Come Israele aveva preso la via dell'esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l'antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.

La permanenza di Gesù al tempio

15. Dal momento dell'Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell'intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l'ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret - una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.

Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50).

Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,... non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».

Il sostentamento e l'educazione di Gesù a Nazaret

16. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell'ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l'alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre.

Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).

Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.

III

L'UOMO GIUSTO-LO SPOSO

17. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell'Annunciazione, mentre Giuseppe - come è già stato detto - al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l'inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).

Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l'uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

18. L'uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L'Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo... chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l'immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell'intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell'Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».

Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell'Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell'uomo».

Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell'angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima - le sue nozze con Maria - era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).

19. Nelle parole dell'«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l'ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest'uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore.

«Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l'amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche - ed in modo del tutto singolare - l'amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell'esclusivo abbandono, dell'alleanza delle persone e dell'autentica comunione sull'esempio del mistero trinitario.

«Giuseppe... prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un'altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell'unione e del contatto tra le persone - dell'uomo e della donna - provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell'amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l'uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.

20. Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini.

Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l'esclusiva appartenenza a Dio.

D'altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E' certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c'è dubbio che a quell'altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell'onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all'eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s).

21. Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell'esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell'Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme - così come nella Incarnazione - a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio - vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l'autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E' contenuta in ciò una conseguenza dell'unione ipostatica: umanità assunta nell'unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l'assunzione dell'umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe.

In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io... ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell'Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall'inizio accettò mediante «l'obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all'uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.

IV

IL LAVORO ESPRESSIONE DELL'AMORE

22. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l'intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l'Evangelista dopo l'episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l'obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell'ordine della salvezza e della santità è l'esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all'umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell'Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.

23. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell'uomo» che «trasforma la natura» e rende l'uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).

L'importanza del lavoro nella vita dell'uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398).

24. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono "grandi cose", ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

V

IL PRIMATO DELLA VITA INTERIORE

25. Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E' un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.

26. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l'esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).

27. La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell'Incarnazione proprio sotto l'aspetto dell'umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).

Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l'importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l'influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).

La testimonianza apostolica non ha trascurato - come si è visto - la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).

Poiché l'amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull'amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l'amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull'amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell'amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore.

Inoltre, l'apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l'amore della verità («caritas veritatis») e l'esigenza dell'amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l'amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall'umanità di Cristo, sia l'esigenza dell'amore, cioè l'amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità.

VI

PATRONO DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO

28. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell'eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).

Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall'essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù... Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia... E' dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).

29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove - come ho scritto nell'esortazione apostolica "Christifideles Laici" - la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall'alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall'intercessione e dall'esempio dei suoi santi.

30. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell'insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all'intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.

Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l'attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell'assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all'inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell'obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.

Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell'azione divina con l'azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non è mai dispensata da un'umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

31. La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all'opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull'esempio e per l'intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»).

Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L'epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell'«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa - come ho ricordato all'inizio - implora la protezione di san Giuseppe - «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all'Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.

Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi..., assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre...; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries"» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo.

32. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E' certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano.

Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell'«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l'«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all'apostolato.

L'uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell'antica alleanza, è stato anche introdotto nell'«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch'è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo.

Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto - solennità dell'Assunzione della beata Vergine Maria - dell'anno 1989, undecimo di pontificato.

 

 

Redemptionis donum

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTIONIS DONUM
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
AI RELIGIOSI E ALLE RELIGIOSE
CIRCA LA LORO CONSACRAZIONE
ALLA LUCE
DEL MISTERO DELLA REDENZIONE

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Gesù!

I.

SALUTO

1. Il dono della redenzione, che questo anno giubilare straordinario mette particolarmente in luce, porta con sé una speciale chiamata alla conversione e alla riconciliazione con Dio in Cristo Gesù. Mentre il motivo esteriore del presente giubileo ha carattere storico - si celebra, infatti, il 1950· anniversario dell'evento della croce e della risurrezione -, contemporaneamente domina in esso il motivo interiore, unito con la profondità stessa del mistero della redenzione. La Chiesa è nata da questo mistero, e di esso vive in tutta la sua storia. Il tempo del giubileo straordinario ha un carattere eccezionale. La chiamata alla conversione e alla riconciliazione con Dio significa che dobbiamo meditare più a fondo sulla nostra vita, sulla nostra vocazione cristiana alla luce del mistero della redenzione, per radicarle sempre di più in esso.

Se questa chiamata riguarda tutti nella Chiesa, in modo speciale essa tocca voi, religiosi e religiose, che, nella consacrazione a Dio mediante il voto dei consigli evangelici, tendete a una particolare pienezza di vita cristiana. La vostra specifica vocazione e l'insieme della vostra vita nella Chiesa e nel mondo attingono il loro carattere e la loro forza spirituale dalla profondità stessa del mistero della redenzione. Seguendo il Cristo per la via «stretta... e angusta» (Mt 7,14), voi sperimentate in modo straordinario quanto è «grande presso di lui la redenzione»: «copiosa apud eum redemptio» (Sal 129,7).

2. Perciò, mentre quest'anno santo sta avviandosi verso la sua conclusione, desidero rivolgermi in modo particolare a voi tutti, religiosi e religiose, che siete interamente consacrati alla contemplazione o votati alle diverse opere dell'apostolato. Ciò ho già fatto in numerosi luoghi e in diverse circostanze, confermando e prolungando l'insegnamento evangelico contenuto in tutta la tradizione della Chiesa, specialmente nel magistero del recente Concilio ecumenico, dalla costituzione dogmatica «Lumen Gentium» al decreto «Perfectae Caritatis», nello spirito delle indicazioni dell'esortazione apostolica del mio predecessore Paolo VI «Evangelica Testificatio». Il Codice di diritto canonico, che è entrato recentemente in vigore e si può considerare in qualche modo come l'ultimo documento conciliare, sarà per voi tutti un aiuto prezioso e una guida sicura nel precisare in concreto i mezzi per vivere fedelmente e generosamente la vostra magnifica vocazione ecclesiale.

Vi saluto con l'affetto del vescovo di Roma e successore di san Pietro, col quale le vostre comunità rimangono unite in modo caratteristico. Dalla stessa sede romana giungono anche, con un'eco incessante, le parole di san Paolo: «Vi ho promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11,2). La Chiesa, che raccoglie dopo gli apostoli il tesoro delle nozze con lo Sposo divino, guarda con sommo amore verso tutti i suoi figli e tutte le sue figlie, che con la professione dei consigli evangelici hanno stretto, attraverso la sua mediazione, un'alleanza privilegiata col Redentore del mondo.

Accogliete, dunque, questa parola dell'anno giubilare della redenzione proprio come una parola d'amore, che la Chiesa pronuncia per voi. Accoglietela dovunque voi siate: nella clausura delle comunità contemplative o nella dedizione al multiforme servizio apostolico: nelle missioni, nell'azione pastorale, negli ospedali o in altri luoghi, dove viene servito l'uomo che soffre, negli istituti educativi, nelle scuole o nelle università e, infine, in ciascuna delle vostre case, dove rimanete «riuniti nel nome di Cristo» con la consapevolezza che il Signore è «in mezzo a voi» (Mt 18,20).

Che la parola d'amore della Chiesa, a voi indirizzata nel giubileo della redenzione, sia il riflesso di quella parola d'amore che Cristo stesso ha indirizzato a ciascuno e a ciascuna di voi, pronunciando un giorno quel misterioso «seguimi», dal quale ha preso inizio la vostra vocazione nella Chiesa.

II.

VOCAZIONE

«Gesù, fissatolo, lo amò»

3. «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21) e gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Anche se sappiamo che queste parole, dette al giovane ricco, non furono accolte dal chiamato, tuttavia il loro contenuto merita un'attenta riflessione. Esse, infatti, ci presentano la struttura interiore della vocazione.

«Gesù, fissatolo, lo amò». Questo è l'amore del Redentore: un amore che scaturisce da tutta la profondità divino-umana della redenzione. In esso si riflette l'eterno amore del Padre, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Figlio, investito da quest'amore, accettò la missione del Padre nello Spirito Santo, e divenne il Redentore del mondo. L'amore del Padre si è rivelato nel Figlio come amore che salva. Proprio quest'amore costituisce il vero prezzo della redenzione dell'uomo e del mondo. Gli apostoli di Cristo parlano del prezzo della redenzione con una profonda emozione: «Non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati... ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia», scrive san Pietro (1Pt 1,18). «Infatti, siete stati comprati a caro prezzo», afferma san Paolo (1Cor 6,20).

La chiamata alla via dei consigli evangelici nasce dall'incontro interiore con l'amore di Cristo, che è amore redentivo. Cristo chiama proprio mediante questo suo amore. Nella struttura della vocazione l'incontro con questo amore diventa qualcosa di specificamente personale. Quando Cristo «dopo avervi fissati vi amò», chiamando ognuno e ognuna di voi, cari religiosi e religiose, quel suo amore redentivo venne rivolto a una determinata persona, acquistando al tempo stesso caratteristiche sponsali: esso divenne amore d'elezione. Tale amore abbraccia la persona intera, anima e corpo, sia uomo o sia donna, nel suo unico e irripetibile «io» personale. Colui che, donatosi eternamente al Padre, «dona» se stesso nel mistero della redenzione, ecco che ha chiamato l'uomo, affinché questi, a sua volta, si doni interamente a un particolare servizio dell'opera della redenzione mediante l'appartenenza a una comunità fraterna, riconosciuta e approvata dalla Chiesa. Non fanno forse eco proprio a questa chiamata le parole di san Paolo: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo... e che non appartenete a voi stessi? Infatti, siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,19-20).

Sì, l'amore di Cristo ha raggiunto ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, con quel medesimo «prezzo» della redenzione. In conseguenza di ciò, vi siete resi conto come «non appartenete più a voi stessi», ma a lui. Questa nuova consapevolezza è stata il frutto dello «sguardo amorevole» di Cristo nel segreto del vostro cuore. Voi avete risposto a questo sguardo, scegliendo colui che per primo ha scelto ciascuno e ciascuna di voi, chiamandovi con l'immensità del suo amore redentivo. Chiamando «per nome», la sua chiamata fa appello sempre alla libertà dell'uomo. Cristo dice: «Se vuoi...». E la risposta a questa chiamata è, dunque, una scelta libera. Voi avete scelto Gesù di Nazaret, il redentore del mondo, scegliendo la strada che egli vi ha indicato.

«Se vuoi essere perfetto...»

4. Questa via si chiama anche la via della perfezione. Conversando col giovane, Cristo dice: «Se vuoi essere perfetto...», sicché il concetto di «via della perfezione» possiede la sua motivazione nella stessa fonte evangelica. Non sentiamo, del resto, nel discorso della montagna: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48)? La chiamata dell'uomo alla perfezione è stata, in qualche modo, percepita da pensatori e moralisti del mondo antico e anche successivamente, nelle diverse epoche della storia. La chiamata biblica, però, possiede un suo profilo del tutto originale: essa è particolarmente esigente, quando addita all'uomo la perfezione a somiglianza di Dio stesso. Proprio in tale forma la chiamata corrisponde a tutta la logica interna della Rivelazione, secondo la quale l'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio stesso. Egli deve, quindi, cercare la perfezione che gli è propria nella linea di questa immagine e somiglianza. Scriverà san Paolo nella lettera agli Efesini: «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,12).

Pertanto, la chiamata alla perfezione appartiene all'essenza stessa della vocazione cristiana. In base a questa chiamata bisogna intendere anche le parole che Cristo indirizza al giovane del Vangelo. Esse sono legate in modo particolare al mistero della redenzione dell'uomo nel mondo. Questa, infatti, restituisce a Dio l'opera della creazione contaminata dal peccato, indicando la perfezione che l'intera creazione e, in particolare, l'uomo possiedono nel pensiero e nell'intento di Dio stesso. Specialmente l'uomo deve essere donato e restituito a Dio, se deve essere pienamente restituito a se stesso. Da ciò l'eterna chiamata: «Ritorna a me, poiché io ti ho redento» (Is 44,22). Le parole di Cristo: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri...» ci introducono senza dubbio nell'ambito del consiglio evangelico della povertà, che appartiene all'essenza stessa della vocazione e della professione religiosa.

Al tempo stesso, queste parole possono essere intese in modo più ampio e, in un certo senso, essenziale. Il Maestro di Nazaret invita il suo interlocutore a rinunciare a un programma di vita, nel quale emerge in primo piano la categoria del possesso, quella dell'«avere», e ad accettare, invece, al suo posto un programma incentrato sul valore della persona umana: sull'«essere» personale con tutta la trascendenza che gli è propria.

Una tale comprensione delle parole di Cristo costituisce quasi un più ampio sfondo per l'ideale della povertà evangelica, specialmente di quella povertà che, come consiglio evangelico, appartiene al contenuto essenziale delle vostre mistiche nozze con lo Sposo divino nella Chiesa. Leggendo le parole di Cristo alla luce del principio della superiorità dell'«essere» sull'«avere», specialmente se quest'ultimo è inteso in senso materialistico e utilitaristico, tocchiamo quasi le stesse basi antropologiche della vocazione nel Vangelo. Sullo sfondo dello sviluppo della civiltà contemporanea, questa è una scoperta particolarmente attuale. E per questo diventa attuale la stessa vocazione «alla via della perfezione», così come l'ha tracciata Cristo. Se nell'ambito dell'odierna civiltà, specialmente nel contesto del mondo del benessere consumistico, l'uomo risente dolorosamente l'essenziale deficienza di «essere» personale, che proviene alla sua umanità dall'abbondanza del multiforme «avere», allora egli diventa più disposto ad accogliere questa verità sulla vocazione, qual è stata pronunciata una volta per sempre nel Vangelo. Sì, la chiamata che voi, cari fratelli e sorelle, accogliete entrando nella via della professione religiosa, tocca le radici stesse dell'umanità, le radici del destino dell'uomo nel mondo temporale. L'evangelico «stato di perfezione» non vi distacca da queste radici. Al contrario, esso vi permette di ancorarvi più fortemente in ciò per cui l'uomo è uomo, permeando questa umanità, in diversi modi appesantita dal peccato, col fermento divino-umano del mistero della redenzione.

«Avrai un tesoro nel cielo»

5. La vocazione porta in sé la risposta all'interrogativo: perché essere uomo e come esserlo? Questa risposta dà una nuova dimensione a tutta la vita e stabilisce il suo senso definitivo. Tale senso emerge nell'orizzonte del paradosso evangelico circa la vita che si perde volendo salvarla, e che, al contrario, si salva perdendola «a causa di Cristo e del Vangelo», come leggiamo in Marco.

Alla luce di questa parola acquista piena evidenza la chiamata di Cristo: «Va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». Tra questo «va'» e il successivo «vieni e seguimi» si stabilisce uno stretto rapporto. Si può dire che queste ultime parole determinino l'essenza stessa della vocazione. Si tratta, infatti, di seguire le orme di Cristo («sequi», da cui la «sequela Christi»). I termini «va' - vendi - dallo» sembrano definire la condizione che precede la vocazione. D'altra parte, però, questa condizione non sta «all'esterno» della vocazione, ma si trova già «all'interno» di essa. Infatti, l'uomo fa la scoperta del nuovo senso della propria umanità non solo per «seguire» Cristo, ma in tanto in quanto lo segue. Quando egli «vende ciò che possiede» e «lo dà ai poveri», allora scopre che quei beni e quelle agiatezze, che già possedeva, non erano il tesoro accanto a cui rimanere: il tesoro sta nel suo cuore, reso capace da Cristo di «dare» agli altri, dando se stesso. Ricco non è colui che possiede, ma colui che dà, colui che è capace di dare.

In questo punto il paradosso evangelico acquista una particolare espressività. Diventa un programma dell'essere: essere povero, nel senso dato dal Maestro di Nazaret a un tale «essere», significa diventare nella propria umanità un dispensatore di bene. Ciò parimenti vuol dire scoprire «il tesoro». Questo tesoro è indistruttibile. Esso passa insieme con l'uomo nella dimensione dell'eternità, appartiene all'escatologia divina dell'uomo. Grazie a questo tesoro l'uomo ha il suo definitivo futuro in Dio. Cristo dice: «Avrai un tesoro nel cielo». Questo tesoro non è tanto «un premio» dopo la morte per le opere compiute sull'esempio del divino Maestro, quanto piuttosto è il compimento escatologico di ciò che si nascondeva dietro queste opere già qui, sulla terra, nel «tesoro» interiore del cuore. Lo stesso Cristo, infatti, invitando nel discorso della montagna ad accumulare tesori nel cielo, ha aggiunto: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,20). Queste parole indicano il carattere escatologico della vocazione cristiana e, ancor più, il carattere escatologico della vocazione che si realizza sulla via delle nozze spirituali con Cristo mediante la pratica dei consigli evangelici.

6. La struttura di questa vocazione, quale si desume dalle parole rivolte al giovane nei Vangeli sinottici, si delinea man mano che si scopre il tesoro fondamentale della propria umanità nella prospettiva di quel «tesoro», che l'uomo «ha nel cielo». In questa prospettiva il tesoro fondamentale della propria umanità si collega al fatto di «essere donando se stessi». Il punto diretto di riferimento in una tale vocazione è la persona viva di Gesù Cristo. La chiamata alla via della perfezione prende forma da lui e per lui nello Spirito Santo il quale a sempre nuove persone, uomini e donne, in diversi momenti della loro vita e prevalentemente nella giovinezza, «ricorda» tutto ciò che Cristo «ha detto» e, in particolare, ciò che «disse» al giovane che gli chiedeva: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Attraverso la risposta di Cristo, il quale «fissa con amore» il suo interlocutore, l'intenso fermento del mistero della redenzione penetra la coscienza, il cuore e la volontà di un uomo che cerca con verità e sincerità.

In questo modo la chiamata alla via dei consigli evangelici ha sempre il suo inizio in Dio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». La vocazione, nella quale l'uomo scopre fino in fondo la legge evangelica del dono iscritta nella propria umanità, è essa stessa un dono! E' un dono ricolmo del contenuto più profondo del Vangelo, un dono nel quale si riflette il profilo divino-umano del mistero della redenzione del mondo. «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione» (1Gv 4,10).

III.

CONSACRAZIONE

La professione è un'espressione più perfetta del battesimo

7. La vocazione, cari fratelli e sorelle, vi ha condotti alla professione religiosa, grazie alla quale siete stati consacrati a Dio mediante il ministero della Chiesa e, al tempo stesso, siete stati incorporati nella vostra famiglia religiosa. Perciò la Chiesa pensa a voi, prima di tutto, come a persone «consacrate»: consacrate a Dio in Gesù Cristo come proprietà esclusiva. Questa consacrazione determina il vostro posto nella vasta comunità della Chiesa, del popolo di Dio. Al tempo stesso, essa introduce nella missione universale di questo popolo una speciale risorsa di energia spirituale e soprannaturale: una particolare forma di vita, di testimonianza e di apostolato, in fedeltà alla missione del vostro istituto, alla sua identità e al suo patrimonio spirituale. La missione universale del popolo di Dio si radica nella missione messianica di Cristo stesso - profeta, sacerdote e re -, alla quale tutti partecipano in diversi modi. La forma di partecipazione propria delle persone «consacrate» corrisponde alla forma del vostro radicamento in Cristo. Della profondità e della forza di questo radicamento decide proprio la professione religiosa.

Essa crea un nuovo legame dell'uomo con Dio uno e trino, in Gesù Cristo. Questo legame cresce sul fondamento di quel vincolo originale che è contenuto nel sacramento del battesimo. La professione religiosa «ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale, e ne è un'espressione più perfetta» («Perfectae Caritatis», 5). In tal modo essa diventa, nel suo contenuto costitutivo, una nuova consacrazione: la consacrazione e la donazione della persona umana a Dio, amato sopra ogni cosa. L'impegno, assunto mediante i voti, di attuare i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza secondo le disposizioni proprie delle vostre famiglie religiose, quali sono determinate nelle rispettive costituzioni, rappresenta l'espressione di una totale consacrazione a Dio e, insieme, il mezzo che porta alla sua pratica attuazione. Di qui prendono anche forma la testimonianza e l'apostolato proprio delle persone consacrate. Tuttavia, bisogna cercare la radice di questa consacrazione consapevole e libera, e della conseguente donazione di sé come proprietà a Dio, nel battesimo, sacramento che ci conduce al mistero pasquale come vertice e centro della redenzione compiuta da Cristo.

Pertanto, per mettere pienamente in risalto la realtà della professione religiosa, bisogna rifarsi alle vibranti parole di Paolo nella lettera ai Romani: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo... così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»; «Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché... noi non fossimo più schiavi del peccato»; «Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,3-4.6.11).

La professione religiosa - sulla base sacramentale del battesimo in cui si radica - è una nuova «sepoltura nella morte di Cristo»: nuova mediante la consapevolezza e la scelta; nuova mediante l'amore e la vocazione; nuova mediante l'incessante «conversione». Tale «sepoltura nella morte» fa sì che l'uomo, «sepolto insieme a Cristo», «cammini come Cristo in una vita nuova». In Cristo crocifisso trovano il loro fondamento ultimo sia la consacrazione battesimale, sia la professione dei consigli evangelici, la quale - secondo le parole del Vaticano II - «costituisce una speciale consacrazione». Essa è ad un tempo morte e liberazione. San Paolo scrive: «Consideratevi morti al peccato«; al tempo stesso, tuttavia, chiama questa morte «liberazione dalla schiavitù del peccato». Soprattutto, però, la consacrazione religiosa costituisce, sulla base sacramentale del santo battesimo, una nuova vita «per Dio in Gesù Cristo». Ecco che così, unitamente alla professione dei consigli evangelici, in modo molto più maturo e più consapevole viene «deposto l'uomo vecchio» e, nello stesso modo, «viene rivestito l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera», per adoperare ancora le parole della lettera agli Efesini.

Alleanza dell'amore sponsale

8. Pertanto, cari fratelli e sorelle, tutti voi che nella Chiesa intera vivete l'alleanza della professione dei consigli evangelici, rinnovate in quest'anno santo della redenzione la consapevolezza della vostra speciale partecipazione alla morte in croce del Redentore: di quella partecipazione, cioè, mediante la quale siete risuscitati insieme con lui, e costantemente risorgete a una vita nuova. Il Signore parla a ognuno e a ognuna di voi, così come una volta parlò per mezzo del profeta Isaia: «Non temere, perché io ti ho riscattato, / ti ho chiamato per nome: / tu mi appartieni!» (Is 43,1).

La chiamata evangelica: «Se vuoi essere perfetto... seguimi» ci guida con la luce delle parole del divino Maestro. Dal profondo della redenzione viene la chiamata di Cristo, e da questa profondità essa raggiunge l'anima dell'uomo: in virtù della grazia della redenzione tale chiamata salvifica assume, nell'anima del chiamato, la forma concreta della professione dei consigli evangelici. In questa forma è contenuta la vostra risposta alla chiamata dell'amore redentivo, e questa è anche una risposta d'amore: amore di donazione, che è l'anima della consacrazione, cioè della consacrazione della persona. Le parole di Isaia: «Ti ho riscattato / tu mi appartieni» sembrano sigillare proprio questo amore, che è amore totale ed esclusivo di una consacrazione a Dio.

In tal modo si forma la particolare alleanza dell'amore sponsale, nella quale sembrano risonare con un'eco incessante le parole relative a Israele, che il Signore «si è scelto... come suo possesso» (Sal 134,4). In ogni persona consacrata viene, infatti, scelto l'«Israele» della nuova ed eterna alleanza. L'intero popolo messianico, la Chiesa intera viene eletta in ogni persona che il Signore sceglie in mezzo a questo popolo: in ogni persona che per tutti si consacra a Dio come proprietà esclusiva. Infatti, anche se nessun uomo, nemmeno il più santo, può ripetere le parole di Cristo: «Per loro io consacro me stesso» (Gv 17,19) secondo la potenza redentrice propria di queste parole, tuttavia ognuno, grazie all'amore di donazione, offrendosi come proprietà esclusiva a Dio, può ritrovarsi mediante la fede nel raggio di queste parole.

Non ci richiamano forse a questo le altre parole dell'apostolo nella lettera ai Romani, che tanto spesso ripetiamo e meditiamo: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1)? In queste parole risuona quasi un'eco lontana di colui che, venendo nel mondo e diventando uomo, dice al Padre: «Un corpo mi hai preparato... Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5.7).

Risaliamo dunque - in questo particolare contesto dell'anno giubilare della redenzione - al mistero del corpo e dell'anima di Cristo, come al soggetto integrale dell'amore sponsale e redentivo: sponsale, perché redentivo. Per amore egli offrì se stesso, per amore diede il suo corpo «per il peccato del mondo». Immergendovi mediante la consacrazione dei voti religiosi nel mistero pasquale del Redentore, voi, con l'amore di una donazione totale, desiderate colmare le vostre anime e i vostri corpi dello spirito di sacrificio (Rm 12,1), proprio come vi invita a fare san Paolo con le parole della lettera ai Romani appena riportate: «Offrite i vostri corpi come sacrificio». In questo modo si imprime nella professione religiosa la somiglianza di quell'amore, che nel cuore di Cristo è redentivo e insieme sponsale. E tale amore deve sgorgare in ciascuno di voi, cari fratelli e sorelle, dalla fonte stessa di quella particolare consacrazione che - sulla base sacramentale del santo battesimo - è l'inizio della vostra nuova vita in Cristo e nella Chiesa: è l'inizio della nuova creazione.

Che insieme con quest'amore si approfondisca in ciascuno e ciascuna di voi la gioia di appartenere esclusivamente a Dio, di essere un'eredità particolare della santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Ripetete ogni tanto, insieme col salmista, le ispirate parole: «Chi altri avrò per me in cielo? / Fuori di te nulla bramo sulla terra. / Vengono meno la mia carne e il mio cuore: / ma la roccia del mio cuore è Dio, / è Dio la mia sorte per sempre» (Sal 72,25-26). Oppure le altre: «Ho detto a Dio: "Sei tu il mio Signore, / senza di te non ho alcun bene"... / Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita» (Sal 15,2.5).

La consapevolezza di appartenere a Dio stesso in Gesù Cristo, Redentore del mondo e Sposo della Chiesa, suggelli i vostri cuori, tutti i vostri pensieri, parole e opere, col segno della biblica sposa. Come voi sapete, questa conoscenza ardente e profonda del Cristo si attua e si approfondisce ogni giorno di più grazie alla vita di preghiera personale, comunitaria e liturgica, propria di ciascuna delle vostre famiglie religiose. Anche in ciò, e soprattutto i religiosi e le religiose essenzialmente dedite alla contemplazione, sono un valido aiuto e un sostegno stimolante per i loro fratelli e le loro sorelle, votati alle opere di apostolato. Questa consapevolezza di appartenere a Cristo apra i vostri cuori, pensieri e opere, con la chiave del mistero della redenzione, a tutte le sofferenze, a tutte le necessità e a tutte le speranze degli uomini e del mondo, in mezzo ai quali la vostra consacrazione evangelica è stata innestata come un segno particolare della presenza di Dio, «per il quale tutti vivono», abbracciati dalla dimensione invisibile del suo Regno.

La parola «seguimi», pronunciata da Cristo, quando «fissò e amò» ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, ha anche questo significato: prendi parte, nel modo più completo e più radicale possibile, alla formazione di quella «nuova creatura» (2Cor 5,17), che deve emergere dalla redenzione del mondo mediante la forza dello Spirito di verità, operante dall'abbondanza del mistero pasquale di Cristo.

IV.

CONSIGLI EVANGELICI

Economia della redenzione

9. Mediante la professione si schiude davanti ad ognuno e ognuna di voi la via dei consigli evangelici. Nel Vangelo ci sono molte raccomandazioni che oltrepassano la misura del comandamento, indicando non solo ciò che è «necessario», ma ciò che è «migliore». Così, per esempio, l'esortazione a non giudicare, a prestare «senza sperarne nulla», a soddisfare tutte le richieste e i desideri del prossimo, a invitare a banchetto i poveri, a perdonare sempre, e molte altre simili. Se, seguendo la tradizione, la professione dei consigli evangelici si è concentrata sui tre punti della castità, povertà e obbedienza, tale consuetudine sembra mettere in rilievo in modo sufficientemente chiaro la loro importanza di elementi-chiave e, in un certo senso, «riassuntivi» dell'intera economia della salvezza. Tutto ciò che nel Vangelo è consiglio entra indirettamente nel programma di quella via, alla quale Cristo chiama, quando dice: «Seguimi». Ma la castità, la povertà e l'obbedienza danno a questa via una particolare caratteristica cristocentrica e imprimono su di essa uno specifico segno dell'economia della redenzione.

E' essenziale per questa «economia» la trasformazione del cosmo intero attraverso il cuore dell'uomo, dal di dentro: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere essa pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21). Questa trasformazione va di pari passo con quell'amore, che la chiamata di Cristo infonde nell'interno dell'uomo, con quell'amore che costituisce la sostanza stessa della consacrazione: del votarsi dell'uomo o della donna a Dio nella professione religiosa, sul fondamento della consacrazione sacramentale del battesimo. Possiamo scoprire le basi dell'economia della redenzione leggendo le parole della prima lettera di san Giovanni: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,15-17).

La professione religiosa pone nel cuore di ognuno e ognuna di voi, cari fratelli e sorelle, l'amore del Padre, quell'amore che è nel cuore di Gesù Cristo, redentore del mondo. E' amore, questo, che abbraccia il mondo e tutto ciò che in esso viene dal Padre e che al tempo stesso tende a sconfiggere nel mondo tutto ciò che «non viene dal Padre». Esso tende, dunque, a vincere la triplice concupiscenza. «La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» sono nascoste nell'interno dell'uomo come eredità del peccato originale, in conseguenza del quale il rapporto col mondo creato da Dio e dato in dominio all'uomo, venne deformato nel cuore umano in diversi modi. Nell'economia della redenzione i consigli evangelici di castità, di povertà e di obbedienza costituiscono i mezzi più radicali per trasformare nel cuore dell'uomo tale rapporto con «il mondo»: col mondo esterno e col proprio «io», il quale in un certo senso è la parte centrale «del mondo» nel significato biblico, se in esso prende inizio ciò che «non viene dal Padre».

Sullo sfondo delle frasi riportate dalla prima lettera di san Giovanni non è difficile notare la fondamentale importanza dei tre consigli evangelici nell'intera economia della redenzione. Difatti, la castità evangelica ci aiuta a trasformare nella nostra vita interiore tutto ciò che trova la sua fonte nella concupiscenza della carne; la povertà evangelica ciò che ha la sua fonte nella concupiscenza degli occhi; infine, l'obbedienza evangelica ci permette di trasformare in modo radicale ciò che nel cuore umano scaturisce dalla superbia della vita. Parliamo qui volutamente del superamento come di una trasformazione, poiché l'intera economia della redenzione si inquadra nella cornice delle parole, rivolte da Cristo nella preghiera sacerdotale al Padre: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17,15). I consigli evangelici nella loro essenziale finalità servono «al rinnovamento della creazione»: «il mondo», grazie ad essi, deve venire sottomesso all'uomo e a lui dato in modo che l'uomo stesso sia perfettamente donato a Dio.

Partecipazione all'annientamento di Cristo

10. La finalità interiore dei consigli evangelici conduce alla scoperta di altri aspetti ancora, che ne mettono in rilievo lo stretto rapporto con l'economia della redenzione. Si sa che questa trova il suo punto culminante nel mistero pasquale di Gesù Cristo, nel quale vengono uniti l'annientamento mediante la morte e la nascita a una nuova vita mediante la risurrezione. La pratica dei consigli evangelici contiene in sé un profondo riflesso di questa dualità pasquale: l'inevitabile annientamento di ciò che in ognuno di noi è il peccato e il suo retaggio e la possibilità di rinascere ogni giorno a un bene più profondo, nascosto nell'anima umana. Questo bene si manifesta sotto l'azione della grazia, alla quale la pratica della castità, della povertà e dell'obbedienza rende particolarmente sensibile l'anima dell'uomo. L'intera economia della redenzione si realizza proprio mediante questa sensibilità alla misteriosa azione dello Spirito Santo che è l'artefice diretto di ogni santità. Su questa via la professione dei consigli evangelici schiude in ognuno e in ognuna di voi, cari fratelli e sorelle, un ampio spazio alla «creatura nuova», che emerge nel vostro «io» umano proprio dall'economia della redenzione e, attraverso questo «io» umano, anche nelle dimensioni interpersonali e sociali. Al tempo stesso, pertanto, emerge nell'umanità, quale parte del mondo creato da Dio: di quel mondo, che il Padre amò «di nuovo» nel Figlio eterno, Redentore del mondo.

Di questo Figlio dice san Paolo che «pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). La caratteristica dell'annientamento contenuta nella pratica dei consigli evangelici, dunque, è caratteristica completamente cristocentrica. E perciò anche il Maestro di Nazaret indica esplicitamente la croce come condizione per seguire le sue orme. Colui che un giorno disse a ognuno e a ognuna di voi «Seguimi», ha detto anche: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (= cammini sulle mie orme). E ciò diceva a tutti i suoi ascoltatori, non solo ai discepoli. La legge della rinuncia appartiene, dunque, all'essenza stessa della vocazione cristiana. Tuttavia, essa in modo speciale appartiene all'essenza della vocazione legata alla professione dei consigli evangelici. A coloro che si trovano sulla via di questa vocazione parleranno con un linguaggio comprensibile anche quelle difficili espressioni, che leggiamo nella lettera ai Filippesi: per lui «ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui» (Fil 3,8-9).

Rinuncia, quindi - riflesso del mistero del Calvario -, per «trovarsi» più pienamente in Cristo crocifisso e risorto; rinuncia, per riconoscere in lui fino in fondo il mistero della propria umanità e confermarlo sulla via di quel mirabile processo, del quale lo stesso apostolo scrive in un altro luogo: «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 19,11). In questo modo l'economia della redenzione trasferisce la potenza del mistero pasquale sul terreno dell'umanità, docile alla chiamata di Cristo alla vita in castità, in povertà e in obbedienza, ossia alla vita secondo i consigli evangelici.

V.

CASTITA'-POVERTA'-OBBEDIENZA

Castità

11. Il profilo pasquale di questa chiamata si fa riconoscere sotto vari punti di vista, in rapporto ad ogni singolo consiglio. E', infatti, secondo la misura dell'economia della redenzione che bisogna giudicare e praticare quella castità, che ognuno e ognuna di voi ha promesso con voto insieme con la povertà e l'obbedienza. E' contenuta in ciò la risposta alle parole di Cristo, che sono al tempo stesso un invito: «E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca». Precedentemente Cristo aveva sottolineato che «non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso». Queste ultime parole mettono chiaramente in evidenza che tale invito è un consiglio. A ciò anche l'apostolo Paolo ha dedicato un'apposita riflessione nella prima lettera ai Corinzi. Questo consiglio è rivolto in modo particolare all'amore del cuore umano. Esso mette maggiormente in risalto il carattere sponsale di questo amore, mentre la povertà e ancor più l'obbedienza sembrano porre in rilievo, prima di tutto, l'aspetto dell'amore redentivo contenuto nella consacrazione religiosa. Si tratta qui - come si sa - della castità nel senso «del farsi eunuchi per il regno dei cieli»; si tratta, cioè, della verginità come espressione dell'amore sponsale per il Redentore stesso. In questo senso l'apostolo insegna che «fa bene» colui che sceglie il matrimonio, e «fa meglio» colui che sceglie la verginità. «Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore», e «la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito» (1Cor 7,38.32.34).

Non è contenuta - nelle parole di Cristo né in quelle di Paolo - alcuna disistima del matrimonio. Il consiglio evangelico della castità è solo un'indicazione di quella particolare possibilità che per il cuore umano, sia dell'uomo sia della donna, costituisce l'amore sponsale di Cristo stesso, di Gesù «Signore». Il «farsi eunuchi per il regno dei cieli», infatti, non è solo una libera rinuncia al matrimonio e alla vita di famiglia, ma è una scelta carismatica di Cristo come sposo esclusivo. Tale scelta non solo permette specificamente di «preoccuparsi delle cose del Signore», ma - fatta «per il regno dei cieli» - avvicina questo regno escatologico di Dio alla vita di tutti gli uomini nelle condizioni della temporalità e lo rende, in un certo modo, presente in mezzo al mondo.

Mediante ciò le persone consacrate realizzano l'interiore finalità dell'intera economia della redenzione. Questa finalità si esprime, infatti, nell'avvicinare il regno di Dio nella sua dimensione definitiva, escatologica. Per mezzo del voto di castità le persone consacrate partecipano all'economia della redenzione con la libera rinuncia alle gioie temporali della vita matrimoniale e familiare; e, d'altra parte, proprio nel loro «farsi eunuchi per il regno dei cieli», esse portano in mezzo al mondo che passa l'annuncio della risurrezione futura e della vita eterna: della vita in unione con Dio stesso mediante la visione beatifica e l'amore che contiene in sé e intimamente pervade tutti gli altri amori del cuore umano.

Povertà

12. Quanto sono espressive in materia di povertà le parole della seconda lettera ai Corinzi, che costituiscono una concisa sintesi di tutto ciò che su questo tema sentiamo nel Vangelo! «Conoscete, infatti, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, egli si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Secondo queste parole la povertà entra nella struttura interiore della stessa grazia redentrice di Gesù Cristo. Senza la povertà non è possibile comprendere il mistero della donazione della divinità all'uomo, donazione che si è compiuta proprio in Gesù Cristo. Anche per questo essa si trova al centro stesso del Vangelo, all'inizio del messaggio delle otto beatitudini: «Beati i poveri in spirito». La povertà evangelica schiude davanti agli occhi dell'anima umana la prospettiva dell'intero mistero, «nascosto da secoli nella mente di Dio». Solamente coloro che sono in questo modo «poveri» sono anche interiormente capaci di comprendere la povertà di colui che è infinitamente ricco. La povertà di Cristo nasconde in sé questa infinita ricchezza di Dio; essa ne è anzi un'espressione infallibile. Una ricchezza, infatti, qual è la divinità stessa, non si sarebbe potuta esprimere adeguatamente in nessun bene creato. Essa può esprimersi solamente nella povertà. Perciò, può essere compresa in modo giusto solamente dai poveri, dai poveri in spirito. Cristo, uomo-Dio, è il primo di essi: colui che, «da ricco che era, si è fatto povero» non solo è il maestro, ma è anche il portavoce e il garante di quella povertà salvifica, che corrisponde all'infinita ricchezza di Dio e all'inesauribile potenza della sua grazia.

E perciò è pure vero - come scrive l'Apostolo - che «per mezzo della sua povertà noi diventiamo ricchi». E' il maestro e il portavoce della povertà che arricchisce. Proprio per questo egli dice al giovane nei Vangeli sinottici: «Vendi quello che possiedi... dallo... e avrai un tesoro nel cielo» (Mt 19,21). C'è in queste parole una chiamata ad arricchire gli altri per mezzo della propria povertà; ma nel profondo di questa chiamata è nascosta la testimonianza dell'infinita ricchezza di Dio che, trasferita all'anima umana nel mistero della grazia, crea nell'uomo stesso, appunto mediante la povertà, una sorgente per arricchire gli altri non comparabile con alcun'altra risorsa di beni materiali, una sorgente per gratificare gli altri a somiglianza di Dio stesso. Questa elargizione si realizza nell'ambito del mistero di Cristo, il quale «ci ha reso ricchi per mezzo della sua povertà». Vediamo come questo processo di arricchimento si svolge nelle pagine del Vangelo, trovando il suo culmine nell'evento pasquale: Cristo, il più povero nella morte di croce, è insieme colui che ci arricchisce infinitamente con la pienezza della vita nuova, mediante la risurrezione.

Cari fratelli e sorelle, poveri in spirito mediante la professione evangelica, accogliete in tutta la vostra vita questo profilo salvifico della povertà di Cristo. Cercate giorno per giorno la sua sempre maggiore maturazione! Cercate soprattutto «il regno di Dio e la sua giustizia», e le altre cose «vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Che in voi e per mezzo vostro si compia la beatitudine evangelica che è riservata ai poveri, ai poveri in spirito!

Obbedienza

13. Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

Tocchiamo qui, in queste parole della lettera di Paolo ai Filippesi, l'essenza stessa della redenzione. In questa realtà è inscritta in modo primario e costitutivo l'obbedienza di Gesù Cristo. Confermano tale dato anche le altre parole dell'apostolo, tratte questa volta dalla lettera ai Romani: «Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).

Il consiglio evangelico dell'obbedienza è la chiamata che scaturisce da questa obbedienza di Cristo «fino alla morte». Coloro che accolgono questa chiamata, espressa con la parola «seguimi», decidono - come dice il Concilio - di seguire Cristo, «che redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte di croce» («Perfectae Caritatis», 1). Nell'attuare il consiglio evangelico dell'obbedienza, essi raggiungono l'essenza profonda dell'intera economia della redenzione. Nell'adempiere questo consiglio, essi desiderano conseguire una speciale partecipazione all'obbedienza di quell'«uno solo», mediante l'obbedienza del quale tutti «saranno costituiti giusti».

Si può dire, dunque, che coloro che decidono di vivere secondo il consiglio dell'obbedienza, si collocano in modo singolare tra il mistero del peccato e il mistero della giustificazione e della grazia salvifica. Si trovano in questo «luogo» con tutto il sottofondo peccaminoso della propria natura umana, con tutta l'eredità «della superbia della vita», con tutta l'egoistica tendenza a dominare e non a servire, e proprio mediante il voto di obbedienza si decidono a trasformarsi a somiglianza di Cristo, il quale «redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza». Nel consiglio dell'obbedienza essi desiderano trovare il proprio ruolo nella redenzione di Cristo e la propria via di santificazione.

E' questa la via che Cristo ha tracciato nel Vangelo, parlando molte volte del compimento della volontà di Dio, dell'incessante ricerca di essa. «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato a compiere la sua opera». «Perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». «Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite». «Perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». Questo compimento costante della volontà del Padre fa pensare anche a quella confessione messianica del salmista dell'antica alleanza: «Sul rotolo del libro di me è scritto: che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore» (Gv 4,34; 5,30; 6,38).

Tale obbedienza del Figlio - piena di gioia - raggiunge il suo zenit di fronte alla passione e alla croce: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Sin dalla preghiera nel Getsemani la disponibilità di Cristo a compiere la volontà del Padre si riempie fino all'orlo di sofferenza, diventa quell'obbedienza «fino alla morte e alla morte di croce», di cui parla san Paolo.

Mediante il voto di obbedienza le persone consacrate decidono di imitare con umiltà in modo particolare l'obbedienza del Redentore. Benché, infatti, la sottomissione alla volontà di Dio e l'obbedienza alla sua legge siano per ogni stato condizione di vita cristiana, tuttavia nello «stato religioso», nello «stato di perfezione», il voto di obbedienza stabilisce nel cuore di ciascuno e di ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, il dovere di uno speciale riferimento a Cristo «obbediente fino alla morte». E poiché questa obbedienza di Cristo costituisce il nucleo essenziale dell'opera della redenzione, come risulta dalle parole sopra citate dell'Apostolo, perciò anche nell'adempiere il consiglio evangelico dell'obbedienza si deve scorgere un momento particolare di quell'«economia della redenzione», che pervade tutta la vostra vocazione nella Chiesa.

Di qui scaturisce quella «disponibilità totale allo Spirito Santo», che agisce innanzitutto nella Chiesa, come si esprime il mio predecessore Paolo VI nell'esortazione apostolica «Evangelica Testificatio», ma che si manifesta, altresì, nelle costituzioni dei vostri istituti. Di qui scaturisce quella religiosa sottomissione, che in spirito di fede le persone consacrate dimostrano ai propri superiori legittimi, che tengono il posto di Dio. Nella lettera agli Ebrei troviamo su questo tema un'indicazione molto significativa: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, come chi ha da renderne conto». E l'autore della lettera aggiunge: «Obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi» (Eb 13,17).

I superiori, d'altra parte, memori di dover esercitare in spirito di servizio la potestà loro conferita per il tramite del ministero della Chiesa, si mostreranno disponibili all'ascolto dei propri fratelli per discernere meglio quanto il Signore richiede da ciascuno, ferma restando l'autorità loro propria di decidere e di comandare ciò che riterranno opportuno.

Di pari passo con la sottomissione-obbedienza così concepita va l'atteggiamento di servizio, che informa tutta la vostra vita ad esempio del Figlio dell'uomo, il quale «non venne per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). E la sua Madre, nel momento decisivo dell'annunciazione-incarnazione, penetrando sin dall'inizio in tutta l'economia salvifica della redenzione, disse: «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).

Ricordate anche, cari fratelli e sorelle, che l'obbedienza a cui vi siete impegnati, consacrandovi senza riserva a Dio mediante la professione dei consigli evangelici, è una particolare espressione della libertà interiore, così come definitiva espressione della libertà di Cristo fu la sua obbedienza «fino alla morte»: «Io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Gv 10,17-18).

VI.

AMORE ALLA CHIESA

Testimonianza

14. Nell'anno giubilare della redenzione la Chiesa intera desidera rinnovare il suo amore verso Cristo, Redentore dell'uomo e del mondo, suo Signore e insieme suo Sposo divino. E perciò in questo anno santo essa guarda con singolare attenzione a voi, cari fratelli e sorelle, che, come persone consacrate, occupate un posto speciale sia nella comunità universale del popolo di Dio, sia in ogni comunità locale. Se la Chiesa desidera che mediante la grazia del giubileo straordinario si rinnovi anche il vostro amore verso Cristo, al tempo stesso essa è pienamente consapevole che questo amore costituisce un bene speciale dell'intero popolo di Dio. La Chiesa è consapevole che, nell'amore che Cristo riceve dalle persone consacrate, l'amore dell'intero corpo viene indirizzato in modo speciale ed eccezionale verso lo sposo, che in pari tempo è capo di questo corpo. La Chiesa vi esprime, cari fratelli e sorelle, la sua gratitudine per la consacrazione e per la professione dei consigli evangelici, che sono una particolare testimonianza d'amore. Essa, nello stesso tempo, riconferma la sua grande fiducia in voi, che avete scelto uno stato di vita che è un dono speciale di Dio alla sua Chiesa. Essa conta sulla vostra collaborazione completa e generosa, affinché, come fedeli amministratori di così prezioso dono, voi «sentiate con la Chiesa» e sempre collaboriate con essa, in conformità con gli insegnamenti e con le direttive del magistero di Pietro e dei pastori in comunione con lui, coltivando, a livello personale e comunitario, una rinnovata coscienza ecclesiale. E contemporaneamente essa prega per voi, affinché la vostra testimonianza d'amore non venga mai meno, e vi chiede anche di accogliere con questo spirito il presente messaggio dell'anno giubilare della redenzione.

Proprio così pregava l'Apostolo nella sua lettera ai Filippesi: «che la vostra carità si arricchisca sempre più... in ogni genere di discernimento, perché possiate sempre distinguere il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi del frutto di giustizia» (Fil 1,9-11).

Per opera della redenzione di Cristo «l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato». Chiedo incessantemente allo Spirito Santo di concedere a ciascuno e a ciascuna di voi, «secondo il proprio dono», di dare una particolare testimonianza di quest'amore. Vinca in voi, in modo degno della vostra vocazione, «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù...», quella legge che ci ha «liberato dalla legge...della morte». Vivete, dunque, di questa vita nuova a misura della vostra consacrazione e anche a misura dei diversi doni di Dio, che corrispondono alla vocazione delle singole famiglie religiose. La professione dei consigli evangelici indica a ciascuno e a ciascuna di voi in quale modo potete «con l'aiuto dello Spirito Santo far morire» tutto ciò che è contrario alla vita e serve al peccato e alla morte, tutto ciò che si oppone al vero amore di Dio e degli uomini. Il mondo ha bisogno dell'autentica «contraddizione» della consacrazione religiosa, come incessante lievito del rinnovamento salvifico. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 8,2.13; 12,2). Dopo lo speciale periodo di sperimentazione e di aggiornamento, previsto dal motu proprio «Ecclesiae Sanctae», i vostri istituti hanno ricevuto recentemente o si apprestano a ricevere l'approvazione della Chiesa alle costituzioni rinnovate. Che tale dono della Chiesa vi stimoli a conoscerle, ad amarle e, soprattutto, a viverle nella generosità e nella fedeltà, ricordando che l'obbedienza è una manifestazione non equivoca dell'amore.

Proprio di questa testimonianza d'amore hanno bisogno il mondo d'oggi e l'umanità. Essi hanno bisogno della testimonianza della redenzione, così come questa è impressa nella professione dei consigli evangelici. Questi consigli, ognuno nel modo a lui proprio, e tutti insieme nella loro intima connessione, «rendono testimonianza» alla redenzione, che, con la potenza della croce e della risurrezione di Cristo, guida il mondo e l'umanità nello Spirito Santo verso quel compimento definitivo, che l'uomo - e, per mezzo dell'uomo, la creazione intera - trovano in Dio, e solo in Dio. La vostra testimonianza, perciò, è inestimabile. Bisogna adoperarsi con costanza, affinché essa sia pienamente trasparente e pienamente fruttuosa in mezzo agli uomini. A ciò gioverà, altresì, l'osservanza fedele delle norme della Chiesa che riguardano la manifestazione anche esterna della vostra consacrazione e del vostro impegno di povertà.

Apostolato

15. Da tale testimonianza di amore sponsale per Cristo, attraverso la quale diventa particolarmente visibile tra gli uomini l'intera verità salvifica del Vangelo, nasce anche, cari fratelli e sorelle, come propria della vostra vocazione, la partecipazione all'apostolato della Chiesa, alla sua missione universale, la quale si realizza contemporaneamente in mezzo a tutte le nazioni in tanti modi diversi e mediante la molteplicità dei doni elargiti da Dio. La vostra missione specifica va armoniosamente di pari passo con la missione degli apostoli, che il Signore inviò «in tutto il mondo» per «ammaestrare tutte le nazioni», ed è unita, altresì, a questa missione dell'ordine gerarchico. Nell'apostolato, che svolgono le persone consacrate, il loro amore sponsale per Cristo diventa in modo quasi organico amore per la Chiesa come corpo di Cristo, per la Chiesa come popolo di Dio, per la Chiesa che è insieme sposa e madre.

E' difficile descrivere, anzi persino elencare, in quanti modi diversi le persone consacrate realizzino, mediante l'apostolato, il loro amore verso la Chiesa. Esso è sempre nato da quel dono particolare dei vostri Fondatori, che, ricevuto da Dio e approvato dalla Chiesa, è divenuto un carisma per l'intera comunità. Quel dono corrisponde alle diverse necessità della Chiesa e del mondo nei singoli momenti della storia, e a sua volta si prolunga e si consolida nella vita delle comunità religiose come uno degli elementi duraturi della vita e dell'Apostolato della Chiesa. In ognuno di questi elementi, in ogni campo - sia in quello della contemplazione feconda per l'apostolato, sia in quello dell'azione direttamente apostolica - vi accompagna la costante benedizione della Chiesa, e insieme la sua pastorale e materna sollecitudine per quanto riguarda l'identità spirituale della vostra vita e la rettitudine del vostro operare in seno alla grande comunità universale delle vocazioni e dei carismi dell'intero popolo di Dio. Sia per mezzo di ciascuno degli istituti separatamente presi, sia mediante la loro organica integrazione, nel complesso della missione della Chiesa è posta in particolare risalto quell'economia della redenzione, il cui segno profondo ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, porta in sé mediante la consacrazione e la professione dei consigli evangelici.

E perciò, anche se sono estremamente importanti le molteplici opere apostoliche che svolgete, tuttavia l'opera di apostolato veramente fondamentale rimane sempre ciò che (e insieme chi) voi siete nella Chiesa. Di ciascuno e di ciascuna di voi si possono ripetere, a titolo speciale, queste parole dell'Apostolo: «Voi, infatti, siete morti, e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). E al tempo stesso questo «essere nascosti con Cristo in Dio» permette di riferire a voi le parole del Maestro stesso: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16).

Per questa luce, con la quale dovete «risplendere davanti agli uomini», è importante tra voi la testimonianza della reciproca carità, legata allo spirito fraterno di ogni comunità, poiché il Signore ha detto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

La natura fondamentalmente comunitaria della vostra vita religiosa, nutrita della dottrina evangelica, della sacra liturgia e, soprattutto, dell'eucaristia, costituisce un modo privilegiato di realizzare questa dimensione interpersonale e sociale: prevenendovi con premure reciproche, portando i pesi gli uni degli altri, voi manifestate con la vostra unità che il Cristo è vivo in mezzo a voi. E' importante per il vostro apostolato nella Chiesa ogni sensibilità alle necessità e alle sofferenze dell'uomo, quali si mostrano così apertamente e in modo così toccante nel mondo d'oggi. Infatti, l'Apostolo insegna: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo»; e aggiunge che «pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,10).

La vostra missione deve essere visibile! Deve essere profondo, molto profondo il legame che la unisce alla Chiesa! Mediante tutto ciò che fate e, soprattutto, mediante tutto ciò che siete, sia proclamata e riconfermata la verità che «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25), la verità che sta alla base dell'intera economia della redenzione. Che da Cristo, redentore del mondo, zampilli anche l'inesauribile fonte del vostro amore per la Chiesa!

VII.

CONCLUSIONE

Illuminati gli occhi della mente

16. Questa esortazione, che vi indirizzo nella solennità dell'Annunciazione dell'anno giubilare della redenzione, vuol essere espressione di quell'amore, che la Chiesa nutre per i religiosi e per le religiose. Voi, infatti, cari fratelli e sorelle, siete un bene speciale della Chiesa. E questo bene diventa ancor più comprensibile mediante la meditazione della realtà della redenzione, per la quale il corrente anno santo offre una costante occasione e un felice incoraggiamento. Riconoscete, dunque, in questa luce, la vostra identità e la vostra dignità. Che lo Spirito Santo - per opera della croce e della risurrezione di Cristo - «possa davvero illuminare gli occhi della vostra mente, per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,18).

Questi «occhi illuminati della mente» la Chiesa chiede incessantemente per ciascuno e ciascuna di voi, che già siete entrati nella via della professione dei consigli evangelici. Gli stessi «occhi illuminati» la Chiesa, insieme con voi, chiede per tanti cristiani, specialmente per la gioventù maschile e femminile, affinché essi possano scoprire questa via e non abbiano paura di intraprenderla, affinché - anche in mezzo alle avverse circostanze della vita d'oggi - possano udire il «seguimi» di Cristo. Voi pure dovete adoperarvi a questo fine con la vostra preghiera e anche con la testimonianza di quell'amore, per il quale «Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1Gv 4,12). Che questa testimonianza diventi dappertutto presente e universalmente leggibile. Che l'uomo dei nostri tempi, spiritualmente affaticato, trovi in essa sostegno e speranza. Servite perciò i fratelli con la gioia, che sgorga da un cuore abitato da Cristo. «Possa il mondo del nostro tempo... ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati... ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» («Evangelii Nuntiandi», 80).

La Chiesa, nel suo amore per voi, non cessa «di piegare le ginocchia davanti al Padre», perché operi in voi «il rafforzamento dell'uomo interiore», e come in voi, così lo operi anche in tanti altri nostri fratelli e sorelle battezzati, specialmente giovani, affinché trovino la stessa via alla santità, che nella storia hanno percorso tante generazioni insieme con Cristo - redentore del mondo e sposo delle anime -, lasciando spesso dietro di sé l'alone intenso della luce di Dio sullo sfondo di grigiore e di tenebre dell'umana esistenza.

A tutti voi, che percorrete questa strada nella presente fase della storia della Chiesa e del mondo, si rivolge questo fervido augurio nell'anno giubilare della redenzione, affinché «radicati e fondati nella carità siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio».

Messaggio della solennità dell'annunciazione del Signore

17. Nella festività dell'Annunciazione di quest'anno santo depongo la presente esortazione nel cuore della Vergine immacolata. Tra tutte le persone consacrate senza riserva a Dio, ella è la prima. Ella - la Vergine di Nazaret - è anche la più pienamente consacrata a Dio, consacrata nel modo più perfetto. Il suo amore sponsale raggiunge il vertice nella maternità divina per la potenza dello Spirito Santo. Ella, che come Madre porta Cristo sulle braccia, al tempo stesso realizza nel modo più perfetto la sua chiamata: «seguimi». E lo segue - ella, la Madre - come suo maestro in castità, in povertà e in obbedienza.

Quanto fu povera nella notte di Betlemme, e quanto povera sul Calvario! Quanto fu obbediente durante l'annunciazione, e poi - ai piedi della croce - obbediente fino a consentire alla morte del Figlio, il quale si era fatto obbediente «fino alla morte»! Quanto fu dedita in tutta la sua vita terrena alla causa del regno dei cieli per castissimo amore!

Se la Chiesa intera trova in Maria il suo primo modello, a maggior ragione lo trovate voi, persone e comunità consacrate all'interno della Chiesa! Nel giorno che riporta alla memoria l'inaugurazione del giubileo della redenzione, avvenuta lo scorso anno, mi rivolgo a voi col presente messaggio, per invitarvi a ravvivare la vostra consacrazione religiosa secondo il modello della consacrazione della stessa Genitrice di Dio.

Diletti fratelli e sorelle! «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del figlio suo Gesù Cristo» (1Cor 1,9). Perseverando nella fedeltà a colui che è fedele, sforzatevi di cercare un sostegno specialissimo in Maria! Ella, infatti, è stata chiamata da Dio alla comunione più perfetta col Figlio suo. Sia ella, la Vergine fedele, anche la Madre nella vostra via evangelica: vi aiuti a sperimentare e a dimostrare davanti al mondo quanto infinitamente fedele è Dio stesso!

Con questi voti di gran cuore vi benedico.

Dal Vaticano, il 25 marzo dell'anno giubilare della redenzione 1984, sesto di pontificato.

 

 

Reconciliatio et paenitentia

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POST-SINODALE
RECONCILIATIO ET PAENITENTIA
DI
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA RICONCILIAZIONE E LA PENITENZA
NELLA MISSIONE DELLA CHIESA OGGI

PROEMIO

ORIGINE E SIGNIFICATO DEL DOCUMENTO

1. Parlare di riconciliazione e penitenza è, per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel loro linguaggio, le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesù Cristo volle inaugurare la sua predicazione: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), accogliete, cioè, la lieta novella dell'amore, dell'adozione a figli di Dio e, quindi, della fratellanza.

Perché la Chiesa ripropone questo tema e questo invito? L'ansia di conoscere meglio e di comprendere l'uomo d'oggi e il mondo contemporaneo, di decifrarne l'enigma e di svelarne il mistero, di discernere i fermenti di bene o di male che vi si agitano, da non poco tempo ormai porta molti a rivolgere a questo uomo e a questo mondo uno sguardo interrogativo. E' lo sguardo dello storico e del sociologo, del filosofo e del teologo, dello psicologo e dell'umanista, del poeta e del mistico: è, soprattutto, lo sguardo preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.

Un tale sguardo si rivela in maniera esemplare in ciascuna pagina dell'importante costituzione pastorale del Concilio Vaticano II «Gaudium et Spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, particolarmente nella sua ampia e penetrante introduzione. Esso si rivela, altresì, in taluni documenti emanati dalla sapienza e dalla carità pastorale dei miei venerati predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati dall'evento storico e profetico di quel Concilio ecumenico.

Come gli altri sguardi, anche quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell'umanità del nostro tempo, l'esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.

Un mondo frantumato

2. Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto.

Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt'altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il terrorismo; 6) l'uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione; 7) l'accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l'immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l'iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più. La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.

D'altra parte, poiché la Chiesa, senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l'umana società. Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.

Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell'intimo dell'uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un'eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.

Nostalgia di riconciliazione

3. Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un'essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.

Per taluni si tratta quasi di un'utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per altri, invece, è oggetto di un'ardua conquista e, quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso, l'aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di un'incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale - tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.

Tuttavia, la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato.

Lo sguardo del Sinodo

4. Pertanto, ogni istituzione o organizzazione, volta a servire l'uomo e interessata a salvarlo nelle sue dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante alla riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena portata e trarne le necessarie conseguenze operative.

A questo sguardo non poteva rinunciare la Chiesa di Gesù Cristo. Con dedizione di madre e intelligenza di maestra, essa si applica, premurosa e attenta, a raccogliere dalla società, con i segni della divisione, anche quelli non meno eloquenti e significativi della ricerca di una riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata data la possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso vero, profondamente religioso, e le dimensioni integrali della riconciliazione, contribuendo, già solo per questo, a chiarire i termini essenziali della questione dell'unità e della pace.

I miei predecessori non hanno cessato di predicare la riconciliazione, di invitare ad essa l'intera umanità, nonché ogni ceto e ogni porzione della comunità umana che vedevano lacerata e divisa. E io stesso, per un impulso interiore che obbediva a un tempo - ne son certo - all'ispirazione dall'alto e agli appelli dell'umanità, in due modi diversi, ambedue solenni e impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della riconciliazione: in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro dell'anno giubilare, indetto per celebrare il 1950· anniversario della redenzione. Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato pienamente consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli nell'episcopato, cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in stretto collegamento con quello della penitenza.

Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l'intimo cambiamento del cuore sotto l'influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta l'esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l'ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell'uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all'intera vita del cristiano.

In ciascuno di questi significati la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza soltanto attraverso la trasformazione interiore o conversione, che fruttifica nella vita mediante gli atti di penitenza.

Il documento-base del Sinodo (chiamato anche «Lineamenta»), preparato all'unico scopo di presentare il tema accentuandone alcuni aspetti fondamentali, ha consentito alle comunità ecclesiali, ovunque esistenti nel mondo, di riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una questione - quella della conversione e della riconciliazione - che interessa tutti, e di trarne, altresì, un rinnovato slancio per la vita e l'apostolato cristiano. La riflessione si è ulteriormente approfondita, in preparazione più immediata ai lavori sinodali, grazie all'«Instrumentum laboris», inviato tempestivamente ai vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero, i padri sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all'assise propriamente detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema stesso e le questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal dibattito, dallo studio comune, dall'assidua e accurata ricerca è scaturito un ampio e prezioso tesoro, che le «Propositiones» finali riassumono nella sua sostanza.

Lo sguardo del Sinodo non ignora gli atti di riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi inosservati nella loro quotidianità), che pur in varia misura servono a risolvere le tante tensioni, a superare i tanti conflitti e a vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo l'unità. Ma la preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una riconciliazione, per così dire, «fontale», operante nel cuore e nella coscienza dell'uomo.

Il carisma e, nel contempo, l'originalità della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a qualunque livello sia da effettuare, risiedono nel fatto che essa risale sempre a quella riconciliazione fontale. In forza, infatti, della sua missione essenziale, la Chiesa sente il dovere di giungere fino alle radici della lacerazione primigenia del peccato, per operarvi il risanamento e ristabilirvi, per così dire, una riconciliazione anch'essa primigenia, che sia principio efficace di ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha proposto mediante il Sinodo.

Di questa riconciliazione parla la Sacra Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Cor 5,20); ma dice, altresì, che essa è, anzitutto, un dono misericordioso di Dio all'uomo (Rm 5,11). La storia della salvezza - quella dell'intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi tempo - è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova famiglia di riconciliati.

La riconciliazione si fa necessaria, perché c'è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre forme di rottura nell'intimo dell'uomo e intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue più profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà, o parlare dell'una tacendo dell'altra.

Al tempo stesso, il Sinodo ha parlato della riconciliazione di tutta la famiglia umana e della conversione del cuore di ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo riconoscere e proclamare che l'unione degli uomini non può darsi senza un cambiamento interno di ciascuno. La conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone («Gaudium et Spes»,10). Quando la Chiesa proclama la lieta novella della riconciliazione, o propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un vero ruolo profetico, denunciando i mali dell'uomo nella loro sorgente contaminata, indicando la radice delle divisioni e infondendo la speranza di poter superare le tensioni e i conflitti per giungere alla fratellanza, alla concordia e alla pace a tutti i livelli e in tutti i ceti dell'umana società. Essa cambia una condizione storica di odio e di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a tutti il principio evangelico e sacramentale di quella riconciliazione «fontale», dalla quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione, anche a livello sociale.

Di tale riconciliazione, frutto della conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era accaduto al termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli stessi padri hanno voluto anche questa volta consegnare al vescovo di Roma, pastore universale della Chiesa e capo del collegio episcopale, nella sua qualità di presidente del Sinodo, le conclusioni del loro lavoro. Ho accettato, come un grave e grato dovere del mio ministero, il compito di attingere all'ingente dovizia del Sinodo per offrire al popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un messaggio dottrinale e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione. Tratterò, pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua missione riconciliatrice, nell'opera di conversione dei cuori per il rinnovato abbraccio fra l'uomo e Dio, fra l'uomo e il suo fratello, fra l'uomo e tutto il creato. Nella seconda parte sarà indicata la causa radicale di ogni lacerazione o divisione fra gli uomini e, prima di tutto, nei confronti di Dio: il peccato. Infine, segnalerò quei mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di suscitare la piena riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza, degli uomini fra di loro.

Il documento, che ora consegno ai figli della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad essa guardano con interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa risposta a quanto il Sinodo mi ha chiesto. Ma è anche - tengo a dichiararlo per soddisfare un debito di verità e di giustizia - opera del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste pagine, infatti, proviene da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione, dall'«Instrumentum laboris», dagli interventi nell'aula sinodale e nei «circuli minores» e, soprattutto, dalle sessantatré «Propositiones». Si trova qui il frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico, spirituale e liturgico è così ricco e venerando anche in ordine alla materia che qui ci interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria del Sinodo ha valutato in due importanti sedute i risultati e gli orientamenti dell'assise sinodale appena conclusa, ha messo in evidenza la dinamica delle suddette «Propositiones» e ha tracciato, poi, le linee ritenute più idonee per la stesura del presente documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro, mentre, fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel tesoro dottrinale e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per la vita di tanti uomini in quest'ora magnifica e difficile della storia.

Giova farlo - e risulta quanto mai significativo - mentre è ancor vivo il ricordo dell'anno santo, interamente vissuto nel segno della penitenza, conversione e riconciliazione. Che questa mia esortazione, affidata ai fratelli nell'episcopato e ai loro collaboratori presbiteri e diaconi, ai religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e alle donne di retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede personale, ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del mondo la pace e la fratellanza, la speranza e la gioia, valori che scaturiscono dal Vangelo accolto, meditato e vissuto giorno per giorno sull'esempio di Maria, madre del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose.


PRIMA PARTE
CONVERSIONE E RICONCILIAZIONE COMPITO E IMPEGNO DELLA CHIESA

I.

UNA PARABOLA DELLA RICONCILIAZIONE

5. All'inizio di questa esortazione apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria pagina di san Luca, che ho già cercato di illustrare in un precedente mio documento. Mi riferisco alla parabola del figlio prodigo.

Dal fratello che era perduto...

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta"», racconta Gesù nel mettere a fuoco la drammatica vicenda di quel giovane: l'avventurosa partenza dalla casa paterna, lo sperpero di tutti i suoi beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni tenebrosi della lontananza e della fame, ma, più ancora, della dignità perduta, dell'umiliazione e della vergogna, e infine, la nostalgia della propria casa, il coraggio di ritornarvi, l'accoglienza del padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli aveva conservato intatti l'affetto e la stima. Così l'aveva sempre atteso e ora lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di «colui che era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato».

L'uomo - ogni uomo - è questo figlio prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione; deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo, disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre. Come il padre della parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al suo arrivo e imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col quale si festeggia la riconciliazione.

Ciò che più spicca nella parabola è l'accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che ritorna: segno della misericordia di Dio, sempre pronto al perdono. Diciamolo subito: la riconciliazione è principalmente un dono del Padre celeste.

...al fratello rimasto a casa

6. Ma la parabola mette in scena anche il fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto. Egli rinfaccia al fratello più giovane i suoi sbandamenti e al padre l'accoglienza che gli ha riservato, mentre a lui, temperante e laborioso, fedele al padre e alla casa, non è stato mai concesso - dice - di far festa con gli amici. Segno che egli non capisce la bontà del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di se stesso e dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di rabbia, non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il banchetto non è ancora pienamente la festa dell'incontro e del ritrovamento.

L'uomo - ogni uomo - è anche questo fratello maggiore. L'egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.

La parabola del figlio prodigo è, anzitutto, l'ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio - che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell'evocare, con la figura del fratello maggiore, l'egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l'uomo dalla lontananza all'amicizia filiale con Dio, del quale riconosce l'infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell'altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull'incomprensione e l'ostilità tra fratelli.

Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l'appello in essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.

II.

ALLE FONTI DELLA RICONCILIAZIONE

Nella luce di Cristo riconciliatore

7. Come si deduce dalla parabola del figlio prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua iniziativa. Ma la nostra fede ci insegna che questa iniziativa si concretizza nel mistero di Cristo redentore, riconciliatore, liberatore dell'uomo dal peccato sotto tutte le sue forme. Lo stesso san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione l'incomparabile missione di Gesù di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio fatto uomo.

Anche noi possiamo partire da questo mistero centrale dell'economia della salvezza, punto-chiave della cristologia dell'Apostolo. «Se mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, - egli scrive ai Romani - molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5,10s). Poiché dunque «Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo», Paolo si sente ispirato ad esortare i cristiani di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,18.20).

Di tale missione riconciliatrice mediante la morte sulla croce, parlava in altri termini l'evangelista Giovanni nell'osservare che Cristo doveva morire «per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi» (Gv 11,52).

Ma ancora san Paolo ci consente di allargare la nostra visione dell'opera di Cristo a dimensioni cosmiche, quando scrive che in lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra. Giustamente si può dire di Cristo redentore che «nel tempo dell'ira è stato fatto riconciliazione», e che, se egli è «la nostra pace» (Ef 2,14), è anche la nostra riconciliazione.

Ben a ragione la sua passione e morte, sacramentalmente rinnovate nell'eucaristia, vengono chiamate dalla liturgia «sacrificio di riconciliazione» («Prex Eucharistica III»): riconciliazione con Dio e con i fratelli, se Gesù stesso insegna che la riconciliazione fraterna deve operarsi prima del sacrificio. E' legittimo, dunque, partendo da questi e da altri significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni sull'intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di riconciliatore. E' pertanto da proclamare ancora una volta la fede della Chiesa nell'atto redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, come causa della riconciliazione dell'uomo, nel suo duplice aspetto di liberazione dal peccato e di comunione di grazia con Dio.

E proprio dinanzi al quadro doloroso delle divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra gli uomini, invito a guardare al «mysterium crucis» come al più alto dramma, nel quale Cristo percepisce e soffre fino in fondo il dramma stesso della divisione dell'uomo da Dio, sì da gridare con le parole del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2), e attua, nello stesso tempo, la nostra riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci ricordare sempre quella dimensione «verticale» della divisione e della riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una visione di fede prevale sempre sulla dimensione «orizzontale», cioè sulla realtà della divisione e sulla necessità della riconciliazione tra gli uomini. Noi sappiamo, infatti, che una tale riconciliazione tra loro non è e non può essere che il frutto dell'atto redentivo di Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno del peccato, ristabilire l'alleanza con Dio e abbattere così il muro di separazione, che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.

La Chiesa riconciliatrice

8. Ma - come diceva san Leone Magno parlando della passione di Cristo - «tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell'efficacia di ciò che egli compie al presente». Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua umanità, nell'efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme strumento di salvezza.

Ciò afferma san Paolo, quando scrive che Dio ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla sua opera riconciliatrice. «Dio - egli dice - ci ha affidato il ministero della riconciliazione... e la parola della riconciliazione» (2Cor 5,18s).

Nelle mani e sulla bocca degli apostoli, suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un ministero di riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare, in virtù del potere di agire «in persona Christi». Ma anche a tutta la comunità dei credenti, all'intera compagine della Chiesa è affidata la parola di riconciliazione, il compito cioè di fare quanto è possibile per testimoniare la riconciliazione e per attuarla nel mondo.

Si può dire che anche il Concilio Vaticano II, nel definire la Chiesa come «sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» e nel segnalare come sua funzione quella di ottenere la «piena unità in Cristo» per gli «uomini oggi più strettamente congiunti da vari vincoli» («Lumen Gentium», 1), riconosceva che essa deve tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena riconciliazione. In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel compito per lei centrale della riconciliazione dell'uomo: con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato; e questo in modo permanente, perché - come ho detto altra volta - «la Chiesa è per sua natura sempre riconciliante».

Riconciliatrice è la Chiesa in quanto proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre fatto nella sua storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme fino all'ultimo Sinodo e al recente giubileo della redenzione. L'originalità di questa proclamazione sta nel fatto che per la Chiesa la riconciliazione è strettamente collegata alla conversione del cuore: questa è la via necessaria verso l'intesa fra gli esseri umani.

Riconciliatrice è la Chiesa anche in quanto mostra all'uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta quadruplice riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della conversione del cuore e della vittoria sul peccato, sia questo l'egoismo, l'ingiustizia, la prepotenza o lo sfruttamento altrui, l'attaccamento ai beni materiali o la ricerca sfrenata del piacere. I mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della parola di Dio, della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali eccelle, proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo chiamare il sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul quale ritornerò in seguito.

La Chiesa riconciliata

9. Il mio venerato predecessore Paolo VI ha avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere evangelizzatrice, la Chiesa deve cominciare col mostrarsi essa stessa evangelizzata, aperta cioè al pieno e integrale annuncio della buona novella di Gesù Cristo per ascoltarla e metterla in pratica. Anch'io, raccogliendo in un documento organico le riflessioni della IV assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si catechizza nella misura in cui è operatrice di catechesi.

Non esito ora a riprendere qui il confronto, per quanto si applica al tema che sto trattando, per affermare che la Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare con l'essere una Chiesa riconciliata. Sotto questa semplice e lineare espressione soggiace la convinzione che la Chiesa, per annunciare e proporre sempre più efficacemente al mondo la riconciliazione, deve diventare sempre più una comunità (fosse anche il «piccolo gregge» dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti nell'impegno di convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini nuovi nello spirito e nella pratica della riconciliazione.

Dinanzi ai nostri contemporanei, così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell'opinabile, e cercare invece di essere uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana, secondo l'antica massima: «In dubiis libertas, in necessariis unitas, in omnibus caritas».

Secondo questo stesso criterio, la Chiesa deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per essere interamente riconciliata, essa sa di dover proseguire nella ricerca dell'unità fra coloro che si onorano di chiamarsi cristiani, ma sono separati tra loro, anche come Chiese o Comunioni, e dalla Chiesa di Roma. Questa cerca un'unità che, per esser frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili. L'unità deve essere il risultato di una vera conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo teologico e delle relazioni fraterne, della preghiera, della piena docilità all'azione dello Spirito Santo, che è anche Spirito di riconciliazione.

Infine la Chiesa, per dirsi pienamente riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di più nel portare il Vangelo a tutte le genti, promovendo il «dialogo della salvezza», a quei vasti ambienti dell'umanità nel mondo contemporaneo che non condividono la sua fede e che addirittura, a causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la osteggiano e perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere con san Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

In ogni caso, la Chiesa promuove una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la riconciliazione né l'unità fuori o contro la verità.

III.

L'INIZIATIVA DI DIO E IL MINISTERO DELLA CHIESA

10. Comunità riconciliata e riconciliatrice, la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del suo dono e della sua missione di riconciliazione si trova l'iniziativa, piena di amore compassionevole e di misericordia, di quel Dio che è amore e che per amore ha creato gli uomini: li ha creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di loro.

La riconciliazione viene da Dio

Dio è fedele al suo disegno eterno anche quando l'uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando l'obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l'uomo, invece di rispondere con amore all'amore di Dio, gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell'uomo, Dio rimane fedele nell'amore. Certo, il racconto del giardino dell'Eden ci fa meditare sulle funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel disordine interno all'uomo e nella rottura dell'armonia tra l'uomo e la donna, tra fratello e fratello. Anche la parabola evangelica dei due figli che si allontanano, in diverso modo, dal padre, scavando un abisso fra di loro, è significativa. Il rifiuto dell'amore paterno di Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice delle divisioni dell'umanità.

Ma noi sappiamo che Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola, non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione li imprigiona nell'isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione.

Questa iniziativa di Dio si concretizza e manifesta nell'atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il ministero della Chiesa.

Infatti, secondo la nostra fede, il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra degli uomini, è entrato nella storia del mondo, assumendola e ricapitolandola in sé. Egli ci ha rivelato che Dio è amore e ci ha dato il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) dell'amore, comunicandoci al tempo stesso la certezza che la via dell'amore si dischiude a tutti gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la fratellanza universale. Vincendo, con la sua morte sulla croce, il male e la potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore egli ha portato la salvezza a tutti ed è diventato per tutti «riconciliazione». In lui Dio ha riconciliato l'uomo con sé.

La Chiesa, continuando l'annuncio di riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della Galilea e di tutta la Palestina, non cessa di invitare l'umanità intera a convertirsi e a credere alla buona novella. Essa parla in nome di Cristo, facendo suo l'appello dell'apostolo Paolo, che abbiamo già ricordato: «Noi fungiamo... da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

Chi accetta questo appello entra nell'economia della riconciliazione e fa l'esperienza della verità contenuta in quell'altro annuncio di san Paolo, secondo il quale Cristo «è nostra pace, egli che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e due con Dio» (Ef 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il superamento della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto dell'Antico Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte della nuova alleanza, esso contiene però l'affermazione della nuova universalità spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il sacrificio del suo Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed esclusioni di sorta, per tutti coloro che si convertono e credono a Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a godere i frutti di questa riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni popolo.

La Chiesa, grande sacramento di riconciliazione

11. La Chiesa ha la missione di annunciare questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel mondo. Sacramento, cioè segno e strumento di riconciliazione, è la Chiesa a diversi titoli, di diverso valore, ma tutti convergenti nell'ottenere ciò che la divina iniziativa di misericordia vuol concedere agli uomini.

Lo è, anzitutto, per la sua stessa esistenza di comunità riconciliata, che testimonia e rappresenta nel mondo l'opera di Cristo. Lo è, poi, per il suo servizio di custode e di interprete della Sacra Scrittura, che è lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di generazione in generazione il disegno d'amore di Dio e indica a ciascuno le vie dell'universale riconciliazione in Cristo. Lo è, infine, per i sette sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno «fanno la Chiesa». Infatti, poiché commemorano e rinnovano il mistero della pasqua di Cristo, tutti i sacramenti sono sorgente di vita per la Chiesa e, nelle sue mani, sono strumento di conversione a Dio e di riconciliazione degli uomini.

Altre vie di riconciliazione

12. La missione riconciliatrice è propria di tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa alla piena partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con gli angeli e i santi, i quali contemplano e adorano il Dio tre volte santo. Chiesa del cielo, Chiesa della terra, Chiesa del purgatorio sono misteriosamente unite in questa cooperazione con Cristo nel riconciliare il mondo con Dio.

La prima via di questa azione salvifica è quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di Cristo e della Chiesa, e i santi, giunti ormai alla fine del cammino terreno e in possesso della gloria di Dio, con la loro intercessione sostengono i loro fratelli pellegrini nel mondo, nell'impegno di conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta, di azione per far crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel mistero della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella sua forma più profonda e più fruttuosa per la comune salvezza.

C'è poi un'altra via: quella della predicazione. Discepola dell'unico maestro Gesù Cristo, la Chiesa a sua volta, come madre e maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità della conversione, a invitare e a chiedere agli uomini di «lasciarsi riconciliare». In realtà, è questa la sua missione profetica nel mondo d'oggi, come in quello di ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesù. Come lui, la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l'invito alla speranza, che vengono dalla croce.

C'è, ancora, la via spesso così difficile e aspra dell'azione pastorale per riportare ogni uomo - chiunque sia e dovunque si trovi - sul cammino, a volte lungo, del ritorno al Padre nella comunione con tutti i fratelli.

C'è, infine, la via della testimonianza, quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice consapevolezza della Chiesa: quella di essere in sé «indefettibilmente santa» («Lumen Gentium», 39), ma anche bisognosa di andare «di giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga», giacché, per i nostri peccati, talvolta «il suo volto rifulge meno» agli occhi di chi la guarda. Questa testimonianza non può non assumere due aspetti fondamentali: essere segno di quella carità universale che Gesù Cristo ha lasciato in eredità ai suoi seguaci, come prova dell'appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti sempre nuovi di conversione e di riconciliazione all'interno e all'esterno della Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel mondo intero. Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente per far nascere quella che il mio predecessore Paolo VI chiamava la «civiltà dell'amore».


SECONDA PARTE
L'AMORE PIU' GRANDE DEL PECCATO

Il dramma dell'uomo

13. Come scrive l'apostolo san Giovanni, «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati» (1Gv 1,8s). Queste parole ispirate, scritte agli albori della Chiesa, avviano meglio di qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul peccato, che è strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse colgono il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto parte integrante della verità sull'uomo, ma lo inseriscono subito nell'orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la verità dell'amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta soprattutto col perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san Giovanni scrive poco oltre che «qualunque cosa (il nostro cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Riconoscere il proprio peccato, anzi - andando ancora più a fondo nella considerazione della propria personalità - riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. E' l'esperienza esemplare di Davide, che dopo «aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan, esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto» (Sal 51,5s). Del resto, Gesù mette sulla bocca e nel cuore del figlio prodigo quelle significative parole: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18.21).

In realtà, riconciliarsi con Dio suppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è caduti. Suppone e include, dunque, il fare penitenza nel senso più completo del termine: pentirsi, manifestare il pentimento, assumere l'atteggiamento concreto del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre. Questa è una legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione particolare in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione, infatti, non può essere svolto solo in termini astratti.

Nella condizione concreta dell'uomo peccatore, in cui non può esservi conversione senza riconoscimento del proprio peccato, il ministero di riconciliazione della Chiesa interviene in ogni caso con una finalità schiettamente penitenziale, cioè per riportare l'uomo al «cognoscimento di sé», secondo l'espressione di santa Caterina da Siena, al distacco dal male, al ristabilimento dell'amicizia con Dio, al riordinamento interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l'ambito della Chiesa e dei credenti, il messaggio e il ministero della penitenza sono rivolti a tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno di conversione e di riconciliazione.

Per adempiere adeguatamente tale ministero penitenziale, è necessario anche valutare, con gli «occhi illuminati» della fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo di divisione e di rottura non solo all'interno di ogni uomo, ma anche nelle varie cerchie in cui egli vive: familiare, ambientale, professionale, sociale, come tante volte si può sperimentalmente constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la città di Babele e la sua torre. Intenti a costruire ciò che doveva essere a un tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono più dispersi di prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci di consenso e di convergenza.

Perché fallì l'ambizioso progetto? Perché «si affaticarono invano i costruttori»? Perché gli uomini avevano posto quale segno e garanzia dell'auspicata unità soltanto un'opera delle loro mani, dimentichi dell'azione del Signore. Essi avevano puntato sulla sola dimensione orizzontale del lavoro e della vita sociale, noncuranti di quella verticale, per la quale si sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e protesi verso di lui come fine ultimo del loro cammino.

Ora si può dire che il dramma dell'uomo d'oggi, come dell'uomo di tutti i tempi, consista proprio nel suo carattere babelico.

I.

IL MISTERO DEL PECCATO

14. Se leggiamo la pagina biblica della città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la confrontiamo con l'altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell'iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell'uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell'umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell'uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo.

La disobbedienza a Dio

Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell'Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un'esclusione di Dio per l'opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l'ingannevole pretesa di essere «come lui» (Gen 3,5). Nel racconto di Babele l'esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell'ambito del disegno operativo e associativo dell'uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell'Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l'essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all'uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.

Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo. Disobbedienza dell'uomo, che - con un atto della sua libertà - non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge.

La divisione tra i fratelli

15. Nelle narrazioni bibliche sopra ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i fratelli. Nella descrizione del «primo peccato», la rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell'amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi ci mostrano l'uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore l'uno contro l'altra; poi il fratello che, ostile al fratello, finisce col togliergli la vita. Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già cominciata col primo peccato e ora giunta all'estremo nella sua forma sociale.

Chi vuole indagare il mistero del peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l'atto di disobbedienza di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l'uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l'uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. E' una legge e un fatto oggettivo, che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov'è facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.

Il mistero del peccato si compone di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali.

Peccato personale e peccato sociale

16. Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest'uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa.

Atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l'intelligenza.

A questo punto dobbiamo chiederci a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale. L'espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi significati.

Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. E', questa, l'altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva, eleva il mondo». A questa legge dell'ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un'anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c'è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull'intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.

Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un'aggressione diretta al prossimo e - più esattamente, in base al linguaggio evangelico - al fratello. Essi sono un'offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l'amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». E' egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. E' sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società.

La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l'altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l'espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.

Ciò premesso nel modo più chiaro e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile un'accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in alcuni ambienti, la quale nell'opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a peccato personale, più o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema, la società, le strutture, l'istituzione.

Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l'accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.

Una situazione - e così un'istituzione, una struttura, una società - non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o - come più spesso avviene, purtroppo - per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace - per non dire controproducente -, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione.

Mortale, veniale

17. Ma ecco, nel mistero del peccato, una nuova dimensione, sulla quale l'intelligenza dell'uomo non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. E' una questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato è grave nell'offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull'uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.

Già nell'Antico Testamento, per non pochi peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme di impudicizia, di idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava che il reo doveva essere «eliminato dal suo popolo», ciò che poteva anche significare condannato a morte. Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio.

Anche in riferimento a quei testi la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna, oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesù stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e impressionanti.

In un testo della sua prima lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs thánaton») in contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte («mè pròs thánaton»). Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o «vita eterna», che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio, la comunione e l'intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler accentuare l'incalcolabile gravità di ciò che è l'essenza del peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell'apostasia e nell'idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell'equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi. Ma l'apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di essere «nato da Dio» per la venuta del Figlio: c'è in lui una forza che lo preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo tocca». Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c'è in lui la speranza della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera congiunta dei fratelli.

In un'altra pagina del Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31s), Gesù stesso parla di una «bestemmia contro lo Spirito Santo», la quale è «irremissibile», poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all'amore del Padre delle misericordie.

Si tratta, beninteso, di espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza, per cui l'uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione. E' da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio, il quale, d'altra parte, nel suo amore misericordioso è più grande del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché - come scrive san Tommaso d'Aquino - «non c'è da disperare della salvezza di nessuno in questa vita, considerata l'onnipotenza e la misericordia di Dio».

Ma dinanzi al problema dell'incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti di salutare «timore e tremore», come suggerisce san Paolo; mentre l'ammonimento di Gesù circa il peccato che non è «remissibile» conferma l'esistenza di colpe, che possono attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».

Alla luce di questi e altri testi della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant'Agostino, fra gli altri, parla di «letalia» o «mortifera crimina», opponendoli a «venialia», «levia» o «quotidiana». Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d'Aquino a formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta costante nella Chiesa.

Nel definire e distinguere i peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l'uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall'uomo contro questo principio vitale. E quando, «per mezzo del peccato, l'anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto conseguenza del peccato mortale.

Considerando, inoltre, il peccato sotto l'aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).

Se poi si guarda alla materia del peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l'idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell'azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.

Cogliamo qui il nucleo dell'insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. E' doveroso aggiungere - come è stato anche fatto nel Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.

Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell'Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell'esperienza umana di tutti i tempi. L'uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l'amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell'eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».

Sennonché l'uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un'inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.

Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L'uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l'uomo stesso con un'oscura e potente forza di distruzione.

Durante l'assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.

Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» - come oggi si suol dire - contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.

Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall'altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.

Perdita del senso del peccato

18. Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un'acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. E' ciò che si suol chiamare il senso del peccato.

Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell'uomo e ne è come il termometro. E' legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l'uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato.

Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l'influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. «Abbiamo noi un'idea giusta della coscienza»? - domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli -. «Non vive l'uomo contemporaneo sotto la minaccia di un'eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un'"anestesia" delle coscienze?». Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo» («Gaudium et Spes», 16), è «strettamente legata alla libertà dell'uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell'uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio». E' inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».

Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.

Il «secolarismo», il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell'ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di «perdere la propria anima», non può non minare il senso del peccato. Quest'ultimo si ridurrà tutt'al più a ciò che offende l'uomo. Ma proprio qui si impone l'amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l'uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l'uomo. In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un germe divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell'uomo. E' vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell'uomo e dei valori umani, se manca il senso dell'offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.

Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell'apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un'indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già accennato - con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l'individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull'uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.

Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un'etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l'etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrisecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di valori morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell'etica cristiana», ma «piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell'atteggiamento morale». L'effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l'affermare che il peccato c'è, ma non si sa chi lo commette.

Svanisce, infine, il senso del peccato quando - come può avvenire nell'insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare - esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.

La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l'interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell'obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell'uno o nell'altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l'offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell'aspirazione all'autonomia personale; sia dall'assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell'umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell'ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall'oscuramento dell'idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell'uomo.

Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall'accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.

Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull'uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.

E' lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell'alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della penitenza.

II.

«MYSTERIUM PIETATIS»

19. Per conoscere il peccato era necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla rivelazione dell'economia della salvezza; esso è «mysterium iniquitatis». Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che - usando una bella e suggestiva espressione di san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell'uomo.

Troviamo questa espressione in una delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi per un'ispirazione irrompente. L'apostolo, infatti, in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per spiegare il significato dell'ordinamento della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella «chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: «E' senza dubbio grande il mistero della pietà...» (1Tm 3,15s).

Senza tradire minimamente il senso letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica dell'apostolo a una più completa visione del ruolo che la verità da lui annunciata ha nell'economia della salvezza. «E' grande davvero - ripetiamo con lui - il mistero della pietà», perché vince il peccato.

Ma che cos'è nella concezione paolina questa «pietà»?

E' il Cristo stesso

20. E' profondamente significativo che, per presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno cristologico, che - secondo la sentenza di autorevoli studiosi - era usato nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell'inno, dense di contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli angeli, fatto più grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.

Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell'incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell'inno, ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell'insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell'infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell'anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.

Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare. Non si tratta, dunque, di un'impeccabilità acquisita per virtù propria o, addirittura, insita nell'uomo, come pensavano gli gnostici. E' un risultato dell'azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: «Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come propongono alcuni commentatori - Gesù, il Figlio di Dio, allora possiamo dire che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di pietà.

Lo sforzo del cristiano

21. Ma c'è nel «mysterium pietatis» un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà («eusébeia») significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale.

Anche in questo senso possiamo affermare con san Paolo che «è grande il mistero della pietà». Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l'iniquità e il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette peccato»; ma l'espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del Cristo, come da un'interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente «nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.

Verso una vita riconciliata

22. Così la parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l'intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità, anche gli uomini d'oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a ciascuno personalmente, l'ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (1Gv 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato nell'iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.

Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla disperazione, gli uomini d'oggi possono sentirsi sollevati dalla divina promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.

Il mistero della pietà, da parte di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo ripeto ancora - è infinitamente ricco. Come ho detto nell'enciclica dedicata al tema della divina misericordia, essa è un amore più potente del peccato, più forte della morte. Quando ci accorgiamo che l'amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora più premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel riconoscimento: «Sì, il Signore è ricco di misericordia», e diciamo perfino: «Il Signore è misericordia». Il mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata.


TERZA PARTE
LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

Promozione della penitenza e della riconciliazione

23. Suscitare nel cuore dell'uomo la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell'opera redentrice del suo fondatore divino. E', questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.

A questo ministero, fondato e illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa che l'uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l'uomo segnato dal peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama: «Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,5); ma prega anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della divina misericordia: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non morirai» (2Sam 12,13).

La Chiesa si trova, dunque, di fronte all'uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e da esso toccato in ciò che possiede di più intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.

La funzione riconciliatrice della Chiesa deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell'umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione fra l'uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione.

Non c'è bisogno di ripetere quanto ho già detto circa l'importanza di questo «ministero della riconciliazione», e della relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.

Parlare di pastorale della penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all'insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Più concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti - pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e preghiera -, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce così nel cammino della piena riconciliazione.

I padri del Sinodo, come rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi più pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell'esortazione apostolica l'apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.

Ritengo, pertanto, di mettere in luce l'essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione rilevandone, con l'assemblea del Sinodo, i due punti seguenti: 1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione; 2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.

I.

MEZZI E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

24. Per promuovere la penitenza e la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo chiamare il metodo del dialogo.

Il dialogo

25. Il dialogo per la Chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che «la Chiesa, in virtù della missione che ha di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo», aggiunge che essa deve essere capace di «stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes», 92), come anche di «stabilire un dialogo con l'umana società» («Christus Dominus», 13).

Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam suam», in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza. La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini - quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e quelli che le sono estranei - alla conversione e alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza, operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L'autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini del nostro tempo.

Il dialogo pastorale in vista della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.

Alla base di tale dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all'interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di carità; ma è, altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che rischiano di diventare fattori di divisione.

L'invito accorato e fermo, già rivolto dal mio predecessore in vista dell'anno santo 1975, vale anche per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sì che le normali tensioni non risultino dannose all'unità della Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell'interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce l'ascolto reciproco, il rispetto e l'astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che all'interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. E' chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di riconciliazione, senza l'attenzione al magistero e l'accettazione di esso.

Così impegnata fattivamente nella ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l'appello alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo - alle altre Chiese, con le quali non c'è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.

Alla luce del Concilio e del magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera comune e nella comune docilità all'unico Signore - permette di rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell'azione ecumenica; dall'altra, la convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell'ora voluta dalla divina provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l'avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell'unità e con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione preliminare almeno all'incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza della vita eterna per l'anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l'ascolto della Parola, lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.

Nella misura in cui la Chiesa è capace di generare la concordia attiva - l'unità nella varietà - al suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l'espressiva definizione di sant'Agostino, «mondo riconciliato». Allora potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.

Nella consapevolezza della smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l'equilibrio e l'armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la ricomposizione della concordia.

E' un complesso e delicato dialogo di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l'opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per interessi occulti - poiché non ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria», mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che come «nella guerra due parti insorgono l'una contro l'altra», così «nella questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare», e in ciò «si trova il vero senso del dialogo per la pace».

Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell'indispensabile dialogo e proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia (...) della vita internazionale», sono chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.

Resta da ribadire che da parte della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga - e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore analogico - non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso dell'intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l'annuncio della verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la catechesi e la penitenza.

La Catechesi

26. Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un'adeguata catechesi circa le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle «Propositiones» conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.

Alla radice della raccomandazione del Sinodo, così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l'azione pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?

Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull'insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l'alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l'offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni concrete.

Dai pastori della Chiesa si attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco «metanoia», che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il «rientrare in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e sociali.

E' un primo valore della penitenza che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della «metanoia» appaiono nella significativa consegna data da Gesù: «Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu gli perdonerai» (Lc 17,3s). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto la conversione, lungi dall'essere un sentimento superficiale, è un vero capovolgimento dell'anima.

Un terzo valore è contenuto nella penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di pentimento si manifestano all'esterno: è il fare penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine «metanoia», come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici. Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l'equilibrio e l'armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.

Insomma, una catechesi sulla penitenza, la più completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento sociale sono così in contrasto col triplice valore, già illustrato: l'uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. E' chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata dall'amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l'«uomo vecchio», perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della povertà, della pazienza, dell'austerità e, si può dire, della vita penitente.

Dai pastori della Chiesa si attende ancora - come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l'io più intimo dell'uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e sulla libertà religiosa. Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell'uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene», ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi «una forza distruttrice dell'umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».

Anche su altri punti di non minore rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.

  • Sul senso del peccato, che, come ho detto, si è non poco attenuato nel nostro mondo.
  • Sulla tentazione e le tentazioni: lo stesso Signore Gesù, Figlio di Dio, «provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), volle esser tentato dal maligno, per indicare che, come lui, anche i suoi sarebbero sottoposti alla tentazione, nonché per mostrare come bisogna comportarsi nella tentazione. Per chi supplica il Padre di non esser tentato al di sopra delle proprie forze e di non soccombere alla tentazione, per chi non si espone alle occasioni, l'esser sottoposto a tentazione non significa aver peccato, ma è, piuttosto, occasione per crescere nella fedeltà e nella coerenza attraverso l'umiltà e la vigilanza.
  • Sul digiuno: che può praticarsi in forme antiche e nuove, come segno di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà con gli affamati e i sofferenti.
  • Sull'elemosina: che è mezzo per render concreta la carità, condividendo ciò di cui si dispone con colui che soffre le conseguenze della povertà.
  • Sul nesso intimo, che collega il superamento delle divisioni nel mondo alla comunione piena con Dio e fra gli uomini, scopo escatologico della Chiesa.
  • Sulle circostanze concrete, in cui si deve operare la riconciliazione (nella famiglia, nella comunità civile, nelle strutture sociali) e, particolarmente, sulle quattro riconciliazioni che riparano le quattro fratture fondamentali: riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato.

Né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell'uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l'uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l'aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un'eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.

Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare, l'importanza e l'efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.

Per la grande rilevanza che ha la riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.

I sacramenti

27. Il secondo mezzo di istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, così ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.

Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico, che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). E' morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto. E' dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall'eliminare, arricchisce l'elemento penitenziale già presente nel battesimo, che Gesù stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»: un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.

Parimenti la cresima, anche in quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all'età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.

La definizione, che sant'Agostino dà dell'eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis», mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale («pietas») e di riconciliazione comunitaria («unitas» e «caritas»), che derivano dall'essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. E' necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole di peccato grave, può ricevere l'eucaristia prima di aver ottenuto il perdono di Dio. Come si legge nell'istruzione «Eucharisticum mysterium», la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l'insegnamento del Concilio Tridentino: «L'eucaristia sia proposta ai fedeli anche «come antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il precetto: L'uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».

Il sacramento dell'ordine è destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di dispersione.

Il sacramento del matrimonio, esaltazione dell'amore umano sotto l'azione della grazia, è segno, sì, dell'amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e distruggono l'amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.

L'unzione degli infermi, infine, nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell'ora finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema riconciliazione col Padre.

Tuttavia, fra i sacramenti ce n'è uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell'accusa dei peccati che in esso vien fatta, più propriamente può ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l'importanza che ha in ordine alla riconciliazione.

II.

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

28. In tutte le fasi e a tutti i livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall'atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza.

Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha tenuto conto dell'affermazione pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un'approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell'umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all'intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.

Giova rinnovare e riaffermare questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d'ombra e di silenzio, minacciata com'è dalla già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della confessione, da un lato, l'oscuramento della coscienza morale e religiosa, l'attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall'altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l'abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.

Conviene, pertanto, ricordare le principali dimensioni di questo grande sacramento.

«A chi rimetterete»

29. Il primo dato fondamentale ci è offerto dai libri santi dell'Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che più spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio dell'Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo. Così, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell'Esodo, rievoca l'azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38s).

Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, venendo come l'Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo, appare come colui che ha il potere sia di giudicare sia di perdonare i peccati, e che è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare.

Ora, questo potere di rimettere i peccati Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi stessi all'insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22; Mt 18,18). E', questa, una delle più formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come trasmissibile - così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori - ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del Vangelo e di ministri dell'opera redentrice di Cristo.

Qui si rivela in tutta la sua grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.

Come all'altare dove celebra l'eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera «in persona Christi». Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell'uomo, pontefice misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.

Questo è, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute, valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere l'azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, «celebrare» la sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole «D'ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

Per l'efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresì, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell'orazione vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.

Tutto questo corredo di doti umane, di virtù cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le scienze dell'uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all'appuntamento con i fedeli al confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e pastorali!

A questo proposito non posso non evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli più noti che la Chiesa ha iscritto nell'albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all'innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.

Il Sacramento del perdono

30. Dalla rivelazione del valore di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa - quale dono della sua benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti - uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo.

La pratica di questo sacramento, per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di sviluppo, come attestano i più antichi sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l'insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell'assoluzione sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro conversione con la carità, con l'esempio e la preghiera» («Lumen Gentium», 11). E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.

La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo «Rito della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo.

Alcune convinzioni fondamentali

31. Le menzionate verità, ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones», possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.

I. La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e deve servire, secondo l'intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione più profonda della natura del sacramento della penitenza; verso un'accoglienza di esso più nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso dall'amore misericordioso del Signore.

II. La seconda convinzione riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è, secondo la più antica tradizionale concezione, una specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, più che di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore gli impone e ne riceve l'assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall'antichità cristiana, «medicina salutis». «Io voglio curare, non accusare», diceva sant'Agostino riferendosi all'esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l'esperienza del peccato non degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto medicinale del sacramento, al quale l'uomo contemporaneo è forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell'intimo del peccatore, per poterlo giudicare edassolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l'accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d'essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.

III. La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all'integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell'intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l'esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c'è», ma «io ho peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l'atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un'ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.

Ma l'atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l'amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l'anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae», 6c).

Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.

Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l'accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell'incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L'accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E' il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l'accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall'ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.

L'altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l'assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell'antico e nel nuovo «Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l'imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. E' il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l'innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia più forte della colpa e dell'offesa», come ebbi a definirla nell'enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può perdonare. Perciò, l'assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell'intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.

La soddisfazione è l'atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l'assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano - vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell'impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un'esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l'idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l'assoluzione rimane nel cristiano una zona d'ombra, dovuta alle ferite del peccato, all'imperfezione dell'amore nel pentimento, all'indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell'umile, ma sincera soddisfazione.

IV. Resta da fare un breve accenno ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è più personale e intimo di questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C'è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide, rimproverato dal profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui: tutto ha luogo soltanto fra l'uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l'intera Chiesa - quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del sacramento l'individualità e l'ecclesialità, che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente quella dell'«Ordo paenitentiae» promulgata da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere più significativi nella sua celebrazione.

V. E' da sottolineare, poi, che il frutto più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato - un mondo riconciliato!

VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare un'ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure - e dobbiamo esserne - i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza. La celebrazione dell'eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità, di cui egli è pastore.

Ma aggiungo pure che, persino per essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti. Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.

A sua volta, l'esperienza diventa e deve diventare oggi uno stimolo all'esercizio diligente, regolare, paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli nell'episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi è stata data» mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.

Le forme della celebrazione

32. Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, l'«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma - riconciliazione dei singoli penitenti - costituisce l'unico modo normale e ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o essere trascurata. La seconda - riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari del sacramento, raggiunge la prima forma nell'atto sacramentale culminante, che è la confessione e l'assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La terza, invece - riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale - riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un'apposita disciplina.

La prima forma consente la valorizzazione degli aspetti più propriamente personali - ed essenziali - che son compresi nell'itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l'insieme stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di «soddisfazione», ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale più rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e riammissione all'amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. E' certo, dunque, che la decisione e l'impegno personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima forma.

La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero sufficiente di confessori.

E' naturale, pertanto, che i criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.

Sarà bene anche ricordare che, per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.

Pur sapendo e insegnando che i peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali -, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro «l'occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito» («Ordo Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.

La cura dell'aspetto celebrativo, con particolare riferimento all'importanza della parola di Dio, letta, richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l'altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali il pastore d'anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi ricorre a lui.

La celebrazione del sacramento con assoluzione generale

33. Nel nuovo ordinamento liturgico e, più recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico («Codex Iuris Canonici», can. 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al «rito della riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale». Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo di interpretazione arbitraria.

E' opportuno riflettere in maniera più approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesù, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha ribadito in una delle sue «Propositiones» l'immutato insegnamento, che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con cui essa ha codificato l'antica prassi penitenziale: la confessione individuale e integra dei peccati con l'assoluzione egualmente individuale costituisce l'unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell'insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.

Vi è, poi, una motivazione di ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave necessità», fermo restando l'obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un'altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell'ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l'uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un'autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l'uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all'abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori rimane l'obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima. Per i fedeli l'uso della terza forma di celebrazione comporta l'obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l'esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all'assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell'obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell'assoluzione.

Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell'incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre - ripeto - sono le une e le altre - i sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità.

Questa è la ragione della legge della Chiesa.

Alcuni casi più delicati

34. Ritengo di dover fare a questo punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto trattare - per quanto gli era possibile farlo -, contemplandolo anche in una delle «Propositiones». Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.

Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L'altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste.

Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell'esortazione apostolica «Familiaris Consortio», per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che convivono irregolarmente.

Al tempo stesso, sento il vivo dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell'ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell'ora che solo la Provvidenza conosce.


AUSPICIO CONCLUSIVO

35. Al termine di questo documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l'esortazione che il primo vescovo di Roma, in un'ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare «ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili». L'apostolo raccomandava: «Siate tutti concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione». E concludeva con una parola di incoraggiamento e di speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?».

Oso riallacciare la mia esortazione, in un'ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui «presiedette alla carità» di fronte al mondo intero. Anch'io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: «Siate tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene». E aggiungeva: «E' meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1Pt 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua «lieta novella»: il nuovo comandamento dell'amore vicendevole; l'anelito e l'impegno all'unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle offese; l'amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e trascendente dell'etica cristiana o, meglio e più profondamente, della spiritualità dell'alleanza nuova in Gesù Cristo.

Affido al Padre, ricco di misericordia, affido al Figlio di Dio, fatto uomo come nostro redentore e riconciliatore, affido allo Spirito Santo, sorgente di unità e di pace, questo mio appello di padre e di pastore alla penitenza e alla riconciliazione. Voglia la Trinità santissima e adorabile far germinare nella Chiesa e nel mondo il piccolo seme, che in quest'ora consegno alla terra generosa di tanti cuori umani.

Perché ne provengano in un giorno non lontano copiosi frutti, vi invito tutti a rivolgervi con me al cuore di Cristo, segno eloquente della divina misericordia, «propiziazione per i nostri peccati», «nostra pace e riconciliazione», per attingervi la spinta interiore verso la detestazione del peccato e la conversione a Dio, e trovarvi la benignità divina che risponde amorosamente al pentimento umano.

Vi invito pure a rivolgervi con me al cuore immacolato di Maria, madre di Gesù, nella quale «si è operata la riconciliazione di Dio con l'umanità (...), si è compiuta l'opera della riconciliazione, perché ella ha ricevuto da Dio la pienezza della grazia in virtù del sacrificio redentore di Cristo». In verità, Maria è diventata «l'alleata di Dio», in virtù della sua maternità divina, nell'opera della riconciliazione.

Alle mani di questa Madre, il cui «fiat» segnò l'inizio di quella «pienezza dei tempi», nella quale fu attuata da Cristo la riconciliazione dell'uomo con Dio, e al suo cuore immacolato - al quale abbiamo ripetutamente affidato l'intera umanità, turbata dal peccato e straziata da tante tensioni e conflitti - affido ora in special modo questa intenzione: che, per la sua intercessione, l'umanità stessa scopra e percorra la via della penitenza, l'unica che potrà condurla alla piena riconciliazione.

A tutti voi, che con spirito di ecclesiale comunione nell'obbedienza e nella fede, vorrete accogliere le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell'anno 1984, settimo del mio Pontificato.

 

 

Pastores dabo vobis

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POST-SINODALE
PASTORES DABO VOBIS
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA FORMAZIONE DEI SACERDOTI
NELLE CIRCOSTANZE ATTUALI

 

Venerati Fratelli e diletti Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione

INTRODUZIONE

« Vi darò Pastori secondo il mio cuore ».1

Con queste parole del profeta Geremia Dio promette al suo popolo di non lasciarlo mai privo di pastori che lo radunino e lo guidino: « Costituirò sopra di esse (ossia sulle mie pecore) pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi ».2

La Chiesa, popolo di Dio, sperimenta sempre la realizzazione di questo annuncio profetico e nella gioia continua a rendere grazie al Signore. Essa sa che Gesù Cristo stesso è il compimento vivo, supremo e definitivo della promessa di Dio: « Io sono il buon pastore ».3

Egli, « il Pastore grande delle pecore »,4 ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio.5 In particolare, senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l'obbedienza al comando di Gesù: « Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » 6 e « Fate questo in memoria di me »,7 ossia il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo.

Nella fede sappiamo che la promessa del Signore non può venir meno. Proprio questa promessa è la ragione e la forza che fa gioire la Chiesa di fronte alla fioritura e alla crescita numerica delle vocazioni sacerdotali, che oggi si registrano in alcune parti del mondo, così come rappresenta il fondamento e lo stimolo per un suo atto di fede più grande e di speranza più viva di fronte alla grave scarsità di sacerdoti, che pesa in altre parti del mondo.

Tutti siamo chiamati a condividere la fiducia piena nell'ininterrotto compiersi della promessa di Dio, che i Padri sinodali hanno voluto testimoniare in modo chiaro e forte: « Il Sinodo con piena fiducia nella promessa di Cristo che ha detto: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" 8 e consapevole dell'attività costante dello Spirito Santo nella Chiesa, intimamente crede che non mancheranno mai completamente nella Chiesa i sacri ministri... Anche se in varie regioni si dà scarsità di clero, tuttavia l'azione del Padre, che suscita le vocazioni, non cesserà mai nella Chiesa ».9

Come ho detto a conclusione del Sinodo, di fronte alla crisi delle vocazioni sacerdotali « la prima risposta che la Chiesa dà sta in un atto di fiducia totale nello Spirito Santo. Siamo profondamente convinti che questo fiducioso abbandono non deluderà, se peraltro restiamo fedeli alla grazia ricevuta ».10

2. Restare fedeli alla grazia ricevuta! Infatti, il dono di Dio non annulla la libertà dell'uomo, ma la suscita, la sviluppa e la esige.

Per questo la fiducia totale nell'incondizionata fedeltà di Dio alla sua promessa si accompagna nella Chiesa alla grave responsabilità di cooperare all'azione di Dio che chiama, di contribuire a creare e a mantenere le condizioni nelle quali il buon seme, seminato da Dio, possa mettere radici e dare frutti abbondanti. La Chiesa non può mai cessare di pregare il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe,11 di rivolgere una limpida e coraggiosa proposta vocazionale alle nuove generazioni, di aiutarle a discernere la verità della chiamata di Dio e a corrispondervi con generosità, di riservare una cura particolare per la formazione dei candidati al presbiterato.

In realtà la formazione dei futuri sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, e l'assidua cura, protratta lungo tutto il corso della vita, per la loro santificazione personale nel ministero e per l'aggiornamento costante del loro impegno pastorale, sono considerate dalla Chiesa come uno dei compiti di massima delicatezza e importanza per il futuro dell'evangelizzazione dell'umanità.

Quest'opera formativa della Chiesa è una continuazione nel tempo dell'opera di Cristo, che l'evangelista Marco indica con le parole: « Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì 12 che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».12

Si può affermare che nella sua storia, la Chiesa ha sempre rivissuto, sia pure con intensità e in modalità diverse, questa pagina del Vangelo mediante l'opera formativa riservata ai candidati al presbiterato e ai sacerdoti stessi. Oggi però la Chiesa si sente chiamata a rivivere quanto il Maestro ha fatto con i suoi apostoli con un impegno nuovo, sollecitata com'è dalle profonde e rapide trasformazioni delle società e delle culture del nostro tempo, dalla molteplicità e diversità dei contesti nei quali essa annuncia e testimonia il Vangelo, dal favorevole andamento numerico delle vocazioni sacerdotali che si registra in diverse diocesi, dall'urgenza di una nuova verifica dei contenuti e dei metodi della formazione sacerdotale, dalla preoccupazione dei Vescovi e delle loro comunità per la persistente scarsità di clero, dall'assoluta necessità che la « nuova evangelizzazione » abbia nei sacerdoti i suoi primi « nuovi evangelizzatori ».

Proprio in questo contesto storico e culturale si è collocata l'ultima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata a « La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali », con l'intento, a distanza di 25 anni dalla fine del Concilio, di portare a compimento la dottrina conciliare su questo argomento e di renderla più attuale e incisiva nelle circostanze odierne.13

3. In continuità con i testi del Concilio Vaticano II circa l'ordine dei presbiteri e la loro formazione,14 e nell'intento di applicarne in concreto alle varie situazioni la ricca ed autorevole dottrina, la Chiesa ha affrontato più volte i problemi della vita, del ministero e della formazione dei sacerdoti.

Le occasioni più solenni sono stati i Sinodi dei Vescovi. Fin dalla prima Assemblea generale, svoltasi nell'ottobre del 1967, il Sinodo dedicò 5 congregazioni generali al tema del rinnovamento dei seminari. Questo lavoro diede impulso decisivo all'elaborazione del documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica: « Norme fondamentali per la formazione sacerdotale ».15

Fu soprattutto la seconda Assemblea generale ordinaria del 1971 a impegnare la metà dei suoi lavori sul sacerdozio ministeriale. I frutti di questo lungo confronto sinodale, ripresi e condensati in alcune « raccomandazioni » sottomesse al mio Predecessore, Papa Paolo VI, e lette in apertura del Sinodo del 1974, riguardavano principalmente la dottrina sul sacerdozio ministeriale ed alcuni aspetti della spiritualità e del ministero sacerdotale.

Anche in molte altre occasioni il Magistero della Chiesa ha continuato a testimoniare la sua sollecitudine per la vita e per il ministero dei sacerdoti. Si può dire che negli anni del post-Concilio non ci sia stato intervento magisteriale che in qualche misura non abbia riguardato, in modo esplicito o implicito, il senso della presenza dei sacerdoti nella comunità, il loro ruolo e la loro necessità per la Chiesa e per la vita del mondo.

In questi anni più recenti e da più parti è stata avvertita la necessità di ritornare sul tema del sacerdozio, affrontandolo da un punto di vista relativamente nuovo e più adatto alle presenti circostanze ecclesiali e culturali. L'attenzione si è spostata dal problema dell'identità del prete ai problemi connessi con l'itinerario formativo al sacerdozio e con la qualità di vita dei sacerdoti. In realtà le nuove generazioni di chiamati al sacerdozio ministeriale presentano caratteristiche notevolmente diverse rispetto a quelle dei loro immediati predecessori e vivono in un mondo per tanti aspetti nuovo e in continua e rapida evoluzione. E di tutto ciò non si può non tener conto nella programmazione e nella realizzazione degli itinerari educativi al sacerdozio ministeriale.

I sacerdoti poi, già inseriti da un tempo più o meno lungo nell'esercizio del ministero, sembrano oggi soffrire di eccessiva dispersione nelle sempre crescenti attività pastorali e, di fronte alle difficoltà della società e della cultura contemporanea, si sentono costretti a ripensare i loro stili di vita e le priorità degli impegni pastorali, mentre avvertono sempre più la necessità di una formazione permanente.

Ora all'incremento delle vocazioni al presbiterato, alla loro formazione perché i candidati conoscano e seguano Gesù preparandosi a celebrare e a vivere il sacramento dell'Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, Servo e Sposo della Chiesa, all'individuazione di itinerari di formazione permanente capaci di sostenere in modo realistico ed efficace il ministero e la vita spirituale dei sacerdoti sono state dedicate le preoccupazioni e le riflessioni del Sinodo dei Vescovi 1990.

Questo stesso Sinodo intendeva anche rispondere a una richiesta fatta dal precedente Sinodo sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo. I laici stessi avevano sollecitato l'impegno dei sacerdoti alla formazione per essere opportunamente aiutati nel compimento della comune missione ecclesiale. E in realtà, « più si sviluppa l'apostolato dei laici e più fortemente viene percepito il bisogno di avere dei sacerdoti che siano ben formati. Così la vita stessa del popolo di Dio manifesta l'insegnamento del Concilio Vaticano II sul rapporto tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico: infatti nel mistero della Chiesa la gerarchia ha un carattere ministeriale.16 Più si approfondisce il senso della vocazione propria dei laici, più si evidenzia ciò che è proprio del sacerdozio ».17

4. Nell'esperienza ecclesiale tipica del Sinodo, quella cioè di « una singolare esperienza di comunione episcopale nell'universalità, che rafforza il senso della Chiesa universale, la responsabilità dei Vescovi verso la Chiesa universale e la sua missione, in comunione affettiva ed effettiva attorno a Pietro »,18 si è fatta sentire, limpida ed accurata, la voce delle diverse Chiese particolari — e in questo Sinodo, per la prima volta, di alcune Chiese dell'Est —, le Chiese hanno proclamato la loro fede nel compimento della promessa di Dio: « Vi darò pastori secondo il mio cuore »,19 e hanno rinnovato il loro impegno pastorale per la cura delle vocazioni e per la formazione dei sacerdoti, nella consapevolezza che da queste dipendono l'avvenire della Chiesa, il suo sviluppo e la sua missione universale di salvezza.

Riprendendo ora il ricco patrimonio delle riflessioni, degli orientamenti e delle indicazioni che hanno preparato e accompagnato i lavori dei Padri sinodali, con questa Esortazione Apostolica post-sinodale unisco alla loro la mia voce di Vescovo di Roma e di Successore di Pietro e la rivolgo al cuore di tutti i fedeli e di ciascuno di essi, in particolare al cuore dei sacerdoti e di quanti sono impegnati nel delicato ministero della loro formazione. Sì, con tutti i sacerdoti e con ciascuno di loro, sia diocesani sia religiosi, desidero incontrarmi mediante questa Esortazione.

Con le labbra e il cuore dei Padri sinodali faccio mie le parole e i sentimenti del « Messaggio finale del Sinodo al popolo di Dio »: « Con animo riconoscente e pieno di ammirazione ci rivolgiamo a voi che siete i nostri primi cooperatori nel servizio apostolico. La vostra opera nella Chiesa è veramente necessaria e insostituibile. Voi sostenete il peso del ministero sacerdotale e avete il contatto quotidiano con i fedeli. Voi siete i ministri dell'Eucaristia, i dispensatori della misericordia divina nel Sacramento della Penitenza, i consolatori delle anime, le guide dei fedeli tutti nelle tempestose difficoltà della vita.

« Vi salutiamo con tutto il cuore, vi esprimiamo la nostra gratitudine e vi esortiamo a perseverare in questa via con animo lieto e pronto. Non cedete allo scoraggiamento. La nostra opera non è nostra ma di Dio.

« Colui che ci ha chiamati e che ci ha inviati rimane con noi per tutti i giorni della nostra vita. Noi infatti operiamo per mandato di Cristo ».20

CAPITOLO I

PRESO FRA GLI UOMINI

5. « Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio ».21

La Lettera agli Ebrei afferma chiaramente l'« umanità » del ministro di Dio: egli viene dagli uomini ed è al servizio degli uomini, imitando Gesù Cristo « lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato ».22

Dio chiama i suoi sacerdoti sempre da determinati contesti umani ed ecclesiali, dai quali sono inevitabilmente connotati e ai quali sono mandati per il servizio del Vangelo di Cristo.

Per questo il Sinodo ha contestualizzato l'argomento dei sacerdoti, collocandolo nell'oggi della società e della Chiesa e aprendolo alle prospettive del terzo millennio, come del resto risulta dalla stessa formulazione del tema: « La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali ».

Certamente « c'è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta: il sacerdote di domani infatti, non meno di quello di oggi, dovrà assomigliare a Cristo. Quando viveva sulla terra, Gesù offrì in se stesso il volto definitivo del presbitero, realizzando un sacerdozio ministeriale di cui gli apostoli furono i primi ad essere investiti; esso è destinato a durare, a riprodursi incessantemente in tutti i periodi della storia. Il presbitero del terzo millennio sarà, in questo senso, il continuatore dei presbiteri che, nei precedenti millenni, hanno animato la vita della Chiesa. Anche nel Duemila la vocazione sacerdotale continuerà ad essere la chiamata a vivere l'unico e permanente sacerdozio di Cristo ».23 Altrettanto certamente la vita e il ministero del sacerdote devono anche « adattarsi a ogni epoca e ad ogni ambiente di vita... Da parte nostra dobbiamo perciò cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea, riconoscere i bisogni spirituali più profondi, determinare i compiti concreti più importanti, i metodi pastorali da adottare, e così rispondere in modo adeguato alle attese umane ».24

Dovendo coniugare la permanente verità del ministero presbiterale con le istanze e le caratteristiche dell'oggi, i Padri Sinodali hanno cercato di rispondere ad alcune domande necessarie: quali problemi e, nello stesso tempo, quali stimoli positivi l'attuale contesto socio-culturale ed ecclesiale suscita nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani che devono maturare, per tutta l'esistenza, un progetto di vita sacerdotale? Quali difficoltà e quali nuove possibilità offre il nostro tempo per l'esercizio di un ministero sacerdotale coerente col dono del Sacramento ricevuto e con l'esigenza di una vita spirituale corrispondente?

Ripresento ora alcuni elementi dell'analisi della situazione che i Padri sinodali hanno sviluppato, ben consapevole però che la grande varietà delle circostanze socio-culturali ed ecclesiali presenti nei diversi paesi consiglia di segnalare solo i fenomeni più profondi e più diffusi, in particolare quelli che si rapportano ai problemi educativi e alla formazione sacerdotale.

6. Molteplici fattori sembrano favorire negli uomini d'oggi una più matura coscienza della dignità della persona e una nuova apertura ai valori religiosi, al Vangelo e al ministero sacerdotale.

Nell'ambito della società troviamo, nonostante tante contraddizioni, una più diffusa e forte sete di giustizia e di pace, un senso più vivo della cura dell'uomo per il creato e per il rispetto della natura, una ricerca più aperta della verità e della tutela della dignità umana, l'impegno crescente, in molte fasce della popolazione mondiale, per una più concreta solidarietà internazionale e per un nuovo ordine planetario, nella libertà e nella giustizia. Cresce anche, mentre si sviluppa sempre più il potenziale di energie offerto dalle scienze e dalle tecniche e si diffondono l'informazione e la cultura, una nuova domanda etica, la domanda, cioè, di senso e quindi di un'oggettiva scala di valori che permetta di stabilire le possibilità e i limiti del progresso.

Nel campo più propriamente religioso e cristiano, cadono pregiudizi ideologici e chiusure violente all'annuncio dei valori spirituali e religiosi, mentre sorgono nuove e insperate possibilità per l'evangelizzazione e la ripresa della vita ecclesiale in molte parti del mondo. Si notano così una crescente diffusione della conoscenza delle Sacre Scritture; una vitalità e forza espansiva di molte Chiese giovani con un ruolo sempre più rilevante nella difesa e nella promozione dei valori della persona e della vita umana; una splendida testimonianza del martirio da parte delle Chiese del Centro-Est europeo, come anche della fedeltà e del coraggio di altre Chiese, che ancora sono costrette a subire persecuzioni e tribolazioni per la fede.25

Il desiderio di Dio e di un rapporto vivo e significativo con Lui si presenta oggi tanto forte da favorire, là dove manca l'autentico e integrale annuncio del Vangelo di Gesù, la diffusione di forme di religiosità senza Dio e di molteplici sette. La loro espansione, anche in alcuni ambienti tradizionalmente cristiani, è sì per tutti i figli della Chiesa, e per i sacerdoti in particolare, un costante motivo di esame di coscienza sulla credibilità della loro testimonianza al Vangelo, ma insieme anche un segno di quanto sia tuttora profonda e diffusa la ricerca di Dio.

7. Ma con questi e con altri fattori positivi si trovano intrecciati molti elementi problematici o negativi.

Ancora molto diffuso si presenta il razionalismo, che, in nome di una concezione riduttiva di scienza, rende insensibile la ragione umana all'incontro con la Rivelazione e con la trascendenza divina.

È da registrarsi poi una difesa esasperata della soggettività della persona, che tende a chiuderla nell'individualismo, incapace di vere relazioni umane. Così molti, soprattutto tra i ragazzi e i giovani, cercano di compensare questa solitudine con surrogati di varia natura, con forme più o meno acute di edonismo, di fuga dalle responsabilità; prigionieri dell'attimo fuggente, cercano di « consumare » esperienze individuali il più possibile forti e gratificanti sul piano delle emozioni e delle sensazioni immediate, trovandosi però inevitabilmente indifferenti e come paralizzati di fronte all'appello di un progetto di vita che includa una dimensione spirituale e religiosa e un impegno di solidarietà.

Si diffonde, inoltre, in ogni parte del mondo, anche dopo la caduta delle ideologie che avevano fatto del materialismo un dogma e del rifiuto della religione un programma, una sorta di ateismo pratico ed esistenziale, che coincide con una visione secolarista della vita e del destino dell'uomo. Quest'uomo « tutto occupato di sé, quest'uomo che si fa non soltanto centro di ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni realtà »,26 si trova sempre più impoverito di quel supplemento d'anima che gli è tanto più necessario quanto più una larga disponibilità di beni materiali e di risorse lo illude di autosufficienza. Non c'è più bisogno di combattere Dio, si pensa di poter fare semplicemente a meno di lui.

In questo quadro, si devono notare, in particolare, la disgregazione della realtà familiare e l'oscuramento o il travisamento del vero senso della sessualità umana: sono fenomeni che incidono in modo fortemente negativo sull'educazione dei giovani e sulla loro disponibilità ad ogni vocazione religiosa. Si devono notare, inoltre, l'aggravarsi delle ingiustizie sociali e il concentrarsi della ricchezza nelle mani di pochi, come frutto di un capitalismo disumano,27 che allarga sempre più la distanza tra popoli opulenti e popoli indigenti: vengono così introdotte nella convivenza umana tensioni e inquietudini che turbano profondamente la vita delle persone e delle comunità.

Anche nell'ambito ecclesiale, si registrano fenomeni preoccupanti e negativi, che hanno diretto influsso sulla vita e sul ministero dei sacerdoti. Così l'ignoranza religiosa che permane in molti credenti; la scarsa incidenza della catechesi, soffocata dai più diffusi e più suadenti messaggi dei mezzi di comunicazione di massa; il malinteso pluralismo teologico, culturale e pastorale che, pur partendo a volte da buone intenzioni, finisce per rendere difficile il dialogo ecumenico e per attentare alla necessaria unità della fede; il persistere di un senso di diffidenza e quasi di insofferenza per il magistero gerarchico; le spinte unilaterali e riduttive della ricchezza del messaggio evangelico, che trasformano l'annuncio e la testimonianza della fede in un esclusivo fattore di liberazione umana e sociale oppure in un alienante rifugio nella superstizione e nella religiosità senza Dio.28

Un fenomeno di grande rilievo, anche se relativamente recente in molti paesi di antica tradizione cristiana, è la presenza in uno stesso territorio di consistenti nuclei di razze diverse e di diverse religioni. Si sviluppa così sempre più la società multirazziale e multireligiosa. Se questo può essere occasione, da un lato, di un esercizio più frequente e fruttuoso del dialogo, di un'apertura di mentalità, di esperienze di accoglienza e di giusta tolleranza, dall'altro lato può essere causa di confusione e di relativismo, soprattutto in persone e popolazioni dalla fede meno matura.

A questi fattori, e in stretto collegamento con la crescita dell'individualismo, si aggiunge il fenomeno della soggettivizzazione della fede. Si registra cioè, da parte di un numero crescente di cristiani, una minore sensibilità all'insieme globale ed oggettivo della dottrina della fede, per un'adesione soggettiva a ciò che piace, che corrisponde alla propria esperienza, che non scomoda le proprie abitudini. Anche l'appello all'inviolabilità della coscienza individuale, in se stesso legittimo, non manca di assumere, in questo contesto, pericolosi caratteri di ambiguità.

Di qui deriva anche il fenomeno delle appartenenze alla Chiesa sempre più parziali e condizionate, che esercitano un influsso negativo sul nascere di nuove vocazioni al sacerdozio, sulla stessa autocoscienza del sacerdote e sul suo ministero nella comunità.

Infine, in molte realtà ecclesiali è, ancora oggi, la scarsa presenza e disponibilità di forze sacerdotali a creare i problemi più gravi. I fedeli sono spesso abbandonati per lunghi periodi, senza adeguato sostegno pastorale: ne soffrono così la crescita della loro vita cristiana nel suo complesso e, ancor più, la loro capacità di farsi ulteriormente promotori di evangelizzazione.

8. Le numerose contraddizioni e potenzialità di cui sono segnate le nostre società e culture e, nello stesso tempo, le comunità ecclesiali sono percepite, vissute e sperimentate con una intensità del tutto particolare dal mondo dei giovani, con ripercussioni immediate e quanto mai incisive sul loro cammino educativo. In tal senso il sorgere e lo svilupparsi della vocazione sacerdotale nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani incontrano continuamente ad un tempo ostacoli e sollecitazioni.

Quanto mai forte è sui giovani il fascino della cosiddetta « società dei consumi », che li fa succubi e prigionieri di un'interpretazione individualista, materialista ed edonista dell'esistenza umana. Il benessere materialmente inteso tende ad imporsi come unico ideale di vita, un benessere da ottenersi a qualsiasi condizione e prezzo: di qui il rifiuto di tutto ciò che sa di sacrificio e la rinuncia alla fatica di cercare e di vivere i valori spirituali e religiosi. La « preoccupazione » esclusiva per l'avere soppianta il primato dell'essere, con la conseguenza di interpretare e di vivere i valori personali e interpersonali non secondo la logica del dono e della gratuità, bensì secondo quella del possesso egoistico e della strumentalizzazione dell'altro.

Questo si riflette, in particolare, sulla visione della sessualità umana, che viene fatta decadere dalla sua dignità di servizio alla comunione e alla donazione tra le persone per essere semplicemente ricondotta ad un bene di consumo. Così l'esperienza affettiva di molti giovani si risolve non in una crescita armoniosa e gioiosa della propria personalità che si apre all'altro nel dono di sé, ma in una grave involuzione psicologica ed etica, che non potrà non avere i suoi pesanti condizionamenti sul loro domani.

Alla radice di queste tendenze si dà per non pochi giovani un'esperienza distorta della libertà: lungi dall'essere obbedienza alla verità oggettiva e universale, la libertà è vissuta come assenso cieco alle forze istintive e alla volontà di potenza del singolo. Si fanno allora in qualche modo naturali, sul piano della mentalità e del comportamento, lo sgretolarsi del consenso intorno ai principii etici, e, sul piano religioso, se non sempre il rifiuto esplicito di Dio, una larga indifferenza e comunque una vita che, anche nei suoi momenti più significativi e nelle sue scelte più decisive, viene vissuta come se Dio non esistesse. In un simile contesto si fa difficile non solo la realizzazione ma la stessa comprensione del senso di una vocazione al sacerdozio, che è una specifica testimonianza del primato dell'essere sull'avere, è riconoscimento del senso della vita come dono libero e responsabile di sé agli altri, come disponibilità a porsi interamente al servizio del Vangelo e del Regno di Dio in quella particolare forma.

Anche nell'ambito della comunità ecclesiale il mondo dei giovani costituisce, non poche volte, un « problema ». In realtà, se nei giovani, ancor più che negli adulti, sono presenti una forte tendenza alla soggettivizzazione della fede cristiana e un'appartenenza solo parziale e condizionata alla vita e alla missione della Chiesa, nella comunità ecclesiale fatica, per una serie di ragioni, a decollare una pastorale giovanile aggiornata e coraggiosa: i giovani rischiano di essere lasciati a se stessi, in balìa della loro fragilità psicologica, insoddisfatti e critici di fronte ad un mondo di adulti che, non vivendo in modo coerente e maturo la fede, non si presentano loro come modelli credibili.

Si fa allora evidente la difficoltà di proporre ai giovani un'esperienza integrale e coinvolgente di vita cristiana ed ecclesiale e di educarli ad essa. Così la prospettiva della vocazione al sacerdozio rimane lontana dagli interessi concreti e vivi dei giovani.

9. Non mancano però situazioni e stimoli positivi, che suscitano e alimentano nel cuore degli adolescenti e dei giovani una nuova disponibilità, nonché una vera e propria ricerca di valori etici e spirituali, che per loro natura offrono il terreno propizio per un cammino vocazionale verso il dono totale di sé a Cristo e alla Chiesa nel sacerdozio.

È da rilevare, anzitutto, come si siano attenuati alcuni fenomeni, che in un recente passato avevano provocato non pochi problemi, quali la contestazione radicale, le spinte libertarie, le rivendicazioni utopiche, le forme indiscriminate di socializzazione, la violenza.

Si deve riconoscere, inoltre, che anche i giovani d'oggi, con la forza e la freschezza tipiche dell'età, sono portatori degli ideali che si fanno strada nella storia: la sete della libertà, il riconoscimento del valore incommensurabile della persona, il bisogno dell'autenticità e della trasparenza, un nuovo concetto e stile di reciprocità nei rapporti tra uomo e donna, la ricerca convinta e appassionata di un mondo più giusto, più solidale, più unito, l'apertura e il dialogo con tutti, l'impegno per la pace.

Lo sviluppo, così ricco e vivace in tanti giovani del nostro tempo, di numerose e varie forme di volontariato rivolto alle situazioni più dimenticate e disagiate della nostra società, rappresenta oggi una risorsa educativa particolarmente importante, perché stimola e sostiene i giovani ad uno stile di vita più disinteressato e più aperto e solidale con i poveri. Questo stile di vita può facilitare la comprensione, il desiderio e l'accoglienza di una vocazione al servizio stabile e totale verso gli altri anche sulla strada della piena consacrazione a Dio con una vita sacerdotale.

Il recente crollo delle ideologie, il modo fortemente critico di porsi di fronte al mondo degli adulti che non sempre offrono una testimonianza di vita affidata a valori morali e trascendenti, la stessa esperienza di compagni che cercano evasioni nella droga e nella violenza, contribuiscono non poco a rendere più acuta ed ineludibile la fondamentale domanda circa i valori che sono veramente capaci di dare pienezza di significato alla vita, alla sofferenza e alla morte. In tanti giovani si fanno più espliciti la domanda religiosa e il bisogno di spiritualità: di qui il desiderio di esperienze di deserto e di preghiera, il ritorno ad una lettura più personale e abituale della Parola di Dio e allo studio della teologia.

E come già nell'ambito del volontariato sociale, così in quello della comunità ecclesiale i giovani si fanno sempre più attivi e protagonisti, soprattutto con la partecipazione alle varie aggregazioni, da quelle tradizionali ma rinnovate a quelle più recenti: l'esperienza di una Chiesa « sollecitata alla nuova evangelizzazione » dalla fedeltà allo Spirito che la anima e dalle esigenze del mondo lontano da Cristo ma bisognoso di Lui, come pure l'esperienza di una Chiesa sempre più solidale con l'uomo e con i popoli nella difesa e nella promozione della dignità personale e dei diritti umani di tutti e di ciascuno aprono il cuore e la vita dei giovani a ideali quanto mai affascinanti e impegnativi, che possono trovare la loro concreta realizzazione nella sequela di Cristo e nel sacerdozio.

È naturale che da questa situazione umana ed ecclesiale, caratterizzata da forte ambivalenza, non si potrà affatto prescindere non solo nella pastorale delle vocazioni e nell'opera di formazione dei futuri sacerdoti, ma anche nell'ambito della vita e del ministero dei sacerdoti e della loro formazione permanente. Così, se si possono comprendere le varie forme di « crisi » alle quali vanno soggetti i sacerdoti d'oggi nell'esercizio del ministero, nella loro vita spirituale ed anche nella stessa interpretazione della natura e del significato del sacerdozio ministeriale, si devono pure registrare, con gioia e con speranza, le nuove possibilità positive che il momento storico attuale offre ai sacerdoti per il compimento della loro missione.

10. La complessa situazione attuale, rapidamente evocata per cenni e in modo esemplificativo, chiede di essere non solo conosciuta, ma anche e soprattutto interpretata. Solo così si potrà rispondere in modo adeguato alla fondamentale domanda: Come formare sacerdoti che siano veramente all'altezza di questi tempi, capaci di evangelizzare il mondo di oggi?.29

È importante la conoscenza della situazione. Non basta una semplice rilevazione dei dati; occorre un'indagine « scientifica » con la quale delineare un quadro preciso e concreto delle reali circostanze socio-culturali ed ecclesiali.

Ancor più importante è l'interpretazione della situazione. Essa è richiesta dall'ambivalenza e talvolta dalla contraddittorietà di cui è segnata la situazione, che registra profondamente intrecciati tra loro difficoltà e potenzialità, elementi negativi e ragioni di speranza, ostacoli e aperture, come il campo evangelico nel quale sono seminati e « convivono » il buon grano e la zizzania.30

Non è sempre facile una lettura interpretativa, che sappia distinguere tra bene e male, tra segni di speranza e minacce. Nella formazione dei sacerdoti non si tratta solo e semplicemente di accogliere i fattori positivi e di contrastare frontalmente quelli negativi. Si tratta di sottoporre gli stessi fattori positivi ad attento discernimento, perché non si isolino l'uno dall'altro e non vengano in contrasto tra loro, assolutizzandosi e combattendosi a vicenda. Altrettanto si dica dei fattori negativi: non sono da respingere in blocco e senza distinzioni, perché in ciascuno di essi può nascondersi un qualche valore, che attende di essere liberato e ricondotto alla sua verità piena.

Per il credente l'interpretazione della situazione storica trova il principio conoscitivo e il criterio delle scelte operative conseguenti in una realtà nuova e originale, ossia nel discernimento evangelico; è l'interpretazione che avviene nella luce e nella forza del Vangelo, del Vangelo vivo e personale che è Gesù Cristo, e con il dono dello Spirito Santo. In tal modo il discernimento evangelico coglie nella situazione storica e nelle sue vicende e circostanze non un semplice « dato » da registrare con precisione, di fronte al quale è possibile rimanere nell'indifferenza o nella passività, bensì un « compito », una sfida alla libertà responsabile sia della singola persona che della comunità. È una « sfida » che si collega ad un « appello », che Dio fa risuonare nella stessa situazione storica: anche in essa e attraverso di essa Dio chiama il credente, e prima ancora la Chiesa, a far sì che « il Vangelo della vocazione e del sacerdozio » esprima la sua verità perenne nelle mutevoli circostanze della vita. Anche alla formazione dei sacerdoti sono da applicarsi le parole del Concilio Vaticano II: « È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ogni generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche ».31

Questo discernimento evangelico si fonda sulla fiducia nell'amore di Gesù Cristo, che sempre e instancabilmente si prende cura della sua Chiesa,32 Lui che è il Signore e il Maestro, chiave di volta, centro e fine di tutta la storia umana;33 si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo, che suscita ovunque e in ogni circostanza l'obbedienza della fede, il coraggio gioioso della sequela di Gesù, il dono della sapienza che tutto giudica e non è giudicata da nessuno;34 riposa sulla fedeltà del Padre alle sue promesse.

In questo modo la Chiesa sente di poter affrontare le difficoltà e le sfide di questo nuovo periodo della storia e di poter assicurare anche per il presente e per il futuro sacerdoti ben formati, che siano convinti e ferventi ministri della « nuova evangelizzazione », servitori fedeli e generosi di Gesù Cristo e degli uomini.

Non ci nascondiamo le difficoltà. Non sono né poche né leggere. Ma a vincerle sono la nostra speranza, la nostra fede nell'indefettibile amore di Cristo, la nostra certezza della insostituibilità del ministero sacerdotale per la vita della Chiesa e del mondo.

CAPITOLO II

MI HA CONSACRATO CON L'UNZIONE E MI HA MANDATO
La natura e la missione del sacerdozio ministeriale

11. « Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui ».35 Quanto dice l'evangelista Luca di coloro che erano presenti quel sabato nella sinagoga di Nazareth in ascolto del commento, che Gesù avrebbe fatto del rotolo del profeta Isaia da lui stesso letto, può applicarsi a tutti i cristiani, sempre chiamati a riconoscere in Gesù di Nazareth il definitivo compimento dell'annuncio profetico: « Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi" ».36 E la « scrittura » era questa: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore ».37 Gesù, dunque, si autopresenta come ripieno di Spirito, « consacrato con l'unzione », « mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio »: è il Messia, il Messia sacerdote, profeta e re.

È questo il volto di Cristo sul quale gli occhi della fede e dell'amore dei cristiani devono stare fissi. Proprio a partire da e in riferimento a questa « contemplazione » i Padri sinodali hanno riflettuto sul problema della formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali. Tale problema non può trovare risposta senza una previa riflessione sulla meta alla quale è ordinato il cammino formativo: la meta è il sacerdozio ministeriale, più precisamente il sacerdozio ministeriale come partecipazione nella Chiesa del sacerdozio stesso di Gesù Cristo. La conoscenza della natura e della missione del sacerdozio ministeriale è il presupposto irrinunciabile, e nello stesso tempo la guida più sicura e lo stimolo più incisivo, per sviluppare nella Chiesa l'azione pastorale di promozione e di discernimento delle vocazioni sacerdotali e di formazione dei chiamati al ministero ordinato.

La retta e approfondita conoscenza della natura e della missione del sacerdozio ministeriale è la via da seguire, e il Sinodo di fatto l'ha seguita, per uscire dalla crisi sull'identità del sacerdote: « Questa crisi — dicevo nel Discorso al termine del Sinodo — era nata negli anni immediatamente successivi al Concilio. Si fondava su un'errata comprensione, talvolta persino volutamente tendenziosa, della dottrina del magistero conciliare. Qui indubbiamente sta una delle cause del gran numero di perdite subite allora dalla Chiesa, perdite che hanno gravemente colpito il servizio pastorale e le vocazioni al sacerdozio, in particolare le vocazioni missionarie. È come se il Sinodo del 1990, riscoprendo, attraverso tanti interventi che abbiamo ascoltato in quest'aula, tutta la profondità dell'identità sacerdotale, fosse venuto a infondere la speranza dopo queste perdite dolorose. Questi interventi hanno manifestato la coscienza del legame ontologico specifico che unisce il sacerdote a Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore. Questa identità sottende alla natura della formazione che deve essere impartita in vista del sacerdozio, e quindi lungo tutta la vita sacerdotale. Era questo lo scopo proprio del Sinodo ».38

Per questo il Sinodo ha ritenuto necessario richiamare, in modo sintetico e fondamentale, la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, così come la fede della Chiesa le ha riconosciute lungo i secoli della sua storia e come il Concilio Vaticano II le ha ripresentate agli uomini del nostro tempo.39

12. « L'identità sacerdotale — hanno scritto i Padri sinodali —, come ogni identità cristiana, ha la sua fonte nella Santissima Trinità »,40 che si rivela e si autocomunica agli uomini in Cristo, costituendo in Lui e per mezzo dello Spirito la Chiesa come « germe e inizio del Regno ».41 L'Esortazione « Christifideles Laici », sintetizzando l'insegnamento conciliare, presenta la Chiesa come mistero, comunione e missione: essa « è mistero perché l'amore e la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono il dono assolutamente gratuito offerto a quanti sono nati dall'acqua e dallo Spirito,42 chiamati a rivivere la comunione stessa di Dio e a manifestarla e comunicarla nella storia (missione) ».43

È all'interno del mistero della Chiesa, come mistero di comunione trinitaria in tensione missionaria, che si rivela ogni identità cristiana, e quindi anche la specifica identità del sacerdote e del suo ministero. Il presbitero, infatti, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell'Ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo.44

Si può così comprendere la connotazione essenzialmente « relazionale » dell'identità del presbitero: mediante il sacerdozio, che scaturisce dalle profondità dell'ineffabile mistero di Dio, ossia dall'amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell'unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il Vescovo e con gli altri presbiteri,45 per servire il Popolo di Dio che è la Chiesa e attrarre tutti a Cristo, secondo la preghiera del Signore: « Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi... Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato ».46

Non si può allora definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell'unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano.47 In questo contesto l'ecclesiologia di comunione diventa decisiva per cogliere l'identità del presbitero, la sua originale dignità, la sua vocazione e missione nel Popolo di Dio e nel mondo. Il riferimento alla Chiesa è, perciò, necessario, anche se non prioritario nella definizione dell'identità del presbitero. In quanto mistero, infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: di Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa. È il « segno » e il « memoriale » vivo della sua permanente presenza e azione fra noi e per noi. Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una derivazione, una partecipazione specifica ed una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta « novità » nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali.

13. Gesù Cristo ha manifestato in se stesso il volto perfetto e definitivo del sacerdozio della nuova Alleanza:48 questo ha fatto in tutta la sua vita terrena, ma soprattutto nell'evento centrale della sua passione, morte e risurrezione.

Come scrive l'autore della Lettera agli Ebrei, Gesù, essendo uomo come noi e insieme il Figlio unigenito di Dio, è nel suo stesso essere mediatore perfetto tra il Padre e l'umanità,49 Colui che ci dischiude l'accesso immediato a Dio, grazie al dono dello Spirito: « Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre! ».50

Gesù porta a piena attuazione il suo essere mediatore attraverso l'offerta di Se stesso sulla croce, con la quale ci apre, una volta per tutte, l'accesso al santuario celeste, alla casa del Padre.51 Al confronto di Gesù, Mosè e tutti i mediatori dell'Antico Testamento tra Dio e il suo popolo — i re, i sacerdoti e i profeti — si presentano solo come figure ed ombre dei beni futuri e non come la realtà stessa.52

Gesù è il Buon Pastore preannunciato,53 Colui che conosce le sue pecore una ad una, che offre la sua vita per loro e che tutti vuol raccogliere in un solo gregge con un solo pastore.54 È il pastore venuto « non per essere servito, ma per servire »,55 che, nell'atto pasquale della lavanda dei piedi,56 lascia ai suoi il modello del servizio che dovranno avere gli uni verso gli altri e che si offre liberamente come agnello innocente immolato per la nostra redenzione.57

Con l'unico e definitivo sacrificio della croce, Gesù comunica a tutti i suoi discepoli la dignità e la missione di sacerdoti della nuova ed eterna Alleanza. Si adempie così la promessa che Dio ha fatto a Israele: « Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa ».58 È tutto il popolo della nuova Alleanza — scrive San Pietro — ad essere costituito come « un edificio spirituale », « un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo ».59 Sono i battezzati le « pietre vive », che costruiscono l'edificio spirituale stringendosi a Cristo « pietra viva... scelta e preziosa davanti a Dio ».60 Il nuovo popolo sacerdotale che è la Chiesa, non solo ha in Cristo la propria autentica immagine, ma anche da Lui riceve una partecipazione reale e ontologica al suo eterno e unico sacerdozio, al quale deve conformarsi con tutta la sua vita.

14. A servizio di questo sacerdozio universale della nuova Alleanza, Gesù chiama a sé, nel corso della sua missione terrena, alcuni discepoli 61 e con un mandato specifico e autorevole chiama e costituisce i Dodici, affinché « stessero con lui e anche per mandarli a predicare, e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».62

Per questo, già durante il suo ministero pubblico 63 e poi in pienezza dopo la morte e risurrezione,64 Gesù conferisce a Pietro e ai Dodici poteri del tutto particolari nei confronti della futura comunità e per l'evangelizzazione di tutte le genti. Dopo averli chiamati alla sua sequela, li tiene accanto a sé e vive con loro, impartendo con l'esempio e con la parola il suo insegnamento di salvezza e, infine, li manda a tutti gli uomini. E per il compimento di questa missione Gesù conferisce agli apostoli, in virtù di una specifica effusione pasquale dello Spirito Santo, la stessa autorità messianica che gli viene dal Padre e che gli è conferita in pienezza con la risurrezione: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo ».65

Gesù stabilisce così uno stretto collegamento tra il ministero affidato agli apostoli e la sua propria missione: « Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato »;66 « Chi ascolta voi ascolta me, chi di- sprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato ».67 Anzi, il quarto vangelo, nella luce dell'evento pasquale della morte e della risurrezione, afferma con grande forza e chiarezza: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi ».68 Come Gesù ha una missione che gli viene direttamente da Dio e che concretizza l'autorità stessa di Dio,69 così gli apostoli hanno una missione che viene loro da Gesù. E come « il Figlio non può fare nulla da se stesso »,70 sicché la sua dottrina non è sua ma di colui che lo ha mandato,71 così agli apostoli Gesù dice: « Senza di me non potete far nulla »:72 la loro missione non è loro, ma è la stessa missione di Gesù. E ciò è possibile non a partire dalle forze umane, ma solo con il « dono » di Cristo e del suo Spirito, con il « sacramento »: « Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi ».73 Così, non per qualche loro merito particolare, ma soltanto per la gratuita partecipazione alla grazia di Cristo, gli apostoli prolungano nella storia, sino alla consumazione dei tempi, la stessa missione di salvezza di Gesù a favore degli uomini.

Segno e presupposto dell'autenticità e della fecondità di questa missione è l'unità degli apostoli con Gesù e, in Lui, tra di loro e col Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione.74

15. A loro volta, gli apostoli costituiti dal Signore assolveranno via via alla loro missione chiamando, in forme diverse ma alla fine convergenti, altri uomini, come Vescovi, come presbiteri e come diaconi, per adempiere al mandato di Gesù risorto che li ha inviati a tutti gli uomini di tutti i tempi.

Il Nuovo Testamento è unanime nel sottolineare che è lo stesso Spirito di Cristo a introdurre nel ministero questi uomini, scelti di mezzo ai fratelli. Attraverso il gesto dell'imposizione delle mani,75 che trasmette il dono dello Spirito, essi sono chiamati e abilitati a continuare lo stesso ministero di riconciliare, di pascere il gregge di Dio e di insegnare.76

Pertanto i presbiteri sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato. Come scrive in modo chiaro e preciso la prima Lettera di Pietro: « Esorto i presbiteri che sono tra voi, quale com-presbitero, testimone della sofferenza di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo: non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce ».77

I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l'Eucaristia, ne esercitano l'amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge, che raccolgono nell'unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito. In una parola, i presbiteri esistono ed agiscono per l'annuncio del Vangelo al mondo e per l'edificazione della Chiesa in nome e in persona di Cristo Capo e Pastore.78

Questo è il modo tipico e proprio con il quale i ministri ordinati partecipano all'unico sacerdozio di Cristo. Lo Spirito Santo mediante l'unzione sacramentale dell'Ordine li configura, ad un titolo nuovo e specifico, a Gesù Cristo Capo e Pastore, li conforma ed anima con la sua carità pastorale e li pone nella Chiesa nella condizione autorevole di servi dell'annuncio del Vangelo ad ogni creatura e di servi della pienezza della vita cristiana di tutti i battezzati.

La verità del presbitero quale emerge dalla Parola di Dio, ossia da Gesù Cristo stesso e dal suo disegno costitutivo della Chiesa, viene così cantata con gioiosa gratitudine dalla Liturgia nel Prefazio della Messa del Crisma: « Con l'unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l'imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti. Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all'immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso ».

16. Il sacerdote ha come sua relazione fondamentale quella con Gesù Cristo Capo e Pastore: egli, infatti, partecipa, in modo specifico e autorevole, alla « consacrazioneunzione » e alla « missione » di Cristo.79 Ma, intimamente intrecciata con questa relazione, sta quella con la Chiesa. Non si tratta di « relazioni » semplicemente accostate tra loro, ma interiormente unite in una specie di mutua immanenza. Il riferimento alla Chiesa è iscritto nell'unico e medesimo riferimento del sacerdote a Cristo, nel senso che è la « rappresentanza sacramentale » di Cristo a fondare e ad animare il riferimento del sacerdote alla Chiesa.

In questo senso i Padri sinodali hanno scritto: « In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non soltanto nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla Parola di Dio e ai segni sacramentali di cui è al servizio, appartiene agli elementi costitutivi della Chiesa. Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa; è per la promozione dell'esercizio del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è ordinato non solo alla Chiesa particolare, ma anche alla Chiesa universale,80 in comunione con il Vescovo, con Pietro e sotto Pietro. Mediante il sacerdozio del Vescovo, il sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella struttura apostolica della Chiesa. Così il presbitero come gli apostoli funge da ambasciatore per Cristo.81 In questo si fonda l'indole missionaria di ogni sacerdote ».82

Il ministero ordinato sorge dunque con la Chiesa ed ha nei Vescovi, e in riferimento e comunione con essi nei presbiteri, un particolare rapporto al ministero originario degli apostoli, al quale realmente succede, anche se rispetto ad esso assume modalità diverse di esistenza.

Non si deve allora pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio.

La relazione del sacerdote con Gesù Cristo e, in Lui, con la sua Chiesa si situa nell'essere stesso del sacerdote, in forza della sua consacrazioneunzione sacramentale, e nel suo agire, ossia nella sua missione o ministero. In particolare « il sacerdote ministro è servitore di Cristo presente nella Chiesa mistero, comunione e missione. Per il fatto di partecipare all'"unzione" e alla "missione" di Cristo, egli può prolungare nella Chiesa la sua preghiera, la sua parola, il suo sacrificio, la sua azione salvifica. È dunque servitore della Chiesa mistero perché attua i segni ecclesiali e sacramentali della presenza di Cristo risorto. È servitore della Chiesa comunione perché — unito al Vescovo e in stretto rapporto con il presbiterio — costruisce l'unità della comunità ecclesiale nell'armonia delle diverse vocazioni, carismi e servizi. È, infine, servitore della Chiesa missione perché rende la comunità annunciatrice e testimone del Vangelo ».83

Così, per la sua stessa natura e missione sacramentale, il sacerdote appare, nella struttura della Chiesa, come segno della priorità assoluta e della gratuità della grazia, che alla Chiesa viene donata dal Cristo risorto. Per mezzo del sacerdozio ministeriale la Chiesa prende coscienza, nella fede, di non essere da se stessa, ma dalla grazia di Cristo nello Spirito Santo. Gli apostoli e i loro successori, quali detentori di un'autorità che viene loro da Cristo Capo e Pastore, sono posti — col loro ministero — di fronte alla Chiesa come prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo nel suo stesso stare di fronte alla Chiesa e al mondo, come origine permanente e sempre nuova della salvezza, « lui che è il salvatore del suo corpo ».84

17. Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l'inserimento sacramentale nell'ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale « forma comunitaria » e può essere assolto solo come « un'opera collettiva ».85 Su questa natura comunionale del sacerdozio si è soffermato a lungo il Concilio,86 esaminando distintamente il rapporto del presbitero con il proprio Vescovo, con gli altri presbiteri e con i fedeli laici.

Il ministero dei presbiteri è innanzi tutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del Vescovo, nella sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole Chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il Vescovo un unico presbiterio.

Ciascun sacerdote, sia diocesano che religioso, è unito agli altri membri di questo presbiterio, sulla base del sacramento dell'Ordine, da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. Tutti i presbiteri infatti, sia diocesani sia religiosi, partecipano all'unico sacerdozio di Cristo Capo e Pastore, « lavorano per la stessa causa, cioè per l'edificazione del corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi »,87 e si arricchisce nel corso dei secoli di sempre nuovi carismi.

I presbiteri, infine, poiché la loro figura e il loro compito nella Chiesa non sostituiscono, bensì promuovono il sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio, conducendolo alla sua piena attuazione ecclesiale, si trovano in relazione positiva e promovente con i laici. Della loro fede, speranza e carità sono al servizio. Ne riconoscono e sostengono, come fratelli ed amici, la dignità di figli di Dio e li aiutano ad esercitare in pienezza il loro ruolo specifico nell'ambito della missione della Chiesa.88

Il sacerdozio ministeriale conferito dal sacramento dell'Ordine e quello comune o « regale » dei fedeli, che differiscono tra loro per essenza e non solo per grado,89 sono tra loro coordinati, derivando entrambi — in forme diverse — dall'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio ministeriale, infatti, non significa di per sé un maggiore grado di santità rispetto al sacerdozio comune dei fedeli; ma, attraverso di esso, ai presbiteri è dato da Cristo nello Spirito un particolare dono, perché possano aiutare il Popolo di Dio ad esercitare con fedeltà e pienezza il sacerdozio comune che gli è conferito.90

18. Come sottolinea il Concilio, « il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza sino agli ultimi confini della terra, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli ».91 Per la natura stessa del loro ministero, essi debbono dunque essere penetrati e animati di un profondo spirito missionario e « di quello spirito veramente cattolico che li abitua a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, e ad andare incontro alle necessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo ».92

Inoltre, proprio perché all'interno della vita della Chiesa è l'uomo della comunione, il presbitero dev'essere, nel rapporto con tutti gli uomini, l'uomo della missione e del dialogo. Profondamente radicato nella verità e nella carità di Cristo, e animato dal desiderio e dall'imperativo di annunciare a tutti la sua salvezza, egli è chiamato a intessere rapporti di fraternità, di servizio, di comune ricerca della verità, di promozione della giustizia e della pace, con tutti gli uomini. In primo luogo con i fratelli delle altre Chiese e confessioni cristiane; ma anche con i fedeli delle altre religioni; con gli uomini di buona volontà, in special modo con i poveri e i più deboli, e con tutti coloro che anelano, anche senza saperlo ed esprimerlo, alla verità e alla salvezza di Cristo, secondo la parola di Gesù che ha detto: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori ».93

Oggi, in particolare, il prioritario compito pastorale della nuova evangelizzazione, che investe tutto il Popolo di Dio e postula un nuovo ardore, nuovi metodi e una nuova espressione per l'annuncio e la testimonianza del Vangelo, esige dei sacerdoti radicalmente e integralmente immersi nel mistero di Cristo e capaci di realizzare un nuovo stile di vita pastorale, segnato dalla profonda comunione con il Papa, i Vescovi e tra di loro, e da un feconda collaborazione con i fedeli laici, nel rispetto e nella promozione dei diversi ruoli, carismi e ministeri all'interno della comunità ecclesiale.94

« Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi ».95 Ascoltiamo, ancora una volta, queste parole di Gesù, alla luce del sacerdozio ministeriale che abbiamo presentato nella sua natura e missione. L'« oggi » di cui parla Gesù, proprio perché appartiene alla « pienezza del tempo », ossia al tempo della salvezza piena e definitiva, indica il tempo della Chiesa. La consacrazione e la missione di Cristo: « Lo Spirito del Signore... mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... »,96 sono la radice viva da cui germogliano la consacrazione e la missione della Chiesa, « pienezza » di Cristo:97 con la rigenerazione battesimale, su tutti i credenti si effonde lo Spirito del Signore, che li consacra a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo e li manda a far conoscere i prodigi di Colui che dalle tenebre li ha chiamati all'ammirabile sua luce.98 Il presbitero partecipa alla consacrazione e alla missione di Cristo in modo specifico e autorevole, ossia mediante il sacramento dell'Ordine, in virtù del quale è configurato nel suo essere a Gesù Cristo Capo e Pastore e condivide la missione di « annunciare ai poveri un lieto messaggio » nel nome e nella persona di Cristo stesso.

Nel loro Messaggio finale i Padri sinodali hanno compendiato in poche ma quanto mai ricche parole la « verità », meglio, il « mistero » e il « dono » del sacerdozio ministeriale, dicendo: « La nostra identità ha la sua sorgente ultima nella carità del Padre. Al Figlio da Lui mandato, Sacerdote Sommo e buon Pastore, siamo uniti sacramentalmente con il sacerdozio ministeriale per l'azione dello Spirito Santo. La vita e il ministero del sacerdote sono continuazione della vita e dell'azione dello stesso Cristo. Questa è la nostra identità, la nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia, la certezza della nostra vita ».99

CAPITOLO III

LO SPIRITO DEL SIGNORE E' SOPRA DI ME
La vita spirituale del sacerdote

19. « Lo Spirito del Signore è sopra di me ».100 Lo Spirito non sta semplicemente « sopra » il Messia, ma lo « riempie », lo penetra, lo raggiunge nel suo essere ed operare. Lo Spirito, infatti, è il principio della « consacrazione » e della « missione » del Messia: « per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... ».101 In forza dello Spirito, Gesù appartiene totalmente ed esclusivamente a Dio, partecipa all'infinita santità di Dio che lo chiama, lo elegge e lo manda. Così lo Spirito del Signore si rivela fonte di santità e appello alla santificazione.

Questo stesso « Spirito del Signore » è « sopra » l'intero popolo di Dio, che viene costituito come popolo « consacrato » a Dio e da Dio « mandato » per l'annuncio del Vangelo che salva. Dallo Spirito i membri del Popolo di Dio sono « inebriati » e « segnati » 102 e chiamati alla santità.

In particolare, lo Spirito ci rivela e ci comunica la vocazione fondamentale che il Padre dall'eternità rivolge a tutti: la vocazione ad essere « santi e immacolati al suo cospetto nella carità », in virtù della predestinazione « a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo ».103 Non solo. Rivelandoci e comunicandoci questa vocazione, lo Spirito si fa in noi principio e risorsa della sua realizzazione: lui, lo Spirito del Figlio,104 ci conforma a Cristo Gesù e ci rende partecipi della sua vita filiale, ossia della sua carità verso il Padre e verso i fratelli. « Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito ».105 Con queste parole l'apostolo Paolo ci ricorda che l'esistenza cristiana è « vita spirituale », ossia vita animata e guidata dallo Spirito verso la santità o perfezione della carità.

L'affermazione del Concilio: « Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità » 106 trova una sua particolare applicazione per i presbiteri: essi sono chiamati non solo in quanto battezzati, ma anche e specificamente in quanto presbiteri, ossia ad un titolo nuovo e con modalità originali, derivanti dal sacramento dell'Ordine.

20. Della « vita spirituale » dei presbiteri e del dono e della responsabilità di divenire « santi » il Decreto conciliare sul ministero e sulla vita sacerdotale ci offre una sintesi quanto mai ricca e stimolante: « Con il sacramento dell'Ordine i presbiteri si configurano a Cristo sacerdote come ministri del Capo, allo scopo di far crescere ed edificare tutto il Corpo che è la Chiesa, in qualità di cooperatori dell'ordine episcopale. Già fin dalla consacrazione del Battesimo, essi, come tutti i fedeli, hanno ricevuto il segno e il dono di una vocazione e di una grazia così grande che, pur nell'umana debolezza, possono e devono tendere alla perfezione, secondo quanto ha detto il Signore: "Siate dunque perfetti così come il Padre vostro celeste è perfetto".107 Ma i sacerdoti sono specialmente obbligati a tendere a questa perfezione, poiché essi — che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l'ordinazione — vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha reintegrato con divina efficacia l'intero genere umano. Dato quindi che ogni sacerdote, nel modo che gli è proprio, agisce a nome e nella persona di Cristo stesso, fruisce anche di una grazia speciale, in virtù della quale, mentre è al servizio della gente che gli è affidata e di tutto il Popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Colui del quale è rappresentante, e l'umana debolezza della carne viene sanata dalla santità di Lui, il quale è fatto per noi pontefice "santo, innocente, incontaminato, segregato dai peccatori" 108 ».109

Il Concilio afferma, anzitutto, la vocazione « comune » alla santità. Questa vocazione si radica nel Battesimo, che caratterizza il presbitero come un « fedele » (Christifidelis), come « fratello tra fratelli », inserito e unito con il Popolo di Dio, nella gioia di condividere i doni della salvezza 110 e nell'impegno comune di camminare « secondo lo Spirito », seguendo l'unico Maestro e Signore. Ricordiamo la celebre parola di Sant'Agostino: « Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di un ufficio assunto, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza ».111

Con identica chiarezza il testo conciliare parla anche di una vocazione « specifica » alla santità, più precisamente di una vocazione che si fonda sul sacramento dell'Ordine, quale sacramento proprio e specifico del sacerdote, in forza dunque di una nuova consacrazione a Dio mediante l'ordinazione. A questa vocazione specifica allude ancora Sant'Agostino, che all'affermazione « Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano », fa seguire queste altre parole: « Se dunque mi è causa di maggior gioia l'essere stato con voi riscattato che l'esservi posto a capo, seguendo il comando del Signore, mi dedicherò col massimo impegno a servirvi, per non essere ingrato a chi mi ha riscattato con quel prezzo che mi ha fatto vostro conservo ».112

Il testo del Concilio procede oltre segnalando alcuni elementi necessari a definire il contenuto della « specificità » della vita spirituale dei presbiteri. Sono elementi che si connettono con la « consacrazione » propria dei presbiteri, che li configura a Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa; con la « missione » o ministero tipico degli stessi presbiteri, che li abilita e li impegna ad essere strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote e ad agire « nel nome e nella persona di Cristo stesso »; con la loro intera « vita », chiamata a manifestare e a testimoniare in modo originale il « radicalismo evangelico ».113

21. Mediante la consacrazione sacramentale, il sacerdote è configurato a Gesù Cristo in quanto Capo e Pastore della Chiesa e riceve in dono un « potere spirituale » che è partecipazione all'autorità con la quale Gesù Cristo mediante il suo Spirito guida la Chiesa.114

Grazie a questa consacrazione operata dallo Spirito nell'effusione sacramentale dell'Ordine, la vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e che si compendiano nella sua carità pastorale.

Gesù Cristo è Capo della Chiesa, suo Corpo. È « Capo » nel senso nuovo e originale dell'essere servo, secondo le sue stesse parole: « Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti ».115 Il servizio di Gesù giunge a pienezza con la morte in croce, ossia con il dono totale di sé, nell'umiltà e nell'amore: « Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce... ».116 L'autorità di Gesù Cristo Capo coincide dunque con il suo servizio, con il suo dono, con la sua dedizione totale, umile e amorosa nei riguardi della Chiesa. E questo in perfetta obbedienza al Padre: egli è l'unico vero Servo sofferente del Signore, insieme Sacerdote e Vittima.

Da questo preciso tipo di autorità, ossia dal servizio verso la Chiesa, viene animata e vivificata l'esistenza spirituale di ogni sacerdote, proprio come esigenza della sua configurazione a Gesù Cristo Capo e servo della Chiesa.117 Così Sant'Agostino ammoniva un vescovo nel giorno della sua ordinazione: « Chi è capo del popolo deve per prima cosa rendersi conto che egli è il servo di molti. E non disdegni di esserlo, ripeto, non disdegni di essere il servo di molti, poiché non disdegnò di farsi nostro servo il Signore dei signori ».118

La vita spirituale dei ministri del Nuovo Testamento dovrà essere improntata, dunque, a questo essenziale atteggiamento di servizio al popolo di Dio,119 scevro da ogni presunzione e da ogni desiderio di « spadroneggiare » sul gregge affidato.120 Un servizio fatto di buon animo, secondo Dio e volentieri: in questo modo i ministri, gli « anziani » della comunità, cioè i presbiteri, potranno essere « modello » del gregge, che, a sua volta, è chiamato ad assumere nei confronti del mondo intero questo atteggiamento sacerdotale di servizio alla pienezza della vita dell'uomo e alla sua liberazione integrale.

22. L'immagine di Gesù Cristo Pastore della Chiesa, suo gregge, riprende e ripropone, con nuove e più suggestive sfumature, gli stessi contenuti di quella di Gesù Cristo Capo e servo. Inverando l'annuncio profetico del Messia Salvatore, cantato gioiosamente dal salmista e dal profeta Ezechiele,121 Gesù si autopresenta come il « buon Pastore » 122 non solo di Israele, ma di tutti gli uomini.123 E la sua vita è ininterrotta manifestazione, anzi quotidiana realizzazione della sua « carità pastorale »: sente compassione delle folle, perché sono stanche e sfinite, come pecore senza pastore;124 cerca le smarrite e le disperse 125 e fa festa per il loro ritrovamento, le raccoglie e le difende, le conosce e le chiama ad una ad una,126 le conduce ai pascoli erbosi e alle acque tranquille,127 per loro imbandisce una mensa, nutrendole con la sua stessa vita. Questa vita il buon Pastore offre con la sua morte e risurrezione, come la liturgia romana della Chiesa canta: « È risorto il Pastore buono che ha dato la vita per le sue pecorelle, e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia ».128

Pietro chiama Gesù il « Principe dei pastori »,129 perché la sua opera e missione continuano nella Chiesa attraverso gli apostoli 130 e i loro successori131 e attraverso i presbiteri. In forza della loro consacrazione, i presbiteri sono configurati a Gesù Buon Pastore e sono chiamati a imitare e a rivivere la sua stessa carità pastorale.

Il donarsi di Cristo alla Chiesa, frutto del suo amore, si connota di quella dedizione originale che è propria dello sposo nei riguardi della sposa, come più volte suggeriscono i testi sacri. Gesù è il vero Sposo che offre il vino della salvezza alla Chiesa.132 Lui, che è il « capo della Chiesa... e il salvatore del suo corpo »,133 « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata ».134 La Chiesa è sì il corpo, nel quale è presente e operante Cristo Capo, ma è anche la Sposa, che scaturisce come nuova Eva dal costato aperto del Redentore sulla croce: per questo Cristo sta « davanti » alla Chiesa, « la nutre e la cura » 135 con il dono della sua vita per lei. Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa:136 certamente egli rimane sempre parte della comunità come credente, insieme a tutti gli altri fratelli e sorelle convocati dallo Spirito, ma in forza della sua configurazione a Cristo Capo e Pastore si trova in tale posizione sponsale di fronte alla comunità. « In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ».137 È chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l'amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita dev'essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell'amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di « gelosia » divina,138 con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell'affetto materno, capace di farsi carico dei « dolori del parto » finché « Cristo non sia formato » nei fedeli.139

23. Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero.

Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo. « La carità pastorale è quella virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l'amore di Cristo per il suo gregge. La carità pastorale determina il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di rapportarci alla gente. E risulta particolarmente esigente per noi... ».140

Il dono di sé, radice e sintesi della carità pastorale, ha come destinataria la Chiesa. Così è stato di Cristo che « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei »;141 così dev'essere del sacerdote. Con la carità pastorale che impronta l'esercizio del ministero sacerdotale come « amoris officium »,142 « il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale e, con tale spiritualità concreta, diventa capace di amare la Chiesa universale e quella porzione di essa, che gli è affidata, con tutto lo slancio di uno sposo verso la sposa ».143 Il dono di sé non ha confini, essendo segnato dallo stesso slancio apostolico e missionario di Cristo, del buon Pastore, che ha detto: « E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore ».144

All'interno della comunità ecclesiale, la carità pastorale del sacerdote sollecita ed esige in un modo particolare e specifico il suo rapporto personale con il presbiterio, unito nel e con il Vescovo, come esplicitamente scrive il Concilio: « La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i Vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio ».145

Il dono di sé alla Chiesa la riguarda in quanto essa è il corpo e la sposa di Gesù Cristo. Per questo la carità del sacerdote si riferisce primariamente a Gesù Cristo: solo se ama e serve Cristo Capo e Sposo, la carità diventa fonte, criterio, misura, impulso dell'amore e del servizio del sacerdote alla Chiesa, corpo e sposa di Cristo. È stata questa la coscienza limpida e forte dell'apostolo Paolo, che ai cristiani della Chiesa di Corinto scrive: « Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù ».146 È questo, soprattutto, l'insegnamento esplicito e programmatico di Gesù quando affida a Pietro il ministero di pascere il gregge solo dopo la sua triplice attestazione di amore, anzi di un amore di predilezione: « Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle..." ».147 La carità pastorale, che ha la sua sorgente specifica nel sacramento dell'Ordine, trova la sua espressione piena e il suo supremo alimento nell'Eucaristia: « Questa carità pastorale — leggiamo nel Concilio — scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, cosicché l'anima sacerdotale si studia di rispecchiare in sé ciò che viene realizzato sull'altare ».148 È nell'Eucaristia, infatti, che viene ripresentato, ossia fatto di nuovo presente il sacrificio della croce, il dono totale di Cristo alla sua Chiesa, il dono del suo corpo dato e del suo sangue sparso, quale suprema testimonianza del suo essere Capo e Pastore, Servo e Sposo della Chiesa. Proprio per questo, la carità pastorale del sacerdote non solo scaturisce dall'Eucaristia, ma trova nella celebrazione di questa la sua più alta realizzazione, così come dall'Eucaristia riceve la grazia e la responsabilità di connotare in senso « sacrificale » la sua intera esistenza.

Questa stessa carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote. Grazie ad essa può trovare risposta l'essenziale e permanente esigenza dell'unità tra la vita interiore e le tante azioni e responsabilità del ministero, esigenza quanto mai urgente in un contesto socio-culturale ed ecclesiale fortemente segnato dalla complessità, dalla frammentarietà e dalla dispersività. Solo la concentrazione di ogni istante e di ogni gesto attorno alla scelta fondamentale e qualificante di « dare la vita per il gregge » può garantire questa unità vitale, indispensabile per l'armonia e per l'equilibrio spirituale del sacerdote: « L'unità di vita — ci ricorda il Concilio — può essere raggiunta dai presbiteri seguendo nello svolgimento del loro ministero l'esempio di Cristo Signore, il cui cibo era il compimento della volontà di colui che lo aveva inviato a realizzare la sua opera... Così, rappresentando il buon Pastore, nello stesso esercizio pastorale della carità troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l'unità nella loro vita e attività ».149

24. Lo Spirito del Signore ha consacrato Cristo e lo ha mandato ad annunciare il Vangelo.150 La missione non è un elemento esteriore e giustapposto alla consacrazione, ma ne costituisce la destinazione intrinseca e vitale: la consacrazione è per la missione. Così, non solo la consacrazione, ma anche la missione sta sotto il segno dello Spirito, sotto il suo influsso santificatore.

Così è stato di Gesù. Così è stato degli apostoli e dei loro successori. Così è dell'intera Chiesa e in essa dei presbiteri: tutti ricevono lo Spirito come dono e appello di santificazione all'interno e attraverso il compimento della missione.151

Esiste dunque un intimo rapporto tra la vita spirituale del presbitero e l'esercizio del suo ministero,152 rapporto che il Concilio così esprime: « Esercitando il ministero dello Spirito e della giustizia essi (presbiteri) vengono consolidati nella vita dello spirito, a condizione però che siano docili agli insegnamenti dello Spirito di Cristo che li vivifica e li conduce. I presbiteri, infatti, sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta unione con il Vescovo e tra di loro. Ma la stessa santità dei presbiteri, a sua volta, contribuisce moltissimo al compimento efficace del loro ministero ».153

« Vivi il mistero che è posto nelle tue mani »! È questo l'invito, il monito che la Chiesa rivolge al presbitero nel rito dell'ordinazione, quando gli vengono consegnate le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Il « mistero », di cui il presbitero è dispensatore,154 è, in definitiva, Gesù Cristo stesso, che nello Spirito è sorgente di santità e appello alla santificazione. Il « mistero » chiede di essere inserito nella vita vissuta del presbitero. Per questo esige grande vigilanza e viva consapevolezza. È ancora il rito dell'ordinazione a far precedere le parole ricordate dalla raccomandazione: « Renditi conto di ciò che farai ». Già Paolo ammoniva il vescovo Timoteo: « Non trascurare il dono spirituale che è in te ».155

Il rapporto tra la vita spirituale e l'esercizio del ministero sacerdotale può trovare una sua spiegazione anche a partire dalla carità pastorale donata dal sacramento dell'Ordine. Il ministero del sacerdote, proprio perché è una partecipazione al ministero salvifico di Gesù Cristo Capo e Pastore, non può non riesprimere e rivivere quella sua carità pastorale che insieme è la sorgente e lo spirito del suo servizio e del suo dono di sé. Nella sua realtà oggettiva il ministero sacerdotale è « amoris officium », secondo la citata espressione di Sant'Agostino: proprio questa realtà oggettiva si pone come fondamento e appello per un ethos corrispondente, che non può essere se non quello di vivere l'amore, come rileva lo stesso Sant'Agostino: « Sit amoris officium pascere dominicum gregem ».156 Tale ethos, e quindi la vita spirituale, altro non è che l'accoglienza nella coscienza e nella libertà, e pertanto nella mente, nel cuore, nelle decisioni e nelle azioni, della « verità » del ministero sacerdotale come « amoris officium ».

25. È essenziale, per una vita spirituale che si sviluppa attraverso l'esercizio del ministero, che il sacerdote rinnovi continuamente e approfondisca sempre più la coscienza di essere ministro di Gesù Cristo in forza della consacrazione sacramentale e della configurazione a Lui Capo e Pastore della Chiesa.

Una simile coscienza non soltanto corrisponde alla vera natura della missione che il sacerdote svolge a favore della Chiesa e dell'umanità, ma decide anche della vita spirituale del sacerdote che compie quella missione. Il sacerdote, infatti, viene scelto da Cristo non come una « cosa », bensì come una « persona »: egli non è uno strumento inerte e passivo ma uno « strumento vivo », come si esprime il Concilio, proprio là dove parla dell'obbligo di tendere alla perfezione.157 È ancora il Concilio a parlare dei sacerdoti come di « soci e collaboratori » di Dio « santo e santificatore ».158

In tale senso nell'esercizio del ministero è profondamente coinvolta la persona cosciente, libera e responsabile del sacerdote. Il legame con Gesù Cristo, che la consacrazione e configurazione del sacramento dell'Ordine assicurano, fonda ed esige nel sacerdote un ulteriore legame che è dato dalla « intenzione », ossia dalla volontà cosciente e libera di fare, mediante il gesto ministeriale, ciò che intende fare la Chiesa. Un simile legame tende, per sua natura, a farsi il più ampio e il più profondo possibile, investendo la mente, i sentimenti, la vita, ossia una serie di « disposizioni » morali e spirituali corrispondenti ai gesti ministeriali che il sacerdote pone.

Non c'è dubbio che l'esercizio del ministero sacerdotale, in specie la celebrazione dei Sacramenti, riceve la sua efficacia di salvezza dall'azione stessa di Gesù Cristo resa presente nei Sacramenti. Ma per un disegno divino, che vuole esaltare l'assoluta gratuità della salvezza facendo dell'uomo un « salvato » e insieme un « salvatore » — sempre e solo con Gesù Cristo —, l'efficacia dell'esercizio del ministero è condizionata anche dalla maggior o minor accoglienza e partecipazione umana.159 In particolare, la maggiore o minore santità del ministro influisce realmente sull'annuncio della Parola, sulla celebrazione dei Sacramenti, sulla guida della comunità nella carità. È quanto afferma con chiarezza il Concilio: « La stessa santità dei presbiteri ... contribuisce moltissimo al compimento efficace del loro ministero: infatti, se è vero che la grazia di Dio può realizzare l'opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, ciò nondimeno Dio, ordinariamente, preferisce manifestare le sue grandezze attraverso coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l'apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e alla santità di vita: "Ormai non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me"160 ».161

La coscienza di essere ministro di Gesù Cristo Capo e Pastore comporta anche la coscienza grata e gioiosa di una singolare grazia ricevuta da Gesù Cristo: la grazia di essere stato scelto gratuitamente dal Signore come « strumento vivo » dell'opera della salvezza. Questa scelta testimonia l'amore di Gesù Cristo per il sacerdote. Proprio quest'amore, come e più d'ogni altro amore, esige la corrispondenza. Dopo la sua risurrezione, Gesù pone a Pietro la fondamentale domanda sull'amore: « Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro? ». E alla risposta di Pietro segue l'affidamento della missione: « Pasci i miei agnelli ».162 Gesù chiede a Pietro se lo ami, prima di e per potergli consegnare il suo gregge. Ma, in realtà, è l'amore libero e preveniente di Gesù stesso a originare la sua richiesta all'apostolo e l'affidamento a lui delle « sue » pecore. Così ogni gesto ministeriale, mentre conduce ad amare e a servire la Chiesa, spinge a maturare sempre più nell'amore e nel servizio a Gesù Cristo Capo, Pastore e Sposo della Chiesa, un amore che si configura sempre come risposta a quello preveniente, libero e gratuito di Dio in Cristo. A sua volta, la crescita dell'amore a Gesù Cristo determina la crescita dell'amore alla Chiesa: « Siamo vostri pastori (pascimus vobis), con voi siamo nutriti (pascimur vobiscum). Il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto da poter morire per voi, o di fatto o col cuore (aut effectu aut affectu) ».163

26. Grazie al prezioso insegnamento del Concilio Vaticano II,164 possiamo cogliere le condizioni e le esigenze, le modalità e i frutti dell'intimo rapporto che esiste tra la vita spirituale del sacerdote e l'esercizio del suo triplice ministero: della Parola, del Sacramento e del servizio della Carità.

Il sacerdote è, anzitutto, ministro della Parola di Dio, è consacrato e mandato ad annunciare a tutti il Vangelo del Regno, chiamando ogni uomo all'obbedienza della fede e conducendo i credenti ad una conoscenza e comunione sempre più profonde del mistero di Dio, rivelato e comunicato a noi in Cristo. Per questo, il sacerdote stesso per primo deve sviluppare una grande familiarità personale con la Parola di Dio: non gli basta conoscerne l'aspetto linguistico o esegetico, che pure è necessario; gli occorre accostare la Parola con cuore docile e orante, perché essa penetri a fondo nei suoi pensieri e sentimenti e generi in lui una mentalità nuova — « il pensiero di Cristo » 165 —, in modo che le sue parole, le sue scelte e i suoi atteggiamenti siano sempre più una trasparenza, un annuncio ed una testimonianza del Vangelo. Solo « rimanendo » nella Parola, il sacerdote diventerà perfetto discepolo del Signore, conoscerà la verità e sarà veramente libero, superando ogni condizionamento contrario od estraneo al Vangelo.166 Il sacerdote dev'essere il primo « credente » alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono « sue », ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del Popolo di Dio. Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato.167 Egli annuncia la Parola nella sua qualità di « ministro », partecipe dell'autorità profetica di Cristo e della Chiesa. Per questo, per avere in se stesso e per dare ai fedeli la garanzia di trasmettere il Vangelo nella sua integrità il sacerdote è chiamato a coltivare una sensibilità, un amore e una disponibilità particolari nei confronti della Tradizione viva della Chiesa e del suo Magistero: questi non sono estranei alla Parola, ma ne servono la retta interpretazione e ne custodiscono il senso autentico.168

È soprattutto nella celebrazione dei Sacramenti e nella celebrazione della Liturgia delle Ore che il sacerdote è chiamato a vivere e a testimoniare l'unità profonda tra l'esercizio del suo ministero e la sua vita spirituale: il dono di grazia offerto alla Chiesa si fa principio di santità e appello di santificazione. Anche per il sacerdote il posto veramente centrale, sia nel ministero sia nella vita spirituale, è dell'Eucaristia, perché in essa « è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo, dà vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire insieme a lui se stessi, le proprie fatiche e tutte le cose create ».169

Dai diversi Sacramenti, e in particolare dalla grazia specifica e propria a ciascuno di essi, la vita spirituale del presbitero riceve connotazioni particolari. Essa, infatti, viene strutturata e plasmata dalle molteplici caratteristiche ed esigenze dei diversi Sacramenti celebrati e vissuti.

Una parola speciale voglio riservare per il Sacramento della Penitenza, del quale i sacerdoti sono i ministri ma devono anche esserne i beneficiari, divenendo testimoni della compassione di Dio per i peccatori. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del Sacramento della Penitenza. Ripropongo quanto ho scritto nell'Esortazione « Reconciliatio et Paenitentia »: « La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del Sacramento della Penitenza. La celebrazione dell'Eucaristia e il ministero degli altri Sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col Vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato d'autentica fede e devozione, al Sacramento della Penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la Comunità, di cui egli è pastore ».170

Infine, il sacerdote è chiamato a rivivere l'autorità e il servizio di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa animando e guidando la comunità ecclesiale, ossia riunendo « la famiglia di Dio come fraternità animata nell'unità » e conducendola « al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo ».171 Questo « munus regendi » è compito molto delicato e complesso, che include, oltre all'attenzione alle singole persone e alle diverse vocazioni, la capacità di coordinare tutti i doni e i carismi che lo Spirito suscita nella comunità, verificandoli e valorizzandoli per l'edificazione della Chiesa sempre in unione con i Vescovi. Si tratta di un ministero che richiede al sacerdote una vita spirituale intensa, ricca di quelle qualità e virtù che sono tipiche della persona che « presiede » e « guida » una comunità, dell'« anziano » nel senso più nobile e ricco del termine: tali sono la fedeltà, la coerenza, la saggezza, l'accoglienza di tutti, l'affabile bontà, l'autorevole fermezza sulle cose essenziali, la libertà da punti di vista troppo soggettivi, il disinteresse personale, la pazienza, il gusto dell'impegno quotidiano, la fiducia nel lavoro nascosto della grazia che si manifesta nei semplici e nei poveri.172

27. « Lo Spirito del Signore è sopra di me ».173 Lo Spirito Santo effuso dal sacramento dell'Ordine è fonte di santità e appello alla santificazione, non solo perché configura il sacerdote a Cristo Capo e Pastore della Chiesa e gli affida la missione profetica, sacerdotale e regale da compiere nel nome e nella persona di Cristo, ma anche perché anima e vivifica la sua esistenza quotidiana, arricchendola di doni e di esigenze, di virtù e di impulsi, che si compendiano nella carità pastorale. Una simile carità è sintesi unificante dei valori e delle virtù evangeliche e insieme forza che sostiene il loro sviluppo sino alla perfezione cristiana.174

Per tutti i cristiani, nessuno escluso, il radicalismo evangelico è un'esigenza fondamentale e irrinunciabile, che scaturisce dall'appello di Cristo a seguirlo e ad imitarlo, in forza dell'intima comunione di vita con lui operata dallo Spirito.175 Questa stessa esigenza si ripropone per i sacerdoti, non solo perché sono « nella » Chiesa, ma anche perché sono « di fronte » alla Chiesa, in quanto sono configurati a Cristo Capo e Pastore, abilitati e impegnati al ministero ordinato, vivificati dalla carità pastorale. Ora, all'interno e come manifestazione del radicalismo evangelico si ritrova una ricca fioritura di molteplici virtù ed esigenze etiche che sono decisive per la vita pastorale e spirituale del sacerdote, come, ad esempio, la fede, l'umiltà di fronte al mistero di Dio, la misericordia, la prudenza. Espressione privilegiata del radicalismo sono i diversi « consigli evangelici », che Gesù propone nel Discorso della Montagna 176 e tra questi i consigli, intimamente coordinati tra loro,d'obbedienza, castità e povertà: 177 il sacerdote è chiamato a viverli secondo quelle modalità, e più profondamente secondo quelle finalità e quel significato originale, che derivano dall'identità propria del presbitero e la esprimono.

28. « Tra le virtù che più sono necessarie nel ministero dei presbiteri, va ricordata quella disposizione d'animo per cui sempre sono pronti a cercare non la propria volontà, ma il compimento della volontà di colui che li ha inviati 178 ».179 È l'obbedienza, che nel caso della vita spirituale del sacerdote si riveste di alcune caratteristiche peculiari.

Essa è, anzitutto, un'obbedienza « apostolica », nel senso che riconosce, ama e serve la Chiesa nella sua struttura gerarchica. Non si dà, infatti, ministero sacerdotale se non nella comunione con il sommo Pontefice e con il Collegio episcopale, in particolare con il proprio Vescovo diocesano, ai quali sono da riservarsi « il filiale rispetto e l'obbedienza » promessi nel rito dell'ordinazione. Questa « sottomissione » a quanti sono rivestiti dell'autorità ecclesiale non ha nulla di umiliante, ma deriva dalla libertà responsabile del presbitero, che accoglie non solo le esigenze di una vita ecclesiale organica e organizzata, ma anche quella grazia di discernimento e di responsabilità nelle decisioni ecclesiali, che Gesù ha garantito ai suoi apostoli e ai loro successori, perché sia custodito con fedeltà il mistero della Chiesa e perché la compagine della comunità cristiana venga servita nel suo unitario cammino verso la salvezza.

L'obbedienza cristiana autentica, rettamente motivata e vissuta senza servilismi, aiuta il presbitero ad esercitare con evangelica trasparenza l'autorità che gli è affidata nei confronti del Popolo di Dio: senza autoritarismi e senza scelte demagogiche. Solo chi sa obbedire in Cristo, sa come richiedere, secondo il Vangelo, l'obbedienza altrui.

L'obbedienza presbiterale presenta inoltre un'esigenza « comunitaria »: non è l'obbedienza di un singolo che individualmente si rapporta con l'autorità, ma è invece profondamente inserita nell'unità del presbiterio, che come tale è chiamato a vivere la concorde collaborazione con il Vescovo e, per suo tramite, con il successore di Pietro.180

Questo aspetto dell'obbedienza del sacerdote richiede una notevole ascesi, sia nel senso di un'abitudine a non legarsi troppo alle proprie preferenze o ai propri punti di vista, sia nel senso di lasciare spazio ai confratelli perché possano valorizzare i loro talenti e le loro capacità, al di fuori di ogni gelosia, invidia e rivalità. Quella del sacerdote è un'obbedienza solidale, che parte dalla sua appartenenza all'unico presbiterio e che sempre all'interno di esso e con esso esprime orientamenti e scelte corresponsabili.

Infine, l'obbedienza sacerdotale ha un particolare carattere di « pastorali- tà ». È vissuta, cioè, in un clima di costante disponibilità a lasciarsi afferrare, quasi « mangiare », dalle necessità e dalle esigenze del gregge. Queste ultime devono avere una giusta razionalità, e talvolta vanno selezionate e sottoposte a verifica, ma è innegabile che la vita del presbitero è « occupata » in modo pieno dalla fame di Vangelo, di fede, di speranza e di amore di Dio e del suo mistero, la quale più o meno consapevolmente è presente nel Popolo di Dio a lui affidato.

29. Tra i consigli evangelici — scrive il Concilio — « eccelle questo prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni 181 di votarsi a Dio solo più facilmente e con un cuore senza divisioni 182 nella verginità e nel celibato. Questa perfetta continenza per il Regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, come un segno e uno stimolo della carità e come una speciale sorgente di fecondità nel mondo ».183 Nella verginità e nel celibato la castità mantiene il suo significato originario, quello cioè di una sessualità umana vissuta come autentica manifestazione e prezioso servizio all'amore di comunione e di donazione interpersonale. Questo significato sussiste pienamente nella verginità, che realizza, pur nella rinuncia al matrimonio, il « significato sponsale » del corpo mediante una comunione e una donazione personale a Gesù Cristo e alla sua Chiesa che prefigurano e anticipano la comunione e la donazione perfette e definitive dell'al di là: « Nella verginità l'uomo è in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi integralmente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni a questa nella piena verità della vita eterna ».184

In questa luce si possono più facilmente comprendere e apprezzare i motivi della scelta plurisecolare che la Chiesa di Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l'ordine presbiterale solo a uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel celibato assoluto e perpetuo.

I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un'importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita: « Ferma restante la disciplina delle Chiese Orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto da Dio il dono della vocazione alla castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo, per il quale si dà eccezione nell'enciclica di Paolo VI, « Sacerdotalis Caelibatus »). Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all'ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale, come dono prezioso dato da Dio alla sua Chiesa e come segno del Regno che non è di questo mondo, segno dell'amore di Dio verso questo mondo nonché dell'amore indiviso del sacerdote verso Dio e il Popolo di Dio, così che il celibato sia visto come arricchimento positivo del sacerdozio ».185

È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore.

Per un'adeguata vita spirituale del sacerdote occorre che il celibato sia considerato e vissuto non come un elemento isolato o puramente negativo, ma come un aspetto di un orientamento positivo, specifico e caratteristico del sacerdote: egli, lasciando il padre e la madre, segue Gesù buon Pastore, in una comunione apostolica, a servizio del Popolo di Dio. Il celibato è dunque da accogliere con libera e amorosa decisione da rinnovare continuamente, come dono inestimabile di Dio, come « stimolo della carità pastorale »,186 come singolare partecipazione alla paternità di Dio e alla fecondità della Chiesa, come testimonianza al mondo del Regno escatologico. Per vivere tutte le esigenze morali, pastorali e spirituali del celibato sacerdotale è assolutamente necessaria la preghiera umile e fiduciosa, come ci avverte il Concilio: « Al mondo d'oggi, quanto più la perfetta continenza viene considerata impossibile da tante persone, con tanta maggiore umiltà e perseveranza debbono i presbiteri implorare insieme alla Chiesa la grazia della fedeltà che mai è negata a chi la richiede, ricorrendo allo stesso tempo ai mezzi soprannaturali e naturali di cui tutti dispongono ».187 Sarà ancora la preghiera, unita ai Sacramenti della Chiesa e all'impegno ascetico, ad infondere speranza nelle difficoltà, perdono nelle mancanze, fiducia e coraggio nella ripresa del cammino.

30. Della povertà evangelica i Padri sinodali hanno dato una descrizione quanto mai concisa e profonda, presentandola come « sottomissione di tutti i beni al Bene supremo di Dio e del suo Regno ».188 In realtà, solo chi contempla e vive il mistero di Dio quale unico e sommo Bene, quale vera e definitiva Ricchezza, può capire e realizzare la povertà, che non è certamente disprezzo e rifiuto dei beni materiali, ma è uso grato e cordiale di questi beni ed insieme lieta rinuncia ad essi con grande libertà interiore, ossia in ordine a Dio e ai suoi disegni.

La povertà del sacerdote, in forza della sua configurazione sacramentale a Cristo Capo e Pastore, assume precise connotazioni « pastorali », sulle quali, riprendendo e sviluppando l'insegnamento conciliare,189 si sono soffermati i Padri sinodali. Scrivono tra l'altro: « I sacerdoti, sull'esempio di Cristo che da ricco come era si è fatto povero per nostro amore,190 devono considerare i poveri e più deboli come loro affidati in una maniera speciale e devono essere capaci di testimoniare la povertà con una vita semplice e austera, essendo già abituati a rinunciare generosamente alle cose superflue 191 ».192

È vero che « l'operaio è degno della sua mercede » e che « il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo »,193 ma è altrettanto vero che questo diritto dell'apostolo non può assolutamente confondersi con qualsiasi pretesa di piegare il servizio del Vangelo e della Chiesa ai vantaggi e agli interessi che ne possono derivare. Solo la povertà assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell'apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad « andare », senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro.194

Personalmente inserito nella vita della comunità e responsabile di essa, il sacerdote deve offrire anche la testimonianza di una totale « trasparenza » nell'amministrazione dei beni della comunità stessa, che egli non tratterà mai come fossero un patrimonio proprio, ma come cosa di cui deve rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri. La coscienza poi di appartenere all'unico presbiterio spingerà il sacerdote ad impegnarsi per favorire sia una più equa distribuzione dei beni tra i confratelli, sia un certo uso in comune dei beni.195

La libertà interiore, che la povertà evangelica custodisce e alimenta, abilita il prete a stare accanto ai più deboli, a farsi solidale con i loro sforzi per l'instaurazione d'una società più giusta, ad essere più sensibile e più capace di comprensione e di discernimento dei fenomeni riguardanti l'aspetto economico e sociale della vita, a promuovere la scelta preferenziale dei poveri: questa, senza escludere nessuno dall'annuncio e dal dono della salvezza, sa chinarsi sui piccoli, sui peccatori, sugli emarginati di ogni specie, secondo il modello dato da Gesù nello svolgimento del suo ministero profetico e sacerdotale.196

Né va dimenticato il significato profetico della povertà sacerdotale, particolarmente urgente nelle società opulente e consumiste: « Il sacerdote veramente povero è di certo un segno concreto della separazione, della rinuncia e non della sottomissione alla tirannia del mondo contemporaneo che ripone ogni sua fiducia nel denaro e nella sicurezza materiale ».197

Gesù Cristo, che sulla croce conduce a perfezione la sua carità pastorale con un'abissale spogliazione esteriore e interiore, è il modello e la fonte delle virtù di obbedienza, castità e povertà, che il sacerdote è chiamato a vivere come espressione del suo amore pastorale per i fratelli. Secondo quanto Paolo scrive ai cristiani di Filippi, il sacerdote deve avere gli « stessi sentimenti » di Gesù, spogliandosi del proprio « io », per trovare, nella carità obbediente, casta e povera, la via maestra dell'unione con Dio e dell'unità con i fratelli.198

31. Come ogni vita spirituale autenticamente cristiana, anche quella del sacerdote possiede un'essenziale e irrinunciabile dimensione ecclesiale: è partecipazione alla santità della Chiesa stessa, che nel Credo professiamo quale « Comunione dei Santi ». La santità del cristiano deriva da quella della Chiesa, la esprime e nello stesso tempo l'arricchisce. Questa dimensione ecclesiale riveste modalità, finalità e significati particolari nella vita spirituale del presbitero, in forza del suo specifico rapporto con la Chiesa, sempre a partire dalla sua configurazione a Cristo Capo e Pastore, dal suo ministero ordinato, dalla sua carità pastorale.

In questa prospettiva occorre considerare come valore spirituale del presbitero la sua appartenenza e la sua dedicazione alla Chiesa particolare. Queste, in realtà, non sono motivate soltanto da ragioni organizzative e disciplinari. Al contrario, il rapporto con il Vescovo nell'unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del Popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale. In questo senso la incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fisionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero.

È necessario che il sacerdote abbia la coscienza che il suo « essere in una Chiesa particolare » costituisce, di sua natura, un elemento qualificante per vivere la spiritualità cristiana. In tal senso il presbitero trova proprio nella sua appartenenza e dedicazione alla Chiesa particolare una fonte di significati, di criteri di discernimento e di azione, che configurano sia la sua missione pastorale sia la sua vita spirituale.

Al cammino verso la perfezione possono contribuire anche altre ispirazioni o riferimenti ad altre tradizioni di vita spirituale, capaci di arricchire la vita sacerdotale dei singoli e di animare il presbiterio di preziosi doni spirituali. È questo il caso di molte aggregazioni ecclesiali antiche e nuove, che accolgono nel proprio ambito anche sacerdoti: dalle società di vita apostolica agli istituti secolari presbiterali, dalle varie forme di comunione e di condivisione spirituale ai movimenti ecclesiali. I sacerdoti, che appartengono ad ordini e a congregazioni religiose, sono una ricchezza spirituale per l'intero presbiterio diocesano, al quale offrono il contributo di specifici carismi e di ministeri qualificati, stimolando con la loro presenza la Chiesa particolare a vivere più intensamente la sua apertura universale.199

L'appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l'edificazione della Chiesa « nella persona » di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un'esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa.200

Perché l'abbondanza dei doni dello Spirito venga accolta nella gioia e fatta fruttificare a gloria di Dio per il bene della Chiesa intera, si esige da parte di tutti, in primo luogo, la conoscenza ed il discernimento dei carismi propri ed altrui, e un loro esercizio accompagnato sempre dall'umiltà cristiana, dal coraggio dell'autocritica, dall'intenzione, prevalente su ogni altra preoccupazione, di giovare all'edificazione dell'intera comunità al cui servizio è posto ogni carisma particolare. Si chiede, inoltre, a tutti un sincero sforzo di reciproca stima, di rispetto vicendevole e di coordinata valorizzazione di tutte le positive e legittime diversità presenti nel presbiterio. Anche tutto questo fa parte della vita spirituale e della continua ascesi del sacerdote.

32. L'appartenenza e la dedicazione alla Chiesa particolare non rinchiudono in essa l'attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare 201 sia del ministero sacerdotale. Il Concilio scrive al riguardo: « Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli ultimi confini della terra",202 dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli ».203

Ne deriva che la vita spirituale dei sacerdoti dev'essere profondamente segnata dall'anelito e dal dinamismo missionario. Tocca loro, nell'esercizio del ministero e nella testimonianza della vita, plasmare la comunità loro affidata come comunità autenticamente missionaria. Come ho scritto nell'enciclica « Redemptoris Missio », « tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la Chiesa per tutta l'umanità ».204

Se questo spirito missionario animerà generosamente la vita dei sacerdoti, sarà facilitata la risposta a quell'esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero. In questo senso già il Concilio è stato quanto mai preciso e forte: « Ricordino i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le Chiese. Pertanto i presbiteri di quelle diocesi che hanno maggior abbondanza di vocazioni si mostrino disposti ad esercitare volentieri il proprio ministero, previo il consenso o l'invito del proprio ordinario, in quelle regioni, missioni o opere che soffrano di scarsezza di clero ».205

33. « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato, e mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio... ».206 Gesù fa risuonare anche oggi nel nostro cuore di sacerdoti le parole che ha pronunciato nella sinagoga di Nazaret. La nostra fede, infatti, ci rivela la presenza operante dello Spirito di Cristo nel nostro essere, nel nostro agire e nel nostro vivere così come l'ha configurato, abilitato e plasmato il sacramento dell'Ordine.

Sì, lo Spirito del Signore è il grande protagonista della nostra vita spirituale. Egli crea il « cuore nuovo », lo anima e lo guida con la « legge nuova » della carità, della carità pastorale. Per lo sviluppo della vita spirituale è decisiva la consapevolezza che non manca mai al sacerdote la grazia dello Spirito Santo, come dono totalmente gratuito e come compito responsabilizzante. La coscienza del dono infonde e sostiene l'incrollabile fiducia del sacerdote nelle difficoltà, nelle tentazioni, nelle debolezze che s'incontrano sul cammino spirituale.

Ripropongo a tutti i sacerdoti quanto dissi a tanti di loro in altra occasione: « La vocazione sacerdotale è essenzialmente una chiamata alla santità, nella forma che scaturisce dal sacramento dell'Ordine. La santità è intimità con Dio, è imitazione di Cristo, povero, casto e umile; è amore senza riserve alle anime e donazione al loro vero bene; è amore alla Chiesa che è santa e ci vuole santi, perché tale è la missione che Cristo le ha affidato. Ciascuno di voi deve essere santo anche per aiutare i fratelli a seguire la loro vocazione alla santità.

Come non riflettere... sul ruolo essenziale che lo Spirito Santo svolge nella specifica chiamata alla santità, che è propria del ministero sacerdotale? Ricordiamo le parole del rito dell'Ordinazione sacerdotale, che sono ritenute centrali nella formula sacramentale: "Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato. Rinnova in loro l'effusione del tuo Spirito di santità; adempiano fedelmente, o Signore, il ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto e con il loro esempio guidino tutti a un'integra condotta di vita".

Mediante l'Ordinazione, carissimi, avete ricevuto lo stesso Spirito di Cristo, che vi rende simili a Lui, perché possiate agire nel suo nome e vivere in voi i suoi stessi sentimenti. Questa intima comunione con lo Spirito di Cristo, mentre garantisce l'efficacia dell'azione sacramentale che voi ponete "in persona Christi", chiede anche di esprimersi nel fervore della preghiera, nella coerenza della vita, nella carità pastorale di un ministero instancabilmente proteso alla salvezza dei fratelli. Chiede, in una parola, la vostra personale santificazione ».207

CAPITOLO IV

VENITE E VEDRETE
La vocazione sacerdotale nella pastorale della Chiesa

34. « Venite e vedrete ».208 Così Gesù risponde ai due discepoli di Giovanni il Battista, che gli chiedevano dove abitasse. In queste parole troviamo il significato della vocazione.

Ecco come l'evangelista racconta la chiamata di Andrea e di Pietro: « Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: "Ecco l'agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbi (che significa maestro), dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».209

Questa pagina di Vangelo è una delle tante del Libro Sacro nelle quali si descrive il « mistero » della vocazione, nel nostro caso il mistero della vocazione ad essere apostoli di Gesù. La pagina di Giovanni, che ha un significato anche per la vocazione cristiana come tale, riveste un valore emblematico per la vocazione sacerdotale. La Chiesa, quale comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata a fissare il suo sguardo su questa scena che, in qualche modo, si rinnova continuamente nella storia. È invitata ad approfondire il senso originale e personale della vocazione alla sequela di Cristo nel ministero sacerdotale e l'inscindibile legame tra la grazia divina e la responsabilità umana, racchiuso e rivelato nei due termini che più volte troviamo nel Vangelo: vieni e seguimi.210 È sollecitata a decifrare e a percorrere il dinamismo proprio della vocazione, il suo svilupparsi graduale e concreto nelle fasi del cercare Gesù, del seguirlo e del rimanere con lui.

La Chiesa coglie in questo « Vangelo della vocazione » il paradigma, la forza e l'impulso della sua pastorale vocazionale, ossia della sua missione destinata a curare la nascita, il discernimento e l'accompagnamento delle vocazioni, in particolare delle vocazioni al sacerdozio. Proprio perché « la mancanza di sacerdoti è certamente la tristezza di ogni Chiesa »,211 la pastorale vocazionale esige, oggi soprattutto, di essere assunta con un nuovo, vigoroso e più deciso impegno da parte di tutti i fedeli, nella consapevolezza che essa non è un elemento secondario o accessorio, né un momento isolato o settoriale, quasi una semplice parte, per quanto rilevante, della pastorale globale della Chiesa: è piuttosto, come hanno ripetutamente affermato i Padri sinodali, un'attività intimamente inserita nella pastorale generale di ogni Chiesa,212 una cura che dev'essere integrata e pienamente identificata con la « cura delle anime » cosiddetta ordinaria,213 una dimensione connaturale ed essenziale della pastorale della Chiesa, ossia della sua vita e della sua missione.214

Sì, la dimensione vocazionale è connaturale ed essenziale alla pastorale della Chiesa. La ragione sta nel fatto che la vocazione definisce, in un certo senso, l'essere profondo della Chiesa, prima ancora che il suo operare. Nel medesimo nome della Chiesa, Ecclesia, è indicata la sua intima fisionomia vocazionale, perché essa è veramente « convocazione », assemblea dei chiamati: « Dio ha convocato l'assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica ».215

Una lettura propriamente teologica della vocazione sacerdotale e della pastorale che la riguarda può scaturire solo dalla lettura del mistero della Chiesa come mysterium vocationis.

35. Ogni vocazione cristiana trova il suo fondamento nell'elezione gratuita e preveniente da parte del Padre « che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà ».216

Ogni vocazione cristiana viene da Dio, è dono di Dio. Essa però non viene mai elargita fuori o indipendentemente dalla Chiesa, ma passa sempre nella Chiesa e mediante la Chiesa, perché, come ci ricorda il Concilio Vaticano II, « piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse ».217

La Chiesa non solo raccoglie in sé tutte le vocazioni che Dio le dona nel suo cammino di salvezza, ma essa stessa si configura come mistero di vocazione, quale luminoso e vivo riflesso del mistero della Trinità santissima. In realtà la Chiesa, « popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo »,218 porta in sé il mistero del Padre che, non chiamato e non inviato da nessuno,219 tutti chiama a santificare il suo nome e a compiere la sua volontà; custodisce in sé il mistero del Figlio che dal Padre è chiamato e mandato ad annunciare a tutti il Regno di Dio e che tutti chiama alla sua sequela; ed è depositaria del mistero dello Spirito Santo che consacra per la missione quelli che il Padre chiama mediante il Figlio suo Gesù Cristo.

La Chiesa, che per nativa costituzione è « vocazione », è generatrice ed educatrice di vocazioni. Lo è nel suo essere di « sacramento », in quanto « segno » e « strumento » in cui risuona e si compie la vocazione di ogni cristiano; e lo è nel suo operare, ossia nello svolgimento del suo ministero di annuncio della Parola, di celebrazione dei Sacramenti e di servizio e testimonianza della carità.

Si può cogliere ora l'essenziale dimensione ecclesiale della vocazione cristiana: non solo essa deriva « dalla » Chiesa e dalla sua mediazione, non solo si fa riconoscere e si compie « nella » Chiesa, ma si configura — nel fondamentale servizio a Dio — anche e necessariamente come servizio « alla » Chiesa. La vocazione cristiana, in ogni sua forma, è un dono destinato all'edificazione della Chiesa, alla crescita del Regno di Dio nel mondo.220

Ciò che diciamo di ogni vocazione cristiana trova una sua specifica realizzazione nella vocazione sacerdotale: questa è chiamata, mediante il sacramento dell'Ordine ricevuto nella Chiesa, a porsi al servizio del Popolo di Dio con una peculiare appartenenza e configurazione a Gesù Cristo e con l'autorità di agire nel nome e nella persona di lui Capo e Pastore della Chiesa.

In questa prospettiva si comprende quanto scrivono i Padri sinodali: « La vocazione di ciascun presbitero sussiste nella Chiesa e per la Chiesa: per essa una simile vocazione si compie. Ne segue che ogni presbitero riceve la vocazione dal Signore attraverso la Chiesa come un dono grazioso, una gratia gratis data (charisma). È proprio del Vescovo o del superiore competente non solo sottoporre ad esame l'idoneità e la vocazione del candidato, ma anche riconoscerla. Un simile elemento ecclesiastico inerisce alla vocazione al ministero presbiterale come tale. Il candidato al presbiterato deve ricevere la vocazione non imponendo le proprie personali condizioni ma accettando anche le norme e le condizioni che la Chiesa stessa, per la sua parte di responsabilità, pone ».221

36. La storia di ogni vocazione sacerdotale, come peraltro di ogni vocazione cristiana, è la storia di un ineffabile dialogo tra Dio e l'uomo, tra l'amore di Dio che chiama e la libertà dell'uomo che nell'amore risponde a Dio. Questi due aspetti indissociabili della vocazione, il dono gratuito di Dio e la libertà responsabile dell'uomo, emergono in modo splendido e quanto mai efficace nelle brevissime parole con le quali l'evangelista Marco presenta la vocazione dei dodici: Gesù « salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui ».222 Da un lato sta la decisione assolutamente libera di Gesù, dall'altro l'« andare » dei dodici, ossia il loro « seguire » Gesù.

È questo il paradigma costante, il dato irrinunciabile di ogni vocazione: quella dei profeti, degli apostoli, dei sacerdoti, dei religiosi, dei fedeli laici, di ogni persona.

Ma del tutto prioritario, anzi preveniente e decisivo è l'intervento libero e gratuito di Dio che chiama. Sua è l'iniziativa del chiamare. È questa, ad esempio, l'esperienza del profeta Geremia: « Mi fu rivolta la parola del Signore: "Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni" ».223 È la stessa verità presentata dall'apostolo Paolo, che radica ogni vocazione nell'eterna elezione in Cristo, fatta « prima della creazione del mondo e secondo il beneplacito della sua volontà ».224 L'assoluto primato della grazia nella vocazione trova la sua perfetta proclamazione nella parola di Gesù: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga ».225

Se la vocazione sacerdotale testimonia in modo inequivocabile il primato della grazia, la libera e sovrana decisione di Dio di chiamare l'uomo domanda assoluto rispetto, non può minimamente essere forzata da qualsiasi pretesa umana, non può essere sostituita da qualsiasi decisione umana. La vocazione è un dono della grazia divina e mai un diritto dell'uomo, così che « non si può mai considerare la vita sacerdotale come una promozione semplicemente umana, né la missione del ministro come un semplice progetto personale ».226 È così escluso in radice ogni vanto e ogni presunzione da parte dei chiamati.227 L'intero spazio spirituale del loro cuore è per una gratitudine ammirata e commossa, per una fiducia ed una speranza incrollabili, perché i chiamati sanno di essere fondati non sulle proprie forze, ma sull'incondizionata fedeltà di Dio che chiama.

« Chiamò quelli che volle ed essi andarono da lui ».228 Questo « andare », che s'identifica con il « seguire » Gesù, esprime la risposta libera dei 12 alla chiamata del Maestro. Così è stato di Pietro e di Andrea: « E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono ».229 Identica è stata l'esperienza di Giacomo e di Giovanni.230 Così sempre: nella vocazione risplendono insieme l'amore gratuito di Dio e l'esaltazione più alta possibile della libertà dell'uomo: quella dell'adesione alla chiamata di Dio e dell'affidamento a lui.

In realtà, grazia e libertà non si oppongono tra loro. Al contrario, la grazia anima e sostiene la libertà umana, liberandola dalla schiavitù del peccato,231 sanandola ed elevandola nelle sue capacità di apertura e di accoglienza del dono di Dio. E se non si può attentare all'iniziativa assolutamente gratuita di Dio che chiama, neppure si può attentare all'estrema serietà con la quale l'uomo è sfidato nella sua libertà. Così al « vieni e seguimi » di Gesù il giovane ricco oppone un rifiuto, segno — sia pure negativo — della sua libertà: « Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni ».232

La libertà, dunque, è essenziale alla vocazione, una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale profonda, come donazione d'amore, o meglio come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama, come oblazione. « La chiamata — diceva Paolo VI — si commisura con la risposta. Non vi possono essere vocazioni, se non libere; se esse non sono cioè offerte spontanee di sé, coscienti, generose, totali... Oblazioni, diciamo: qui sta praticamente il vero problema... È la voce umile e penetrante di Cristo, che dice, oggi come ieri, più di ieri: vieni. La libertà è posta al suo supremo cimento: quello appunto dell'oblazione, della generosità, del sacrificio ».233

L'oblazione libera, che costituisce il nucleo intimo e più prezioso della risposta dell'uomo a Dio che chiama, trova il suo incomparabile modello, anzi la sua radice viva nell'oblazione liberissima di Gesù Cristo, il primo dei chiamati, alla volontà del Padre: « Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà" ».234

In intima comunione con Cristo, Maria, la Vergine Madre, è stata la creatura che più di tutte ha vissuto la piena verità della vocazione, perché nessuno come lei ha risposto con un amore così grande all'amore immenso di Dio.235

37. « Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni ».236 Il giovane ricco del Vangelo, che non segue la chiamata di Gesù, ci ricorda gli ostacoli che possono bloccare o spegnere la risposta libera dell'uomo: non soltanto i beni materiali possono chiudere il cuore umano ai valori dello spirito e alle radicali esigenze del Regno di Dio, ma anche alcune condizioni sociali e culturali del nostro tempo possono presentare non poche minacce e imporre visioni distorte e false circa la vera natura della vocazione, rendendone difficili, se non impossibili, l'accoglienza e la stessa comprensione.

Molti hanno di Dio un'idea così generica e confusa da sconfinare in forme di religiosità senza Dio, nelle quali la volontà di Dio è concepita come un destino immutabile e ineluttabile, al quale l'uomo deve solo adeguarsi e rassegnarsi in piena passività. Ma non è questo il volto di Dio che Gesù Cristo è venuto a rivelarci: Dio, infatti, è il Padre che con amore eterno e preveniente chiama l'uomo e lo costituisce in un meraviglioso e permanente dialogo con lui, invitandolo a condividere, da figlio, la sua stessa vita divina. È certo che con una visione errata di Dio l'uomo non può riconoscere neppure la verità di se stesso, sicché la vocazione non può essere né percepita né vissuta nel suo autentico valore: può essere sentita soltanto come un peso imposto e insopportabile.

Anche talune idee distorte sull'uomo, spesso sostenute da pretestuosi argomenti filosofici o « scientifici », inducono talvolta l'uomo a interpretare la propria esistenza e la propria libertà come totalmente determinate e condizionate da fattori esterni, di ordine educativo, psicologico, culturale o ambientale. Altre volte la libertà viene intesa in termini di assoluta autonomia, pretende di essere l'unica e insindacabile fonte delle scelte personali, si qualifica come affermazione di sé ad ogni costo. Ma in tal modo si preclude la strada per intendere e vivere la vocazione quale libero dialogo d'amore, che nasce dalla comunicazione di Dio all'uomo e si conclude nel dono sincero di se stesso. Nel contesto attuale non manca anche la tendenza a pensare in modo individualistico e intimistico il rapporto dell'uomo con Dio, come se la chiamata di Dio raggiungesse la singola persona per via diretta, senza alcuna mediazione comunitaria, e avesse di mira un vantaggio, o la stessa salvezza, del singolo chiamato e non la dedizione totale a Dio nel servizio della comunità. Incontriamo così un'altra più profonda ed insieme sottile minaccia, che rende impossibile riconoscere e accettare con gioia la dimensione ecclesiale iscritta nativamente in ogni vocazione cristiana, ed in quella presbiterale in specie: infatti, come ci ricorda il Concilio, il sacerdozio ministeriale acquista il suo autentico significato e realizza la piena verità di se stesso nel servire e nel far crescere la comunità cristiana e il sacerdozio comune dei fedeli.237

Il contesto culturale ora ricordato, il cui influsso non è assente tra gli stessi cristiani e specialmente tra i giovani, aiuta a comprendere il diffondersi della crisi delle stesse vocazioni sacerdotali, originate e accompagnate da più radicali crisi di fede. Lo hanno dichiarato esplicitamente i Padri sinodali, riconoscendo che la crisi delle vocazioni al presbiterato ha profonde radici nell'ambiente culturale e nella mentalità e prassi dei cristiani.238

Di qui l'urgenza che la pastorale vocazionale della Chiesa punti decisamente e in modo prioritario sulla ricostruzione della « mentalità cristiana », quale è generata e sostenuta dalla fede. È più che mai necessaria una evangelizzazione che non si stanchi di presentare il vero volto di Dio, il Padre che in Gesù Cristo chiama ciascuno di noi, e il senso genuino della libertà umana quale principio e forza del dono responsabile di se stessi. Solo così saranno poste le basi indispensabili perché ogni vocazione, compresa quella sacerdotale, possa essere percepita nella sua verità, amata nella sua bellezza e vissuta con dedizione totale e con gioia profonda.

38. Certamente la vocazione è un mistero imperscrutabile, che coinvolge il rapporto che Dio instaura con l'uomo nella sua unicità e irripetibilità, un mistero che viene percepito e sentito come un appello che attende una risposta nel profondo della coscienza, in quel « sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria ».239 Ma ciò non elimina la dimensione comunitaria, ed ecclesiale in specie, della vocazione: anche la Chiesa è realmente presente e operante nella vocazione di ogni sacerdote.

Nel servizio alla vocazione sacerdotale e al suo itinerario, ossia alla nascita, al discernimento e all'accompagnamento della vocazione, la Chiesa può trovare un modello in Andrea, uno dei primi due discepoli che si pongono al seguito di Gesù. È lui stesso a raccontare al fratello ciò che gli era accaduto: « Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo) ».240 E il racconto di questa « scoperta » apre la strada all'incontro: « E lo condusse da Gesù ».241 Nessun dubbio sull'iniziativa assolutamente libera e sulla decisione sovrana di Gesù. È Lui che chiama Simone e gli dà un nuovo nome: « Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».242 Ma pure Andrea ha avuto la sua iniziativa: ha sollecitato l'incontro del fratello con Gesù.

« E lo condusse da Gesù ». Sta qui, in un certo senso, il cuore di tutta la pastorale vocazionale della Chiesa, con la quale essa si prende cura della nascita e della crescita delle vocazioni, servendosi dei doni e delle responsabilità, dei carismi e del ministero ricevuti da Cristo e dal suo Spirito. La Chiesa, come popolo sacerdotale, profetico e regale, è impegnata a promuovere e a servire il sorgere e il maturare delle vocazioni sacerdotali con la preghiera e con la vita sacramentale, con l'annuncio della Parola e con l'educazione alla fede, con la guida e la testimonianza della carità.

La Chiesa, nella sua dignità e responsabilità di popolo sacerdotale, ha nella preghiera e nella celebrazione della liturgia i momenti essenziali e primari della pastorale vocazionale. La preghiera cristiana, infatti, nutrendosi della Parola di Dio, crea lo spazio ideale perché ciascuno possa scoprire la verità del proprio essere e l'identità del personale e irripetibile progetto di vita che il Padre gli affida. È necessario, quindi, educare in particolare i ragazzi e i giovani perché siano fedeli alla preghiera e alla meditazione della Parola di Dio: nel silenzio e nell'ascolto potranno percepire la chiamata del Signore al sacerdozio e seguirla con prontezza e generosità.

La Chiesa deve accogliere ogni giorno l'invito suadente ed esigente di Gesù, che chiede di « pregare il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe ».243 Obbedendo al comando di Cristo, la Chiesa compie, prima di ogni altra cosa, un'umile professione di fede: pregando per le vocazioni, mentre ne avverte tutta l'urgenza per la sua vita e per la sua missione, riconosce che esse sono un dono di Dio e, come tali, sono da invocarsi con una supplica incessante e fiduciosa. Questa preghiera, cardine di tutta la pastorale vocazionale, deve però impegnare non solo i singoli ma anche le intere comunità ecclesiali. Nessuno dubita dell'importanza delle singole iniziative di preghiera, dei momenti speciali riservati a questa invocazione, a cominciare dall'annuale Giornata Mondiale per le Vocazioni, e dell'impegno esplicito di persone e di gruppi particolarmente sensibili al problema delle vocazioni sacerdotali. Ma oggi l'attesa orante di nuove vocazioni deve diventare sempre più un'abitudine costante e largamente condivisa nell'intera comunità cristiana e in ogni realtà ecclesiale. Così si potrà rivivere l'esperienza degli apostoli che nel cenacolo, uniti con Maria, attendono in preghiera l'effusione dello Spirito,244 il quale non mancherà di suscitare ancora nel Popolo di Dio « degni ministri dell'altare, annunziatori forti e miti della parola che ci salva ».245

Culmine e fonte della vita della Chiesa 246 e, in particolare, di ogni preghiera cristiana, anche la liturgia ha un ruolo indispensabile e un'incidenza privilegiata nella pastorale delle vocazioni. Essa, infatti, costituisce un'esperienza viva del dono di Dio e una grande scuola della risposta alla sua chiamata. Come tale, ogni celebrazione liturgica, e innanzitutto quella eucaristica, ci svela il vero volto di Dio, ci fa comunicare al mistero della Pasqua, ossia all'« ora » per la quale Gesù è venuto nel mondo e verso la quale si è liberamente e volontariamente incamminato in obbedienza alla chiamata del Padre,247 ci manifesta il volto della Chiesa quale popolo di sacerdoti e comunità ben compaginata nella varietà e complementarità dei carismi e delle vocazioni. Il sacrificio redentore di Cristo, che la Chiesa celebra nel mistero, dona un valore particolarmente prezioso alla sofferenza vissuta in unione con il Signore Gesù. I Padri sinodali ci hanno invitato a non dimenticare mai che « attraverso l'offerta delle sofferenze, così frequenti nella vita degli uomini, il cristiano ammalato offre se stesso come vittima a Dio, ad immagine di Cristo, che per tutti noi ha consacrato se stesso »248 e che « l'offerta delle sofferenze secondo tale intenzione è di grande giovamento per la promozione delle vocazioni ».249

39. Nell'esercizio della sua missione profetica, la Chiesa sente incombente e irrinunciabile il compito di annunciare e di testimoniare il senso cristiano della vocazione, potremmo dire « il Vangelo della vocazione ». Avverte, anche in questo campo, l'urgenza delle parole dell'apostolo: « Guai a me se non evangelizzassi! ».250 Tale ammonimento risuona innanzitutto per noi pastori e riguarda, insieme con noi, tutti gli educatori nella Chiesa. La predicazione e la catechesi devono sempre manifestare la loro intrinseca dimensione vocazionale: la Parola di Dio illumina i credenti a valutare la vita come risposta alla chiamata di Dio e li accompagna ad accogliere nella fede il dono della vocazione personale.

Ma tutto questo, che pure è importante ed essenziale, non basta: occorre una « predicazione diretta sul mistero della vocazione nella Chiesa, sul valore del sacerdozio ministeriale, sulla sua urgente necessità per il Popolo di Dio ».251 Una catechesi organica e offerta a tutte le componenti della Chiesa, oltre a dissipare dubbi e a contrastare idee unilaterali o distorte sul ministero sacerdotale, apre i cuori dei credenti all'attesa del dono e crea condizioni favorevoli per la nascita di nuove vocazioni. È giunto il tempo di parlare coraggiosamente della vita sacerdotale come di un valore inestimabile e come di una forma splendida e privilegiata di vita cristiana. Gli educatori, e specialmente i sacerdoti, non devono temere di proporre in modo esplicito e forte la vocazione al presbiterato come una reale possibilità per quei giovani che mostrano di avere i doni e le doti ad essa corrispondenti. Non si deve aver alcuna paura di condizionarli o di limitarne la libertà; al contrario, una proposta precisa, fatta al momento giusto, può essere decisiva per provocare nei giovani una risposta libera e autentica. Del resto, la storia della Chiesa e quella di tante vocazioni sacerdotali, sbocciate anche in tenera età, attestano ampiamente la provvidenzialità della vicinanza e della parola di un prete: non solo della parola, ma anche della vicinanza, cioè di una testimonianza concreta e gioiosa, capace di far sorgere interrogativi e di condurre a decisioni anche definitive.

40. Come popolo regale, la Chiesa si riconosce radicata e animata dalla « legge dello Spirito che dà vita »,252 che è essenzialmente la legge regale della carità 253 o la legge perfetta della libertà.254 Essa, perciò, adempie la sua missione quando guida ogni fedele a scoprire e a vivere la propria vocazione nella libertà e a portarla a compimento nella carità.

Nel suo compito educativo, la Chiesa mira, con attenzione privilegiata, a suscitare nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani il desiderio e la volontà di una sequela integrale e avvincente di Gesù Cristo. L'opera educativa, che pure riguarda la comunità cristiana come tale, deve rivolgersi alla singola persona: Dio, infatti, con la sua chiamata raggiunge il cuore di ciascun uomo e lo Spirito, che dimora nell'intimo di ogni discepolo,255 si dona a ciascun cristiano con carismi diversi e con manifestazioni particolari. Ciascuno, dunque, dev'essere aiutato a cogliere il dono che proprio a lui, come a persona unica e irripetibile, è affidato e ad ascoltare le parole che lo Spirito di Dio gli rivolge singolarmente.

In questa prospettiva, la cura delle vocazioni al sacerdozio saprà esprimersi anche in una ferma e persuasiva proposta di direzione spirituale. È necessario riscoprire la grande tradizione dell'accompagnamento spirituale personale, che ha sempre portato tanti e preziosi frutti nella vita della Chiesa: esso può essere aiutato in determinati casi e a precise condizioni, ma non sostituito, da forme di analisi o di aiuto psicologico.256 I ragazzi, gli adolescenti e i giovani siano invitati a scoprire e ad apprezzare il dono della direzione spirituale, a ricercarlo e a sperimentarlo, a chiederlo con fiduciosa insistenza ai loro educatori nella fede. I sacerdoti, per parte loro, siano i primi a dedicare tempo ed energie a quest'opera di educazione e di aiuto spirituale personale: non si pentiranno mai di aver trascurato o messo in secondo piano tante altre cose, pure belle e utili, se questo era inevitabile per mantenere fede al loro ministero di collaboratori dello Spirito nell'illuminazione e nella guida dei chiamati.

Fine dell'educazione del cristiano è di giungere, sotto l'influsso dello Spirito, alla « piena maturità di Cristo ».257 Ciò si verifica quando, imitandone e condividendone la carità, si fa di tutta la propria vita un servizio d'amore,258) offrendo a Dio un culto spirituale a lui gradito 259 donandosi ai fratelli. Il servizio d'amore è il senso fondamentale di ogni vocazione, che trova una realizzazione specifica nella vocazione del sacerdote: egli, infatti, è chiamato a rivivere, nella forma più radicale possibile, la carità pastorale di Gesù, l'amore cioè del buon Pastore che « offre la vita per le pecore ».260

Per questo un'autentica pastorale vocazionale non si stancherà mai di educare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani al gusto dell'impegno, al senso del servizio gratuito, al valore del sacrificio, alla donazione incondizionata di sé. Si fa allora particolarmente utile l'esperienza del volontariato, verso cui sta crescendo la sensibilità di tanti giovani: se sarà un volontariato evangelicamente motivato, capace di educare al discernimento dei bisogni, vissuto con dedizione e fedeltà ogni giorno, aperto all'eventualità di un impegno definitivo nella vita consacrata, nutrito di preghiera, esso saprà più sicuramente sostenere una vita di impegno disinteressato e gratuito e renderà più sensibile chi ad esso si dedica alla voce di Dio che lo può chiamare al sacerdozio. Diversamente dal giovane ricco, il volontario potrebbe accettare l'invito, colmo d'amore, che Gesù gli rivolge;261 e lo potrebbe accettare perché gli unici suoi beni consistono già nel donarsi agli altri e nel « perdere » la sua vita.

41. La vocazione sacerdotale è un dono di Dio, che costituisce certamente un grande bene per colui che ne è il primo destinatario. Ma è anche un dono per l'intera Chiesa, un bene per la sua vita e per la sua missione. La Chiesa, dunque, è chiamata a custodire questo dono, a stimarlo e ad amarlo: essa è responsabile della nascita e della maturazione delle vocazioni sacerdotali. Di conseguenza la pastorale vocazionale ha come soggetto attivo, come protagonista la comunità ecclesiale come tale, nelle sue diverse espressioni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare e, analogamente, da questa alla parrocchia e a tutte le componenti del Popolo di Dio.

È quanto mai urgente, oggi soprattutto, che si diffonda e si radichi la convinzione che tutti i membri della Chiesa, nessuno escluso, hanno la grazia e la responsabilità della cura delle vocazioni. Il Concilio Vaticano II è stato quanto mai esplicito nell'affermare che « il dovere di dare incremento alle vocazioni sacerdotali spetta a tutta la comunità cristiana, che è tenuta ad assolvere questo compito anzitutto con una vita perfettamente cristiana ».262 Solo sulla base di questa convinzione la pastorale vocazionale potrà manifestare il suo volto veramente ecclesiale, sviluppare un'azione concorde, servendosi anche di organismi specifici e di adeguati strumenti di comunione e di corresponsabilità.

La prima responsabilità della pastorale orientata alle vocazioni sacerdotali è del Vescovo,263 che è chiamato a viverla in prima persona, anche se potrà e dovrà suscitare molteplici collaborazioni. Egli è padre e amico nel suo presbiterio, ed è anzitutto sua la sollecitudine di « dare continuità » al carisma e al ministero presbiterale, associandovi nuove forze con l'imposizione delle mani. Egli sarà sollecito che la dimensione vocazionale sia sempre presente in tutto l'ambito della pastorale ordinaria, anzi sia pienamente integrata e quasi identificata con essa. A lui spetta il compito di promuovere e di coordinare le varie iniziative vocazionali.264

Il Vescovo sa di poter contare anzitutto sulla collaborazione del suo presbiterio. Tutti i sacerdoti sono con lui solidali e corresponsabili nella ricerca e nella promozione delle vocazioni presbiterali. Infatti, come afferma il Concilio, « spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori della fede, di curare che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione specifica ».265 È questa « una funzione che fa parte della stessa missione sacerdotale, in virtù della quale il presbitero partecipa della sollecitudine per la Chiesa intera, affinché nel Popolo di Dio qui sulla terra non manchino mai gli operai ».266 La vita stessa dei presbiteri, la loro dedizione incondizionata al gregge di Dio, la loro testimonianza di amorevole servizio al Signore e alla sua Chiesa — una testimonianza segnata dalla scelta della croce accolta nella speranza e nella gioia pasquale —, la loro concordia fraterna e il loro zelo per l'evangelizzazione del mondo sono il primo e il più persuasivo fattore di fecondità vocazionale.267

Una responsabilità particolarissima è affidata alla famiglia cristiana, che in virtù del Sacramento del Matrimonio partecipa in modo proprio e originale alla missione educativa della Chiesa maestra e madre. Come hanno scritto i Padri sinodali, « la famiglia cristiana, che è veramente "come chiesa domestica",268 ha sempre offerto e continua ad offrire le condizioni favorevoli per la nascita delle vocazioni. Poiché oggi l'immagine della famiglia cristiana è in pericolo, grande importanza dev'essere attribuita alla pastorale familiare, così che le famiglie stesse, accogliendo generosamente il dono della vita umana, costituiscano "come il primo seminario",269 nel quale i figli possano acquisire dall'inizio il senso della pietà e della preghiera e l'amore verso la Chiesa ».270 In continuità e in sintonia con l'opera dei genitori e della famiglia deve porsi la scuola, la quale è chiamata a vivere la sua identità di « comunità educante » anche con una proposta culturale capace di far luce sulla dimensione vocazionale come valore nativo e fondamentale della persona umana. In tal senso, se opportunamente arricchita di spirito cristiano (sia attraverso significative presenze ecclesiali nella scuola statale, secondo i vari ordinamenti nazionali, sia soprattutto nel caso della scuola cattolica), può infondere « nell'animo dei ragazzi e dei giovani il desiderio di compiere la volontà di Dio nello stato di vita più idoneo a ciascuno, senza mai escludere la vocazione al ministero sacerdotale ».271

Anche i fedeli laici, in particolare i catechisti, gli insegnanti, gli educatori, gli animatori della pastorale giovanile, ciascuno con le risorse e modalità proprie, hanno una grande importanza nella pastorale delle vocazioni sacerdotali: quanto più approfondiranno il senso della loro vocazione e missione nella Chiesa, tanto più potranno riconoscere il valore e l'insostituibilità della vocazione e della missione sacerdotale.

Nell'ambito delle comunità diocesane e parrocchiali sono da stimare e promuovere quei gruppi vocazionali, i cui membri offrono il loro contributo di preghiera e di sofferenza per le vocazioni sacerdotali e religiose, nonché di sostegno morale e materiale.

Sono qui da ricordare anche i numerosi gruppi, movimenti e associazioni di fedeli laici che lo Spirito Santo fa sorgere e crescere nella Chiesa in ordine ad una presenza cristiana più missionaria nel mondo. Queste diverse aggregazioni di laici si stanno rivelando come un campo particolarmente fertile alla manifestazione di vocazioni consacrate, veri e propri luoghi di proposta e di crescita vocazionale. Non pochi giovani, infatti, proprio nell'ambito e grazie a queste aggregazioni hanno avvertito la chiamata del Signore a seguirlo sulla via del sacerdozio ministeriale 272 e hanno risposto con confortante generosità. Sono, quindi, da valorizzare perché, in comunione con tutta la Chiesa e per la sua crescita, diano il loro specifico contributo allo sviluppo della pastorale vocazionale.

Le varie componenti e i diversi membri della Chiesa impegnati nella pastorale vocazionale renderanno tanto più efficace la loro opera quanto più stimole ranno la comunità ecclesiale come tale, a cominciare dalla parrocchia, a sentire che il problema delle vocazioni sacerdotali non può minimamente essere delegato ad alcuni "incaricati" (i sacerdoti in genere, i sacerdoti del seminario in specie) perché, essendo "un problema vitale che si colloca nel cuore stesso della Chiesa", 273 deve stare al centro dell'amore di ogni cristiano verso la Chiesa.

CAPITOLO V

NE COSTITUI' DODICI CHE STESSERO CON LUI
La formazione dei candidati al sacerdozio

Vivere al seguito di Cristo come gli apostoli

42. « Salì sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni ».274

« Che stessero con lui »: in queste parole non è difficile leggere « l'accompagnamento vocazionale » degli apostoli da parte di Gesù. Dopo averli chiamati e prima di mandarli, anzi per poterli mandare a predicare, Gesù chiede loro un « tempo » di formazione destinato a sviluppare un rapporto di comunione e di amicizia profonde con se stesso. Ad essi egli riserva una catechesi più approfondita rispetto a quella della gente 275 e li vuole testimoni della sua silenziosa preghiera al Padre.276

Nella sua sollecitudine nei riguardi delle vocazioni sacerdotali la Chiesa di tutti i tempi si ispira all'esempio di Cristo. Sono state, e in parte lo sono tuttora, molto diverse le forme concrete secondo cui la Chiesa si è impegnata nella pastorale vocazionale, destinata non solo a discernere ma anche ad « accompagnare » le vocazioni al sacerdozio. Ma lo spirito, che le deve animare e sostenere, rimane identico: quello di portare al sacerdozio solo coloro che sono stati chiamati e di portarli adeguatamente formati, ossia con una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la loro persona a Gesù Cristo che chiama all'intimità di vita con lui e alla condivisione della sua missione di salvezza. In questo senso il seminario nelle sue diverse forme e in modo analogo la « casa » di formazione dei sacerdoti religiosi, prima che essere un luogo, uno spazio materiale, rappresenta uno spazio spirituale, un itinerario di vita, un'atmosfera che favorisce ed assicura un processo formativo così che colui che è chiamato da Dio al sacerdozio possa divenire, con il sacramento dell'Ordine, un'immagine vivente di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa. Nel loro Messaggio finale i Padri sinodali hanno colto in modo immediato e profondo il significato originale e qualificante della formazione dei candidati al sacerdozio, dicendo che « vivere in seminario, scuola del Vangelo, significa vivere al seguito di Cristo come gli apostoli; è lasciarsi iniziare da lui al servizio del Padre e degli uomini, sotto la guida dello Spirito Santo; è lasciarsi configurare al Cristo buon Pastore per un migliore servizio sacerdotale nella Chiesa e nel mondo. Formarsi al sacerdozio significa abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale di Cristo: "Mi ami tu?". La risposta per il futuro sacerdote non può essere che il dono totale della propria vita ».277

Si tratta di tradurre questo spirito, che non potrà mai venir meno nella Chiesa, nelle condizioni sociali, psicologiche, politiche e culturali del mondo attuale, peraltro così varie oltre che complesse, come hanno testimoniato i Padri sinodali in rapporto alle diverse Chiese particolari. Gli stessi Padri, con accenti carichi di pensosa preoccupazione ma anche di grande speranza, hanno potuto conoscere e riflettere a lungo sullo sforzo di ricerca e di aggiornamento dei metodi di formazione dei candidati al sacerdozio in atto in tutte le loro Chiese.

Questa Esortazione intende raccogliere il frutto dei lavori sinodali, stabilendo alcuni punti acquisiti, mostrando alcune mete irrinunciabili, mettendo a disposizione di tutti la ricchezza di esperienze e di itinerari formativi già positivamente sperimentati. In questa Esortazione si considera distintamente la formazione « iniziale » e la formazione « permanente », senza però mai dimenticare il profondo legame che le unisce e che deve fare delle due un unico organico percorso di vita cristiana e sacerdotale. L'Esortazione si sofferma sulle diverse dimensioni della formazione, umana, spirituale, intellettuale e pastorale, come pure sugli ambienti e sui soggetti responsabili della formazione stessa dei candidati al sacerdozio.

I. Le dimensioni della formazione sacerdotale

43. « Senza un'opportuna formazione umana l'intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento ».278 Quest'affermazione dei Padri sinodali esprime non soltanto un dato quotidianamente suggerito dalla ragione e confermato dall'esperienza, ma un'esigenza che trova la sua motivazione più profonda e specifica nella natura stessa del presbitero e del suo ministero.

Il presbitero, chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa, deve cercare di riflettere in sé, nella misura del possibile, quella perfezione umana che risplende nel Figlio di Dio fatto uomo e che traspare con singolare efficacia nei suoi atteggiamenti verso gli altri, così come gli evangelisti li presentano. Il ministero poi del sacerdote è sì di annunciare la Parola, celebrare il Sacramento, guidare nella carità la comunità cristiana « nel nome e nella persona di Cristo », ma questo rivolgendosi sempre e solo a uomini concreti: « Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio ».279 Per questo la formazione umana del sacerdote rivela la sua particolare importanza in rapporto ai destinatari della sua missione: proprio perché il suo ministero sia umanamente il più credibile ed accettabile, occorre che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da renderla ponte e non ostacolo per gli altri nell'incontro con Gesù Cristo Redentore dell'uomo; è necessario che, sull'esempio di Gesù che « sapeva quello che c'è in ogni uomo »,280 il sacerdote sia capace di conoscere in profondità l'animo umano, di intuire difficoltà e problemi, di facilitare l'incontro e il dialogo, di ottenere fiducia e collaborazione, di esprimere giudizi sereni e oggettivi.

Non solo, dunque, per una giusta e doverosa maturazione e realizzazione di sé, ma anche in vista del ministero i futuri presbiteri devono coltivare una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere, capaci di portare il peso delle responsabilità pastorali. Occorre allora l'educazione all'amore per la verità, alla lealtà, al rispetto per ogni persona, al senso della giustizia, alla fedeltà alla parola data, alla vera compassione, alla coerenza e, in particolare, all'equilibrio di giudizio e di comportamento.281 Un programma semplice e impegnativo per questa formazione umana è proposto dall'apostolo Paolo ai Filippesi: « Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri ».282 È interessante rilevare come Paolo, proprio in queste qualità profondamente umane, presenti se stesso come modello ai suoi fedeli: « Ciò che avete imparato — prosegue immediatamente —, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare ».283

Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere « uomo di comunione ». Questo esige che il sacerdote non sia né arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore,284 prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente, e di suscitar in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare.285 L'umanità di oggi, spesso condannata a situazioni di massificazione e di solitudine, soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane, si fa sempre più sensibile al valore della comunione: questo è oggi uno dei segni più eloquenti ed una delle vie più efficaci del messaggio evangelico.

In questo contesto si inserisce, come momento qualificante e decisivo, la formazione del candidato al sacerdozio alla maturità affettiva, quale esito dell'educazione all'amore vero e responsabile.

44. La maturazione affettiva suppone la consapevolezza della centralità dell'amore nell'esistenza umana. In realtà, come ho scritto nell'enciclica « Redemptor Hominis », « l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente ».286

Si tratta di un amore che coinvolge l'intera persona, nelle sue dimensioni e componenti fisiche, psichiche e spirituali, e che si esprime nel « significato sponsale » del corpo umano, grazie al quale la persona dona se stessa all'altra e la accoglie. Alla comprensione e alla realizzazione di questa « verità » dell'amore umano tende l'educazione sessuale rettamente intesa. Si deve, infatti, registrare una situazione sociale e culturale diffusa « che "banalizza" in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico ».287 Spesso le stesse situazioni familiari, dalle quali provengono le vocazioni sacerdotali, presentano al riguardo non poche carenze e talvolta anche gravi squilibri.

In un simile contesto si fa più difficile, ma diventa più urgente, un'educazione alla sessualità che sia veramente e pienamente personale e che, pertanto, faccia posto alla stima e all'amore per la castità, quale « virtù che sviluppa l'autentica maturità della persona e la rende capace di rispettare e di promuovere il "significato sponsale" del corpo ».288

Ora l'educazione all'amore responsabile e la maturazione affettiva della persona risultano del tutto necessarie per chi, come il presbitero, è chiamato al celibato, ossia ad offrire, con la grazia dello Spirito e con la libera risposta della propria volontà, la totalità del suo amore e della sua sollecitudine a Gesù Cristo e alla Chiesa. In vista dell'impegno celibatario la maturità affettiva deve saper includere, all'interno di rapporti umani di serena amicizia e di profonda fraternità, un grande amore, vivo e personale, nei riguardi di Gesù Cristo. Come hanno scritto i Padri sinodali, « è di massima importanza nel suscitare la maturità affettiva l'amore di Cristo, prolungato in una dedizione universale. Così il candidato, chiamato al celibato, troverà nella maturità affettiva un fermo fulcro per vivere la castità nella fedeltà e nella gioia ».289

Poiché il carisma del celibato, anche quando è autentico e provato, lascia intatte le inclinazioni dell'affettività e le pulsioni dell'istinto, i candidati al sacerdozio hanno bisogno di una maturità affettiva capace di prudenza, di rinuncia a tutto ciò che può insidiarla, di vigilanza sul corpo e sullo spirito, di stima e di rispetto nelle relazioni interpersonali con uomini e donne. Un aiuto prezioso può essere dato da un'adeguata educazione alla vera amicizia, ad immagine dei vincoli di fraterno affetto che Cristo stesso ha vissuto nella sua esistenza.290

La maturità umana, e quella affettiva in particolare, esigono una formazione limpida e forte ad una libertà che si configura come obbedienza convinta e cordiale alla « verità » del proprio essere, al « significato » del proprio esistere, ossia al « dono sincero di sé » quale via e fondamentale contenuto dell'autentica realizzazione di sé.291 Così intesa, la libertà esige che la persona sia veramente padrona di sé stessa, decisa a combattere e a superare le diverse forme di egoismo e di individualismo che insidiano la vita di ciascuno, pronta ad aprirsi agli altri, generosa nella dedizione e nel servizio al prossimo. Ciò è importante per la risposta da darsi alla vocazione, e a quella sacerdotale in specie, e per la fedeltà ad essa e agli impegni che vi sono connessi, anche nei momenti difficili. In questo itinerario educativo verso una matura libertà responsabile un aiuto può venire dalla vita comunitaria del Seminario.292

Intimamente congiunta con la formazione alla libertà responsabile è l'educazione della coscienza morale: questa, mentre sollecita dall'intimo del proprio « io » l'obbedienza alle obbligazioni morali, rivela il significato profondo di tale obbedienza, quello di essere una risposta cosciente e libera, e dunque per amore, alle richieste di Dio e del suo amore. « La maturità umana del sacerdote — scrivono i Padri sinodali — deve includere specialmente la formazione della sua coscienza. Il candidato infatti, perché possa fedelmente assolvere alle sue obbligazioni verso Dio e la Chiesa e perché possa sapientemente guidare le coscienze dei fedeli, deve abituarsi ad ascoltare la voce di Dio, che gli parla nel cuore, e ad aderire con amore e fermezza alla sua volontà ».293

45. La stessa formazione umana, se sviluppata nel contesto di un'antropologia che accoglie l'intera verità dell'uomo, si apre e si completa nella formazione spirituale. Ogni uomo, creato da Dio e redento dal sangue di Cristo, è chiamato ad essere rigenerato « dall'acqua e dallo Spirito »294 e a divenire « figlio nel Figlio ». Sta in questo disegno efficace di Dio il fondamento della dimensione costitutivamente religiosa dell'essere umano, peraltro intuita e riconosciuta dalla semplice ragione: l'uomo è aperto al trascendente, all'assoluto; possiede un cuore che è inquieto sino a che non riposa nel Signore.295

È da questa fondamentale e insopprimibile esigenza religiosa che parte e si snoda il processo educativo di una vita spirituale intesa come rapporto e comunione con Dio. Secondo la rivelazione e l'esperienza cristiana, la formazione spirituale possiede l'inconfondibile originalità che proviene dalla « novità » evangelica. Infatti, « essa è opera dello Spirito e impegna la persona nella sua totalità; introduce nella comunione profonda con Gesù Cristo, buon Pastore; conduce a una sottomissione di tutta la vita allo Spirito, in un atteggiamento filiale nei confronti del Padre e in un attaccamento fiducioso alla Chiesa. Essa si radica nell'esperienza della croce per poter introdurre, in una comunione profonda, alla totalità del mistero pasquale ».296

Come si vede, si tratta di una formazione spirituale che è comune a tutti i fedeli, ma che chiede di strutturarsi secondo quei significati e quelle connotazioni che derivano dall'identità del presbitero e del suo ministero. E come per ogni fedele la formazione spirituale deve dirsi centrale e unificante in rapporto al suo essere e al suo vivere da cristiano, ossia da creatura nuova in Cristo che cammina nello Spirito, così per ogni presbitero la formazione spirituale costituisce il cuore che unifica e vivifica il suo essere prete e il suo fare il prete. In tal senso, i Padri del Sinodo affermano che « senza la formazione spirituale la formazione pastorale procederebbe senza fondamento »297 e che la formazione spirituale costituisce « come l'elemento di massima importanza nell'educazione sacerdotale ».298

Il contenuto essenziale della formazione spirituale in un preciso itinerario verso il sacerdozio è bene espresso dal decreto conciliare « Optatam Totius »: « La formazione spirituale ... sia impartita in modo tale che gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito Santo. Destinati a configurarsi a Cristo sacerdote per mezzo della sacra ordinazione, si abituino anche a vivere intimamente uniti a lui, come amici, in tutta la loro vita. Vivano il mistero pasquale di Cristo in modo da sapervi iniziare un giorno il Popolo che sarà loro affidato. Si insegni loro a cercare Cristo nella fedele meditazione della Parola di Dio; nell'attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della Chiesa, soprattutto nell'Eucaristia e nell'ufficio divino; nel Vescovo che li manda e negli uomini ai quali sono inviati, specialmente nei poveri, nei piccoli, negli infermi, nei peccatori e negli increduli. Con fiducia filiale amino e venerino la Beatissima Vergine Maria che fu data come madre da Gesù morente in croce al suo discepolo ».299

46. Il testo conciliare merita un'accurata e amorosa meditazione, dalla quale si possono facilmente enucleare alcuni fondamentali valori ed esigenze del cammino spirituale del candidato al sacerdozio.

S'impone, innanzitutto, il valore e l'esigenza di « vivere intimamente uniti » a Gesù Cristo. L'unione al Signore Gesù, fondata sul Battesimo e alimentata con l'Eucaristia, domanda di esprimersi, rinnovandola radicalmente, nella vita di ogni giorno. L'intima comunione con la Santissima Trinità, ossia la vita nuova della grazia che rende figli di Dio, costituisce la « novità » del credente: una novità che coinvolge l'essere e l'operare. Costituisce il « mistero » dell'esistenza cristiana che sta sotto l'influsso dello Spirito: deve costituire, di conseguenza, l'« ethos » della vita del cristiano. Gesù ci ha insegnato questo meraviglioso contenuto della vita cristiana, che è anche il cuore della vita spirituale, con l'allegoria della vite e dei tralci: « Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo... Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla ».300

Nella cultura attuale non mancano, certo, dei valori spirituali e religiosi e l'uomo, nonostante ogni apparenza contraria, rimane instancabilmente un affamato e un assetato di Dio. Ma spesso la religione cristiana rischia di essere considerata una religione fra le tante o di essere ridotta ad una pura etica sociale a servizio dell'uomo. Così non sempre emerge la sua sconvolgente novità nella storia: essa è « mistero », è l'evento del Figlio di Dio che si fa uomo e dà a quanti l'accolgono il « potere di diventare figli di Dio »,301 è l'annuncio, anzi il dono di un'alleanza personale di amore e di vita di Dio con l'uomo. Solo se i futuri sacerdoti, attraverso un'adeguata formazione spirituale, avranno fatto conoscenza profonda ed esperienza crescente di questo « mistero », potranno comunicare agli altri tale sorprendente e beatificante annuncio.302

Il testo conciliare, pur consapevole dell'assoluta trascendenza del mistero cristiano, connota l'intima comunione dei futuri presbiteri con Gesù con la sfumatura dell'amicizia. Non è, questa, un'assurda pretesa dell'uomo. È semplicemente il dono inestimabile di Cristo, che ai suoi apostoli ha detto: « Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi ».303

Il testo conciliare prosegue indicando un secondo grande valore spirituale: la ricerca di Gesù. « Si insegni loro a cercare Cristo ». È questo, insieme al quaerere Deum, un tema classico della spiritualità cristiana, che trova una sua specifica applicazione proprio nell'ambito della vocazione degli apostoli. Giovanni, nel raccontare la sequela di Gesù da parte dei primi due discepoli, mette in luce il posto occupato da questa « ricerca ». È Gesù stesso che pone la domanda: « Che cercate? ». E i due rispondono: « Rabbì, dove abiti? ». L'evangelista prosegue: « Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui ».304 In un certo senso la vita spirituale di chi si prepara al sacerdozio è dominata da questa ricerca: da questa e dal « trovare » il Maestro, per seguirlo, per stare in comunione con lui. Anche nel ministero e nella vita sacerdotale questa « ricerca » dovrà continuare, tanto è inesauribile il mistero dell'imitazione e della partecipazione alla vita di Cristo. Così come dovrà continuare questo « trovare » il Maestro, in ordine ad additarlo agli altri, meglio ancora in ordine a suscitare negli altri il desiderio di cercare il Maestro. Ma ciò è veramente possibile se agli altri viene proposta una « esperienza » di vita, un'esperienza che meriti di essere condivisa. È stata questa la strada seguita da Andrea per condurre il fratello Simone da Gesù: Andrea, scrive l'evangelista Giovanni, « incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù ».305 E così anche Simone sarà chiamato, come apostolo, alla sequela del Messia: « Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" ».306

Ma che significa, nella vita spirituale, cercare Cristo? e dove trovarlo? « Rabbì, dove abiti? ». Il decreto conciliare « Optatam Totius » sembra indicare una triplice strada da percorrere: la fedele meditazione della Parola di Dio, l'attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della Chiesa, il servizio della carità ai « piccoli ». Sono tre grandi valori ed esigenze che definiscono ulteriormente il contenuto della formazione spirituale del candidato al sacerdozio.

47. Elemento essenziale della formazione spirituale è la lettura meditata e orante della Parola di Dio (lectio divina), è l'ascolto umile e pieno d'amore di Colui che parla. È, infatti, nella luce e nella forza della Parola di Dio che può essere scoperta, compresa, amata e seguita la propria vocazione e compiuta la propria missione, al punto che l'intera esistenza trova il suo significato unitario e radicale nell'essere il termine della Parola di Dio che chiama l'uomo e il principio della parola dell'uomo che risponde a Dio. La familiarità con la Parola di Dio faciliterà l'itinerario della conversione, non solo nel senso di distaccarsi dal male per aderire al bene, ma anche nel senso di alimentare nel cuore i pensieri di Dio, così che la fede, quale risposta alla Parola, diventi il nuovo criterio di giudizio e di valutazione degli uomini e delle cose, degli avvenimenti e dei problemi.

Purché la Parola di Dio sia accostata e accolta nella sua vera natura: essa, infatti, fa incontrare Dio stesso, Dio che parla all'uomo; fa incontrare Cristo, il Verbo di Dio, la Verità che insieme è anche Via e Vita.307 Si tratta di leggere le « scritture » ascoltando le « parole », la « Parola » di Dio, come ci ricorda il Concilio: « Le Sacre Scritture contengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio ».308

E ancora lo stesso Concilio: « Con questa rivelazione infatti Dio invisibile309 nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici310 e si intrattiene con essi,311 per invitarli e ammetterli alla comunione con sé ».312

La conoscenza amorosa e la familiarità orante con la Parola di Dio rivestono un significato specifico per il ministero profetico del sacerdote, per il cui adeguato svolgimento diventano una condizione imprescindibile soprattutto nel contesto della « nuova evangelizzazione », alla quale la Chiesa oggi è chiamata. Il Concilio ammonisce: « È necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi "vano predicatore della Parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta di dentro"313 ».314

La prima e fondamentale forma di risposta alla Parola è la preghiera, che costituisce senz'alcun dubbio un valore ed un'esigenza primari della formazione spirituale. Questa deve condurre i candidati al sacerdozio a conoscere e a sperimentare il senso autentico della preghiera cristiana, quello di essere un incontro vivo e personale col Padre per mezzo del Figlio unigenito sotto l'azione dello Spirito, un dialogo che si fa partecipazione del colloquio filiale che Gesù ha col Padre. Un aspetto non certo secondario della missione del sacerdote è quello di essere « educatore di preghiera ». Ma solo se il sacerdote è stato formato e continua a formarsi alla scuola di Gesù orante, potrà formare gli altri a questa stessa scuola. Questo chiedono al sacerdote gli uomini: « Il sacerdote è l'uomo di Dio, colui che appartiene a Dio e fa pensare a Dio. Quando la Lettera agli Ebrei parla di Cristo, lo presenta come un "sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio" 315... I cristiani sperano di trovare nel sacerdote non solo un uomo che li accoglie, che li ascolta volentieri e testimonia loro una sincera simpatia, ma anche e soprattutto un uomo che li aiuta a guardare Dio, a salire verso di lui. Occorre dunque che il sacerdote sia formato a una profonda intimità con Dio. Coloro che si preparano al sacerdozio devono comprendere che tutto il valore della loro vita sacerdotale dipenderà dal dono che essi sapranno fare di se stessi a Cristo e, per mezzo di Cristo, al Padre ».316

In un contesto di agitazione e di rumore, come quello della nostra società, una necessaria pedagogia alla preghiera è l'educazione al senso umano profondo e al valore religioso del silenzio, quale atmosfera spirituale indispensabile per percepire la presenza di Dio e per lasciarsene conquistare.317

48. Il vertice della preghiera cristiana è l'Eucaristia, che a sua volta si pone come « culmine e fonte » dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore. E per la formazione spirituale di ogni cristiano, e in specie di ogni sacerdote, è del tutto necessaria l'educazione liturgica, nel senso pieno di un inserimento vitale nel mistero pasquale di Gesù Cristo morto e risorto, presente e operante nei sacramenti della Chiesa. La comunione con Dio, fulcro dell'intera vita spirituale, è dono e frutto dei sacramenti; e nello stesso tempo è compito e responsabilità che i sacramenti affidano alla libertà del credente, affinché viva questa stessa comunione nelle decisioni, scelte, atteggiamenti e azioni della sua quotidiana esistenza. In tal senso, la « grazia » che fa « nuova » la vita cristiana è la grazia di Gesù Cristo morto e risorto, che continua ad effondere il suo Spirito santo e santificatore nei sacramenti; così come la « legge nuova » che deve guidare e normare l'esistenza del cristiano è scritta dai sacramenti nel « cuore nuovo ». Ed è legge di carità verso Dio e i fratelli, quale risposta e prolungamento della carità di Dio verso l'uomo significata e comunicata dai sacramenti. Si può immediatamente comprendere il valore di una partecipazione « piena, consapevole e attiva »318 alle celebrazioni sacramentali per il dono e il compito di quella « carità pastorale » che costituisce l'anima del ministero sacerdotale.

Ciò vale soprattutto nella partecipazione all'Eucaristia, memoriale della morte sacrificale di Cristo e della sua gloriosa risurrezione, « sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità »,319 convito pasquale nel quale « ci nutriamo di Cristo, ... l'anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria ».320 Ora i sacerdoti, nella loro qualità di ministri delle cose sacre, sono soprattutto i ministri del Sacrificio della Messa:321 il loro ruolo è del tutto insostituibile, perché senza sacerdote non vi può essere offerta eucaristica.

Questo spiega l'importanza essenziale dell'Eucaristia per la vita e per il ministero sacerdotale e, conseguentemente, nella formazione spirituale dei candidati al sacerdozio. Con grande semplicità e all'insegna della massima concretezza ripeto: « Converrà pertanto che i seminaristi partecipino ogni giorno alla celebrazione eucaristica, di modo che, in seguito, assumano come regola della loro vita sacerdotale questa celebrazione quotidiana. Essi saranno inoltre educati a considerare la celebrazione eucaristica come il momento essenziale della loro giornata, al quale parteciperanno attivamente, mai accontentandosi di una assistenza soltanto abitudinaria. Infine, i candidati al sacerdozio saranno formati alle intime disposizioni che l'Eucaristia promuove: la riconoscenza per i benefici ricevuti dall'alto, poiché Eucaristia è azione di grazie; l'atteggiamento oblativo che li spinge a unire all'offerta eucaristica di Cristo la propria offerta personale; la carità nutrita da un sacramento che è segno di unità e di condivisione; il desiderio di contemplazione e di adorazione davanti a Cristo realmente presente sotto le specie eucaristiche ».322

Doveroso e quanto mai urgente è il richiamo a riscoprire, all'interno della formazione spirituale, la bellezza e la gioia del Sacramento della Penitenza. In una cultura che, con rinnovate e più sottili forme di auto-giustificazione, rischia di perdere fatalmente il « senso del peccato » e, di conseguenza, la gioia consolante della richiesta di perdono323 e dell'incontro con Dio « ricco di misericordia »,324 urge educare i futuri presbiteri alla virtù della penitenza, che è sapientemente alimentata dalla Chiesa nelle sue celebrazioni e nei tempi dell'anno liturgico e che trova la sua pienezza nel Sacramento della Riconciliazione. Di qui scaturiscono il senso dell'ascesi e della disciplina interiore, lo spirito di sacrificio e di rinuncia, l'accettazione della fatica e della croce. Si tratta di elementi della vita spirituale, che spesso si rivelano particolarmente ardui per molti candidati al sacerdozio cresciuti in condizioni relativamente comode e agiate e resi meno inclini e sensibili a questi stessi elementi dai modelli di comportamento e dagli ideali veicolati dai mezzi di comunicazione sociale, anche nei paesi dove più povere sono le condizioni di vita e più austera la situazione giovanile. Per questo, ma soprattutto per realizzare sull'esempio di Cristo buon Pastore la « radicale donazione di sé » propria del sacerdote, i Padri sinodali hanno scritto: « È necessario inculcare il senso della croce, che sta al cuore del mistero pasquale. Grazie a questa identificazione con Cristo crocifisso, in quanto servo, il mondo può ritrovare il valore dell'austerità, del dolore ed anche del martirio, dentro l'attuale cultura imbevuta di secolarismo, di avidità e di edonismo ».325

49. La formazione spirituale comporta anche di cercare Cristo negli uomini. La vita spirituale, infatti, è sì vita interiore, vita d'intimità con Dio, vita di preghiera e di contemplazione. Ma proprio l'incontro con Dio, e con il suo amore di Padre di tutti, pone l'esigenza indeclinabile dell'incontro con il prossimo, del dono di sé agli altri, nel servizio umile e disinteressato che Gesù ha proposto a tutti come programma di vita con la lavanda dei piedi agli apostoli: « Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi ».326

La formazione al dono generoso e gratuito di sé, favorito anche dalla forma comunitaria normalmente assunta dalla preparazione al sacerdozio, rappresenta una condizione irrinunciabile per chi è chiamato a farsi epifania e trasparenza del buon Pastore che dà la vita.327 Sotto questo aspetto la formazione spirituale possiede e deve sviluppare la sua intrinseca dimensione pastorale o caritativa, e può utilmente servirsi anche di una giusta, ossia forte e tenera, devozione al Cuore di Cristo, come hanno sottolineato i Padri del Sinodo: « Formare i futuri sacerdoti nella spiritualità del Cuore del Signore implica condurre una vita che corrisponde all'amore e all'affetto di Cristo Sacerdote e buon Pastore: al suo amore verso il Padre nello Spirito Santo, al suo amore verso gli uomini sino a donare nell'immolazione la sua vita ».328

Il sacerdote è, dunque, l'uomo della carità, ed è chiamato ad educare gli altri all'imitazione di Cristo e al comandamento nuovo dell'amore fraterno.329 Ma ciò esige che lui stesso si lasci continuamente educare dallo Spirito alla carità di Cristo. In tal senso la preparazione al sacerdozio non può non implicare una seria formazione alla carità, in particolare all'amore preferenziale per i « poveri » nei quali la fede scopre la presenza di Gesù 330 e all'amore misericordioso per i peccatori.

Nella prospettiva della carità, che consiste nel dono di sé per amore, trova il suo posto nella formazione spirituale del futuro sacerdote l'educazione all'obbedienza, al celibato e alla povertà.331 In questo senso sta l'invito del Concilio: « In modo ben chiaro gli alunni sappiano di non essere destinati né al dominio né agli onori, ma di dover mettersi al completo servizio di Dio e del ministero pastorale. Con particolare sollecitudine vengano educati all'obbedienza sacerdotale, a un tenore di vita povera, allo spirito di abnegazione di sé, in modo da abituarsi a rinunziare prontamente anche alle cose per sé lecite ma non convenienti e a vivere in conformità con Cristo crocifisso ».332

50. La formazione spirituale di chi è chiamato a vivere il celibato deve riservare un'attenzione particolare a preparare il futuro sacerdote a conoscere, stimare, amare e vivere il celibato nella sua vera natura e nelle sue vere finalità, quindi nelle sue motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali. Presupposto e contenuto di questa preparazione è la virtù della castità, che qualifica tutte le relazioni umane e che conduce « a sperimentare e a manifestare... un amore sincero, umano, fraterno, personale e capace di sacrifici, sull'esempio di Cristo, verso tutti e verso ciascuno ».333

Il celibato dei sacerdoti connota la castità di alcune caratteristiche, grazie alle quali essi « rinunziando alla vita coniugale per il regno dei cieli,334 possono aderire a Dio con un amore indivisibile rispondente intimamente alla nuova legge, danno testimonianza della futura risurrezione 335 e ricevono un aiuto grandissimo per l'esercizio continuo di quella perfetta carità che li renderà capaci nel ministero sacerdotale di farsi tutto a tutti ».336 In tal senso il celibato sacerdotale non è da considerarsi come semplice norma giuridica, né come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all'ordinazione, bensì come un valore profondamente connesso con l'ordinazione sacra, che configura a Gesù Cristo buon Pastore e Sposo della Chiesa, e quindi come la scelta di un amore più grande e senza divisioni per Cristo e per la sua Chiesa nella disponibilità piena e gioiosa del cuore per il ministero pastorale. Il celibato è da considerare come una grazia speciale, come un dono: « Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso ».337 Certamente una grazia che non dispensa, ma esige con singolare forza la risposta cosciente e libera da parte di chi la riceve. Questo carisma dello Spirito racchiude anche la grazia perché colui che lo riceve rimanga fedele per tutta la vita e compia con generosità e con gioia gli impegni che vi sono connessi. Nella formazione al celibato sacerdotale dovrà essere assicurata la coscienza del « prezioso dono di Dio »,338 che condurrà alla preghiera e alla vigilanza perché il dono sia custodito da tutto ciò che lo può minacciare.

Vivendo il suo celibato il sacerdote potrà meglio compiere il suo ministero nel Popolo di Dio. In particolare, mentre testimonierà il valore evangelico della verginità, potrà sostenere gli sposi cristiani a vivere in pienezza il « grande sacramento » dell'amore di Cristo Sposo per la Chiesa sua sposa, così come la sua fedeltà nel celibato sarà di aiuto per la fedeltà degli sposi.339

L'importanza e la delicatezza della preparazione al celibato sacerdotale, specialmente nelle attuali situazioni sociali e culturali, hanno portato i Padri sinodali ad una serie di richieste, la cui validità permanente è peraltro confermata dalla saggezza della Chiesa madre. Le ripropongo autorevolmente come criteri da seguirsi nella formazione alla castità nel celibato: « I Vescovi insieme ai rettori e ai direttori spirituali dei seminari stabiliscano principii, offrano criteri e diano aiuti per il discernimento in questa materia. Di massima importanza per la formazione alla castità nel celibato sono la sollecitudine del Vescovo e la vita fraterna tra i sacerdoti. In seminario, durante il periodo di formazione, il celibato deve essere presentato con chiarezza, senza alcuna ambiguità e in modo positivo. Il seminarista deve avere un adeguato grado di maturità psichica e sessuale, nonché una vita assidua ed autentica di preghiera, e deve porsi sotto la direzione di un padre spirituale. Il direttore spirituale deve aiutare il seminarista perché egli stesso giunga ad una decisione matura e libera, che sia fondata nella stima dell'amicizia sacerdotale e dell'autodisciplina, come pure nell'accettazione della solitudine e in un retto stato personale fisico e psicologico. Per questo i seminaristi conoscano bene la dottrina del Concilio Vaticano II, l'enciclica « Sacerdotalis Caelibatus » e l'Istruzione per la formazione al celibato sacerdotale edita dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica nel 1974. Perché il seminarista possa abbracciare con decisione libera il celibato sacerdotale per il Regno dei cieli è necessario che conosca la natura cristiana e veramente umana nonché il fine della sessualità nel matrimonio e nel celibato. È necessario anche istruire ed educare i fedeli laici circa le motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali proprie del celibato sacerdotale così che aiutino i presbiteri con l'amicizia, la comprensione e la collaborazione ».340

51. La formazione intellettuale, pur avendo una sua specificità, si connette profondamente, sino a costituirne un'espressione necessaria, con la formazione umana e quella spirituale: si configura, infatti, come un'esigenza insopprimibile dell'intelligenza con la quale l'uomo « partecipa della luce della mente di Dio » 341 e cerca di acquisire una sapienza, che a sua volta, si apre e punta sulla conoscenza e sull'adesione a Dio.

La formazione intellettuale dei candidati al sacerdozio trova la sua specifica giustificazione nella natura stessa del ministero ordinato e manifesta la sua urgenza attuale di fronte alla sfida della « nuova evangelizzazione » alla quale il Signore chiama la Chiesa alle soglie del terzo millennio. « Se già ogni cristiano — scrivono i Padri sinodali — deve essere pronto a difendere la fede e a rendere ragione della speranza che vive in noi,342 molto di più i candidati al sacerdozio e i presbiteri devono avere diligente cura del valore della formazione intellettuale nell'educazione e nell'attività pastorale, dal momento che per la salvezza dei fratelli e delle sorelle devono cercare una più profonda conoscenza dei misteri divini ».343 La situazione attuale poi, pesantemente segnata dall'indifferenza religiosa e insieme da una sfiducia diffusa nei riguardi della reale capacità della ragione di raggiungere la verità oggettiva e universale, e da problemi e interrogativi inediti provocati dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, esige con forza un livello eccellente di formazione intellettuale, tale cioè da rendere i sacerdoti capaci di annunciare, proprio in un simile contesto, l'immutabile Vangelo di Cristo e di renderlo credibile di fronte alle legittime esigenze della ragione umana. Si aggiunga, inoltre, che l'attuale fenomeno del pluralismo quanto mai accentuato, nell'ambito non solo della società umana ma anche della stessa comunità ecclesiale, chiede una particolare attitudine al discernimento critico: è un ulteriore motivo che dimostra la necessità di una formazione intellettuale quanto mai seria.

Questa motivazione « pastorale » della formazione intellettuale riconferma quanto già detto sull'unità del processo educativo nelle sue diverse dimensioni. L'impegno di studio, che occupa non poca parte della vita di chi si prepara al sacerdozio, non è affatto una componente esteriore e secondaria della sua crescita umana, cristiana, spirituale e vocazionale: in realtà attraverso lo studio, soprattutto della teologia, il futuro sacerdote aderisce alla Parola di Dio, cresce nella sua vita spirituale e si dispone a compiere il suo ministero pastorale. È questo il molteplice e unitario scopo dello studio teologico indicato dal Concilio 344 e riproposto dall'Instrumentum laboris del Sinodo: « Affinché possa essere pastoralmente efficace, la formazione intellettuale va integrata in un cammino spirituale segnato dall'esperienza personale di Dio, in modo tale da superare una pura scienza nozionistica e pervenire a quella intelligenza del cuore che sa "vedere" prima ed è in grado poi di comunicare il mistero di Dio ai fratelli ».345

52. Un momento essenziale della formazione intellettuale è lo studio della filosofia, che conduce ad una più profonda comprensione e interpretazione della persona, della sua libertà, delle sue relazioni con il mondo e con Dio. Essa si rivela di grande urgenza, non solo per il legame che esiste tra gli argomenti filosofici e i misteri della salvezza studiati in teologia alla luce superiore della fede 346 ma anche di fronte ad una situazione culturale quanto mai diffusa che esalta il soggettivismo come criterio e misura della verità: solo una sana filosofia può aiutare i candidati al sacerdozio a sviluppare una coscienza riflessa del rapporto costitutivo che esiste tra lo spirito umano e la verità, quella verità che si rivela a noi pienamente in Gesù Cristo. Né è da sottovalutare l'importanza della filosofia per garantire quella « certezza di verità » che, sola, può stare alla base della donazione personale totale a Gesù e alla Chiesa. Non è difficile capire come alcune questioni molto concrete, quali l'identità del sacerdote e il suo impegno apostolico e missionario, sono profondamente legate alla questione, tutt'altro che astratta, della verità: se non si è certi della verità, come è possibile mettere in gioco l'intera propria vita ed avere la forza per interpellare sul serio la vita degli altri?

La filosofia aiuta non poco il candidato ad arricchire la sua formazione intellettuale del « culto della verità », cioè di una specie di venerazione amorosa della verità, la quale conduce a riconoscere che la verità stessa non è creata e misurata dall'uomo ma all'uomo è data in dono dalla Verità suprema, Dio; che, sia pure con limiti e a volte con difficoltà, la ragione umana può raggiungere la verità oggettiva e universale, anche quella riguardante Dio e il senso radicale dell'esistenza; che la fede stessa non può prescindere dalla ragione e dalla fatica di « pensare » i suoi contenuti, come testimoniava la grande mente di Agostino: « Ho desiderato vedere con l'intelletto ciò che ho creduto, e ho molto disputato e faticato ».347

Per una più profonda comprensione dell'uomo e dei fenomeni e delle linee evolutive della società, in ordine all'esercizio il più possibile « incarnato » del ministero pastorale, di non poca utilità possono essere le cosiddette « scienze dell'uomo », come la sociologia, la psicologia, la pedagogia, la scienza dell'economia e della politica, la scienza della comunicazione sociale. Sia pure nell'ambito ben preciso delle scienze positive o descrittive, queste aiutano il futuro sacerdote a prolungare la « contemporaneità » vissuta da Cristo. « Cristo, diceva Paolo VI, si è fatto contemporaneo ad alcuni uomini e ha parlato nel loro linguaggio. La fedeltà a lui chiede che questa contemporaneità continui ».348

53. La formazione intellettuale del futuro sacerdote si basa e si costruisce soprattutto sullo studio della sacra doctrina, della teologia. Il valore e l'autenticità della formazione teologica dipendono dal rispetto scrupoloso della natura propria della teologia, che i Padri sinodali hanno così compendiato: « La vera teologia proviene dalla fede e intende condurre alla fede ».349 È questa la concezione che la Chiesa cattolica, e il suo Magistero in specie, hanno costantemente proposto. È questa la linea seguita dai grandi teologi, che hanno arricchito il pensiero della Chiesa cattolica lungo i secoli. San Tommaso è oltremodo esplicito, quando afferma che la fede è come l'habitus della teologia, ossia il suo principio operativo permanente,350 e che tutta la teologia è ordinata a nutrire la fede.351

Il teologo è, dunque, anzitutto un credente, un uomo di fede.

Ma è un credente che s'interroga sulla propria fede (fides quaerens intellectum), che s'interroga al fine di raggiungere una comprensione più profonda della fede stessa. I due aspetti, la fede e la riflessione matura, sono profondamente connessi, intrecciati: proprio la loro intima coordinazione e compenetrazione decide della vera natura della teologia, e conseguentemente decide dei contenuti, delle modalità e dello spirito secondo cui la sacra doctrina va elaborata e studiata.

Poiché poi la fede, punto di partenza e di arrivo della teologia, opera un rapporto personale del credente con Gesù Cristo nella Chiesa, anche la teologia possiede delle intrinseche connotazioni cristologiche ed ecclesiali, che il candidato al sacerdozio deve consapevolmente assumere, non solo per le implicazioni che riguardano la sua vita personale ma anche per quelle che toccano il suo ministero pastorale. Se è accoglienza della Parola di Dio, la fede si risolve in un « sì » radicale del credente a Gesù Cristo, Parola piena e definitiva di Dio al mondo.352 Di conseguenza, la riflessione teologica trova il suo centro nell'adesione a Gesù Cristo, Sapienza di Dio: la stessa riflessione matura deve dirsi una partecipazione al « pensiero » di Cristo 353 nella forma umana di una scienza (scientia fidei). Nello stesso tempo, la fede inserisce il credente nella Chiesa e lo rende partecipe della vita della Chiesa, quale comunità di fede. Di conseguenza, la teologia possiede una dimensione ecclesiale, perché è una riflessione matura sulla fede della Chiesa e da parte del teologo che è membro della Chiesa.354

Queste prospettive cristologiche ed ecclesiali, che sono connaturali alla teologia, aiutano a sviluppare nei candidati al sacerdozio, insieme al rigore scientifico, un grande e vivo amore a Gesù Cristo e alla sua Chiesa: quest'amore, mentre nutre la loro vita spirituale, li orienta al generoso compimento del loro ministero. Proprio questo era, in definitiva, l'intento del Concilio Vaticano II che sollecitava il riordinamento degli studi ecclesiastici disponendo meglio le varie discipline filosofiche e teologiche e facendole « convergere concordemente alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo, il quale compenetra tutta la storia del genere umano, agisce continuamente nella Chiesa e opera principalmente attraverso il ministero sacerdotale ».355

Formazione intellettuale teologica e vita spirituale, in particolare vita di preghiera, s'incontrano e si rafforzano a vicenda, senza nulla togliere né alla serietà della ricerca né al sapore spirituale della preghiera. San Bonaventura ci avverte: « Nessuno creda che gli basti la lettura senza l'unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l'osservazione senza l'esultanza, l'attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio senza la grazia divina, l'indagine senza la sapienza dell'ispirazione divina ».356

54. La formazione teologica è opera quanto mai complessa e impegnativa. Essa deve condurre il candidato al sacerdozio a possedere una visione delle verità rivelate da Dio in Gesù Cristo e dell'esperienza di fede della Chiesa che sia completa e unitaria: di qui la duplice esigenza di conoscere « tutte » le verità cristiane, senza operare delle scelte arbitrarie, e di conoscerle in modo organico. Ciò esige che l'alunno sia aiutato ad operare una sintesi che sia il frutto degli apporti delle diverse discipline teologiche, la cui specificità acquista autentico valore solo nella loro profonda coordinazione.

Nella sua riflessione matura sulla fede, la teologia si muove in due direzioni. La prima è quella dello studio della Parola di Dio: la parola scritta nel Libro sacro, celebrata e vissuta nella Tradizione viva della Chiesa, autorevolmente interpretata dal Magistero della Chiesa. Di qui lo studio della Sacra Scrittura, « che deve essere come l'anima di tutta la teologia »,357 dei Padri della Chiesa e della liturgia, come pure della storia della Chiesa e dei pronunciamenti del Magistero. La seconda direzione è quella dell'uomo, interlocutore di Dio: l'uomo chiamato a « credere », a « vivere », a « comunicare » agli altri la fides e l'ethos cristiani. Di qui lo studio della dommatica, della teologia morale, della teologia spirituale, del diritto canonico e della teologia pastorale.

Il riferimento all'uomo credente conduce la teologia ad avere una particolare attenzione, da un lato, all'istanza fondamentale e permanente del rapporto fede-ragione, dall'altro, ad alcune esigenze più collegate con la situazione sociale e culturale d'oggi. Dal primo punto di vista, si ha lo studio della teologia fondamentale, che ha per oggetto il fatto della rivelazione cristiana e la sua trasmissione nella Chiesa. Dall'altro punto di vista, si impongono discipline che hanno conosciuto e conoscono un più deciso sviluppo come risposte a problemi oggi fortemente sentiti. Così lo studio della dottrina sociale della Chiesa, che « appartiene... al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale » 358 e che è da annoverarsi tra le « componenti essenziali » della « nuova evangelizzazione », di cui costituisce uno strumento.359 Così lo studio della missione, dell'ecumenismo, del giudaismo, dell'Islam e delle altre religioni non cristiane.

55. La formazione teologica attuale deve prestare attenzione ad alcuni problemi che non poche volte sollevano difficoltà, tensioni, confusioni all'interno della vita della Chiesa. Si pensi al rapporto tra i pronunciamenti del Magistero e le discussioni teologiche, un rapporto che non sempre si configura come dovrebbe essere, all'insegna cioè della collaborazione. Certamente « il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio nella verità che libera e farne così la "luce delle nazioni". Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il Magistero. Quest'ultimo insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l'autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un'intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di chiarire l'insegnamento della Rivelazione di fronte all'istanza della ragione, ed infine gli dà una forma organica e sistematica ».360 Quando però, per una serie di motivi, questa collaborazione viene meno, occorre non prestarsi a equivoci e a confusioni, sapendo distinguere accuratamente « la dottrina comune della Chiesa dalle opinioni dei teologi e dalle tendenze che presto passano (le cosiddette "mode") ».361 Non si dà un magistero « parallelo », perché l'unico magistero è quello di Pietro e degli apostoli, del Papa e dei vescovi.362

Un altro problema, avvertito soprattutto là dove gli studi seminaristici sono affidati ad istituzioni accademiche, riguarda il rapporto tra il rigore scientifico della teologia e la sua destinazione pastorale, e pertanto la natura pastorale della teologia. Si tratta, in realtà, di due caratteristiche della teologia e del suo insegnamento che non solo non si oppongono tra loro, ma che concorrono, sia pure sotto profili diversi, alla più completa intelligenza della fede. Infatti la pastoralità della teologia non significa una teologia meno dottrinale o addirittura destituita della sua scientificità; significa, invece, che essa abilita i futuri sacerdoti ad annunciare il messaggio evangelico attraverso i modi culturali del loro tempo e a impostare l'azione pastorale secondo un'autentica visione teologica. E così, da un lato, uno studio rispettoso della scientificità rigorosa delle singole discipline teologiche contribuirà alla più completa e profonda formazione del pastore d'anime come maestro della fede; dall'altro lato, l'adeguata sensibilità alla destinazione pastorale renderà veramente formativo per i futuri presbiteri lo studio serio e scientifico della teologia.

Un ulteriore problema è dato dall'esigenza, oggi fortemente sentita, dell'evangelizzazione delle culture e dell'inculturazione del messaggio della fede. È questo un problema eminentemente pastorale, che deve entrare con maggiore ampiezza e sensibilità nella formazione dei candidati al sacerdozio: « Nelle attuali circostanze nelle quali, in varie regioni del mondo, la religione cristiana è considerata come qualcosa di estraneo alle culture sia antiche sia moderne, è di grande importanza che in tutta la formazione intellettuale e umana si ritenga come necessaria ed essenziale la dimensione dell'inculturazione ».363 Ma ciò preesige una teologia autentica, ispirata ai principii cattolici circa l'inculturazione. Questi principii si collegano con il mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio e con l'antropologia cristiana e illuminano il senso autentico dell'inculturazione: questa, di fronte alle più diverse e talvolta contrapposte culture, presenti nelle varie parti del mondo, vuole essere un'obbedienza al comando di Cristo di predicare il Vangelo a tutte le genti sino agli estremi confini della terra. Una simile obbedienza non significa né sincretismo né semplice adattamento dell'annuncio evangelico, ma che il Vangelo penetra vitalmente nelle culture, si incarna in esse, superandone gli elementi culturali incompatibili con la fede e con la vita cristiana ed elevandone i valori al mistero della salvezza che proviene da Cristo.364 Il problema dell'inculturazione può avere un interesse specifico quando i candidati al sacerdozio provengono essi stessi da antiche culture: avranno bisogno, allora, di vie adeguate di formazione, sia per superare il pericolo di essere meno esigenti e di sviluppare un'educazione più debole ai valori umani, cristiani e sacerdotali, sia per valorizzare gli elementi buoni e autentici delle loro culture e tradizioni.365

56. Seguendo l'insegnamento e gli orientamenti del Concilio Vaticano II e le indicazioni applicative della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, si è determinato nella Chiesa un vasto aggiornamento dell'insegnamento delle discipline filosofiche e soprattutto teologiche nei seminari. Pur bisognoso in alcuni casi di ulteriori emendamenti e sviluppi, questo aggiornamento ha contribuito nel suo insieme a qualificare sempre più la proposta educativa nell'ambito della formazione intellettuale. Al riguardo « i Padri sinodali hanno nuovamente affermato, con frequenza e con chiarezza, la necessità, anzi l'urgenza che venga applicato nei seminari e nelle case di formazione il piano fondamentale degli studi, sia universale che delle singole nazioni o Conferenze episcopali ».366

È necessario contrastare con decisione la tendenza a ridurre la serietà e l'impegno degli studi, che si manifesta in alcuni contesti ecclesiali, come conseguenza anche di una preparazione di base insufficiente e lacunosa degli alunni che iniziano il curricolo filosofico e teologico. È la stessa situazione contemporanea ad esigere sempre più dei maestri che siano veramente all'altezza della complessità dei tempi e siano in grado di affrontare, con competenza e con chiarezza e profondità di argomentazioni, le domande di senso degli uomini d'oggi, alle quali solo il Vangelo di Gesù Cristo dà la piena e definitiva risposta.

57. L'intera formazione dei candidati al sacerdozio è destinata a disporli in un modo più particolare a comunicare alla carità di Cristo, buon Pastore. Questa formazione, dunque, nei suoi diversi aspetti, deve avere un carattere essenzialmente pastorale. Lo affermava chiaramente il decreto conciliare « Optatam Totius » in rapporto ai seminari maggiori: « L'educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare veri pastori d'anime sull'esempio di nostro Signore Gesù Cristo maestro, sacerdote e pastore. Gli alunni perciò vengano preparati: al ministero della parola, in modo da penetrare sempre meglio la Parola di Dio rivelata, rendersela propria con la meditazione e saperla esprimere con la parola e con la vita; al ministero del culto e della santificazione, in modo che pregando e celebrando le azioni liturgiche sappiano esercitare l'opera della salvezza per mezzo del Sacrificio eucaristico e dei Sacramenti; al servizio di pastore, per essere in grado di rappresentare agli uomini Cristo, il quale "non venne per essere servito, ma per servire e dare la sua vita a redenzione di molti" 367 e di guadagnare molti, facendosi servi di tutti 368 ».369

Il testo conciliare insiste sulla profonda coordinazione che esiste tra i diversi aspetti della formazione umana, spirituale, intellettuale e, nello stesso tempo, sulla loro specifica finalizzazione pastorale. In tal senso il fine pastorale assicura alla formazione umana, spirituale e intellettuale determinati contenuti e precise caratteristiche, così come unifica e specifica l'intera formazione dei futuri sacerdoti.

Come ogni altra formazione, anche quella pastorale si sviluppa attraverso la riflessione matura e l'applicazione operativa, e affonda le sue radici vive in uno spirito, che di tutto costituisce il fulcro e la forza di impulso e di sviluppo.

Si esige, dunque, lo studio di una vera e propria disciplina teologica: la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla Chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia; sulla Chiesa, quindi, come « sacramento universale di salvezza »,370 come segno e strumento vivo della salvezza di Gesù Cristo nella Parola, nei Sacramenti e nel servizio della Carità. La pastorale non è soltanto un'arte né un complesso di esortazioni, di esperienze, di metodi; possiede una sua piena dignità teologica, perché riceve dalla fede i principii e i criteri dell'azione pastorale della Chiesa nella storia, di una Chiesa che « genera » ogni giorno la Chiesa stessa, secondo la felice espressione di S. Beda il Venerabile: « Nam et Ecclesia quotidie gignit Ecclesiam ».371 Tra questi principii e criteri si dà quello particolarmente importante del discernimento evangelico della situazione socio-culturale ed ecclesiale entro cui si sviluppa l'azione pastorale.

Lo studio della teologia pastorale deve illuminare l'applicazione operativa mediante la dedizione ad alcuni servizi pastorali che i candidati al sacerdozio, con necessaria gradualità e sempre in armonia con gli altri impegni formativi, devono assolvere: si tratta di « esperienze » pastorali, che possono confluire in un vero e proprio « tirocinio pastorale », che può durare anche per diverso tempo e che chiede di essere verificato in maniera metodica.

Ma lo studio e l'attività pastorali rimandano ad una sorgente interiore, che la formazione avrà cura di custodire e di valorizzare: è la comunione sempre più profonda con la carità pastorale di Gesù, la quale, come ha costituito il principio e la forza del suo agire salvifico, così, grazie all'effusione dello Spirito Santo nel sacramento dell'Ordine, deve costituire il principio e la forza del ministero del presbitero. Si tratta di una formazione destinata non soltanto ad assicurare una competenza pastorale scientifica e un'abilità operativa, ma anche e soprattutto a garantire la crescita di un modo di essere in comunione con i medesimi sentimenti e comportamenti di Cristo, buon Pastore: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ».372

58. Così intesa, la formazione pastorale non può certo ridursi ad un semplice apprendistato, rivolto a familiarizzarsi con qualche tecnica pastorale. La proposta educativa del seminario si fa carico di una vera e propria iniziazione alla sensibilità del pastore, all'assunzione consapevole e matura delle sue responsabilità, all'abitudine interiore di valutare i problemi e di stabilire le priorità e i mezzi di soluzione, sempre in base a limpide motivazioni di fede e secondo le esigenze teologiche della pastorale stessa.

Attraverso l'iniziale e graduale sperimentazione nel ministero, i futuri sacerdoti potranno essere inseriti nella viva tradizione pastorale della loro Chiesa particolare, impareranno ad aprire l'orizzonte della loro mente e del loro cuore alla dimensione missionaria della vita ecclesiale, si eserciteranno in alcune prime forme di collaborazione tra loro e con i presbiteri accanto ai quali saranno mandati. A questi ultimi compete, in collegamento con la proposta del seminario, una responsabilità educativa pastorale di non poca importanza.

Nella scelta dei luoghi e dei servizi adatti all'esercizio pastorale si dovrà avere particolare riguardo per la parrocchia,373 cellula vitale delle esperienze pastorali settoriali e specializzate, nella quale essi verranno a trovarsi di fronte ai problemi particolari del loro futuro ministero. I Padri sinodali hanno offerto una serie di esempi concreti, come la visita ai malati; la cura degli emigrati, degli esiliati e dei nomadi; lo zelo della carità che si traduce in diverse opere sociali. In particolare essi scrivono: « È necessario che il presbitero sia testimone della carità di Cristo stesso che è passato facendo del bene;374 il presbitero deve anche essere il segno visibile della sollecitudine della Chiesa che è Madre e Maestra. E poiché l'uomo oggi è colpito da tante disgrazie, specialmente l'uomo che è travolto da una povertà disumana, dalla cieca violenza e dall'ingiusto potere, è necessario che l'uomo di Dio ben preparato ad ogni opera buona 375 rivendichi i diritti e la dignità dell'uomo. Si guardi però dall'aderire a false ideologie e dal dimenticare, mentre intende promuoverne la perfezione, che il mondo è redento dalla sola croce di Cristo ».376

L'insieme di queste ed altre attività pastorali educa il futuro sacerdote a vivere come « servizio » la propria missione di autorità nella comunità, allontanandosi da ogni atteggiamento di superiorità o di esercizio di un potere che non sia sempre e solo giustificato dalla carità pastorale.

Per un'adeguata formazione è necessario che le diverse esperienze dei candidati al sacerdozio assumano un chiaro carattere ministeriale, restando intimamente collegate con tutte le esigenze che sono proprie della preparazione al presbiterato e (non, certo, a scapito dello studio) in riferimento ai servizi dell'annuncio della Parola, del culto e della presidenza. Questi servizi possono diventare la traduzione concreta dei ministeri del Lettorato, dell'Accolitato e del Diaconato.

59. Poiché l'azione pastorale è destinata per sua natura ad animare la Chiesa, che è essenzialmente « mistero », « comunione », « missione », la formazione pastorale dovrà conoscere e vivere queste dimensioni ecclesiali nell'esercizio del ministero.

Fondamentale risulta essere la coscienza che la Chiesa è « mistero », opera divina, frutto dello Spirito di Cristo, segno efficace della grazia, presenza della Trinità nella comunità cristiana: una simile coscienza, mentre non attenuerà il senso di responsabilità proprio del pastore, lo renderà convinto che la crescita della Chiesa è opera gratuita dello Spirito e che il suo servizio — dalla stessa grazia divina affidato alla libera responsabilità umana — è quello evangelico del servo inutile.377

La coscienza poi della Chiesa quale « comunione » preparerà il candidato al sacerdozio a realizzare una pastorale comunitaria, in cordiale collaborazione con i diversi soggetti ecclesiali: sacerdoti e Vescovo, sacerdoti diocesani e religiosi, sacerdoti e laici. Ma una simile collaborazione presuppone la conoscenza e la stima dei diversi doni e carismi, delle varie vocazioni e responsabilità che lo Spirito offre ed affida ai membri del Corpo di Cristo; esige un senso vivo e preciso della propria e dell'altrui identità nella Chiesa; chiede mutua fiducia, pazienza, dolcezza, capacità di comprensione e di attesa; si radica soprattutto su di un amore alla Chiesa più grande dell'amore a se stessi e alle aggregazioni alle quali si appartiene. Di particolare importanza è preparare i futuri sacerdoti alla collaborazione con i laici. « Siano pronti — dice il Concilio — ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell'attività umana, in modo da poter assieme a loro riconoscere i segni dei tempi ».378 Anche il recente Sinodo ha insistito sulla sollecitudine pastorale verso i laici: « Occorre che l'alunno diventi capace di proporre e di introdurre i fedeli laici, soprattutto i giovani, alle diverse vocazioni (al matrimonio, ai servizi sociali, all'apostolato, ai ministeri e alle responsabilità nell'assumere l'attività pastorale, alla vita consacrata, a guidare la vita politica e sociale, alla ricerca scientifica, all'insegnamento). Soprattutto è necessario insegnare e sostenere i laici e la loro vocazione a permeare e a trasformare il mondo con la luce del Vangelo, riconoscendo il loro compito e rispettandolo ».379

Infine, la coscienza della Chiesa quale comunione « missionaria », aiuterà il candidato al sacerdozio ad amare e a vivere l'essenziale dimensione missionaria della Chiesa e delle diverse attività pastorali; ad essere aperto e disponibile a tutte le possibilità oggi offerte all'annuncio del Vangelo, senza dimenticare il prezioso servizio che al riguardo può e deve essere dato dai mezzi della comunicazione sociale;380 a prepararsi ad un ministero che gli potrà chiedere la concreta disponibilità allo Spirito Santo e al Vescovo per essere mandato a predicare il Vangelo oltre i confini del suo paese.381

II. Gli ambienti della formazione sacerdotale

60. La necessità del Seminario Maggiore — e dell'analoga Casa religiosa — per la formazione dei candidati al sacerdozio, autorevolmente affermata dal Concilio Vaticano II,382 è stata riaffermata dal Sinodo con queste parole: « L'istituzione del Seminario Maggiore, come luogo ottimo di formazione, è certamente da riaffermarsi quale normale spazio, anche materiale, di una vita comunitaria e gerarchica, anzi quale casa propria per la formazione dei candidati al sacerdozio, con superiori veramente consacrati a questo ufficio. Questa istituzione ha dato moltissimi frutti lungo i secoli e continua a darli in tutto il mondo ».383

Il seminario si presenta sì come un tempo e uno spazio; ma si presenta soprattutto come una comunità educativa in cammino: è la comunità promossa dal Vescovo per offrire a chi è chiamato dal Signore a servire come gli apostoli la possibilità di rivivere l'esperienza formativa che il Signore ha riservato ai Dodici. In realtà, una prolungata e intima consuetudine di vita con Gesù viene presentata nei Vangeli come necessaria premessa al ministero apostolico. Essa richiede ai Dodici di realizzare in modo particolarmente chiaro e specifico il distacco, in qualche misura proposto a tutti i discepoli, dall'ambiente di origine, dal lavoro consueto, dagli affetti anche più cari.384 Più volte abbiamo riportato la tradizione di Marco che sottolinea il legame profondo che unisce gli apostoli con Cristo e tra di loro: prima di essere mandati a predicare e a guarire, sono chiamati a « stare con lui ».385

L'identità profonda del seminario è di essere, a suo modo, una continuazione nella Chiesa della comunità apostolica stretta intorno a Gesù, in ascolto della sua Parola, in cammino verso l'esperienza della Pasqua, in attesa del dono dello Spirito per la missione. Una simile identità costituisce l'ideale normativo che stimola il seminario, nelle più diverse forme e nelle molteplici vicissitudini, che in quanto istituzione umana registra nella storia, a trovare una concreta realizzazione, fedele ai valori evangelici ai quali si ispira e capace di rispondere alle situazioni e necessità dei tempi.

Il seminario è, in se stesso, un'esperienza originale della vita della Chiesa: in esso il Vescovo si rende presente attraverso il ministero del rettore e il servizio di corresponsabilità e di comunione da lui animato con gli altri educatori, per la crescita pastorale e apostolica degli alunni. I vari membri della comunità del seminario, riuniti dallo Spirito in un'unica fraternità, collaborano, ciascuno secondo il proprio dono, alla crescita di tutti nella fede e nella carità, perché si preparino adeguatamente al sacerdozio e quindi a prolungare nella Chiesa e nella storia la presenza salvifica di Gesù Cristo, il buon Pastore.

Già sotto un profilo umano, il Seminario Maggiore deve tendere a diventare « una comunità compaginata da una profonda amicizia e carità, così da poter essere considerata una vera famiglia che vive nella gioia ».386 Sotto il profilo cristiano, il seminario si deve configurare, continuano i Padri sinodali, come « comunità ecclesiale », come « comunità dei discepoli del Signore nella quale si celebra la stessa Liturgia (che permea la vita di spirito di preghiera), formata ogni giorno nella lettura e nella meditazione della Parola di Dio e con il sacramento dell'Eucaristia e nell'esercizio della carità fraterna e della giustizia, una comunità nella quale, nel progresso della vita comunitaria e nella vita di ciascun suo membro, risplendono lo Spirito di Cristo e l'amore verso la Chiesa ».387 A conferma e a sviluppo concreto dell'essenziale dimensione ecclesiale del seminario, i Padri sinodali continuano: « Come comunità ecclesiale, sia diocesana che interdiocesana, sia anche religiosa, il seminario alimenti il senso della comunione dei candidati con il loro Vescovo e con il loro presbiterio, così che partecipino alla loro speranza e alle loro angosce e sappiano estendere questa apertura alle necessità della Chiesa universale ».388 È essenziale per la formazione dei candidati al sacerdozio e al ministero pastorale, che per sua natura è ecclesiale, che il seminario sia sentito non in un modo esteriore e superficiale, ossia come un semplice luogo di abitazione e di studio, ma in un modo interiore e profondo: come una comunità, una comunità specificamente ecclesiale, una comunità che rivive l'esperienza del gruppo dei Dodici uniti a Gesù.389

61. Il seminario è, dunque, una comunità ecclesiale educativa, anzi una particolare comunità educante. Ed è il fine specifico a determinarne la fisionomia, ossia l'accompagnamento vocazionale dei futuri sacerdoti, e pertanto il discernimento della vocazione, l'aiuto a corrispondervi e la preparazione a ricevere il sacramento dell'Ordine con le grazie e le responsabilità proprie, per le quali il sacerdote è configurato a Gesù Cristo Capo e Pastore ed è abilitato e impegnato a condividerne la missione di salvezza nella Chiesa e nel mondo.

In quanto comunità educante, l'intera vita del seminario, nelle sue più diverse espressioni, è impegnata nella formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei futuri presbiteri: è una formazione che, pur avendo tanti aspetti comuni con la formazione umana e cristiana di tutti i membri della Chiesa, presenta contenuti, modalità e caratteristiche che discendono in modo specifico dal fine perseguito di preparare al sacerdozio.

Ora i contenuti e le forme dell'opera educativa esigono che il seminario abbia una sua precisa programmazione, un programma di vita cioè che si caratterizzi, sia per la sua organicità-unità, sia per la sua sintonia o corrispondenza con l'unico fine che giustifica l'esistenza del seminario: la preparazione dei futuri presbiteri.

In questo senso i Padri sinodali scrivono: « In quanto comunità educativa, (il seminario) deve servire ad un programma chiaramente definito che, come nota caratteristica, abbia l'unità della direzione manifestata nella figura del Rettore e dei collaboratori, nella coerenza dell'ordinamento di vita, dell'attività formativa e delle esigenze fondamentali della vita comunitaria, la quale comporta anche gli aspetti essenziali del compito formativo. Questo programma deve essere al servizio, senza esitazione e indeterminazione, della finalità specifica che sola giustifica l'esistenza del seminario, la formazione cioè dei futuri presbiteri, pastori della Chiesa ».390 E perché la programmazione sia veramente adatta ed efficace occorre che le grandi linee programmatiche si traducano più concretamente in dettaglio, mediante alcune norme particolari destinate ad ordinare la vita comunitaria, stabilendo alcuni strumenti e alcuni ritmi temporali precisi.

Un altro aspetto è qui da sottolineare: l'opera educativa, per sua natura, è l'accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l'adesione a determinati ideali di vita. Proprio per questo l'opera educativa deve saper armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di camminare con serietà verso la meta stessa, l'attenzione al « viandante », ossia al soggetto concreto impegnato in questa avventura, e dunque ad una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di ritmi diversificati di cammino e di crescita. Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso né sui valori né sull'impegno cosciente e libero, ma amore vero e rispetto sincero per chi, nelle sue condizioni personali, sta camminando verso il sacerdozio. Questo vale non solo in rapporto alla singola persona, ma anche in rapporto ai diversi contesti sociali e culturali entro cui vivono i seminari e alla diversa storia che essi hanno. In questo senso l'opera educativa esige un continuo rinnovamento. I Padri l'hanno rilevato con forza anche in rapporto alla configurazione dei seminari: « Salva la validità delle forme classiche del seminario, il Sinodo desidera che il lavoro di consultazione delle Conferenze episcopali sulle necessità attuali della formazione prosegua come si è stabilito nel decreto "Optatam Totius" 391 e nel Sinodo del 1967. Si rivedano opportunamente le Rationes delle singole nazioni o riti, sia in occasione delle richieste fatte dalle Conferenze episcopali, sia nelle visite apostoliche nei seminari delle diverse nazioni, per integrare in esse diverse forme di formazione collaudate che devono rispondere alle necessità dei popoli di cultura cosiddetta indigena, delle vocazioni di uomini adulti, delle vocazioni per le missioni, ecc. ».392

62. La finalità e la configurazione educativa specifica del Seminario Maggiore esigono che i candidati al sacerdozio vi entrino con una qualche preparazione previa. Una simile preparazione non poneva problemi particolari, almeno sino a qualche decennio fa, allorquando i candidati al sacerdozio provenivano abitualmente dai seminari minori e la vita cristiana delle comunità ecclesiali offriva facilmente a tutti, indistintamente, una discreta istruzione ed educazione cristiana.

La situazione è in molte parti cambiata. Si dà una forte discrepanza tra lo stile di vita e la preparazione di base dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani, anche se cristiani e talvolta impegnati nella vita della Chiesa, da un lato, e dall'altro lo stile di vita del seminario e le sue esigenze formative. In questo contesto, in comunione con i Padri sinodali, chiedo che vi sia un periodo adeguato di preparazione che preceda la formazione del seminario: « È utile che ci sia un periodo di preparazione umana, cristiana, intellettuale e spirituale per i candidati al Seminario Maggiore. Questi candidati devono però presentare determinate qualità: la retta intenzione, un grado sufficiente di maturità umana, una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede, una qualche introduzione ai metodi di preghiera e costumi conformi alla tradizione cristiana. Abbiano anche attitudini proprie delle loro regioni, mediante le quali viene espresso lo sforzo di trovare Dio e la fede ».393

« Una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede », di cui parlano i Padri sinodali, è richiesta prima della teologia: non si può sviluppare una « intellegentia fidei », se non si conosce la « fides » nel suo contenuto. Una simile lacuna potrà essere più facilmente colmata dal prossimo Catechismo universale.

Mentre si fa comune la convinzione della necessità di una simile preparazione previa al Seminario Maggiore, si dà una diversa valutazione dei suoi contenuti e delle sue caratteristiche, ossia dello scopo prevalente, se di formazione spirituale per il discernimento vocazionale o di formazione intellettuale e culturale. D'altra parte, non si possono dimenticare le molte e profonde diversità che esistono, non solo in rapporto ai singoli candidati, ma anche in rapporto alle varie regioni e paesi. Ciò suggerisce una fase ancora di studio e di sperimentazione, perché si possano definire in modo più opportuno e significativo i diversi elementi di questa preparazione previa o « periodo propedeutico »: il tempo, il luogo, la forma, i temi di questo periodo, che peraltro è da coordinarsi con gli anni successivi della formazione nel seminario.

In questo senso assumo e ripropongo alla Congregazione per l'Educazione Cattolica la richiesta formulata dai Padri sinodali: « Il Sinodo chiede che la Congregazione per l'Educazione Cattolica raccolga tutte le informazioni sulle esperienze iniziali fatte o che si stanno facendo. A tempo opportuno, la Congregazione comunichi alle Conferenze episcopali le informazioni su questo argomento ».394

63. Come attesta una larga esperienza, la vocazione sacerdotale ha un suo primo momento di manifestazione spesso negli anni della preadolescenza o nei primissimi anni della gioventù. Ed anche in soggetti che arrivano a decidere l'ingresso in seminario più avanti nel tempo non è raro costatare la presenza della chiamata di Dio in periodi molto precedenti. La storia della Chiesa è una testimonianza continua di chiamate che il Signore rivolge anche in tenera età. San Tommaso, ad esempio, spiega la predilezione di Gesù verso l'apostolo Giovanni « per la sua tenera età » e ne trae la seguente conclusione: « Questo ci fa capire come Dio ami in modo speciale coloro che si danno al suo servizio fin dalla prima giovinezza ».395

La Chiesa si prende cura di questi germi di vocazione seminati nei cuori dei fanciulli, curandone, attraverso l'istituzione dei Seminari Minori, un premuroso, benché iniziale, discernimento e accompagnamento. In varie parti del mondo, questi seminari continuano a svolgere una preziosa opera educativa, finalizzata a custodire e a far sviluppare i germi della vocazione sacerdotale, affinché gli alunni la possano più facilmente riconoscere e siano resi più capaci di corrispondervi. La loro proposta educativa tende a favorire in modo tempestivo e graduale quella formazione umana, culturale e spirituale che condurrà il giovane a intraprendere il cammino nel Seminario Maggiore con una base adeguata e solida.

« Prepararsi a seguire Cristo Redentore con animo generoso e cuore puro »: questo è lo scopo del Seminario Minore indicato dal Concilio nel decreto « Optatam Totius », che così ne delinea il volto educativo: gli alunni « sotto la guida paterna dei superiori, coadiuvati opportunamente dai genitori, conducano un tenore di vita conveniente all'età, allo spirito e allo sviluppo degli adolescenti e in piena armonia con le norme della sana psicologia, senza trascurare una conveniente esperienza delle cose umane e i rapporti con la propria famiglia ».396

Il Seminario Minore potrà essere nella Diocesi anche un punto di riferimento della pastorale vocazionale, con opportune forme di accoglienza e offerta di occasioni informative per quegli adolescenti che sono alla ricerca della vocazione o che, già determinati a seguirla, sono costretti a procrastinare l'ingresso in seminario per diverse circostanze, familiari o scolastiche.

64. Dove il Seminario Minore — che in molte regioni sembra necessario e molto utile — non trova possibilità di attuazione, occorre provvedere a costituire altre « istituzioni »,397 come potrebbero essere i gruppi vocazionali per adolescenti e per giovani. Pur non essendo permanenti, questi gruppi potranno offrire, in un contesto comunitario, una guida sistematica per la verifica e la crescita vocazionale. Pur vivendo in famiglia e frequentando la comunità cristiana che li aiuta nel loro cammino formativo, questi ragazzi e questi giovani non devono essere lasciati soli. Essi hanno bisogno di un gruppo particolare o di una comunità di riferimento cui appoggiarsi per compiere quello specifico itinerario vocazionale che il dono dello Spirito Santo ha iniziato in loro.

Come è sempre avvenuto nella storia della Chiesa, e con qualche caratteristica di confortante novità e frequenza nelle attuali circostanze, va registrato il fenomeno di vocazioni sacerdotali che si verificano in età adulta, dopo una più o meno lunga esperienza di vita laicale e di impegno professionale. Non è sempre possibile, e spesso non è neppure conveniente, invitare gli adulti a seguire l'itinerario educativo del Seminario Maggiore. Si deve piuttosto provvedere, dopo un accurato discernimento dell'autenticità di queste vocazioni, a programmare una qualche forma specifica di accompagnamento formativo così da assicurare, mediante opportuni adattamenti, la necessaria formazione spirituale e intellettuale.398 Un giusto rapporto con gli altri candidati al sacerdozio e periodi di presenza nella comunità del Seminario maggiore potranno garantire il pieno inserimento di queste vocazioni nell'unico presbiterio e la loro intima e cordiale comunione con esso.

III. I protagonisti della formazione sacerdotale

65. Poiché la formazione dei candidati al sacerdozio appartiene alla pastorale vocazionale della Chiesa, si deve dire che è la Chiesa come tale il soggetto comunitario che ha la grazia e la responsabilità di accompagnare quanti il Signore chiama a divenire suoi ministri nel sacerdozio.

In tal senso proprio la lettura del mistero della Chiesa ci aiuta a precisare meglio il posto e il compito che i suoi diversi membri, sia come singoli sia come membri di un corpo, hanno nella formazione dei candidati al presbiterato.

Ora la Chiesa è per sua intima natura la « memoria », il « sacramento » della presenza e dell'azione di Gesù Cristo in mezzo a noi e per noi. È alla sua presenza salvifica che si deve la chiamata al sacerdozio: non solo la chiamata, ma anche l'accompagnamento perché il chiamato possa riconoscere la grazia del Signore e possa darle risposta con libertà e con amore. È lo Spirito di Gesù che fa luce e dona forza nel discernimento e nel cammino vocazionale. Non si dà, allora, autentica opera formativa al sacerdozio senza l'influsso dello Spirito di Cristo. Ogni formatore umano deve esserne pienamente cosciente. Come non vedere una « risorsa » totalmente gratuita e radicalmente efficace, che ha il suo « peso » decisivo nell'impegno formativo verso il sacerdozio? E come non gioire di fronte alla dignità di ogni formatore umano, che si configura, in un certo senso, quale visibile rappresentante di Cristo per il candidato al sacerdozio? Se la formazione al sacerdozio è essenzialmente la preparazione del futuro « pastore » ad immagine di Gesù Cristo buon Pastore, chi meglio di Gesù stesso, mediante l'effusione del suo Spirito, può donare e portare a maturità quella carità pastorale che egli ha vissuto sino al dono totale di sé 399 e che vuole sia rivissuta da tutti i presbiteri?

Primo rappresentante di Cristo nella formazione sacerdotale è il Vescovo. Si potrebbe dire del Vescovo, di ogni Vescovo, quanto l'evangelista Marco ci dice nel testo più volte citato: « Chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli... ».400 In realtà la chiamata interiore dello Spirito ha bisogno di essere riconosciuta come autentica chiamata dal Vescovo. Se tutti possono « andare » dal Vescovo perché Pastore e Padre di tutti, lo possono in una maniera particolare i suoi presbiteri per la comune partecipazione al medesimo sacerdozio e ministero: il Vescovo, dice il Concilio, deve considerarli e trattarli come « fratelli e amici ».401 E questo, in modo analogico, si può dire di quanti si preparano al sacerdozio. A proposito dello stare con lui, con il Vescovo, risulta già quanto mai significativo della sua responsabilità formativa nei riguardi dei candidati al sacerdozio che il Vescovo li visiti spesso e in qualche modo « stia » con loro.

La presenza del Vescovo ha un valore particolare, non solo perché aiuta la comunità del seminario a vivere il suo inserimento nella Chiesa particolare e la sua comunione con il Pastore che la guida, ma anche perché autentica e stimola quella finalità pastorale che costituisce lo specifico dell'intera formazione dei candidati al sacerdozio. Soprattutto, con la sua presenza e con la condivisione con i candidati al sacerdozio di tutto ciò che riguarda il cammino pastorale della Chiesa particolare, il Vescovo offre un apporto fondamentale alla formazione del « senso della Chiesa », quale valore spirituale e pastorale centrale nell'esercizio del ministero sacerdotale.

66. La comunità educativa del seminario si articola attorno a diversi formatori: il rettore, il direttore o padre spirituale, i superiori e i professori. Questi devono sentirsi profondamente uniti al Vescovo, che a diverso titolo e in vario modo lo rappresentano, e devono essere tra loro in convinta e cordiale comunione e collaborazione: questa unità degli educatori non solo rende possibile un'adeguata realizzazione del programma educativo, ma anche e soprattutto offre ai candidati al sacerdozio l'esempio significativo e la concreta introduzione a quella comunione ecclesiale che costituisce un valore fondamentale della vita cristiana e del ministero pastorale.

È evidente che gran parte dell'efficacia formativa dipende dalla personalità matura e forte dei formatori sotto il profilo umano ed evangelico. Per questo diventano particolarmente importanti, da un lato, la scelta accurata dei formatori e, dall'altro, lo stimolo ai formatori perché si rendano costantemente sempre più idonei al compito loro affidato. Consapevoli che proprio nella scelta e nella formazione dei formatori risiede l'avvenire della preparazione dei candidati al sacerdozio, i Padri sinodali si sono soffermati a lungo nel precisare l'identità degli educatori. In particolare hanno scritto: « Il compito della formazione dei candidati al sacerdozio certamente esige non solo una qualche preparazione speciale dei formatori, che sia veramente tecnica, pedagogica, spirituale, umana e teologica, ma anche lo spirito di comunione e di collaborazione nell'unità per sviluppare il programma, così che sempre sia salvata l'unità nell'azione pastorale del seminario sotto la guida del rettore. Il gruppo dei formatori dia testimonianza di una vita veramente evangelica e di totale dedizione al Signore. È opportuno che goda di una qualche stabilità ed abbia residenza abituale nella comunità del seminario. Sia intimamente congiunto con il Vescovo, quale primo responsabile della formazione dei sacerdoti ».402

I Vescovi per primi devono sentire la loro grave responsabilità circa la formazione di coloro che saranno incaricati dell'educazione dei futuri presbiteri. Per questo ministero devono essere scelti sacerdoti di vita esemplare, in possesso di diverse qualità: « la maturità umana e spirituale, l'esperienza pastorale, la competenza professionale, la stabilità nella propria vocazione, la capacità alla collaborazione, la preparazione dottrinale nelle scienze umane (specialmente la psicologia) corrispondente all'ufficio, la conoscenza dei modi per lavorare in gruppo ».403

Fatte salve la distinzione tra foro interno e foro esterno, l'opportuna libertà di scelta dei confessori e la prudenza e discrezione che convengono al ministero del direttore spirituale, la comunità presbiterale degli educatori si senta solidale nella responsabilità di educare i candidati al sacerdozio. Ad essa, sempre in riferimento all'autorevole valutazione sintetica del Vescovo e del rettore, spetta in primo luogo il compito di promuovere e verificare l'idoneità dei candidati quanto alle doti spirituali, umane e intellettuali, soprattutto in riferimento allo spirito di preghiera, all'assimilazione profonda della dottrina della fede, alla capacità di autentica fraternità e al carisma del celibato.404

Tenendo presenti — come i Padri sinodali hanno pure ricordato — le indicazioni dell'Esortazione « Christifideles Laici » e della Lettera Apostolica « Mulieris Dignitatem »,405 che rilevano l'utilità di un sano influsso della spiritualità laicale e del carisma della femminilità su ogni itinerario educativo, è opportuno coinvolgere, in forme prudenti e adattate ai vari contesti culturali, la collaborazione anche dei fedeli laici, uomini e donne, nell'opera formativa dei futuri sacerdoti. Sono da scegliersi con cura, nel quadro delle leggi della Chiesa e secondo i loro particolari carismi e le loro provate competenze. Dalla loro collaborazione, opportunamente coordinata e integrata alle responsabilità educative primarie dei formatori dei futuri presbiteri, è lecito attendersi benefici frutti per una crescita equilibrata del senso della Chiesa e per una percezione più precisa della propria identità sacerdotale da parte dei candidati al presbiterato.406

67. Quanti introducono e accompagnono i futuri sacerdoti nella sacra doctrina con l'insegnamento teologico hanno una particolare responsabilità educativa, che l'esperienza dice essere spesso più decisiva, nello sviluppo della personalità presbiterale, di quella degli altri educatori.

La responsabilità degli insegnanti di teologia, prima che riguardare il rapporto di docenza che devono instaurare con i candidati al sacerdozio, riguarda la concezione che essi stessi devono avere della natura della teologia e del ministero sacerdotale, come pure lo spirito e lo stile secondo cui devono sviluppare l'insegnamento teologico. In questo senso i Padri sinodali hanno giustamente affermato che « il teologo deve rimanere consapevole che con il suo insegnamento non si autorizza da sé, ma deve aprire e comunicare l'intelligenza della fede ultimamente nel nome del Signore e della Chiesa. In questo modo, il teologo, pur utilizzando tutte le possibilità scientifiche, esercita il suo compito su mandato della Chiesa e collabora con il Vescovo nel compito di insegnare. Poiché i teologi e i Vescovi sono al servizio della stessa Chiesa nel promuovere la fede, devono sviluppare e coltivare una reciproca fiducia e in questo spirito superare anche le tensioni e i conflitti 407 ».408

L'insegnante di teologia, come ogni altro educatore, deve rimanere in comunione e collaborare cordialmente con tutte le altre persone impegnate nella formazione dei futuri sacerdoti e presentare con rigore scientifico, generosità, umiltà e passione il suo contributo originale e qualificato, che non è solo la semplice comunicazione di una dottrina — sia pure la sacra doctrina —, ma è soprattutto l'offerta della prospettiva che unifica nel disegno di Dio tutti i diversi saperi umani e le varie espressioni di vita.

In particolare, la specificità e l'incisività formativa degli insegnanti di teologia si misura sul loro essere, anzitutto, « uomini di fede e pieni di amore per la Chiesa, convinti che il soggetto adeguato della conoscenza del mistero cristiano resta la Chiesa come tale, persuasi pertanto che il loro compito d'insegnare è un autenico ministero ecclesiale, ricchi di senso pastorale per discernere non solo i contenuti ma anche le forme adatte nell'esercizio di questo ministero. In particolare, dagli insegnanti è richiesta la fedeltà piena al Magistero. Insegnano, infatti, a nome della Chiesa e per questo sono testimoni della fede ».409

68. Le comunità da cui proviene il candidato al sacerdozio, pur con il necessario distacco che la scelta vocazionale comporta, continuano ad esercitare un influsso non indifferente sulla formazione del futuro sacerdote. Devono allora essere coscienti della loro specifica parte di responsabilità.

È da ricordare, anzitutto, la famiglia: i genitori cristiani, come anche i fratelli e le sorelle e gli altri membri del nucleo familiare, non dovranno mai cercare di ricondurre il futuro presbitero negli angusti limiti di una logica troppo umana, se non mondana, pur sostenuta da sincero affetto.410 Animati essi stessi dal medesimo proposito di « compiere la volontà di Dio » sapranno, invece, accompagnare il cammino formativo con la preghiera, il rispetto, il buon esempio delle virtù domestiche e l'aiuto spirituale e materiale, soprattutto nei momenti difficili. L'esperienza insegna che, in tanti casi, questo aiuto molteplice si è rivelato decisivo per il candidato al sacerdozio. Anche nel caso di genitori e familiari indifferenti o contrari alla scelta vocazionale, il confronto chiaro e sereno con la loro posizione e gli stimoli che ne derivano possono essere di grande aiuto, perché la vocazione sacerdotale maturi in modo più consapevole e determinato.

In profondo collegamento con le famiglie sta la comunità parrocchiale, e le une e l'altra si integrano sul piano dell'educazione alla fede; spesso poi la parrocchia, con una specifica pastorale giovanile e vocazionale, esercita un ruolo di supplenza nei riguardi della famiglia. Soprattutto, in quanto realizzazione locale più immediata del mistero della Chiesa, la parrocchia offre un contributo originale e particolarmente prezioso alla formazione del futuro sacerdote. La comunità parrocchiale deve continuare a sentire come parte viva di sé il giovane in cammino verso il sacerdozio, lo deve accompagnare con la preghiera, accogliere cordialmente nei periodi di vacanza, rispettare e favorire nel formarsi della sua identità presbiterale, offrendogli occasioni opportune e stimoli forti per provare la sua vocazione alla missione sacerdotale.

Anche le associazioni e i movimenti giovanili, segno e conferma della vitalità che lo Spirito assicura alla Chiesa, possono e devono contribuire alla formazione dei candidati al sacerdozio, in particolare di quelli che escono dall'esperienza cristiana, spirituale e apostolica di queste realtà aggregative. I giovani che hanno ricevuto la loro formazione di base in tali aggregazioni e che si riferiscono ad esse per la loro esperienza di Chiesa, non dovranno sentirsi invitati a sradicarsi dal loro passato ed a interrompere le relazioni con l'ambiente che ha contribuito al determinarsi della loro vocazione, né dovranno cancellare i tratti caratteristici della spiritualità che là hanno imparato e vissuto, in tutto ciò che di buono, edificante ed arricchente essi contengono.411 Anche per loro, questo ambiente d'origine continua ad essere fonte di aiuto e di sostegno nel cammino formativo verso il sacerdozio.

Le occasioni di educazione alla fede e di crescita cristiana ed ecclesiale, che lo Spirito offre a tanti giovani, attraverso molteplici forme di gruppi, movimenti e associazioni di varia ispirazione evangelica, devono essere sentite e vissute come il dono di un'anima alimentatrice dentro l'istituzione e al suo servizio. Un movimento o una spiritualità particolare, infatti, « non è una struttura alternativa all'istituzione. È invece sorgente di una presenza che continuamente ne rigenera l'autenticità esistenziale e storica. Il sacerdote deve perciò trovare in un movimento la luce e il calore che lo rende capace di fedeltà al suo Vescovo, che lo rende pronto alle incombenze dell'istituzione e attento alla disciplina ecclesiastica, così che più fertile sia la vibrazione della sua fede ed il gusto della sua fedeltà ».412

È quindi necessario che, nella nuova comunità del Seminario nella quale sono riuniti dal Vescovo, i giovani provenienti da associazioni e da movimenti ecclesiali imparino « il rispetto delle altre vie spirituali e lo spirito di dialogo e di cooperazione », si riferiscano con coerenza e cordialità alle indicazioni formative del Vescovo e agli educatori del Seminario, affidandosi con schietta fiducia alla loro guida e alle loro valutazioni.413 Questo atteggiamento, infatti, prepara e in qualche modo anticipa la genuina scelta presbiterale di servizio all'intero Popolo di Dio, nella comunione fraterna del presbiterio e in obbedienza al Vescovo.

La partecipazione del seminarista e del presbitero diocesano a particolari spiritualità o aggregazioni ecclesiali è certamente, in se stessa, un fattore benefico di crescita e di fraternità sacerdotale. Ma questa partecipazione non deve ostacolare, bensì aiutare l'esercizio del ministero e la vita spirituale che sono propri del sacerdote diocesano, il quale « resta sempre il pastore dell'insieme. Non solo è il "permanente", disponibile a tutti, ma presiede all'incontro di tutti — in particolare è a capo delle parrocchie — affinché tutti trovino l'accoglienza che sono in diritto di attendere nella comunità e nell'Eucaristia che li riunisce, qualunque sia la loro sensibilità religiosa e il loro impegno pastorale ».414

69. Non si può dimenticare, infine, che lo stesso candidato al sacerdozio deve dirsi protagonista necessario e insostituibile della sua formazione: ogni formazione, anche quella sacerdotale, è ultimamente un'autoformazione. Nessuno, infatti, può sostituirci nella libertà responsabile che abbiamo come singole persone.

Certamente anche il futuro sacerdote, lui per primo, deve crescere nella consapevolezza che il protagonista per antonomasia della sua formazione è lo Spirito Santo che, con il dono del cuore nuovo, configura e assimila a Gesù Cristo buon Pastore: in tal senso il candidato affermerà nella forma più radicale la sua libertà nell'accogliere l'azione formativa dello Spirito. Ma accogliere questa azione significa anche, da parte del candidato al sacerdozio, accogliere le mediazioni umane di cui lo Spirito si serve. Per questo l'azione dei vari educatori risulta veramente e pienamente efficace solo se il futuro sacerdote offre ad essa la sua personale convinta e cordiale collaborazione.

CAPITOLO VI

TI RICORDO DI RAVVIVARE IL DONO DI DIO CHE E' IN TE
La formazione permanente dei sacerdoti

70. « Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te ».415

Le parole dell'Apostolo al vescovo Timoteo si possono legittimamente applicare a quella formazione permanente alla quale sono chiamati tutti i sacerdoti in forza del « dono di Dio » che hanno ricevuto con l'ordinazione sacra. Esse ci introducono a cogliere la verità intera e l'originalità inconfondibile della formazione permanente dei presbiteri. In questo siamo aiutati anche da un altro testo di Paolo, che allo stesso Timoteo scrive: « Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l'imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dedicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano ».416

L'Apostolo chiede a Timoteo di « ravvivare », ossia di riaccendere come si fa per il fuoco sotto la cenere, il dono divino, nel senso di accoglierlo e di viverlo senza mai perdere o dimenticare quella « novità permanente » che è propria di ogni dono di Dio, di Colui che fa nuove tutte le cose,417 e dunque di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza originaria.

Ma quel « ravvivare » non è solo l'esito di un compito affidato alla responsabilità personale di Timoteo, non è solo il risultato di un impegno della sua memoria e della sua volontà. È l'effetto di un dinamismo di grazia intrinseco al dono di Dio: è Dio stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa.

Con l'effusione sacramentale dello Spirito Santo che consacra e manda, il presbitero viene configurato a Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e viene mandato a compiere il ministero pastorale. In tal modo, il sacerdote è segnato per sempre e in modo indelebile nel suo essere come ministro di Gesù e della Chiesa ed è inserito in una condizione permanente e irreversibile di vita ed è incaricato di un ministero pastorale che, radicato nell'essere, coinvolge tutta la sua esistenza, ed è esso pure permanente. Il sacramento dell'Ordine conferisce al sacerdote la grazia sacramentale, che lo rende partecipe non solo del « potere » e del « ministero » salvifici di Gesù, ma anche del suo « amore » pastorale; nello stesso tempo assicura al sacerdote tutte quelle grazie attuali che gli verranno date ogniqualvolta saranno necessarie e utili per il degno e perfetto compimento del ministero ricevuto.

La formazione permanente trova così il suo fondamento proprio e la sua motivazione originale nel dinamismo del sacramento dell'Ordine.

Certo non mancano ragioni anche semplicemente umane che sollecitano il sacerdote a realizzare una formazione permanente. Questa è un'esigenza della sua progressiva realizzazione: ogni vita è un cammino incessante verso la maturità, e questa passa attraverso la continua formazione. È esigenza, inoltre, del ministero sacerdotale, sia pure colto nella sua natura generica e comune alle altre professioni, e quindi come servizio rivolto agli altri: ora non c'è professione o impegno o lavoro che non esiga un continuo aggiornamento, se vuole essere attuale ed efficace. L'esigenza di « tenere il passo » con il cammino della storia è un'altra ragione umana che giustifica la formazione permanente.

Ma queste ed altre ragioni vengono assunte e specificate dalle ragioni teologiche ora ricordate e che si possono ulteriormente approfondire.

Il sacramento dell'Ordine, per la natura di « segno », che è propria di tutti i sacramenti, può considerarsi, come realmente è, Parola di Dio: è Parola di Dio che chiama e manda, è l'espressione più forte della vocazione e della missione del sacerdote. Mediante il sacramento dell'Ordine Dio chiama coram Ecclesia il candidato « al » sacerdozio. Il « vieni e seguimi » di Gesù trova la sua proclamazione piena e definitiva nella celebrazione del sacramento della sua Chiesa: si manifesta e si comunica attraverso la voce della Chiesa, che risuona sulle labbra del Vescovo che prega e impone le mani. E il sacerdote dà risposta, nella fede, alla chiamata di Gesù: « vengo e ti seguo ». Da questo momento ha inizio quella risposta che, come scelta fondamentale, deve riesprimersi e riaffermarsi lungo gli anni del sacerdozio in numerosissime altre risposte, tutte radicate e vivificate dal « sì » dell'Ordine sacro.

In questo senso si può parlare di una vocazione « nel » sacerdozio. In realtà Dio continua a chiamare e a mandare, rivelando il suo disegno salvifico nello sviluppo storico della vita del sacerdote e nelle vicende della Chiesa e della società. E proprio in questa prospettiva emerge il significato della formazione permanente: essa è necessaria in ordine a discernere e a seguire questa continua chiamata o volontà di Dio. Così l'apostolo Pietro è chiamato a seguire Gesù anche dopo che il Risorto gli ha affidato il suo gregge: « Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi" ».418 C'è, dunque, un « seguimi » che accompagna la vita e la missione dell'apostolo. È un « seguimi » che attesta l'appello e l'esigenza della fedeltà sino alla morte,419 un « seguimi » che può significare una sequela Christi con il dono totale di sé nel martirio.420

I Padri sinodali hanno espresso la ragione che giustifica la necessità della formazione permanente e che nello stesso tempo ne rivela la natura profonda, qualificandola come « fedeltà » al ministero sacerdotale e come « processo di continua conversione ».421 È lo Spirito Santo, effuso con il sacramento, che sostiene il presbitero in questa fedeltà e che lo accompagna e lo stimola in questo cammino di incessante conversione. Il dono dello Spirito non dispensa, ma sollecita la libertà del sacerdote, perché cooperi responsabilmente e assuma la formazione permanente come compito che gli è affidato. In tal modo la formazione permanente è espressione ed esigenza della fedeltà del sacerdote al suo ministero, anzi al suo stesso essere. È dunque amore a Gesù Cristo e coerenza con se stessi. Ma è anche atto di amore verso il Popolo di Dio, al cui servizio il sacerdote è posto. Anzi, atto di vera e propria giustizia: egli è debitore verso il Popolo di Dio, essendo chiamato a riconoscerne e a promuoverne il « diritto », quello fondamentale, di essere destinatario della Parola di Dio, dei Sacramenti e del servizio della Carità, che sono il contenuto originale e irrinunciabile del ministero pastorale del sacerdote. La formazione permanente è necessaria perché il sacerdote sia in grado di rispondere, nel modo dovuto, a tale diritto del Popolo di Dio.

Anima e forma della formazione permanente del sacerdote è la carità pastorale: lo Spirito Santo, che infonde la carità pastorale, introduce e accompagna il sacerdote a conoscere sempre più profondamente il mistero di Cristo che è insondabile nella sua ricchezza 422 e, di riflesso, a conoscere il mistero del sacerdozio cristiano. La stessa carità pastorale spinge il sacerdote a conoscere sempre più le attese, i bisogni, i problemi, le sensibilità dei destinatari del suo ministero: destinatari colti nelle loro concrete situazioni personali, familiari, sociali.

A tutto questo tende la formazione permanente intesa come cosciente e libera proposta al dinamismo della carità pastorale e dello Spirito Santo, che ne è la sorgente prima e l'alimento continuo. In questo senso la formazione permanente è un'esigenza intrinseca al dono e al ministero sacramentale ricevuto e si rivela necessaria in ogni tempo. Oggi però risulta essere particolarmente urgente, non solo per il rapido mutarsi delle condizioni sociali e culturali degli uomini e dei popoli entro cui si svolge il ministero presbiterale, ma anche per quella « nuova evangelizzazione » che costituisce il compito essenziale e indilazionabile della Chiesa alla fine del secondo millennio.

71. La formazione permanente dei sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, è la continuazione naturale e assolutamente necessaria di quel processo di strutturazione della personalità presbiterale che si è iniziato e sviluppato in Seminario o nella Casa religiosa con il cammino formativo in vista dell'Ordinazione.

È di particolare importanza avvertire e rispettare l'intrinseco legame che esiste tra la formazione precedente l'ordinazione e quella successiva. Se, infatti, ci fosse una discontinuità o perfino una difformità tra queste due fasi formative, deriverebbero immediatamente gravi conseguenze sull'attività pastorale e sulla comunione fraterna tra i presbiteri, in particolare tra quelli di differente età. La formazione permanente non è una ripetizione di quella acquisita in Seminario, semplicemente riveduta o ampliata con nuovi suggerimenti applicativi. Essa si sviluppa con contenuti e soprattutto attraverso metodi relativamente nuovi, come un fatto vitale unitario che, nel suo progresso — affondando le radici nella formazione seminaristica — richiede adattamenti, aggiornamenti e modifiche, senza però subire rotture o soluzioni di continuità.

E viceversa, fin dal Seminario Maggiore occorre preparare la futura formazione permanente, e aprire ad essa l'animo e il desiderio dei futuri presbiteri, dimostrandone la necessità, i vantaggi e lo spirito, e assicurando le condizioni del suo realizzarsi.

Proprio perché la formazione permanente è una continuazione di quella del Seminario, il suo fine non può essere un puro atteggiamento per così dire professionale, ottenuto con l'apprendimento di alcune tecniche pastorali nuove. Deve essere piuttosto il mantenere vivo un generale e integrale processo di continua maturazione, mediante l'approfondimento sia di ciascuna delle dimensioni della formazione — umana, spirituale, intellettuale e pastorale —, sia del loro intimo e vivo collegamento specifico, a partire dalla carità pastorale e in riferimento ad essa.

72. Un primo approfondimento riguarda la dimensione umana della formazione sacerdotale. Nel contatto quotidiano con gli uomini, nella condivisione della loro vita di ogni giorno, il sacerdote deve crescere e approfondire quella sensibilità umana che gli permette di comprendere i bisogni ed accogliere le richieste, di intuire le domande inespresse, di spartire le speranze e le attese, le gioie e la fatiche del vivere comune; di essere capace di incontrare tutti e di dialogare con tutti. Soprattutto conoscendo e condividendo, cioè facendo propria, l'esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, dall'indigenza alla malattia, dall'emarginazione all'ignoranza, alla solitudine, alle povertà materiali e morali, il sacerdote arricchisce la propria umanità e la rende più autentica e trasparente in un crescente e appassionato amore all'uomo.

Nel portare a maturità la sua formazione umana, il sacerdote riceve un particolare aiuto dalla grazia di Gesù Cristo: la carità del buon Pastore, infatti, si è espressa non solo con il dono della salvezza agli uomini, ma anche con la condivisione della loro vita, della quale il Verbo, che si è fatto « carne »,423 ha voluto conoscere la gioia e la sofferenza, sperimentare la fatica, spartire le emozioni, consolare la pena. Vivendo da uomo fra gli uomini e con gli uomini, Gesù Cristo offre la più assoluta, genuina e perfetta espressione di umanità: lo vediamo far festa alle nozze di Cana, frequentare una famiglia di amici, commuoversi per la folla affamata che lo segue, restituire figli malati o morti ai genitori, piangere la perdita di Lazzaro...

Del sacerdote, maturato sempre più nella sua sensibilità umana, il Popolo di Dio deve poter dire qualcosa di analogo a quanto di Gesù dice la Lettera agli Ebrei: « Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato ».424

La formazione del presbitero nella sua dimensione spirituale è un'esigenza della vita nuova ed evangelica alla quale egli è chiamato in modo specifico dallo Spirito Santo effuso nel sacramento dell'Ordine. Lo Spirito, consacrando il sacerdote e configurandolo a Gesù Cristo Capo e Pastore, crea un legame che, situato nell'essere stesso del sacerdote, chiede di essere assimilato e vissuto in maniera personale, cioè cosciente e libera, mediante una comunione di vita e di amore sempre più ricca e una condivisione sempre più ampia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Gesù Cristo. In questo legame tra il Signore Gesù e il sacerdote, legame ontologico e psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e nello stesso tempo la forza per quella « vita secondo lo Spirito » e per quel « radicalismo evangelico » al quale è chiamato ogni sacerdote e che viene favorito dalla formazione permanente nel suo aspetto spirituale. Questa formazione risulta necessaria anche in ordine al ministero sacerdotale, alla sua autenticità e fecondità spirituale. « Eserciti la cura d'anime? », si chiedeva san Carlo Borromeo. E così rispondeva nel discorso rivolto ai sacerdoti: « Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso. Comprendete, fratelli, che niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni: Canterò, dice il profeta, e mediterò.425 Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate; e "tutto si faccia tra voi nella carità".426 Così potremo superare le difficoltà che incontriamo, e sono innumerevoli, ogni giorno. Del resto ciò è richiesto dal compito affidatoci. Se così faremo avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri ».427

In particolare la vita di preghiera dev'essere continuamente « riformata » nel sacerdote. L'esperienza, infatti, insegna che nell'orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, soprattutto a quelli destinati alla celebrazione della « Liturgia delle Ore » e a quelli lasciati alla scelta personale e non sostenuti da scadenze e orari del servizio liturgico, ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito.

Quanto l'apostolo Paolo dice di tutti i credenti, che devono giungere « a formare l'uomo maturo, al livello di statura che attua la pienezza del Cristo »,428 può essere applicato in modo specifico ai sacerdoti chiamati alla perfezione della carità e quindi alla santità, anche perché il loro stesso ministero pastorale li vuole modelli viventi per tutti i fedeli.

Anche la dimensione intellettuale della formazione chiede di essere continuata e approfondita durante tutta la vita del sacerdote, in particolare mediante lo studio e l'aggiornamento culturale serio ed impegnato. Partecipe della missione profetica di Gesù e inserito nel mistero della Chiesa Maestra di verità, il sacerdote è chiamato a rivelare in Gesù Cristo agli uomini il volto di Dio, e con ciò il vero volto dell'uomo.429 Ma questo esige che il sacerdote stesso ricerchi tale volto e lo contempli con venerazione e amore:430 solo così lo può far conoscere agli altri. In particolare la continuazione dello studio teologico risulta anche necessaria perché il sacerdote possa adempiere con fedeltà il ministero della Parola, annunciandola senza confusioni e ambiguità, distinguendola dalle semplici opinioni umane, anche se rinomate e diffuse. Così potrà porsi veramente al servizio del Popolo di Dio, aiutandolo a rendere ragione, a quanti lo chiedono, della speranza cristiana.431 Inoltre, « il sacerdote, nell'applicarsi con coscienza e costanza allo studio teologico, è in grado di assimilare in forma sicura e personale la genuina ricchezza ecclesiale. Può quindi compiere la missione, che lo impegna nel rispondere alle difficoltà circa l'autentica dottrina cattolica, e superare l'inclinazione, propria e altrui, al dissenso e all'atteggiamento negativo riguardo al Magistero e alla Tradizione ».432

L'aspetto pastorale della formazione permanente è bene espresso dalle parole dell'apostolo Pietro: « Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio ».433 Per vivere ogni giorno secondo la grazia ricevuta occorre che il sacerdote sia sempre più aperto ad accogliere la carità pastorale di Gesù Cristo, donatagli dal suo Spirito con il sacramento ricevuto. Come tutta l'attività del Signore è stata il frutto e il segno della carità pastorale, così deve essere anche per l'operosità ministeriale del sacerdote. La carità pastorale è un dono e, insieme, un compito, una grazia e una responsabilità alla quale occorre essere fedeli: occorre cioè accoglierla e viverne il dinamismo sino alle esigenze più radicali. Questa stessa carità pastorale, come si è detto, spinge e stimola il sacerdote a conoscere sempre meglio la condizione reale degli uomini ai quali è mandato, a discernere nelle circostanze storiche nelle quali è inserito gli appelli dello Spirito, a ricercare i metodi più adatti e le forme più utili per esercitare oggi il suo ministero. Così la carità pastorale anima e sostiene gli sforzi umani del sacerdote per un'operosità pastorale che sia attuale, credibile ed efficace. Ma ciò esige una permanente formazione pastorale.

Il cammino verso la maturità non richiede solo che il sacerdote continui ad approfondire le diverse dimensioni della sua formazione, ma anche e soprattutto che sappia integrare sempre più armonicamente tra loro queste stesse dimensioni, raggiungendone progressivamente l'unità interiore: ciò sarà reso possibile dalla carità pastorale. Questa, infatti, non solo coordina e unifica i diversi aspetti, ma li specifica connotandoli come aspetti della formazione del sacerdote in quanto tale, ossia del sacerdote come trasparenza, immagine viva, ministro di Gesù buon Pastore.

La formazione permanente aiuta il sacerdote a superare la tentazione di ricondurre il suo ministero ad un attivismo fine a se stesso, ad una impersonale prestazione di cose, sia pure spirituali o sacre, ad una funzione impiegatizia al servizio dell'organizzazione ecclesiastica. Solo la formazione permanente aiuta il prete a custodire con vigile amore il « mistero » che porta in sé per il bene della Chiesa e dell'umanità.

73. Le diverse e complementari dimensioni della formanzione permanente ci aiutano a coglierne il significato profondo: essa tende ad aiutare il prete ad essere e a fare il prete nello spirito e secondo lo stile di Gesù buon Pastore.

La verità è da farsi! Così ci ammonisce san Giacomo: « Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi ».434 I sacerdoti sono chiamati a « fare la verità » del loro essere, ossia a vivere « nella carità » 435 la loro identità e il loro ministero nella Chiesa e per la Chiesa. Sono chiamati a prendere coscienza sempre più viva del dono di Dio, a farne continua memoria. È questo l'invito di Paolo a Timoteo: « Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi ».436

Nel contesto ecclesiologico più volte ricordato si può considerare il significato profondo della formazione permanente del sacerdote in ordine alla sua presenza e azione nella Chiesa mysterium, communio et missio.

Entro la Chiesa « mistero » il sacerdote è chiamato, mediante la formazione permanente, a conservare e sviluppare nella fede la coscienza della verità intera e sorprendente del suo essere: egli è ministro di Cristo e amministratore dei misteri di Dio.437 Paolo chiede espressamente ai cristiani che lo considerino secondo questa identità; ma lui stesso, per primo, vive nella consapevolezza del dono sublime ricevuto dal Signore. Così dev'essere di ogni sacerdote, se vuole rimanere nella verità del suo essere. Ma ciò è possibile solo nella fede, solo con lo sguardo e con gli occhi di Cristo.

In questo senso si può dire che la formazione permanente tende a far sì che il prete sia un credente e lo diventi sempre più: che si veda sempre nella sua verità, con gli occhi di Cristo. Egli deve custodire questa verità con amore grato e gioioso. Deve rinnovare la sua fede quando esercita il ministero sacerdotale: sentirsi ministro di Gesù Cristo, sacramento dell'amore di Dio per l'uomo, ogniqualvolta è tramite e strumento vivo del conferimento della grazia di Dio agli uomini. Deve riconoscere questa stessa verità nei confratelli: è il principio della stima e dell'amore verso gli altri sacerdoti.

74. La formazione permanente aiuta il sacerdote, entro la Chiesa « comunione », a maturare la coscienza che il suo ministero è ultimamente ordinato a riunire la famiglia di Dio come fraternità animata dalla carità e a condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.438

Il sacerdote deve crescere nella consapevolezza della profonda comunione che lo lega al Popolo di Dio: non è soltanto « davanti » alla Chiesa, ma anzitutto « nella » Chiesa. È fratello tra fratelli. Con il Battesimo, insignito della dignità e della libertà dei figli di Dio nel Figlio unigenito, il sacerdote è membro dello stesso e unico Corpo di Cristo.439 La coscienza di questa comunione sfocia nel bisogno di suscitare e sviluppare la corresponsabilità nella comune e unica missione di salvezza, con la pronta e cordiale valorizzazione di tutti i carismi e i compiti che lo Spirito offre ai credenti per l'edificazione della Chiesa. È soprattutto nel compimento del ministero pastorale, per sua natura ordinato al bene del Popolo di Dio, che il sacerdote deve vivere e testimoniare la sua profonda comunione con tutti, come scriveva Paolo VI: « Bisogna farsi fratelli degli uomini nell'atto stesso che vogliamo essere loro pastori, padri e maestri. Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio ».440

In modo più specifico il sacerdote è chiamato a maturare la coscienza dell'essere membro della Chiesa particolare nella quale è incardinato, ossia inserito con un legame insieme giuridico, spirituale e pastorale. Una simile coscienza suppone e sviluppa l'amore particolare alla propria Chiesa. Questa, in realtà, è il termine vivo e permanente della carità pastorale che deve accompagnare la vita del prete e che lo conduce a condividere di questa stessa Chiesa particolare la storia o esperienza di vita nelle sue ricchezze e fragilità, nelle sue difficoltà e speranze, a lavorare in essa per la sua crescita. Sentirsi, dunque, insieme arricchiti dalla Chiesa particolare e impegnati attivamente alla sua edificazione, prolungando, ciascun sacerdote e con gli altri, quell'operosità pastorale che ha contraddistinto i confratelli che li hanno preceduti. Un'esigenza insopprimibile della carità pastorale verso la propria Chiesa particolare e il suo domani ministeriale è la sollecitudine che il sacerdote deve avere di trovare, per così dire, qualcuno che lo sostituisca nel sacerdozio.

Il sacerdote deve maturare nella coscienza della comunione che sussiste tra le diverse Chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di Chiese che vivono in loco la Chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale favorirà lo « scambio dei doni », a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti. Di qui la disponibilità, anzi l'impegno generoso per il realizzarsi di una equa distribuzione del clero.441 Tra queste Chiese particolari sono da ricordarsi quelle che « prive di libertà, non possono avere vocazioni proprie », come pure le « Chiese recentemente uscite dalla persecuzione e quelle povere alle quali sono stati dati già per lungo tempo e da parte di molti degli aiuti con animo grande e fraterno, e tuttora vengono dati ».442

All'interno della comunione ecclesiale, il sacerdote è chiamato in particolare a crescere, nella sua formazione permanente, nel e con il proprio presbiterio unito al Vescovo. Il presbiterio nella sua verità piena è un mysterium: infatti è una realtà soprannaturale perché si radica nel sacramento dell'Ordine. Questo è la sua fonte, la sua origine. È il « luogo » della sua nascita e della sua crescita. Infatti, « i presbiteri mediante il sacramento dell'Ordine sono collegati con un vincolo personale e indissolubile con Cristo unico sacerdote. L'Ordine viene conferito ad essi come singoli, ma sono inseriti nella comunione del presbiterio congiunto con il Vescovo 443 ».444

Questa origine sacramentale si riflette e si prolunga nell'ambito dell'esercizio del ministero presbiterale: dal mysterium al ministerium. « L'unità dei presbiteri con il Vescovo e tra di loro non si aggiunge dall'esterno alla natura propria del loro servizio, ma ne esprime l'essenza in quanto è la cura di Cristo sacerdote nei riguardi del Popolo adunato dall'unità della Santissima Trinità ».445 Questa unità presbiterale, vissuta nello spirito della carità pastorale, rende i sacerdoti testimoni di Gesù Cristo, che ha pregato il Padre « perché tutti siano una cosa sola ».446

La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell'Ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali. La fraternità presbiterale non esclude nessuno, ma può e deve avere le sue preferenze: sono quelle evangeliche, riservate a chi ha più grande bisogno di aiuto o di incoraggiamento. Tale fraternità « ha una cura speciale per i giovani presbiteri, tiene un cordiale e fraterno dialogo con quelli di media e maggior età e con quelli che per ragioni diverse sperimentano difficoltà; anche i sacerdoti che hanno abbandonato questa forma di vita o che non la seguono, non solo non li abbandona ma li segue ancor più con fraterna sollecitudine ».447

Dell'unico presbiterio fanno parte, a titolo diverso, anche i presbiteri religiosi residenti e operanti in una Chiesa particolare. La loro presenza costituisce un arricchimento per tutti i sacerdoti e i vari carismi particolari da essi vissuti, mentre sono un richiamo perché i presbiteri crescano nella comprensione del sacerdozio stesso, contribuiscono a stimolare e ad accompagnare la formazione permanente dei sacerdoti. Il dono della vita religiosa, nella compagine diocesana, quando è accompagnato da sincera stima e da giusto rispetto delle particolarità di ogni istituto e di ogni tradizione spirituale, allarga l'orizzonte della testimonianza cristiana e contribuisce in vario modo ad arricchire la spiritualità sacerdotale, soprattutto in riferimento al corretto rapporto e al reciproco influsso tra i valori della Chiesa particolare e quelli dell'universalità del Popolo di Dio. Da parte loro, i religiosi saranno attenti a garantire uno spirito di vera comunione ecclesiale, una partecipazione cordiale al cammino della Diocesi e alle scelte pastorali del Vescovo, mettendo volentieri a disposizione il proprio carisma per l'edificazione di tutti nella carità.448

Infine, nel contesto della Chiesa comunione e del presbiterio si può meglio affrontare il problema della solitudine del sacerdote, sulla quale si sono fermati i Padri sinodali. Si dà una solitudine che fa parte dell'esperienza di tutti e che è qualcosa di assolutamente normale. Ma si dà anche una solitudine che nasce da difficoltà varie e che a sua volta provoca ulteriori difficoltà. In questo senso, « l'attiva partecipazione al presbiterio diocesano, i contatti regolari con il Vescovo e con gli altri sacerdoti, la mutua collaborazione, la vita comune o fraterna tra sacerdoti, come anche l'amicizia e la cordialità con i fedeli laici che sono attivi nelle parrocchie, sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine che alcune volte il sacerdote può sperimentare ».449

La solitudine non crea però solo difficoltà, offre anche opportunità positive per la vita del sacerdote: « Accettata in spirito di offerta e ricercata nell'intimità con Gesù Cristo Signore, la solitudine può essere un'opportunità per l'orazione e lo studio, come pure un aiuto per la santificazione e la crescita umana ».450

Senza dire che una certa forma di solitudine è elemento necessario per la formazione permanente. Gesù sapeva ritirarsi, spesso, da solo a pregare.451 La capacità di reggere una buona solitudine è condizione indispensabile alla cura della vita interiore. Si tratta di una solitudine abitata dalla presenza del Signore, che ci mette in contatto, nella luce dello Spirito, con il Padre. In questo senso, la cura del silenzio e la ricerca di spazi e tempi di « deserto » sono necessari alla formazione permanente sia in campo intellettuale, sia in campo spirituale e pastorale. In questo senso ancora, si può affermare che non è capace di vera e fraterna comunione chi non sa vivere bene la propria solitudine.

75. La formazione permanente è destinata a far crescere nel sacerdote la coscienza della sua partecipazione alla missione salvifica della Chiesa. Nella Chiesa « missione » la formazione permanente del sacerdote entra non solo come necessaria condizione, ma anche come mezzo indispensabile per rimettere costantemente a fuoco il senso della missione e per garantirne una realizzazione fedele e generosa. Con tale formazione il sacerdote è aiutato ad avvertire tutta la gravità, ma nello stesso tempo la splendida grazia, da un lato, di un'obbligazione che non lo può lasciare tranquillo — come Paolo deve poter dire: « Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo! » 452 — e, dall'altro lato, di una richiesta, esplicita o implicita, che prepotente viene dagli uomini, che Dio instancabilmente chiama alla salvezza.

Solo un'adeguata formazione permanente riesce a sostenere il sacerdote in ciò che è essenziale e decisivo per il suo ministero, ossia la fedeltà, come scrive l'apostolo Paolo: « Ora, quanto si richiede negli amministratori (dei misteri di Dio) è che ognuno risulti fedele ».453 Il sacerdote dev'essere fedele, nonostante le più diverse difficoltà incontrate, anche nelle condizioni più disagiate o di comprensibile stanchezza, con tutte le energie di cui dispone, e sino alla fine della vita. La testimonianza di Paolo dev'essere di esempio e di stimolo per ogni sacerdote: « Da parte nostra — scrive ai cristiani di Corinto — non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto ».454

76. La formazione permanente, proprio perché « permanente », deve accompagnare i sacerdoti sempre, quindi in ogni periodo e condizione della loro vita, come pure ad ogni livello di responsabilità ecclesiale: evidentemente con quelle possibilità e caratteristiche che si collegano al variare dell'età, della condizione di vita e dei compiti affidati.

La formazione permanente è dovere, anzitutto, per i giovani sacerdoti: deve avere quella frequenza e quella sistematicità di incontri che, mentre prolungano la serietà e la solidità della formazione ricevuta in seminario, introducono progressivamente i giovani a comprendere e a vivere la singolare ricchezza del « dono » di Dio — il sacerdozio — e ad esprimere le loro potenzialità e attitudini ministeriali, anche mediante un inserimento sempre più convinto e responsabile nel presbiterio, e quindi nella comunione e nella corresponsabilità con tutti i confratelli.

Se si può comprendere un certo senso di « sazietà » che può prendere il giovane prete appena uscito dal seminario di fronte a nuovi momenti di studio e di incontro, si deve respingere come assolutamente falsa e pericolosa l'idea che la formazione presbiterale si concluda con il terminare della presenza in seminario.

Partecipando agli incontri della formazione permanente i giovani sacerdoti potranno offrirsi un reciproco aiuto con lo scambio di esperienze e di riflessioni sulla traduzione concreta di quell'ideale presbiterale e ministeriale che hanno assimilato negli anni del seminario. Nello stesso tempo la loro attiva partecipazione agli incontri formativi del presbiterio potrà essere di esempio e di stimolo agli altri sacerdoti che sono più avanti negli anni, testimoniando così il proprio amore all'intero presbiterio e la propria passione per la Chiesa particolare bisognosa di sacerdoti ben formati.

Per accompagnare i sacerdoti giovani in questa prima delicata fase della loro vita e del loro ministero, è quanto mai opportuno, se non addirittura necessario oggi, creare un'apposita struttura di sostegno, con guide e maestri appropriati, nella quale essi possano trovare, in modo organico e continuativo, gli aiuti necessari ad iniziare bene il loro servizio sacerdotale. In occasione di incontri periodici, sufficientemente lunghi e frequenti, possibilmente condotti in un ambiente comunitario, in modo residenziale, saranno loro garantiti momenti preziosi di riposo, di preghiera, di riflessione e di scambio fraterno. Sarà così per loro più facile dare, fin dall'inizio, un'impostazione evangelicamente equilibrata alla loro vita presbiterale. E se le singole Chiese particolari non potessero offrire questo servizio ai propri giovani sacerdoti, sarà opportuno che si uniscano tra loro le Chiese vicine e insieme investano risorse ed elaborino programmi adatti.

77. La formazione permanente costituisce un dovere anche per i presbiteri di mezza età. In realtà, sono molteplici i rischi che possono correre, proprio in ragione dell'età, come ad esempio un attivismo esagerato e una certa routine nell'esercizio del ministero. Così il sacerdote è tentato di presumere di sé, come se la propria personale esperienza, ormai collaudata, non dovesse più confrontarsi con nulla e con nessuno. Non di rado, il sacerdote adulto soffre di una specie di stanchezza interiore pericolosa, segno di una delusione rassegnata di fronte alle difficoltà e agli insuccessi. La risposta a questa situazione è data dalla formazione permanente, da una continua ed equilibrata revisione di sé e del proprio agire, dalla ricerca costante di motivazioni e di strumenti per la propria missione: così il sacerdote manterrà lo spirito vigile e pronto alle perenni e pure sempre nuove istanze di salvezza che ciascuno pone al prete, « uomo di Dio ».

La formazione permanente deve interessare anche quei presbiteri che per l'età avanzata sono indicati come anziani e che in alcune Chiese sono la parte più numerosa del presbiterio. Questo deve riservare loro gratitudine per il fedele servizio che hanno riservato a Cristo e alla Chiesa e concreta solidarietà per la loro condizione. Per questi presbiteri la formazione permanente non comporterà tanto impegni di studio, di aggiornamento e di dibattito culturale, quanto la conferma serena e rassicurante del ruolo che ancora sono chiamati a svolgere nel presbiterio: non solo per il proseguimento, sia pure in forme diverse, del ministero pastorale, ma anche per la possibilità che essi hanno, grazie alla loro esperienza di vita e di apostolato, di diventare loro stessi validi maestri e formatori di altri sacerdoti.

Anche i sacerdoti, che per le fatiche o le malattie si trovano in una condizione di debilitazione fisica o di stanchezza morale, possono essere aiutati da una formazione permanente che li stimoli a proseguire in modo sereno e forte il loro servizio alla Chiesa, a non isolarsi né dalla comunità né dal presbiterio, a ridurre l'attività esterna per dedicarsi a quegli atti di relazione pastorale e di personale spiritualità capaci di sostenere le motivazioni e la gioia del loro sacerdozio. La formazione permanente li aiuterà, in particolare, a mantenere viva quella convinzione che essi stessi hanno inculcato nei fedeli, la convinzione cioè di continuare ad essere membri attivi nell'edificazione della Chiesa anche e specialmente in forza della loro unione a Gesù Cristo sofferente e a tanti altri fratelli e sorelle che nella Chiesa prendono parte alla Passione del Signore, rivivendo l'esperienza spirituale di Paolo che diceva: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa ».455

78. Le condizioni in cui spesso e in più parti si svolge attualmente il ministero dei presbiteri non rendono facile un impegno serio di formazione: il moltiplicarsi dei compiti e dei servizi, la complessità della vita umana in genere e di quella delle comunità cristiane in particolare, l'attivismo e l'affanno tipico di tante aree della nostra società privano spesso i sacerdoti del tempo e delle energie indispensabili a « vigilare su se stessi ».456

Questo deve far crescere in tutti la responsabilità, cosicché le difficoltà siano superate, anzi diventino una sfida per elaborare e realizzare una formazione permanente che risponda in modo adeguato alla grandezza del dono di Dio e alla gravità delle richieste ed esigenze del nostro tempo.

I responsabili della formazione permanente dei sacerdoti sono da ricercare nella Chiesa « comunione ». In tal senso, è l'intera Chiesa particolare che, sotto la guida del Vescovo, viene investita della responsabilità di stimolare e di curare in vari modi la formazione permanente dei sacerdoti. Questi non sono per se stessi, ma per il Popolo di Dio: per questo, la formazione permanente, mentre assicura la maturità umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei sacerdoti, si risolve in un bene di cui è destinatario lo stesso Popolo di Dio. Del resto, lo stesso esercizio del ministero pastorale conduce ad un continuo e fecondo scambio reciproco tra la vita di fede dei presbiteri e quella dei fedeli. Proprio la condivisione di vita tra il presbitero e la comunità, se sapientemente condotta e utilizzata, costituisce un fondamentale contributo alla formazione permanente, peraltro non riconducibile a qualche episodio o iniziativa isolata, ma estesa e attraversante tutto il ministero e la vita del presbitero.

Infatti, l'esperienza cristiana delle persone semplici e umili, gli slanci spirituali delle persone innamorate di Dio, le applicazioni coraggiose della fede alla vita da parte dei cristiani impegnati nelle varie responsabilità sociali e civili, vengono accolti dal presbitero che, mentre li illumina con il suo servizio sacerdotale, ne ricava un prezioso alimento spirituale. Anche i dubbi, le crisi e i ritardi di fronte alle più svariate condizioni personali e sociali, le tentazioni di rifiuto o di disperazione nel momento del dolore, della malattia, della morte: insomma, tutte le circostanze difficili che gli uomini incontrano sul cammino della fede, vengono fraternamente vissute e sinceramente sofferte nel cuore del presbitero che, nel cercare le risposte per gli altri, è continuamente stimolato a trovarle innanzitutto per sé.

Così l'intero Popolo di Dio, in tutti i suoi membri, può e deve offrire un prezioso aiuto alla formazione permanente dei suoi sacerdoti. In questo senso deve lasciare ai sacerdoti spazi di tempo per lo studio e per la preghiera, chiedere loro ciò per cui sono stati mandati da Cristo e non altro, offrire collaborazione nei vari ambiti della missione pastorale, specialmente in quelli attinenti la promozione umana e il servizio della carità, assicurare rapporti cordiali e fraterni con loro, agevolare nei sacerdoti la coscienza di non essere « padroni della fede » ma « collaboratori della gioia » di tutti i fedeli.457

La responsabilità formativa della Chiesa particolare nei riguardi dei sacerdoti si concretizza e si specifica in rapporto ai diversi membri che la compongono, a cominciare dal sacerdote stesso.

79. In un certo senso, è proprio lui, il singolo sacerdote, il primo responsabile nella Chiesa della formazione permanente: in realtà su ciascun sacerdote incombe il dovere, radicato nel sacramento dell'Ordine, di essere fedele al dono di Dio e al dinamismo di conversione quotidiana che viene dal dono stesso. I regolamenti o le norme dell'autorità ecclesiastica al riguardo, come pure lo stesso esempio degli altri sacerdoti, non bastano a rendere appetibile la formazione permanente, se il singolo non è personalmente convinto della sua necessità e non è determinato a valorizzarne le occasioni, i tempi, le forme. La formazione permanente mantiene la « giovinezza » dello spirito, che nessuno può imporre dall'esterno, ma che ciascuno deve ritrovare continuamente dentro se stesso. Solo chi conserva sempre vivo il desiderio di imparare e di crescere possiede questa « giovinezza ».

Fondamentale è la responsabilità del Vescovo, e con lui del presbiterio. Quella del Vescovo si fonda sul fatto che i presbiteri ricevono attraverso di lui il loro sacerdozio e condividono con lui la sollecitudine pastorale verso il Popolo di Dio. Egli è responsabile di quella formazione permanente che è destinata a far sì che tutti i suoi presbiteri siano generosamente fedeli al dono e al ministero ricevuto, così come il Popolo di Dio li vuole e ha « diritto » di averli. Questa responsabilità conduce il Vescovo, in comunione con il presbiterio, a delineare un progetto e a stabilire una programmazione capaci di configurare la formazione permanente non come qualcosa di episodico, ma come una proposta sistematica di contenuti, che si snoda per tappe e si riveste di modalità precise. Il Vescovo vivrà la sua responsabilità, non soltanto assicurando al suo presbiterio luoghi e momenti di formazione permanente, ma rendendosi presente personalmente e partecipandovi in modo convinto e cordiale. Spesso sarà opportuno, o anche necessario, che i Vescovi di più diocesi confinanti o di una regione ecclesiastica si accordino tra loro ed uniscano le loro forze per poter offrire iniziative più qualificate e veramente stimolanti per la formazione permanente, come sono i corsi di aggiornamento biblico, teologico e pastorale, le settimane residenziali, i cicli di conferenze, i momenti di riflessione e di verifica sul cammino pastorale del presbiterio e della comunità ecclesiale.

Il Vescovo assolverà la sua responsabilità sollecitando anche l'apporto che può venire dalle facoltà e dagli istituti teologici e pastorali, dai seminari, dagli organismi o federazioni che riuniscono persone — sacerdoti, religiosi e fedeli laici — impegnate nella formazione presbiterale.

Nell'ambito della Chiesa particolare un posto significativo è riservato alle famiglie: ad esse, infatti, nella loro dimensione di « chiese domestiche », fa riferimento concreto la vita delle comunità ecclesiali animate e guidate dai sacerdoti. In particolare è da rilevarsi il ruolo della famiglia d'origine. Questa, in unione e in comunione di intenti, può offrire alla missione del figlio un proprio specifico importante contributo. Portando a compimento il piano provvidenziale che l'ha voluta culla del germe vocazionale, indispensabile aiuto per la sua crescita e il suo sviluppo, la famiglia del sacerdote, nel più assoluto rispetto di questo figlio che ha scelto di donarsi a Dio e al prossimo, deve rimanere sempre come fedele, incoraggiante testimone della sua missione, affiancandola e condividendola con dedizione e rispetto.

80. Se ogni momento può essere un « tempo favorevole » 458 nel quale lo Spirito Santo conduce il sacerdote ad una diretta crescita nella preghiera, nello studio e nella coscienza delle proprie responsabilità pastorali, ci sono però momenti « privilegiati », anche se più comuni e prestabiliti.

Sono qui da ricordarsi, anzitutto, gli incontri del Vescovo con il suo presbiterio, siano essi liturgici (in particolare la concelebrazione della Messa Crismale del Giovedì Santo), siano essi pastorali e culturali, in ordine cioè al confronto sull'attività pastorale o allo studio su determinati problemi teologici.

Ci sono poi gli incontri di spiritualità sacerdotale, come gli esercizi spirituali, le giornate di ritiro e di spiritualità, ecc. Sono un'occasione per una crescita spirituale e pastorale, per una preghiera più prolungata e calma, per un ritorno alle radici dell'essere prete, per ritrovare freschezza di motivazioni per la fedeltà e lo slancio pastorale.

Importanti sono anche gli incontri di studio e di riflessione comune: impediscono l'impoverimento culturale e l'arroccamento su posizioni di comodo anche in campo pastorale, frutto di pigrizia mentale; assicurano una sintesi più matura tra i diversi elementi della vita spirituale, culturale e apostolica; aprono la mente e il cuore alle nuove sfide della storia e ai nuovi appelli che lo Spirito rivolge alla Chiesa.

81. Molteplici sono gli aiuti e i mezzi di cui ci si può servire perché la formazione permanente diventi sempre più una preziosa esperienza vitale per i sacerdoti. Tra questi ricordiamo le diverse forme di vita comune tra i sacerdoti, sempre presenti, anche se in modalità e intensità differenti, nella storia della Chiesa: « Oggi non si può non raccomandarle, soprattutto tra coloro che vivono o sono impegnati pastoralmente nello stesso luogo. Oltre che a giovare alla vita e all'azione apostolica, questa vita comune del clero offre a tutti, compresbiteri e laici, un esempio luminoso di carità e di unità ».459

Altro aiuto può essere dato dalle associazioni sacerdotali, in particolare dagli istituti secolari sacerdotali, che presentano come nota specifica la diocesanità, in forza della quale i sacerdoti si uniscono più strettamente al Vescovo e costituiscono « uno stato di consacrazione nel quale i sacerdoti mediante voti o altri legami sacri sono consacrati ad incarnare nella vita i consigli evangelici ».460 Tutte le forme di « fraternità sacerdotale » approvate dalla Chiesa sono utili non solo per la vita spirituale, ma anche per la vita apostolica e pastorale.

Anche la pratica della direzione spirituale contribuisce non poco a favorire la formazione permanente dei sacerdoti. È un mezzo classico, che nulla ha perso di preziosità non solo per assicurare la formazione spirituale, ma anche per promuovere e sostenere una continua fedeltà e generosità nell'esercizio del ministero sacerdotale. Come scriveva il futuro Paolo VI, « la direzione spirituale ha una funzione bellissima e si può dire indispensabile per l'educazione morale e spirituale della gioventù, che voglia interpretare e seguire con assoluta lealtà la vocazione, qualunque essa sia, della propria vita; e conserva sempre importanza benefica per ogni età della vita, quando al lume e alla carità d'un consiglio pio e prudente si chieda la verifica della propria rettitudine ed il conforto al compimento generoso dei propri doveri. È mezzo pedagogico molto delicato, ma di grandissimo valore; è arte pedagogica e psicologica di grave responsabilità in chi la esercita; è esercizio spirituale di umiltà e di fiducia in chi la riceve ».461

CONCLUSIONE

82. « Vi darò pastori secondo il mio cuore ».462

Ancora oggi, questa promessa di Dio è viva e operante nella Chiesa: essa si sente, in ogni tempo, fortunata destinataria di queste parole profetiche; vede il loro realizzarsi quotidiano in tante parti della terra, meglio, in tanti cuori umani, soprattutto di giovani. E desidera, di fronte alle gravi e urgenti necessità proprie e del mondo, che sulle soglie del terzo millennio questa divina promessa si compia in un modo nuovo, più ampio, intenso, efficace: quasi una straordinaria effusione dello Spirito della Pentecoste.

La promessa del Signore suscita nel cuore della Chiesa la preghiera, l'implorazione fiduciosa e ardente nell'amore del Padre che, come ha mandato Gesù il buon Pastore, gli apostoli, i loro successori, una schiera senza numero di presbiteri, così continui a manifestare agli uomini d'oggi la sua fedeltà e la sua bontà.

E la Chiesa è pronta a rispondere a questa grazia. Sente che il dono di Dio esige una risposta corale e generosa: tutto il Popolo di Dio deve instancabilmente pregare e lavorare per le vocazioni sacerdotali; i candidati al sacerdozio devono prepararsi con grande serietà ad accogliere e a vivere il dono di Dio, consapevoli che la Chiesa e il mondo hanno assoluto bisogno di loro; devono innamorarsi di Cristo buon Pastore, modellare sul suo il loro cuore, essere pronti ad uscire per le strade del mondo come sua immagine per proclamare a tutti Cristo Via, Verità e Vita.

Un appello particolare rivolgo alle famiglie: che i genitori, e specialmente le mamme, siano generosi nel donare al Signore, che li chiama al sacerdozio, i loro figli, e collaborino con gioia al loro itinerario vocazionale, consapevoli che in questo modo rendono più grande e profonda la loro fecondità cristiana ed ecclesiale e che possono sperimentare, in un certo senso, la beatitudine della Vergine Madre Maria: « Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo ».463

E ai giovani d'oggi dico: siate più docili alla voce dello Spirito, lasciate risuonare nel profondo del cuore le grandi attese della Chiesa e dell'umanità, non temete di aprire il vostro spirito alla chiamata di Cristo Signore, sentite su di voi lo sguardo d'amore di Gesù e rispondete con entusiasmo alla proposta di una sequela radicale.

La Chiesa risponde alla grazia mediante l'impegno che i sacerdoti assumono per realizzare quella formazione permanente che è richiesta dalla dignità e dalla responsabilità loro conferite dal sacramento dell'Ordine. Tutti i sacerdoti sono chiamati ad avvertire la singolare urgenza della loro formazione nell'ora presente: la nuova evangelizzazione ha bisogno di nuovi evangelizzatori, e questi sono i sacerdoti che si impegnano a vivere il loro sacerdozio come cammino specifico verso la santità.

La promessa di Dio è di assicurare alla Chiesa non pastori qualunque, ma pastori « secondo il suo cuore ». Il « cuore » di Dio si è rivelato a noi pienamente nel cuore di Cristo buon Pastore. E il cuore di Cristo continua oggi ad avere compassione delle folle e a donare loro il pane della verità e il pane dell'amore e della vita,464 e chiede di palpitare in altri cuori — quelli dei sacer- doti —: « Voi stessi date loro da mangiare ».465 La gente ha bisogno di uscire dall'anonimato e dalla paura, ha bisogno di essere conosciuta e chiamata per nome, di camminare sicura sui sentieri della vita, di essere ritrovata se perduta, di essere amata, di ricevere la salvezza come supremo dono dell'amore di Dio: proprio questo fa Gesù, il buon Pastore; Lui e i presbiteri con lui.

Ed ora, al termine di questa Esortazione, volgo lo sguardo alla moltitudine di aspiranti al sacerdozio, di seminaristi e di sacerdoti che, in tutte le parti del mondo, nelle condizioni anche più difficili e qualche volta drammatiche, e sempre nella gioiosa fatica della fedeltà al Signore e dell'instancabile servizio al suo gregge, offrono quotidianamente la propria vita per la crescita della fede, della speranza e della carità nei cuori e nella storia degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Voi, carissimi sacerdoti, lo fate perché il Signore stesso, con la forza del suo Spirito, vi ha chiamati a ripresentare nei vasi di creta della vostra semplice vita il tesoro inestimabile del suo amore di Pastore buono.

In comunione con i Padri sinodali e a nome di tutti i Vescovi del mondo e dell'intera comunità ecclesiale esprimo tutta la riconoscenza che la vostra fedeltà e il vostro servizio si meritano.466

E mentre auguro a tutti voi la grazia di rinnovare ogni giorno il dono di Dio ricevuto con l'imposizione delle mani,467 di sentire il conforto della profonda amicizia che vi lega a Gesù e vi unisce tra voi, di sperimentare la gioia della crescita del gregge di Dio verso un amore sempre più grande a Lui e a ogni uomo, di coltivare la rasserenante persuasione che colui che ha iniziato in voi questa opera buona la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù,468 con tutti e con ciascuno di voi mi rivolgo in preghiera a Maria, madre ed educatrice del nostro sacerdozio.

Ogni aspetto della formazione sacerdotale può essere riferito a Maria come alla persona umana che più di ogni altra ha corrisposto alla vocazione di Dio, che si è fatta serva e discepola della Parola sino a concepire nel suo cuore e nella sua carne il Verbo fatto uomo per donarlo all'umanità, che è stata chiamata all'educazione dell'unico ed eterno sacerdote fattosi docile e sottomesso alla sua autorità materna. Con il suo esempio e la sua intercessione, la Vergine Santissima continua a vigilare sullo sviluppo delle vocazioni e della vita sacerdotale nella Chiesa.

Per questo noi sacerdoti siamo chiamati a crescere in una solida e tenera devozione alla Vergine Maria, testimoniandola con l'imitazione delle sue virtù e con la preghiera frequente.

Madre di Gesù Cristo e Madre dei sacerdoti,
ricevi questo titolo che noi tributiamo a te
per celebrare la tua maternità
e contemplare presso di te il Sacerdozio
del tuo Figlio e dei tuoi figli,
Santa Genitrice di Dio.

Madre di Cristo,
al Messia Sacerdote hai dato il corpo di carne
per l'unzione del Santo Spirito
a salvezza dei poveri e contriti di cuore,
custodisci nel tuo cuore e nella Chiesa i sacerdoti,
Madre del Salvatore.

Madre della fede,
hai accompagnato al tempio il Figlio dell'uomo,
compimento delle promesse date ai Padri,
consegna al Padre per la sua gloria
i sacerdoti del Figlio tuo,
Arca dell'Alleanza.

Madre della Chiesa,
tra i discepoli nel Cenacolo pregavi lo Spirito
per il Popolo nuovo ed i suoi Pastori,
ottieni all'ordine dei presbiteri
la pienezza dei doni,
Regina degli Apostoli.

Madre di Gesù Cristo,
eri con Lui agli inizi della sua vita
e della sua missione,
lo hai cercato Maestro tra la folla,
lo hai assistito innalzato da terra,
consumato per il sacrificio unico eterno,
e avevi Giovanni vicino, tuo figlio,
accogli fin dall'inizio i chiamati,
proteggi la loro crescita,
accompagna nella vita e nel ministero
i tuoi figli,
Madre dei sacerdoti.

Amen!

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1992, decimoquarto del mio Pontificato.

 

 

Familiaris consortio

ESORTAZIONE APOSTOLICA
FAMILIARIS CONSORTIO
DI SUA SANTITA'
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO ED AI FEDELI
DI TUTTA LA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I COMPITI
DELLA FAMIGLIA CRISTIANA
NEL MONDO DI OGGI

INTRODUZIONE

La Chiesa al servizio della famiglia

1. La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti.

Consapevole che il matrimonio e la famiglia costituiscono uno dei beni più preziosi dell'umanità, la Chiesa vuole far giungere la sua voce ed offrire il suo aiuto a chi, già conoscendo il valore del matrimonio e della famiglia, cerca di viverlo fedelmente a chi, incerto ed ansioso, è alla ricerca della verità ed a chi è ingiustamente impedito di vivere liberamente il proprio progetto familiare. Sostenendo i primi, illuminando i secondi ed aiutando gli altri, la Chiesa offre il suo servizio ad ogni uomo pensoso dei destini del matrimonio e della famiglia («Gaudium et Spes», 52).

In modo particolare essa si rivolge ai giovani, che stanno per iniziare il loro cammino verso il matrimonio e la famiglia, al fine di aprire loro nuovi orizzonti, aiutandoli a scoprire la bellezza e la grandezza della vocazione all'amore e al servizio della vita.

Il Sinodo del 1980 in continuità con i Sinodi precedenti

2. Un segno di questo profondo interessamento della Chiesa per la famiglia è stato l'ultimo Sinodo dei Vescovi, celebratosi a Roma dal 26 settembre al 25 ottobre 1980. Esso è stato la naturale continuazione dei due precedenti (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Omelia per l'apertura del VI Sinodo dei Vescovi, 2 (26 Settembre 1980): la famiglia cristiana, infatti, è la prima comunità chiamata ad annunciare il Vangelo alla persona umana in crescita e a portarla, attraverso una progressiva educazione e catechesi, alla piena maturità umana e cristiana.

Non solo, ma il precedente Sinodo si collega idealmente in qualche modo anche a quello sul sacerdozio ministeriale e sulla giustizia nel mondo contemporaneo. Infatti, in quanto comunità educativa, la famiglia deve aiutare l'uomo a discernere la propria vocazione e ad assumersi il necessario impegno per una più grande giustizia, formandolo fin dall'inizio a relazioni interpersonali, ricche di giustizia e di amore.

I Padri Sinodali, concludendo la loro assemblea, mi hanno presentato un ampio elenco di proposte, in cui avevano raccolto i frutti delle riflessioni sviluppate nel corso delle loro intense giornate di lavoro, e mi hanno chiesto con voto unanime di farmi interprete davanti all'umanità della viva sollecitudine della Chiesa per la famiglia, e di dare le indicazioni opportune per un rinnovato impegno pastorale in questo fondamentale settore della vita umana ed ecclesiale.

Nell'adempiere tale compito con la presente esortazione, come una peculiare attuazione del ministero apostolico affidatomi, desidero esprimere la mia gratitudine a tutti i componenti del Sinodo per il prezioso contributo di dottrina e di esperienza, che hanno offerto soprattutto mediante le «Propositiones», il cui testo affido al Pontificio Consiglio per la Famiglia, disponendo che ne approfondisca lo studio al fine di valorizzare ogni aspetto delle ricchezze in esso contenute.

Il prezioso bene del matrimonio e della famiglia

3. La Chiesa, illuminata dalla fede, che le fa conoscere tutta la verità sul prezioso bene del matrimonio e della famiglia e sui loro significati più profondi, ancora una volta sente l'urgenza di annunciare il Vangelo, cioè la «buona novella» a tutti indistintamente, in particolare a tutti coloro che sono chiamati al matrimonio e vi si preparano, a tutti gli sposi e genitori del mondo.

Essa è profondamente convinta che solo con l'accoglienza del Vangelo trova piena realizzazione ogni speranza, che l'uomo legittimamente pone nel matrimonio e nella famiglia.

Voluti da Dio con la stessa creazione (cfr. Gen 1-2), il matrimonio e la famiglia sono interiormente ordinati a compiersi in Cristo (cfr. Ef 5) ed hanno bisogno della sua grazia per essere guariti dalle ferite del peccato (cfr. «Gaudium et Spes», 47; «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 2 [1980] 388s) e riportati al loro «principio» (cfr. Mt 19,4), cioè alla conoscenza piena e alla realizzazione integrale del disegno di Dio.

In un momento storico nel quale la famiglia è oggetto di numerose forze che cercano di distruggerla o comunque di deformarla, la Chiesa, consapevole che il bene della società e di se stessa è profondamente legato al bene della famiglia (cfr. «Gaudium et Spes», 47), sente in modo più vivo e stringente la sua missione di proclamare a tutti il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, assicurandone la piena vitalità e promozione umana e cristiana, e contribuendo così al rinnovamento della società e dello stesso Popolo di Dio.

PARTE PRIMA

LUCI E OMBRE DELLA FAMIGLIA, OGGI

Necessità di conoscere la situazione

4. Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l'uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa, per compiere il suo servizio, deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 472-476).

Questa conoscenza è, dunque, una imprescindibile esigenza dell'opera evangelizzatrice. E', infatti, alle famiglie del nostro tempo che la Chiesa deve portare l'immutabile e sempre nuovo Vangelo di Gesù Cristo, così come sono le famiglie implicate nelle presenti condizioni del mondo che sono chiamate ad accogliere e a vivere il progetto di Dio che le riguarda. Non solo, ma le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia, e pertanto la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell'inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia anche dalle situazioni, domande, ansie e speranze dei giovani, degli sposi e dei genitori di oggi (cfr. «Gaudium et Spes», 4).

A ciò si deve aggiungere poi una ulteriore riflessione di particolare importanza nel tempo presente. Non raramente all'uomo e alla donna di oggi, in sincera e profonda ricerca di una risposta ai quotidiani e gravi problemi della loro vita matrimoniale e familiare, vengono offerte visioni e proposte anche seducenti, ma che compromettono in diversa misura la verità e la dignità della persona umana. E' un'offerta sostenuta spesso dalla potente e capillare organizzazione dei mezzi di comunicazione sociale, che mettono sottilmente in pericolo la libertà e la capacità di giudicare con obiettività.

Molti sono già consapevoli di questo pericolo in cui versa la persona umana ed operano per la verità. La Chiesa, col suo discernimento evangelico, si unisce ad essi, offrendo il proprio servizio alla verità, alla libertà e alla dignità di ogni uomo e di ogni donna.

Il discernimento evangelico

5. Il discernimento operato dalla Chiesa diventa l'offerta di un orientamento perché sia salvata e realizzata l'intera verità e la piena dignità del matrimonio e della famiglia.

Esso è compiuto dal senso della fede (cfr. «Lumen Gentium», 12), che è un dono che lo Spirito partecipa a tutti i fedeli (cfr. Gv 2,20), ed è, pertanto, opera di tutta la Chiesa, secondo le diversità dei vari doni e carismi che, insieme e secondo la responsabilità propria di ciascuno, cooperano per una più profonda intelligenza ed attuazione della Parola di Dio. La Chiesa, dunque, non compie il proprio discernimento evangelico solo per mezzo dei Pastori, i quali insegnano in nome e col potere di Cristo, ma anche per mezzo dei laici: Cristo «li costituisce suoi testimoni e li provvede del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10) perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale» («Lumen Gentium», 35). I laici, anzi, in ragione della loro particolare vocazione, hanno il compito specifico di interpretare alla luce di Cristo la storia di questo mondo, in quanto sono chiamati ad illuminare ed ordinare le realtà temporali secondo il disegno di Dio Creatore e Redentore.

Il «soprannaturale senso della fede» (cfr. «Lumen Gentium», 12; Sacra Congregazione della Fede, «Mysterium Ecclesiae», 2: AAS 65 [1973] 398-400) non consiste però solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l'opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere ed in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico nel quale l'azione pastorale deve svolgersi e per conoscere meglio la verità; tale ricerca sola, però, non è da ritenersi senz'altro espressione del senso della fede.

Perché è compito del ministero apostolico di assicurare la permanenza della Chiesa nella verità di Cristo e di introdurvela più profondamente, i Pastori devono promuovere il senso della fede in tutti i fedeli, vagliare e giudicare autorevolmente la genuinità delle sue espressioni, educare i credenti a un discernimento evangelico sempre più maturo (cfr. «Lumen Gentium», 12 «Dei Verbum», 10).

Per l'elaborazione di un autentico discernimento evangelico nelle varie situazioni e culture in cui l'uomo e la donna vivono il loro matrimonio e la loro vita familiare, gli sposi e i genitori cristiani possono e devono offrire un loro proprio e insostituibile contributo. A questo li abilita il loro carisma o dono proprio, il dono del sacramento del matrimonio (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 2 [1980] 735s).

La situazione della famiglia nel mondo di oggi

6. La situazione, in cui versa la famiglia, presenta aspetti positivi ed aspetti negativi: segno, gli uni, della salvezza di Cristo operante nel mondo; segno, gli altri, del rifiuto che l'uomo oppone all'amore di Dio.

Da una parte, infatti, vi è una coscienza più viva della libertà personale, e una maggiore attenzione alla qualità delle relazioni interpersonali nel matrimonio, alla promozione della dignità della donna, alla procreazione responsabile, alla educazione dei figli; vi è inoltre la coscienza della necessità che si sviluppino relazioni tra le famiglie per un reciproco aiuto spirituale e materiale, la riscoperta della missione ecclesiale propria della famiglia e della sua responsabilità per la costruzione di una società più giusta. Dall'altra parte, tuttavia non mancano segni di preoccupante degradazione di alcuni valori fondamentali: una errata concezione teorica e pratica dell'indipendenza dei coniugi fra di loro; le gravi ambiguità circa il rapporto di autorità fra genitori e figli; le difficoltà concrete, che la famiglia spesso sperimenta nella trasmissione dei valori; il numero crescente dei divorzi; la piaga dell'aborto; il ricorso sempre più frequente alla sterilizzazione; l'instaurarsi di una vera e propria mentalità contraccettiva.

Alla radice di questi fenomeni negativi sta spesso una corruzione dell'idea e dell'esperienza della libertà, concepita non come la capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico benessere.

Merita la nostra attenzione anche il fatto che, nei Paesi del così detto Terzo Mondo, vengono spesso a mancare alle famiglie sia i fondamentali mezzi per la sopravvivenza, quali sono il cibo, il lavoro, l'abitazione, le medicine, sia le più elementari libertà. Nei Paesi più ricchi, invece, l'eccessivo benessere e la mentalità consumistica, paradossalmente unita ad una certa angoscia e incertezza per il futuro, tolgono agli sposi la generosità e il coraggio di suscitare nuove vite umane: così la vita è spesso percepita non come una benedizione, ma come un pericolo da cui difendersi.

La situazione storica in cui vive la famiglia si presenta, dunque, come un insieme di luci e di ombre.

Questo rivela che la storia non è semplicemente un progresso necessario verso il meglio, bensì un evento di libertà, ed anzi un combattimento fra libertà che si oppongono fra loro, cioè, secondo la nota espressione di san Agostino, un conflitto, fra due amori: l'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé, e l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio (cfr. S. Agostino «De civitate Dei», XIV, 28: CSEL 40, II, 25s).

Ne consegue che solo l'educazione all'amore radicato nella fede può portare ad acquistare la capacità di interpretare «i segni dei tempi», che sono l'espressione storica di questo duplice amore.

L'influsso della situazione sulla coscienza dei fedeli

7. Vivendo in un mondo siffatto, sotto le pressioni derivanti soprattutto dai mass-media, non sempre i fedeli hanno saputo e sanno mantenersi immuni dall'oscurarsi dei valori fondamentali e porsi come coscienza critica di questa cultura familiare e come soggetti attivi della costruzione di un autentico umanesimo familiare.

Fra i segni più preoccupanti di questo fenomeno, i Padri Sinodali hanno sottolineato, in particolare, il diffondersi del divorzio e del ricorso ad una nuova unione da parte degli stessi fedeli, l'accettazione del matrimonio puramente civile, in contraddizione con la vocazione dei battezzati a «sposarsi nel Signore»; la celebrazione del matrimonio sacramento senza una fede viva, ma per altri motivi; il rifiuto delle norme morali che guidano e promuovono l'esercizio umano e cristiano della sessualità nel matrimonio.

La nostra epoca ha bisogno di sapienza

8. Si pone così a tutta la Chiesa il compito di una riflessione e di un impegno assai profondi, perché la nuova cultura emergente sia intimamente evangelizzata, siano riconosciuti i veri valori, siano difesi i diritti dell'uomo e della donna e sia promossa la giustizia nelle strutture stesse della società. In tal modo il «nuovo umanesimo» non distoglierà gli uomini dal loro rapporto con Dio, ma ve li condurrà più pienamente.

Nella costruzione di tale umanesimo, la scienza e le sue applicazioni tecniche offrono nuove ed immense possibilità. Tuttavia, la scienza, in conseguenza di scelte politiche che ne decidono la direzione di ricerca e le applicazioni, viene spesso usata contro il suo significato originario, la promozione della persona umana.

Si rende, pertanto, necessario ricuperare da parte di tutti la coscienza del primato dei valori morali, che sono i valori della persona umana come tale. La ricomprensione del senso ultimo della vita e dei suoi valori fondamentali è il grande compito che si impone oggi per il rinnovamento della società. Solo la consapevolezza del primato di questi valori consente un uso delle immense possibilità, messe nelle mani dell'uomo dalla scienza, che sia veramente finalizzato alla promozione della persona umana nella sua intera verità, nella sua libertà e dignità. La scienza è chiamata ad allearsi con la sapienza.

Si possono pertanto applicare anche ai problemi della famiglia le parole del Concilio Vaticano II: «L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte. E' in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi» («Gaudium et Spes», 15).

L'educazione della coscienza morale, che rende ogni uomo capace di giudicare e di discernere i modi adeguati per realizzarsi secondo la sua verità originaria, diviene così una esigenza prioritaria ed irrinunciabile.

E' l'alleanza con la Sapienza divina che deve essere più profondamente ricostituita nella cultura odierna. Di tale Sapienza ogni uomo è reso partecipe dallo stesso gesto creatore di Dio. Ed è solo nella fedeltà a questa alleanza che le famiglie di oggi saranno in grado di influire positivamente nella costruzione di un mondo più giusto e fraterno.

Gradualità e conversione

9. Alla ingiustizia originata dal peccato - profondamente penetrato anche nelle strutture del mondo di oggi - e che spesso ostacola la famiglia nella piena realizzazione di se stessa e dei suoi diritti fondamentali, dobbiamo tutti opporci con una conversione della mente e del cuore, seguendo Cristo Crocifisso nel rinnegamento del proprio egoismo: una simile conversione non potrà non avere influenza benefica e rinnovatrice anche sulle strutture della società.

E' richiesta una conversione continua, permanente, che, pur esigendo l'interiore distacco da ogni male e l'adesione al bene nella sua pienezza, si attua però concretamente in passi che conducono sempre oltre. Si sviluppa così un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto nell'intera vita personale e sociale dell'uomo. E' perciò necessario un cammino pedagogico di crescita affinché i singoli fedeli, le famiglie ed i popoli, anzi la stessa civiltà, da ciò che hanno già accolto del Mistero di Cristo siano pazientemente condotti oltre, giungendo ad una conoscenza più ricca e ad una integrazione più piena di questo Mistero nella loro vita.

Inculturazione

10. E' conforme alla costante tradizione della Chiesa accogliere dalle culture dei popoli tutto ciò che è in grado di meglio esprimere le inesauribili ricchezze di Cristo (cfr. Ef 3,8; «Gaudium et Spes», 15 e 22). Solo col concorso di tutte le culture, tali ricchezze potranno manifestarsi sempre più chiaramente e la Chiesa potrà camminare verso una conoscenza ogni giorno più completa e profonda della verità, che già le è stata donata interamente dal suo Signore.

Tenendo fisso il duplice principio della compatibilità col Vangelo delle varie culture da assumere e della comunione con la Chiesa universale, si dovrà proseguire nello studio, particolarmente da parte delle Conferenze Episcopali e dei Dicasteri competenti della Curia Romana, e nell'impegno pastorale perché questa «inculturazione» della fede cristiana avvenga sempre più ampiamente, anche nell'ambito del matrimonio e della famiglia.

E' mediante l'«inculturazione» che si cammina verso la ricostituzione piena dell'alleanza con la Sapienza di Dio, che è Cristo stesso. La Chiesa intera sarà arricchita anche da quelle culture che, pur essendo prive di tecnologia, sono cariche di saggezza umana e vivificate da profondi valori morali.

Perché sia chiara la meta di questo cammino, e di conseguenza, sicuramente indicata la strada, il Sinodo ha, in primo luogo, giustamente considerato a fondo il progetto originario di Dio circa il matrimonio e la famiglia: ha voluto «ritornare al principio», in ossequio all'insegnamento di Cristo (cfr. Mt 19,4ss).

PARTE SECONDA

IL DISEGNO DI DIO SUL MATRIMONIO E SULLA FAMIGLIA

L'uomo immagine di Dio Amore

11. Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1,26s): chiamandolo all'esistenza per amore, l'ha chiamato nello stesso tempo all'amore.

Dio è amore (1Gv 4,8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale d'amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell'essere, Dio iscrive nell'umanità dell'uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell'amore e della comunione (cfr. «Gaudium et Spes», 12). L'amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano.

In quanto spirito incarnato, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale, l'uomo è chiamato all'amore in questa sua totalità unificata. L'amore abbraccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell'amore spirituale.

La Rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all'amore: il Matrimonio e la Verginità. Sia l'uno che l'altra nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell'uomo, del suo «essere ad immagine di Dio».

Di conseguenza la sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente: se la persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente.

Questa totalità, richiesta dall'amore coniugale, corrisponde anche alle esigenze di una fecondità responsabile, la quale, volta come è a generare un essere umano, supera per sua natura l'ordine puramente biologico, ed investe un insieme di valori personali, per la cui armoniosa crescita è necessario il perdurante e concorde contributo di entrambi i genitori.

Il «luogo» unico, che rende possibile questa donazione secondo l'intera sua verità, è il matrimonio, ossia il patto di amore coniugale o scelta cosciente e libera, con la quale l'uomo e la donna accolgono l'intima comunità di vita e d'amore, voluta da Dio stesso (cfr. «Gaudium et Spes», 48), che solo in questa luce manifesta il suo vero significato. L'istituzione matrimoniale non è una indebita ingerenza della società o dell'autorità, ne l'imposizione estrinseca di una forma, ma esigenza interiore del patto d'amore coniugale che pubblicamente si afferma come unico ed esclusivo perché sia vissuta così la piena fedeltà al disegno di Dio Creatore. Questa fedeltà, lungi dal mortificare la libertà della persona, la pone al sicuro da ogni soggettivismo e relativismo, la fa partecipe della Sapienza creatrice.

Il matrimonio e la comunione tra Dio e gli uomini

12. La comunione d'amore tra Dio e gli uomini, contenuto fondamentale della Rivelazione e dell'esperienza di fede di Israele, trova una significativa espressione nell'alleanza sponsale, che si instaura tra l'uomo e la donna.

E' per questo che la parola centrale della Rivelazione, «(Dio ama il suo popolo», viene pronunciata anche attraverso le parole vive e concrete con cui l'uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale. Il loro vincolo di amore diventa l'immagine e il simbolo dell'Alleanza che unisce Dio e il suo popolo (cfr. ad es. Os 2,21; Ger 3,6-13; Is 54). E lo stesso peccato, che può ferire il patto coniugale diventa immagine dell'infedeltà del popolo al suo Dio: l'idolatria e prostituzione (cfr. Ez 16,25), l'infedeltà è adulterio, la disobbedienza alla legge e abbandono dell'amore sponsale del Signore. Ma l'infedeltà di Israele non distrugge la fedeltà eterna del Signore e, pertanto, l'amore sempre fedele di Dio si pone come esemplare delle relazioni di amore fedele che devono esistere tra gli sposi (cfr. Os 3).

Gesù Cristo, sposo della Chiesa, e il Sacramento del matrimonio

13. La comunione tra Dio e gli uomini trova il suo compimento definitivo in Gesù Cristo, lo Sposo che ama e si dona come Salvatore dell'umanità, unendola a Sé come suo corpo.

Egli rivela la verità originaria del matrimonio, la verità del «principio» (cfr. Gen 2,24; Mt 19,5) e, liberando l'uomo dalla durezza del cuore, lo rende capace di realizzarla interamente.

Questa rivelazione raggiunge la sua pienezza definitiva nel dono d'amore che il Verbo di Dio fa all'umanità assumendo la natura umana, e nel sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa, la Chiesa. In questo sacrificio si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell'umanità dell'uomo e della donna, fin dalla loro creazione (cfr. Ef 5,32s); il matrimonio dei battezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna Alleanza, sancita nel sangue di Cristo. Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l'uomo e la donna capaci di amarsi, come Cristo ci ha amati. L'amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce.

In una pagina meritatamente famosa, Tertulliano ha ben espresso la grandezza di questa vita coniugale in Cristo e la sua bellezza: «Come sarò capace di esporre la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce, l'offerta eucaristica conferma, la benedizione suggella, gli angeli annunciano e il Padre ratifica?... Quale giogo quello di due fedeli uniti in un'unica speranza, in un'unica osservanza, in un'unica servitù! Sono tutt'e due fratelli e tutt'e due servono insieme; non vi è nessuna divisione quanto allo spirito e quanto alla carne. Anzi sono veramente due in una sola carne e dove la carne è unica, unico è lo spirito» (Tertulliano «Ad uxorem», II; VIII, 6-8: CCL I, 393).

Accogliendo e meditando fedelmente la Parola di Dio, la Chiesa ha solennemente insegnato ed insegna che il matrimonio dei battezzati è uno dei sette sacramenti della Nuova Alleanza (cfr. Conc. Ecum. Trident., Sessio XXIV, can. 1: I. D. Mansi, «Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio», 33, 149s).

Infatti, mediante il battesimo, l'uomo e la donna sono definitivamente inseriti nella Nuova ed Eterna Alleanza, nell'Alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa. Ed è in ragione di questo indistruttibile inserimento che l'intima comunità di vita e di amore coniugale fondata dal Creatore (cfr. «Gaudium et Spes», 48), viene elevata ed assunta nella carità sponsale del Cristo, sostenuta ed arricchita dalla sua forza redentrice.

In virtù della sacramentalità del loro matrimonio, gli sposi sono vincolati l'uno all'altra nella maniera più profondamente indissolubile. La loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa.

Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l'uno per l'altra e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi. Di questo evento di salvezza il matrimonio, come ogni sacramento è memoriale, attualizzazione e profezia: «in quanto memoriale, il sacramento dà loro la grazia e il dovere di fare memoria delle grandi opere di Dio e di darne testimonianza presso i loro figli; in quanto attualizzazione, dà loro la grazia e il dovere di mettere in opera nel presente, l'uno verso l'altra e verso i figli, le esigenze di un amore che perdona e che redime; in quanto profezia, dà loro la grazia e il dovere di vivere e di testimoniare la speranza del futuro incontro con Cristo» (Giovanni Paolo PP. II, Discorso ai Delegati del «Centre de Liaison des Equipes de Recherche», 3 [3 Novembre 1979]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», II, 2 [1979] 1032).

Come ciascuno dei sette sacramenti, anche il matrimonio è un simbolo reale dell'evento della salvezza, ma a modo proprio. «Gli sposi vi partecipano in quanto sposi, in due, come coppia, a tal punto che l'effetto primo ed immediato del matrimonio (res et sacramentum) non è la grazia soprannaturale stessa, ma il legame coniugale cristiano, una comunione a due tipicamente cristiana perché rappresenta il mistero dell'Incarnazione del Cristo e il suo mistero di Alleanza. E il contenuto della partecipazione alla vita del Cristo è anch'esso specifico: l'amore coniugale comporta una totalità in cui entrano tutte le componenti della persona - richiamo del corpo e dell'istinto, forza del sentimento e dell'affettività, aspirazione dello spirito e della volontà -; esso mira ad una unità profondamente personale, quella che, al di là dell'unione in una sola carne, conduce a non fare che un cuor solo e un'anima sola: esso esige l'indissolubilità e la fedeltà della donazione reciproca definitiva e si apre sulla fecondità (cfr. Paolo PP. VI «Humanae Vitae», 9). In una parola, si tratta di caratteristiche normali di ogni amore coniugale naturale, ma con un significato nuovo che non solo le purifica e le consolida, ma le eleva al punto di farne l'espressione di valori propriamente cristiani» (Giovanni Paolo PP. II, Discorso ai Delegati del «Centre de Liaison des Equipes de Recherche», 4 [3 Novembre 1979]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», II, 2 [1979] 1032).

I figli, preziosissimo dono del matrimonio

14. Secondo il disegno di Dio, il matrimonio è il fondamento della più ampia comunità della famiglia, poiché l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione ed educazione della prole, in cui trovano il loro coronamento (cfr. «Gaudium et Spes», 50).

Nella sua realtà più profonda, l'amore è essenzialmente dono e l'amore coniugale, mentre conduce gli sposi alla reciproca «conoscenza» che li fa «una carne sola» (cfr. Gen 2,24), non si esaurisce all'interno della coppia, poiché li rende capaci della massima donazione possibile, per la quale diventano cooperatori con Dio per il dono della vita ad una nuova persona umana. Così i coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre.

Divenendo genitori, gli sposi ricevono da Dio il dono di una nuova responsabilità. Il loro amore parentale è chiamato a divenire per i figli il segno visibile dello stesso amore di Dio, «dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3,15).

Non si deve, tuttavia, dimenticare che anche quando la procreazione non è possibile, non per questo la vita coniugale perde il suo valore. La sterilità fisica infatti può essere occasione per gli sposi di altri servizi importanti alla vita della persona umana, quali ad esempio l'adozione, le varie forme di opere educative, l'aiuto ad altre famiglie, ai bambini poveri o handicappati.

La famiglia, comunione di persone

15. Nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali - nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità -, mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella «famiglia umana» e nella «famiglia di Dio», che è la Chiesa.

Il matrimonio e la famiglia cristiani edificano la Chiesa: nella famiglia, infatti, la persona umana non solo viene generata e progressivamente introdotta, mediante l'educazione, nella comunità umana, ma mediante la rigenerazione del battesimo e l'educazione alla fede, essa viene introdotta anche nella famiglia di Dio, che è la Chiesa.

La famiglia umana, disgregata dal peccato, è ricostituita nella sua unità dalla forza redentrice della morte e risurrezione di Cristo (cfr. «Gaudium et Spes», 78). Il matrimonio cristiano, partecipe dell'efficacia salvifica di questo avvenimento, costituisce il luogo naturale nel quale si compie l'inserimento della persona umana nella grande famiglia della Chiesa.

Il mandato di crescere e moltiplicarsi, rivolto in principio all'uomo e alla donna, raggiunge in questo modo la sua intera verità e la sua piena realizzazione.

La Chiesa trova così nella famiglia, nata dal sacramento, la sua culla e il luogo nel quale essa può attuare il proprio inserimento nelle generazioni umane, e queste, reciprocamente, nella Chiesa.

Matrimonio e verginità

16. La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l'unico Mistero dell'Alleanza di Dio con il suo popolo. Quando non si ha stima del matrimonio, non può esistere neppure la verginità consacrata; quando la sessualità umana non è ritenuta un grande valore donato dal Creatore, perde significato il rinunciarvi per il Regno dei Cieli.

Dice infatti assai giustamente san Giovanni Crisostomo: «Chi condanna il matrimonio priva anche la verginità della gloria: chi invece lo loda, rende la verginità più ammirabile, e splendente. Ciò che appare un bene soltanto a paragone di un male, non è poi un grande bene; ma ciò che è ancora migliore di beni universalmente riconosciuti tali, è certamente un bene al massimo grado» (San Giovanni Crisostomo, «La Verginità», X: PG 48,540).

Nella verginità l'uomo è in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi integralmente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni a questa nella piena verità della vita eterna. La persona vergine anticipa così nella sua carne il mondo nuovo della risurrezione futura (cfr. Mt 22,30).

In forza di questa testimonianza, la verginità tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento.

Rendendo libero in modo speciale il cuore dell'uomo (cfr. 1Cor 7,32-35), «così da accenderlo maggiormente di carità verso Dio e verso tutti gli uomini» («Perfectae Caritatis», 12), la verginità testimonia che il Regno di Dio e la sua giustizia sono quella perla preziosa che va preferita ad ogni altro valore sia pure grande, e va anzi cercato come l'unico valore definitivo. E' per questo che la Chiesa, durante tutta la sua storia, ha sempre difeso la superiorità di questo carisma nei confronti di quello del matrimonio, in ragione del legame del tutto singolare che esso ha con il Regno di Dio (cfr. Pio XII, «Sacra Virginitas», II: AAS 46 [1954] 174ss).

Pur avendo rinunciato alla fecondità fisica, la persona vergine diviene spiritualmente feconda, padre e madre di molti, cooperando alla realizzazione della famiglia secondo il disegno di Dio.

Gli sposi cristiani hanno perciò il diritto di aspettarsi dalle persone vergini il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla loro vocazione fino alla morte. Come per gli sposi la fedeltà diventa talvolta difficile ed esige sacrificio, mortificazione e rinnegamento di sé, così può avvenire anche per le persone vergini. La fedeltà di queste, anche nella prova eventuale, deve edificare la fedeltà di quelli (cfr. Giovanni Paolo PP. II, «Novo Incipiente», 9 [8 Aprile 1979]: AAS 71 [1979], 410s).

Queste riflessioni sulla verginità possono illuminare ed aiutare coloro che, per motivi indipendenti dalla loro volontà, non hanno potuto sposarsi ed hanno poi accettato la loro situazione in spirito di servizio.

PARTE TERZA

I COMPITI DELLA FAMIGLIA CRISTIANA

Famiglia diventa ciò che sei!

17. Nel disegno di Dio Creatore e Redentore la famiglia scopre non solo la sua «identità», ciò che essa «è», ma anche la sua «missione)», ciò che essa può e deve «fare». I compiti, che la famiglia è chiamata da Dio a svolgere nella storia, scaturiscono dal suo stesso essere e ne rappresentano lo sviluppo dinamico ed esistenziale. Ogni famiglia scopre e trova in se stessa l'appello insopprimibile, che definisce ad un tempo la sua dignità e la sua responsabilità: famiglia, «diventa» ciò che «sei»!

Risalire al «principio» del gesto creativo di Dio è allora una necessità per la famiglia, se vuole conoscersi e realizzarsi secondo l'interiore verità non solo del suo essere ma anche del suo agire storico. E poiché, secondo il disegno divino, è costituita quale «intima comunità di vita e di amore («Gaudium et Spes», 48), la famiglia ha la missione di diventare sempre più quello che è, ossia comunità di vita e di amore, in una tensione che, come per ogni realtà creata e redenta troverà il suo componimento nel Regno di Dio. In una prospettiva poi che giunge alle radici stesse della realtà, si deve dire che l'essenza e i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall'amore. Per questo la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l'amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell'amore di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa.

Ogni compito particolare della famiglia è l'espressione e l'attuazione concreta di tale missione fondamentale. E' necessario pertanto penetrare più a fondo nella singolare ricchezza della missione della famiglia e scandagliarne i molteplici ed unitari contenuti.

In tal senso, partendo dall'amore e in costante riferimento ad esso, il recente Sinodo ha messo in luce quattro compiti generali della famiglia:

1) la formazione di una comunità di persone;

2) il servizio alla vita;

3) la partecipazione allo sviluppo della società;

4) la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

I. La formazione di una comunità di persone

L'amore, principio e forza della comunione

18. La famiglia fondata e vivificata dall'amore, è una comunità di persone: dell'uomo e della donna sposi, dei genitori e dei figli, dei parenti. Suo primo compito è di vivere fedelmente la realtà della comunione nell'impegno costante di sviluppare un'autentica comunità di persone.

Il principio interiore, la forza permanente e la meta ultima di tale compito è l'amore: come, senza l'amore, la famiglia non è una comunità di persone, così senza l'amore, la famiglia non può vivere, crescere e perfezionarsi come comunità di persone. Quanto ho scritto nell'enciclica «Redemptor Hominis» trova la sua originaria e privilegiata applicazione proprio nella famiglia come tale: «L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non si incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (num. 10).

L'amore tra l'uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata ed allargata, l'amore tra i membri della stessa famiglia - tra genitori e figli tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari - è animato e sospinto da un interiore e incessante dinamismo, che conduce la famiglia ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima della comunità coniugale e familiare.

L'indivisibile unità della comunione coniugale

19. La prima comunione è quella che si instaura e si sviluppa tra i coniugi: in forza del patto d'amore coniugale, l'uomo e la donna «non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6; cfr. Gen 2,24) e sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale.

Questa comunione coniugale affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l'uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l'intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana. Ma in Cristo Signore, Dio assume questa esigenza umana, la conferma, la purifica e la eleva, conducendola a perfezione col sacramento del matrimonio: lo Spirito Santo effuso nella celebrazione sacramentale offre agli sposi cristiani il dono di una comunione nuova d'amore che è immagine viva e reale di quella singolarissima unità, che fa della Chiesa l'indivisibile Corpo mistico del Signore Gesù.

Il dono dello Spirito è comandamento di vita per gli sposi cristiani, ed insieme stimolante impulso affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra loro a tutti i livelli - dei corpi dei caratteri, dei cuori, delle intelligenze, e delle volontà, delle anime (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso agli Sposi, 4 [Kinshasa, 3 maggio 1980]: AAS 72 [1980], 426s), - rivelando così alla Chiesa e al mondo la nuova comunione d'amore, donata dalla grazia di Cristo.

Una simile comunione viene radicalmente contraddetta dalla poligamia: questa, infatti, nega in modo diretto il disegno di Dio quale ci viene rivelato alle origini, perché è contraria alla pari dignità personale dell'uomo e della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e perciò stesso unico ed esclusivo. Come scrive il Concilio Vaticano II: «L'unità del matrimonio confermata dal Signore appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale sia dell'uomo che della donna, che deve essere riconosciuta nel mutuo e pieno amore» («Gaudium et Spes», 49; cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso agli Sposi, 4 [Kinshasa, 3 maggio 1980]; l. c.).

Una comunione indissolubile

20. La comunione coniugale si caratterizza non solo per la sua unità, ma anche per la sua indissolubilità: «Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità» («Gaudium et Spes», 48).

E' dovere fondamentale della Chiesa riaffermare con forza - come hanno fatto i Padri del Sinodo - la dottrina dell'indissolubilità del matrimonio: a quanti, ai nostri giorni, ritengono difficile o addirittura impossibile legarsi ad una persona per tutta la vita e a quanti sono travolti da una cultura che rifiuta l'indissolubilità matrimoniale e che deride apertamente l'impegno degli sposi alla fedeltà, è necessario ribadire il lieto annuncio della definitività di quell'amore coniugale, che ha in Gesù Cristo il suo fondamento e la sua forza (cfr. Ef 5,25).

Radicata nella personale e totale donazione dei coniugi e richiesta dal bene dei figli, l'indissolubilità del matrimonio trova la sua verità ultima nel disegno che Dio ha manifestato nella sua Rivelazione. Egli vuole e dona l'indissolubilità matrimoniale come frutto, segno ed esigenza dell'amore assolutamente fedele che Dio ha per l'uomo e che il Signore Gesù vive verso la sua Chiesa.

Cristo rinnova il primitivo disegno che il Creatore ha iscritto nel cuore dell'uomo e della donna, e nella celebrazione del sacramento del matrimonio offre un «cuore nuovo»: così i coniugi non solo possono superare la «durezza del cuore» (Mt 19,8), ma anche e soprattutto possono condividere l'amore pieno e definitivo di Cristo, nuova ed eterna Alleanza fatta carne. Come il Signore Gesù è il «testimone fedele» (Ap 3,14), è il «sì» delle promesse di Dio (cfr. 2Cor 1,20) e quindi la realizzazione suprema dell'incondizionata fedeltà con cui Dio ama il suo popolo, così i coniugi cristiani sono chiamati a partecipare realmente all'indissolubilità irrevocabile, che lega Cristo alla Chiesa sua sposa, da Lui amata sino alla fine (cfr. Gc 13,1).

Il dono del sacramento è nello stesso tempo vocazione e comandamento per gli sposi cristiani, perché rimangano tra loro fedeli per sempre, al di là di ogni prova e difficoltà, in generosa obbedienza alla santa volontà del Signore: «Quello che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt 19,6).

Testimoniare l'inestimabile valore dell'indissolubilità e della fedeltà matrimoniale è uno dei doveri più preziosi e più urgenti delle coppie cristiane del nostro tempo. Per questo, insieme con tutti i confratelli che hanno preso parte al Sinodo dei Vescovi, lodo e incoraggio tutte quelle numerose coppie che, pur incontrando non lievi difficoltà, conservano e sviluppano il bene dell'indissolubilità: assolvono così, in modo umile e coraggioso, il compito loro affidato di essere nel mondo un «segno» - un piccolo e prezioso segno, talvolta sottoposto anche a tentazione, ma sempre rinnovato - dell'instancabile fedeltà con cui Dio e Gesù Cristo amano tutti gli uomini ed ogni uomo. Ma è doveroso anche riconoscere il valore della testimonianza di quei coniugi che, pur essendo stati abbandonati dal partner, con la forza della fede e della speranza cristiana non sono passati ad una nuova unione: anche questi coniugi danno un'autentica testimonianza di fedeltà, di cui il mondo oggi ha grande bisogno. Per tale motivo devono essere incoraggiati e aiutati dai pastori e dai fedeli della Chiesa.

La più ampia comunione della famiglia

21. La comunione coniugale costituisce il fondamento sul quale si viene edificando la più ampia comunione della famiglia, dei genitori e dei figli, dei fratelli e delle sorelle tra loro, dei parenti e di altri familiari.

Tale comunione si radica nei legami naturali della carne e del sangue, e si sviluppa trovando il suo perfezionamento propriamente umano nell'instaurarsi e nel maturare dei legami ancora più profondi e ricchi dello spirito: l'amore, che anima i rapporti interpersonali dei diversi membri della famiglia, costituisce la forza interiore che plasma e vivifica la comunione e la comunità familiare.

La famiglia cristiana è poi chiamata a fare l'esperienza di una nuova e originale comunione, che conferma e perfeziona quella naturale e umana. In realtà, la grazia di Gesù Cristo, «il Primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), è per sua natura e interiore dinamismo una «grazia di fraternità», come la chiama san Tommaso d'Aquino («Summa Theologiae», II· II··, 14, 2, ad 4). Lo Spirito Santo, effuso nella celebrazione dei sacramenti, è la radice viva e l'alimento inesauribile della soprannaturale comunione che raccoglie e vincola i credenti con Cristo e tra loro nell'unità della Chiesa di Dio. Una rivelazione e attuazione specifica della comunione ecclesiale è costituita dalla famiglia cristiana, che anche per questo può e deve dirsi «Chiesa domestica» («Lumen Gentium», 11; cfr. «Apostolicam Actuositatem», 11).

Tutti i membri della famiglia, ognuno secondo il proprio dono, hanno la grazia e la responsabilità di costruire, giorno per giorno, la comunione delle persone, facendo della famiglia una «scuola di umanità più completa e più ricca»: («Gaudium et Spes», 52) è quanto avviene con la cura e l'amore verso i piccoli, gli ammalati e gli anziani; col servizio reciproco di tutti i giorni; con la condivisione dei beni, delle gioie e delle sofferenze.

Un momento fondamentale per costruire una simile comunione è costituito dallo scambio educativo tra genitori e figli (cfr. Ef 6,1-4; Col 3,20s), nel quale ciascuno dà e riceve. Mediante l'amore, il rispetto, l'obbedienza verso i genitori, i figli portano il loro specifico e insostituibile contributo all'edificazione di una famiglia autenticamente umana e cristiana («Gaudium et Spes», 48). In questo saranno facilitati, se i genitori eserciteranno la loro irrinunciabile autorità come un vero e proprio «ministero», ossia come un servizio ordinato al bene umano e cristiano dei figli, e in particolare ordinato a far loro acquistare una libertà veramente responsabile, e se i genitori manterranno viva la coscienza del «dono», che continuamente ricevono dai figli.

La comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora come l'egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare. Ma, nello stesso tempo, ogni famiglia è sempre chiamata dal Dio della pace a fare l'esperienza gioiosa e rinnovatrice della «riconciliazione» cioè della comunione ricostruita, dell'unità ritrovata. In particolare la partecipazione al sacramento della riconciliazione e al banchetto dell'unico Corpo di Cristo offre alla famiglia cristiana la grazia e la responsabilità di superare ogni divisione e di camminare verso la piena verità della comunione voluta da Dio, rispondendo così al vivissimo desiderio del Signore: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).

Diritti e compiti della donna

22. In quanto è, e deve sempre diventare, comunione e comunità di persone, la famiglia trova nell'amore la sorgente e la spinta incessante per accogliere, rispettare e promuovere ciascuno dei suo membri nell'altissima dignità di persone, e cioè di immagini viventi di Dio. Come hanno giustamente affermato i Padri Sinodali, il criterio morale dell'autenticità delle relazioni coniugali e familiari consiste nella promozione della dignità e vocazione delle singole persone, le quali si ritrovano nella loro pienezza mediante il dono sincero di se stesse (cfr. «Gaudium et Spes», 24).

In questa prospettiva, il Sinodo ha voluto riservare una privilegiata attenzione alla donna, ai suoi diritti e compiti nella famiglia e nella società. Nella stessa prospettiva vanno considerati anche l'uomo come sposo e padre, il bambino e gli anziani.

Della donna è da rilevare, anzitutto, l'eguale dignità e responsabilità rispetto all'uomo: tale uguaglianza trova una singolare forma di realizzazione nella reciproca donazione di sé all'altro e di ambedue ai figli, propria del matrimonio e della famiglia. Quanto la stessa ragione umana intuisce e riconosce, viene rivelato in pienezza dalla Parola di Dio: la storia della salvezza, infatti, è una continua e luminosa testimonianza della dignità della donna.

Creando l'uomo «maschio e femmina (Gen 1,27), Dio dona la dignità personale in eguale modo all'uomo e alla donna, arricchendoli dei diritti inalienabili e delle responsabilità che sono proprie della persona umana. Dio poi manifesta nella forma più alta possibile la dignità della donna assumendo Egli stesso la carne umana da Maria Vergine che la Chiesa onora come Maria Madre di Dio, chiamandola nuova Eva e proponendola come modello della donna redenta. Il delicato rispetto di Gesù verso le donne che ha chiamato alla sua sequela ed alla sua amicizia, la sua apparizione il mattino di Pasqua ad una donna prima che agli altri discepoli, la missione affidata alle donne di portare la buona novella della Resurrezione agli apostoli, sono tutti segni che confermano la stima speciale del Signore Gesù verso la donna. Dirà l'apostolo Paolo: «Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù... Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo ne donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù)» (Gal 3,26.28).

Donna e società

23. Senza entrare ora a trattare nei suoi vari aspetti l'ampio e complesso tema dei rapporti donna-società, ma limitando il discorso ad alcuni rilievi essenziali, non si può non osservare come nel campo più specificamente familiare un'ampia e diffusa tradizione sociale e culturale abbia voluto riservare alla donna solo il compito di sposa e madre, senza aprirla adeguatamente ai compiti pubblici, in genere riservati all'uomo.

Non c'è dubbio che l'uguale dignità e responsabilità dell'uomo e della donna giustifichino pienamente l'accesso della donna ai compiti pubblici. D'altra parte la vera promozione della donna esige pure che sia chiaramente riconosciuto il valore del suo compito materno e familiare nei confronti di tutti gli altri compiti pubblici e di tutte le altre professioni. Del resto, tali compiti e professioni devono tra loro integrarsi se si vuole che l'evoluzione sociale e culturale sia veramente e pienamente umana.

Ciò risulterà più facile se, come il Sinodo ha auspicato, una rinnovata «teologia del lavoro» porrà in luce e approfondirà il significato del lavoro nella vita cristiana e determinerà il fondamentale legame che esiste tra il lavoro e la famiglia, e, di conseguenza, il significato originale ed insostituibile del lavoro della casa e dell'educazione dei figli («Laborem Exercens», 19). Pertanto la Chiesa può e deve aiutare la società attuale, chiedendo instancabilmente che sia da tutti riconosciuto e onorato nel suo valore insostituibile il lavoro della donna in casa. Ciò è di particolare importanza nell'opera educativa: viene eliminata, infatti, la radice stessa della possibile discriminazione tra i diversi lavori e professioni, una volta che risulti chiaramente come tutti, in ogni campo, si impegnino con identico diritto e con identica responsabilità. Apparirà così più splendida l'immagine di Dio nell'uomo e nella donna.

Se dev'essere riconosciuto anche alle donne, come agli uomini, il diritto di accedere ai diversi compiti pubblici, la società deve però strutturarsi in maniera tale che le spose e le madri non siano difatto costrette a lavorare fuori casa e che le loro famiglie possano dignitosamente vivere e prosperare, anche se esse si dedicano totalmente alla propria famiglia.

Si deve inoltre superare la mentalità secondo la quale l'onore della donna deriva più dal lavoro esterno che dall'attività familiare. Ma ciò esige che gli uomini stimino ed amino veramente la donna con ogni rispetto della sua dignità personale, e che la società crei e sviluppi le condizioni adatte per il lavoro domestico.

La Chiesa, col dovuto rispetto per la diversa vocazione dell'uomo e della donna, deve promuovere nella misura del possibile nella sua stessa vita la loro uguaglianza di diritti e di dignità: e questo per il bene di tutti, della famiglia, della società e della Chiesa.

E' evidente però che tutto questo significa per la donna non la rinuncia alla sua femminilità né l'imitazione del carattere maschile, ma la pienezza della vera umanità femminile quale deve esprimersi nel suo agire, sia in famiglia sia al di fuori di essa, senza peraltro dimenticare in questo campo la varietà dei costumi e delle culture.

Offese alla dignità della donna

24. Purtroppo il messaggio cristiano sulla dignità della donna viene contraddetto da quella persistente mentalità che considera l'essere umano non come persona, ma come cosa, come oggetto di compravendita, al servizio dell'interesse egoistico e del solo piacere: e prima vittima di tale mentalità è la donna.

Questa mentalità produce frutti assai amari, come il disprezzo dell'uomo e della donna, la schiavitù, l'oppressione dei deboli, la pornografia, la prostituzione - tanto più quando viene organizzata - e tutte quelle varie discriminazioni che si incontrano nell'ambito dell'educazione, della professione, della retribuzione del lavoro, ecc.

Inoltre, ancora oggi, in gran parte della nostra società, permangono molte forme di avvilente discriminazione che colpiscono ed offendono gravemente alcune categorie particolari di donne, come ad esempio, le spose che non hanno figli, le vedove, le separate, le divorziate, le madri-nubili.

Queste ed altre discriminazioni sono state deplorate dai Padri Sinodali con tutta la forza possibile: chiedo pertanto che da parte di tutti si svolga un'azione pastorale specifica più vigorosa ed incisiva, affinché esse siano definitivamente vinte, così da giungere alla stima piena dell'immagine di Dio che risplende in tutti gli essere umani, nessuno escluso.

L'uomo sposo e padre

25. Entro la comunione-comunità coniugale e familiare, l'uomo è chiamato a vivere il suo dono e compito di sposo e di padre.

Egli vede nella sposa il compiersi del disegno di Dio: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen 2,18), e fa sua l'esclamazione di Adamo, il primo sposo: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Ibid. 2,23).

L'autentico amore coniugale suppone ed esige che l'uomo porti profondo rispetto per l'eguale dignità della donna: «Non sei il suo padrone - scrive san Ambrogio - bensì il suo marito; non ti è stata data schiava, ma in moglie... Ricambia a lei le sue attenzioni verso di te e sii ad essa grato del suo amore» («Exameron», V,7,19: CSEL 32,I,154). Con la sposa l'uomo deve vivere «una forma tutta speciale di amicizia personale» (Paolo PP. VI, «Humanae Vitae», 9). Il cristiano poi è chiamato a sviluppare un atteggiamento di amore nuovo, manifestando verso la propria sposa la carità delicata e forte che Cristo ha per la Chiesa (cfr. Ef 5,25).

L'amore alla sposa diventata madre e l'amore ai figli sono per l'uomo la strada naturale per la comprensione e la realizzazione della sua paternità. Soprattutto là dove le condizioni sociali e culturali spingono facilmente il padre ad un certo disimpegno rispetto alla famiglia o comunque ad una sua minor presenza nell'opera educativa, è necessario adoperarsi perché si recuperi socialmente la convinzione che il posto e il compito del padre nella e per la famiglia sono di un'importanza unica e insostituibile (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Omelia ai fedeli di Terni, 3-5 [19 Marzo 1981]: ASS 73 [1981], 268-271). Come l'esperienza insegna, l'assenza del padre provoca squilibri psicologici e morali e difficoltà notevoli nelle relazioni familiari, come pure, in circostanze opposte, la presenza oppressiva del padre, specialmente là dove e ancora in atto il fenomeno del «machismo», ossia della superiorità abusiva delle prerogative maschili che umiliano la donna e inibiscono lo sviluppo di sane relazioni familiari.

Rivelando e rivivendo in terra la stessa paternità di Dio (cfr. Ef 3,15), l'uomo è chiamato a garantire lo sviluppo unitario di tutti i membri della famiglia: assolverà a tale compito mediante una generosa responsabilità per la vita concepita sotto il cuore della madre, un impegno educativo più sollecito e condiviso con la propria sposa (cfr. «Gaudium et Spes», 52), un lavoro che non disgreghi mai la famiglia ma la promuova nella sua compattezza e stabilità, una testimonianza di vita cristiana adulta, che introduca più evidentemente i figli nell'esperienza viva di Cristo e della Chiesa.

I diritti del bambino

26. Nella famiglia, comunità di persone, deve essere riservata una specialissima attenzione al bambino, sviluppando una profonda stima per la sua dignità personale, come pure un grande rispetto ed un generoso servizio per i suoi diritti. Ciò vale di ogni bambino, ma acquista una singolare urgenza quanto più il bambino è piccolo e bisognoso di tutto, malato, sofferente o handicappato.

Sollecitando e vivendo una premura tenera e forte per ogni bambino che viene in questo mondo, la Chiesa adempie una sua fondamentale missione: è chiamata, infatti, a rivelare e a riproporre nella storia l'esempio e il comandamento di Cristo Signore, che ha voluto porre il bambino al centro del Regno di Dio: «Lasciate che i bambini vengano a me... perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» (Lc 18,16; cfr. Mt 19,14; Mc 10,14).

Ripeto nuovamente quanto ho detto all'assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 ottobre 1979: «Desidero... esprimere la gioia che per ognuno di noi costituiscono i bambini, primavera della vita, anticipo della storia futura di ognuna delle presenti patrie terrene. Nessun paese del mondo, nessun sistema politico può pensare al proprio avvenire se non attraverso l'immagine di queste nuove generazioni che dai loro genitori assumeranno il molteplice patrimonio dei valori, dei doveri e delle aspirazioni della nazione alla quale appartengono e di tutta la famiglia umana. La sollecitudine per il bambino ancora prima della sua nascita, dal primo momento della concezione e, in seguito, negli anni dell'infanzia e della giovinezza, è la primaria e fondamentale verifica della relazione dell'uomo all'uomo. E perciò, che cosa di più si potrebbe augurare a ogni nazione e a tutta l'umanità, a tutti i bambini del mondo se non quel migliore futuro in cui il rispetto dei diritti dell'uomo diventi piena realtà nelle dimensioni del duemila che si avvicina?» (2 Ottobre 1979).

L'accoglienza, l'amore, la stima, il servizio molteplice ed unitario - materiale, affettivo, educativo, spirituale - per ogni bambino che viene in questo mondo dovranno costituire sempre una nota distintiva irrinunciabile dei cristiani, in particolare delle famiglie cristiane: così i bambini, mentre potranno crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52), porteranno il loro prezioso contributo all'edificazione della comunità familiare e alla stessa santificazione dei genitori (cfr. «Gaudium et Spes», 48).

Gli anziani in famiglia

27. Ci sono culture che manifestano una singolare venerazione ed un grande amore per l'anziano: lungi dall'essere estromesso dalla famiglia o dall'essere sopportato come un peso inutile, l'anziano ridervi parte attiva e responsabile - pur dovendo rispettare l'autonomia della nuova famiglia - e soprattutto svolge la preziosa missione di testimone del passato e di ispiratore di saggezza per i giovani e per l'avvenire.

Altre culture, invece, specialmente in seguito ad un disordinato sviluppo industriale ed urbanistico, hanno condotto e continuano a condurre gli anziani a forme inaccettabili di emarginazione, che sono fonte ad un tempo di acute sofferenze per loro stessi e di impoverimento spirituale per tante famiglie.

E' necessario che l'azione pastorale della Chiesa stimoli tutti a scoprire e a valorizzare i compiti degli anziani nella comunità civile ed ecclesiale, e in particolare nella famiglia. In realtà, «la vita degli anziani ci aiuta a far luce sulla scala dei valori umani; fa vedere la continuità delle generazioni e meravigliosamente dimostra l'interdipendenza del Popolo di Dio. Gli anziani inoltre hanno il carisma di oltrepassare le barriere fra le generazioni, prima che queste insorgano. Quanti bambini hanno trovato comprensione e amore negli occhi, nelle parole e nelle carezze degli anziani! E quante persone anziane hanno volentieri sottoscritto le ispirate parole bibliche che «corona dei vecchi sono i figli dei figli» (Pr 17,6) (Giovanni Paolo PP. II Discorso ai partecipanti all'«International Forum on Active Aging» 5 [5 Settembre 1980]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 2 [1980] 539).

II. Il servizio della vita

1) La trasmissione della vita

Cooperatori dell'amore di Dio Creatore

28. Con la creazione dell'uomo e della donna a sua immagine e somiglianza, Dio corona e porta a perfezione l'opera delle sue mani: Egli li chiama ad una speciale partecipazione del suo amore ed insieme del suo potere di Creatore e di Padre, mediante la loro libera e responsabile cooperazione a trasmettere il dono della vita umana: «Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela"» (Gen 1,28).

Così il compito fondamentale della famiglia è il servizio alla vita, il realizzare lungo la storia la benedizione originaria del Creatore, trasmettendo nella generazione l'immagine divina da uomo a uomo (cfr. ibid. 5,1ss).

La fecondità è il frutto e il segno dell'amore coniugale, la testimonianza viva della piena donazione reciproca degli sposi «II vero culto dell'amore coniugale e tutta la struttura familiare che ne nasce senza trascurare gli altri fini del matrimonio, a questo tendono, che i coniugi, con fortezza d'animo siano disposti a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia» («Gaudium et Spes», 50).

La fecondità dell'amore coniugale non si restringe però alla sola procreazione dei figli, sia pure intesa nella sua dimensione specificamente umana: si allarga e si arricchisce di tutti quei frutti di vita morale, spirituale e soprannaturale che il padre e la madre sono chiamati a donare ai figli e, mediante i figli, alla Chiesa e al mondo.

La dottrina e la norma sempre antiche e sempre nuove della Chiesa

29. Proprio perché l'amore dei coniugi è una singolare partecipazione al mistero della vita e dell'amore di Dio stesso, la Chiesa sa di aver ricevuto la missione speciale di custodire e di proteggere l'altissima dignità del matrimonio e la gravissima responsabilità della trasmissione della vita umana.

Così, in continuità con la tradizione viva della comunità ecclesiale lungo la storia, il recente Concilio Vaticano II e il magistero del mio predecessore Paolo VI, espresso soprattutto nell'enciclica «Humanae Vitae», hanno trasmesso ai nostri tempi un annuncio veramente profetico, che riafferma e ripropone con chiarezza la dottrina e la norma sempre antiche e sempre nuove della Chiesa sul matrimonio e sulla trasmissione della vita umana.

Per questo, nella loro ultima assemblea, i Padri Sinodali hanno testualmente dichiarato: «Questo Sacro Sinodo, riunito nell'unità della fede col successore di Pietro, fermamente mantiene ciò che nel Concilio Vaticano II (cfr. «Gaudium et Spes», 50) e, in seguito, nell'enciclica «Humanae Vitae» viene proposto, e in particolare che l'amore coniugale deve essere pienamente umano, esclusivo e aperto alla nuova vita (Propositio 22. La conclusione del n. 11 dell'enciclica «Humanae Vitae» così afferma: «Richiamando gli uomini all'osservanza delle norme della legge naturale interpreta dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita» AAS 60 [1968] 488).

La Chiesa sta dalla parte della vita

30. La dottrina della Chiesa si colloca oggi in una situazione sociale e culturale, che la rende ad un tempo più difficile da comprendere e più urgente ed insostituibile per promuovere il vero bene dell'uomo e della donna.

Infatti, il progresso scientifico-tecnico, che l'uomo contemporaneo accresce di continuo nel suo dominio sulla natura, non sviluppa solo la speranza di creare una nuova e migliore umanità, ma anche un'angoscia sempre più profonda circa il futuro. Alcuni si domandano se sia bene vivere o se non sia meglio neppure essere nati; dubitano, se sia lecito chiamare altri alla vita, i quali forse malediranno la propria esistenza in un mondo crudele, i cui terrori non sono neppure prevedibili. Altri pensano di essere gli unici destinatari dei vantaggi della tecnica ed escludono gli altri, ai quali vengono imposti mezzi contraccettivi o metodi ancor peggiori. Altri ancora, imprigionati come sono dalla mentalità consumistica e con l'unica preoccupazione di un continuo aumento di beni materiali, finiscono per non comprendere più e quindi per rifiutare la ricchezza spirituale di una nuova vita umana. La ragione ultima di queste mentalità è l'assenza, nel cuore degli uomini di Dio, il cui amore soltanto è più forte di tutte le possibile paure del mondo e le può vincere.

E' nata così una mentalità contro la vita (anti-life mentality), come emerge in molte questioni attuali: si pensi, ad esempio, a un certo panico derivato dagli studi degli ecologi e dei futurologi sulla demografia, che a volte esagerano il pericolo dell'incremento demografico per la qualità della vita.

Ma la Chiesa fermamente crede che la vita umana, anche se debole e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. Contro il pessimismo e l'egoismo, che oscurano il mondo, la Chiesa sta dalla parte della vita: e in ciascuna vita umana sa scoprire lo splendore di quel «Sì», di quell'«Amen», che è Cristo stesso (cfr. 2Cor 1,19; Ap 3,14). Al «no» che invade ed affligge il mondo, contrappone questo vivente «Sì», difendendo in tal modo l'uomo e il mondo da quanti insidiano e mortificano la vita.

La Chiesa è chiamata a manifestare nuovamente a tutti, con un più chiaro e fermo convincimento, la sua volontà di promuovere con ogni mezzo e di difendere contro ogni insidia la vita umana, in qualsiasi condizione e stadio di sviluppo si trovi.

Per questo la Chiesa condanna come grave offesa della dignità umana e della giustizia tutte quelle attività dei governi o di altre autorità pubbliche, che tentano di limitare in qualsiasi modo la libertà dei coniugi nel decidere dei figli. Di conseguenza qualsiasi violenza esercitata da tali autorità in favore della contraccezione e persino della sterilizzazione e dell'aborto procurato e del tutto da condannare e da respingere con forza. Allo stesso modo è da esecrare come gravemente ingiusto il fatto che nelle relazioni internazionali l'aiuto economico concesso per la promozione dei popoli venga condizionato a programmi di contraccezione, sterilizzazione e aborto procurato (cfr. Messaggio del VI Sinodo dei Vescovi alle Famiglie cristiane nel mondo contemporaneo, 5 [24 Ottobre 1980]).

Perché il progetto divino sia sempre più pienamente attuato

31. La Chiesa è certamente consapevole anche dei molteplici e complessi problemi, che oggi in molti Paesi coinvolgono i coniugi nel loro compito di trasmettere responsabilmente la vita. Riconosce pure il grave problema dell'incremento demografico, come si configura in varie parti del mondo, con le implicazioni morali che esso comporta.

Essa ritiene, tuttavia, che una approfondita considerazione di tutti gli aspetti di tali problemi offra una nuova e più forte conferma dell'importanza della dottrina autentica circa la regolazione della natalità, riproposta nel Concilio Vaticano II e nell'enciclica «Humanae Vitae».

Per questo, insieme con i Padri del Sinodo, sento il dovere di rivolgere un pressante invito ai teologi, affinché, unendo le loro forze per collaborare col Magistero gerarchico, si impegnino a porre sempre meglio in luce i fondamenti biblici, le motivazioni etiche e le ragioni personalistiche di questa dottrina. Sarà così possibile, nel contesto di un'esposizione organica, rendere la dottrina della Chiesa su questo importante capitolo veramente accessibile a tutti gli uomini di buona volontà, favorendone la comprensione ogni giorno più luminosa e profonda in tal modo il progetto divino potrà essere sempre più pienamente attuato per la salvezza dell'uomo e per la gloria del Creatore.

A questo riguardo, il concorde impegno dei teologi, ispirato da convinta adesione al Magistero, che è l'unica guida autentica del Popolo di Dio, presenta particolare urgenza anche in ragione dell'intimo legame che esiste tra la dottrina cattolica su questo punto e la visione dell'uomo che la Chiesa propone: dubbi o errori nel campo matrimoniale o familiare comportano un grave oscurarsi della verità integrale sull'uomo in una situazione culturale già così spesso confusa e contraddittoria. Il contributo di illuminazione e di approfondimento, che i teologi sono chiamati ad offrire in adempimento del loro compito specifico, ha un valore incomparabile e rappresenta un servizio singolare, altamente meritorio, alla famiglia e all'umanità.

Nella visione integrale dell'uomo e della sua vocazione

32. Nel contesto di una cultura che gravemente deforma o addirittura smarrisce il vero significato della sessualità umana, perché la sradica dal suo essenziale riferimento alla persona, la Chiesa sente più urgente e insostituibile la sua missione di presentare la sessualità come valore e compito di tutta la persona creata, maschio e femmina, ad immagine di Dio.

In questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha chiaramente affermato che «quando si tratta di comporre l'amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale» («Gaudium et Spes», 51).

E' proprio movendo dalla «visione integrale dell'uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna» (Paolo PP. VI, «Humanae Vitae», 7), che Paolo VI ha affermato che la dottrina della Chiesa «è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (Ibid. 12). Ed ha concluso ribadendo che è da escludere come intrinsecamente disonesta «ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione» (Ibid. 14).

Quando i coniugi, mediante il ricorso alla contraccezione, scindono questi due significati che Dio Creatore ha inscritti nell'essere dell'uomo e della donna e nel dinamismo della loro comunione sessuale, si comportano come «arbitri» del disegno divino e «manipolano» e avviliscono la sessualità umana, e con essa la persona propria e del coniuge, alterandone il valore di donazione «totale». Così, al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità: ne deriva, non soltanto il positivo rifiuto all'apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell'interiore verità del personale.

Quando invece i coniugi, mediante il ricorso a periodi di infecondità, rispettano la connessione inscindibile dei significati unitivo e procreativo della sessualità umana, si comportano come «ministri» del disegno di Dio ed «usufruiscono» della sessualità secondo l'originario dinamismo della donazione «totale», senza manipolazioni ed alterazioni (Ibid 13).

Alla luce della stessa esperienza di tante coppie di sposi e dei dati delle diverse scienze umane, la riflessione teologica può cogliere ed è chiamata ad approfondire la differenza antropologica e al tempo stesso morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali: si tratta di una differenza assai più vasta e profonda di quanto abitualmente non si pensi e che coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili. La scelta dei ritmi naturali comporta l'accettazione del tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l'accettazione anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità, del dominio di sé. Accogliere poi il tempo e il dialogo significa riconoscere il carattere insieme spirituale e corporeo della comunione coniugale, come pure vivere l'amore personale nella sua esigenza di fedeltà. In questo contesto la coppia fa l'esperienza che la comunione coniugale viene arricchita di quei valori di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l'anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica. In tal modo la sessualità viene rispettata e promossa nella sua dimensione veramente e pienamente umana, non mai invece «usata» come un «oggetto» che, dissolvendo l'unità personale di anima e corpo, colpisce la stessa creazione di Dio nell'intreccio più intimo tra natura e persona.

La Chiesa Maestra e Madre per i coniugi in difficoltà

33. Anche nel campo della morale coniugale la Chiesa è ed agisce come Maestra e Madre.

Come Maestra, essa non si stanca di proclamare la norma morale che deve guidare la trasmissione responsabile della vita. Di tale norma la Chiesa non è affatto né l'autrice né l'arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di radicalità e di perfezione.

Come Madre, la Chiesa si fa vicina alle molte coppie di sposi che si trovano in difficoltà su questo importante punto della vita morale: conosce bene la loro situazione, spesso molto ardua e a volte veramente tormentata da difficoltà di ogni genere, non solo individuali ma anche sociali; sa che tanti coniugi incontrano difficoltà non solo per la realizzazione concreta, ma anche per la stessa comprensione dei valori insiti nella norma morale.

Ma è la stessa ed unica Chiesa ad essere insieme Maestra e Madre. Per questo la Chiesa non cessa mai di invitare e di incoraggiare, perché le eventuali difficoltà coniugali siano risolte senza mai falsificare e compromettere la verità: è infatti convinta che non può esserci vera contraddizione tra la legge divina del trasmettere la vita e quella di favorire l'autentico amore coniugale (cfr. «Gaudium et Spes«, 51). Per questo, la pedagogia concreta della Chiesa deve sempre essere connessa e non mai separata dalla sua dottrina. Ripeto, pertanto, con la medesima persuasione del mio predecessore: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime» (Paolo PP. VI «Humanae Vitae», 29).

D'altra parte l'autentica pedagogia ecclesiale rivela il suo realismo e la sua sapienza solo sviluppando un impegno tenace e coraggioso nel creare e sostenere tutte quelle condizioni umane - psicologiche, morali e spirituali - che sono indispensabili per comprendere e vivere il valore e la norma morale.

Non c'è dubbio che tra queste condizioni si debbano annoverare la costanza e la pazienza, l'umiltà e la fortezza d'animo, la filiale fiducia in Dio e nella sua grazia, il ricorso frequente alla preghiera e ai sacramenti dell'Eucaristia e della riconciliazione (cfr. ibid. 25). Così corroborati, i coniugi cristiani potranno mantenere viva la coscienza del singolare influsso che la grazia del sacramento del matrimonio esercita su tutte le realtà della vita coniugale, e quindi anche sulla loro sessualità: il dono dello Spirito, accolto e corrisposto dai coniugi, li aiuta a vivere la sessualità umana secondo il piano di Dio e come segno dell'amore unitivo e fecondo di Cristo per la sua Chiesa.

Ma tra le condizioni necessarie rientra anche la conoscenza della corporeità e dei suoi ritmi di fertilità. In tal senso bisogna far di tutto perché una simile conoscenza sia resa accessibile a tutti i coniugi, e prima ancora alle persone giovani, mediante un'informazione ed una educazione chiare, tempestive e serie, ad opera di coppie, di medici e di esperti. La conoscenza poi deve sfociare nell'educazione all'autocontrollo: di qui l'assoluta necessità della virtù della castità e della permanente educazione ad essa. Secondo la visione cristiana, la castità non significa affatto né rifiuto né disistima della sessualità umana: significa piuttosto energia spirituale, che sa difendere l'amore dai pericoli dell'egoismo e dell'aggressività e sa promuoverlo verso la sua piena realizzazione.

Paolo VI, con profondo intuito di sapienza e di amore, altro non ha fatto che dare voce all'esperienza di tante coppie di sposi quando ha scritto nella sua enciclica: «il dominio dell'istinto mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente una ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l'osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all'amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali: essa apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace e agevola la soluzione di altri problemi; favorisce l'attenzione verso l'altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l'egoismo, nemico del vero amore, ed approfondisce il loro senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l'educazione dei figli» («Humanae Vitae», 21).

L'itinerario morale degli sposi

34. E' sempre di grande importanza possedere una retta concezione dell'ordine morale, dei suoi valori e delle sue norme: l'importanza cresce, quando più numerose e gravi si fanno le difficoltà a rispettarli.

Proprio perché rivela e propone il disegno di Dio Creatore, l'ordine morale non può essere qualcosa di mortificante per l'uomo e di impersonale; al contrario, rispondendo alle esigenze più profonde dell'uomo creato da Dio, si pone al servizio della sua piena umanità, con l'amore delicato e vincolante con cui Dio stesso ispira, sostiene e guida ogni creatura verso la sua felicità.

Ma l'uomo, chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita.

Anche i coniugi, nell'ambito della loro vita morale, sono chiamati ad un incessante cammino, sostenuti dal desiderio sincero e operoso di conoscere sempre meglio i valori che la legge divina custodisce e promuove, e dalla volontà retta e generosa di incarnarli nelle loro scelte concrete. Essi, tuttavia, non possono guardare alla legge solo come ad un puro ideale da raggiungere in futuro, ma debbono considerarla come un comando di Cristo Signore a superare con impegno le difficoltà. «Perciò la cosiddetta "legge della gradualità", o cammino graduale, non può identificarsi con la "gradualità della legge", come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse. Tutti i coniugi, secondo il disegno divino, sono chiamati alla santità nel matrimonio e questa alta vocazione si realizza in quanto la persona umana è in grado di rispondere al comando divino con animo sereno, confidando nella grazia divina e nella propria volontà» (Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la conclusione del VI Sinodo dei Vescovi, 8 [25 Ottobre 1980]: ASS 72 [1980] 1083). In questa stessa linea, rientra nella pedagogia della Chiesa che i coniugi anzitutto riconoscano chiaramente la dottrina della «Humanae Vitae» come normativa per l'esercizio della loro sessualità, e sinceramente si impegnino a porre le condizioni necessarie per osservare questa norma.

Questa pedagogia, come ha rilevato il Sinodo, comprende tutta la vita coniugale. Per questo il compito di trasmettere la vita deve essere integrato nella missione globale dell'intera vita cristiana, la quale senza la croce non può giungere alla risurrezione. In simile contesto si comprende come non si possa togliere il sacrificio dalla vita familiare, anzi si debba accettare di cuore, perché l'amore coniugale si approfondisca e diventi fonte di intima gioia.

Questo comune cammino esige riflessione, informazione, idonea educazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, che sono impegnati nella pastorale familiare: tutti costoro potranno aiutare i coniugi nel loro itinerario umano e spirituale, che comporta la coscienza del peccato, il sincero impegno di osservare la legge morale, il ministero della riconciliazione. E' pure da tenere presente come nell'intimità coniugale siano implicate le volontà di due persone, chiamate però ad una armonia di mentalità e di comportamento: ciò esige non poca pazienza, simpatia e tempo. Di singolare importanza in questo campo è l'unità dei giudizi morali e pastorali dei sacerdoti: tale unità dev'essere accuratamente ricercata ed assicurata, perché i fedeli non abbiano a soffrire ansietà di coscienza (cfr. Paolo PP. VI «Humanae Vitae», 28).

Il cammino dei coniugi sarà dunque facilitato se, nella stima della dottrina della Chiesa e nella fiducia verso la grazia di Cristo, aiutati ed accompagnati dai pastori d'anime e dall'intera comunità ecclesiale, essi sapranno scoprire e sperimentare il valore di liberazione e di promozione dell'amore autentico, che il Vangelo offre ed il comandamento del Signore propone.

Suscitare convinzioni e offrire aiuti concreti

35. Di fronte al problema di un'onesta regolazione della natalità, la comunità ecclesiale, nel tempo presente, deve assumersi il compito di suscitare convinzioni e di offrire aiuti concreti per quanti vogliono vivere la paternità e la maternità in modo veramente responsabile.

In questo campo, mentre si compiace dei risultati raggiunti dalle ricerche scientifiche per una conoscenza più precisa dei ritmi di fertilità femminile e stimola una più decisiva ed ampia estensione di tali studi, la Chiesa non può non sollecitare con rinnovato vigore la responsabilità di quanti - medici, esperti, consulenti coniugali, educatori, coppie - possono aiutare effettivamente i coniugi a vivere il loro amore nel rispetto della struttura e delle finalità dell'atto coniugale che lo esprime. Ciò significa un impegno più vasto, decisivo e sistematico per far conoscere, stimare e applicare i metodi naturali di regolazione della fertilità (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso ai Delegati del «Centre de Liaison des Equipes de Recherche», 9 [3 Novembre 1979]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», II 2 [1979] 1035; cfr. anche Discorso ai Partecipanti al primo Congresso per la Famiglia d'Africa e d'Europa (15 Gennaio 1981): «L'Osservatore Romano» (16 Gennaio 1981).

Una preziosa testimonianza può e deve essere data da quegli sposi che, mediante l'impegno comune della continenza periodica, sono giunti ad una più matura responsabilità personale di fronte all'amore ed alla vita. Come scriveva Paolo VI, «ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l'amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all'amore di Dio autore della vita umana» («Humanae Vitae», 25).

2) L'educazione

Il diritto-dovere educativo dei genitori

36. Il compito dell'educazione affonda le radici nella primordiale vocazione dei coniugi a partecipare all'opera creatrice di Dio: generando nell'amore e per amore una nuova persona, che in sé ha la vocazione alla crescita ed allo sviluppo, i genitori si assumono perciò stesso il compito di aiutarla efficacemente a vivere una vita pienamente umana. Come ha ricordato il Concilio Vaticano II: «I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l'obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può appena essere supplita. Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell'atmosfera vivificata dall'amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l'educazione completa dei figli in senso personale e sociale. La famiglia è dunque la prima scuola di virtù sociali di cui appunto han bisogno tutte le società» («Gravissimum Educationis», 3).

Il diritto-dovere educativo dei genitori si qualifica come essenziale, connesso com'è con la trasmissione della vita umana; come originale e primario, rispetto al compito educativo di altri, per l'unicità del rapporto d'amore che sussiste tra genitori e figli; come insostituibile ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, né da altri usurpato.

Al di là di queste caratteristiche, non si può dimenticare che l'elemento più radicale, tale da qualificare il compito educativo dei genitori, è l'amore paterno e materno, il quale trova nell'opera educativa il suo compimento nel rendere pieno e perfetto il servizio alla vita: l'amore dei genitori da sorgente diventa anima e pertanto norma, che ispira e guida tutta l'azione educativa concreta, arricchendola di quei valori di dolcezza, costanza, bontà, servizio, disinteresse, spirito di sacrificio, che sono il più prezioso frutto dell'amore.

Educare ai valori essenziali della vita umana

37. Pur in mezzo alle difficoltà dell'opera educativa, oggi spesso aggravate, i genitori devono con fiducia e coraggio formare i figli ai valori essenziali della vita umana. I figli devono crescere in una giusta libertà di fronte ai beni materiali, adottando uno stile di vita semplice ed austero, ben convinti che «l'uomo vale più per quello che è che per quello che ha» («Gaudium et Spes», 35)

In una società scossa e disgregata da tensioni e conflitti per il violento scontro tra i diversi individualismi ed egoismi, i figli devono arricchirsi non soltanto del senso della vera giustizia, che sola conduce al rispetto della dignità personale di ciascuno, ma anche e ancora più del senso del vero amore, come sollecitudine sincera e servizio disinteressato verso gli altri, in particolare i più poveri e bisognosi. La famiglia è la prima e fondamentale scuola di socialità: in quanto comunità di amore, essa trova nel dono di sé la legge che la guida e la fa crescere. Il dono di sé, che ispira l'amore dei coniugi tra di loro, si pone come modello e norma del dono di sé quale deve attuarsi nei rapporti tra fratelli e sorelle e tra le diverse generazioni che convivono nella famiglia. E la comunione e la partecipazione quotidianamente vissuta nella casa, nei momenti di gioia e di difficoltà, rappresenta la più concreta ed efficace pedagogia dei figli nel più ampio orizzonte della società.

L'educazione all'amore come dono di sé costituisce anche la premessa indispensabile per i genitori chiamati ad offrire ai figli una chiara e delicata educazione sessuale. Di fronte ad una cultura che «banalizza» in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico, il servizio educativo dei genitori deve puntare fermamente su di una cultura sessuale che sia veramente e pienamente personale: la sessualità, infatti, è una ricchezza di tutta la persona - corpo, sentimento e anima - e manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono di sé nell'amore.

L'educazione sessuale, diritto e dovere fondamentale dei genitori, deve attuarsi sempre sotto la loro guida sollecita, sia in casa sia nei centri educativi da essi scelti e controllati. In questo senso la Chiesa ribadisce la legge della sussidiarietà, che la scuola è tenuta ad osservare quando coopera all'educazione sessuale, collocandosi nello spirito stesso che anima i genitori.

In questo contesto è del tutto irrinunciabile l'educazione alla castità, come virtù che sviluppa l'autentica maturità della persona e la rende capace di rispettare e promuovere il «significato sponsale» del corpo. Anzi, i genitori cristiani riserveranno una particolare attenzione e cura, discernendo i segni della chiamata di Dio, per l'educazione alla verginità, come forma suprema di quel dono di sé che costituisce il senso stesso della sessualità umana.

Per gli stretti legami che intercorrono tra la dimensione sessuale della persona e i suoi valori etici, il compito educativo deve condurre i figli a conoscere e a stimare le norme morali come necessaria e preziosa garanzia per una responsabile crescita personale nella sessualità umana.

Per questo la Chiesa si oppone fermamente a una certa forma di informazione sessuale, avulsa dai principi morali, così spesso diffusa, la quale altro non sarebbe che un'introduzione all'esperienza del piacere e uno stimolo che porta a perdere la serenità - ancora negli anni dell'innocenza - aprendo la strada al vizio.

La missione educativa e il sacramento del matrimonio

38. Per i genitori cristiani la missione educativa, radicata come si è detto nella loro partecipazione all'opera creatrice di Dio, ha una nuova e specifica sorgente nel sacramento del matrimonio, che li consacra all'educazione propriamente cristiana dei figli, li chiama cioè a partecipare alla stessa autorità e allo stesso amore di Dio Padre e di Cristo Pastore, come pure all'amore materno della Chiesa, e li arricchisce di sapienza, consiglio, fortezza e di ogni altro dono dello Spirito Santo per aiutare i figli nella loro crescita umana e cristiana.

Dal sacramento del matrimonio il compito educativo riceve la dignità e la vocazione di essere un vero e proprio «ministero» della Chiesa al servizio della edificazione dei suoi membri. Tale è la grandezza e lo splendore del ministero educativo dei genitori cristiani, che san Tommaso non esita a paragonare al ministero dei sacerdoti: «Alcuni propagano e conservano la vita spirituale con un ministero unicamente spirituale, e questo spetta al sacramento dell'ordine; altri lo fanno quanto alla vita ad un tempo corporale e spirituale e ciò avviene col sacramento del matrimonio, nel quale l'uomo e la donna si uniscono per generare la prole ed educarla al culto di Dio («Summa contra Gentiles», IV, 58).

La coscienza viva e vigile della missione ricevuta col sacramento del matrimonio aiuterà i genitori cristiani a porsi con grande serenità e fiducia al servizio educativo dei figli e, nello stesso tempo, con senso di responsabilità di fronte a Dio che li chiama e li manda ad edificare la Chiesa nei figli. Così la famiglia dei battezzati, convocata quale chiesa domestica dalla Parola e dal Sacramento, diventa insieme, come la grande Chiesa, maestra e madre.

La prima esperienza di Chiesa

39. La missione dell'educazione esige che i genitori cristiani propongano ai figli tutti quei contenuti che sono necessari per la graduale maturazione della loro responsabilità da un punto di vista cristiano ed ecclesiale. Riprenderanno allora le linee educative sopra ricordate, con la cura di mostrare ai figli a quale profondità di significati la fede e la carità di Gesù Cristo sanno condurre. Inoltre la consapevolezza che il Signore affida loro la crescita di un figlio di Dio, di un fratello di Cristo, di un tempio dello Spirito Santo, di un membro della Chiesa, sorreggerà i genitori cristiani nel loro compito di rafforzare nell'anima dei figli il dono della grazia divina.

Il Concilio Vaticano II così precisa il contenuto dell'educazione cristiana: «Essa non comporta solo la maturità propria dell'umana persona... ma tende soprattutto a far sì che i battezzati, iniziati gradualmente alla conoscenza del mistero della salvezza, prendano sempre maggiore coscienza del dono della fede, che hanno ricevuto: imparino ad adorare Dio in spirito e verità (cfr. Gv 4,23), specialmente attraverso l'azione liturgica, si preparino a vivere la propria vita secondo l'uomo nuovo della giustizia e nella santità della verità (Ef 4,22-24), così raggiungano l'uomo perfetto, la statura della pienezza di Cristo (cfr. Ef 4,13) e diano il loro apporto all'aumento del corpo mistico. Essi inoltre, consapevoli della loro vocazione, devono addestrarsi sia a testimoniare quella speranza che è in loro (cfr. 1Pt 3,14), sia a promuovere la elevazione in senso cristiano del mondo» («Gravissimum Educationis», 2).

Anche il Sinodo, riprendendo e sviluppando le linee conciliari, ha presentato la missione educativa della famiglia cristiana come un vero ministero, per mezzo del quale viene trasmesso e irradiato il Vangelo, al punto che la stessa vita di famiglia diventa itinerario di fede e in qualche modo iniziazione cristiana e scuola della sequela di Cristo. Nella famiglia cosciente di tale dono, come ha scritto Paolo VI, «tutti i membri evangelizzano e sono evangelizzati» («Evangelii Nuntiandi», 71).

In forza del mistero dell'educazione i genitori mediante la testimonianza della vita, sono i primi araldi del Vangelo presso i figli. Di più, pregando con i figli, dedicandosi con essi alla lettura della Parola di Dio ed inserendoli nell'intimo del Corpo - eucaristico ed ecclesiale - di Cristo mediante l'iniziazione cristiana, diventano pienamente genitori generatori cioè non solo della vita carnale, ma anche di quella che, mediante la rinnovazione dello Spirito, scaturisce dalla Croce e risurrezione di Cristo.

Perché i genitori cristiani possano compiere degnamente il loro ministero educativo, i Padri Sinodali hanno auspicato che sia preparato un adeguato testo di catechismo per le famiglie, chiaro, breve e tale da poter essere facilmente assimilato da tutti. Le conferenze episcopali sono state caldamente invitate ad impegnarsi per la realizzazione di questo catechismo.

Rapporti con altre forze educative

40. La famiglia è la prima, ma non l'unica ed esclusiva comunità educante: la stessa dimensione comunitaria, civile ed ecclesiale, dell'uomo esige e conduce ad un'opera più ampia ed articolata, che sia il frutto della collaborazione ordinata delle diverse forze educative. Queste forze sono tutte necessarie, anche se ciascuna può e deve intervenire con una sua competenza e con un suo contributo propri (cfr. «Gravissimum Educationis», 3).

Il compito educativo della famiglia cristiana ha perciò un posto assai importante nella pastorale organica: ciò implica una nuova forma di collaborazione tra i genitori e le comunità cristiane, tra i diversi gruppi educativi e i pastori. In questo senso il rinnovamento della scuola cattolica deve riservare una speciale attenzione sia ai genitori degli alunni sia alla formazione di una perfetta comunità educante.

Dev'essere assolutamente assicurato il diritto dei genitori alla scelta di un'educazione conforme alla loro fede religiosa.

Lo Stato e la Chiesa hanno l'obbligo di dare alle famiglie tutti gli aiuti possibili, affinché possano adeguatamente esercitare i loro compiti educativi. Per questo sia la Chiesa sia lo Stato devono creare e promuovere quelle istituzioni ed attività, che le famiglie giustamente richiedono: e l'aiuto dovrà essere proporzionato alle insufficienze delle famiglie. Pertanto, tutti coloro che nella società sono alla guida delle scuole non devono mai dimenticare che i genitori sono stati costituiti da Dio stesso come primi e principali educatori dei figli, e che il loro diritto è del tutto inalienabile.

Ma complementare al diritto, si pone il grave dovere dei genitori di impegnarsi a fondo in un rapporto cordiale e fattivo con gli insegnanti ed i dirigenti delle scuole.

Se nelle scuole si insegnano ideologie contrarie alla fede cristiana, la famiglia insieme ad altre famiglie, possibilmente mediante forme associative familiari, deve con tutte le forze e con sapienza aiutare i giovani a non allontanarsi dalla fede. In questo caso la famiglia ha bisogno di aiuti speciali da parte dei pastori d'anime, i quali non dovranno dimenticare che i genitori hanno l'inviolabile diritto di affidare i loro figli alla comunità ecclesiale.

Un servizio molteplice alla vita

41. Il fecondo amore coniugale si esprime in un servizio alla vita dalle forme molteplici, delle quali la generazione e l'educazione sono quelle più immediate, proprie ed insostituibili. In realtà, ogni atto di vero amore verso l'uomo testimonia e perfeziona la fecondità spirituale della famiglia perché è obbedienza al dinamismo interiore profondo dell'amore come donazione di sé agli altri.

A questa prospettiva, per tutti ricca di valore e di impegno, sapranno ispirarsi in particolare quei coniugi che fanno l'esperienza della sterilità fisica.

Le famiglie cristiane che nella fede riconoscono tutti gli uomini come figli del comune Padre dei cieli, verranno generosamente incontro ai figli delle altre famiglie, sostenendoli ed amandoli non come estranei, ma come membri dell'unica famiglia dei figli di Dio. I genitori cristiani potranno così allargare il loro amore al di là dei vincoli della carne e del sangue, alimentando i legami che si radicano nello spirito e che si sviluppano nel servizio concreto ai figli di altre famiglie, spesso bisognosi delle cose più necessarie.

Le famiglie cristiane sapranno vivere una maggiore disponibilità verso l'adozione e l'affidamento di quei figli che sono privati dei genitori o da essi abbandonati: mentre questi bambini, ritrovando il valore affettivo di una famiglia, possono fare esperienza dell'amorevole e provvida paternità di Dio, testimoniata dai genitori cristiani, e così crescere con serenità e fiducia nella vita, la famiglia intera sarà arricchita dai valori spirituali di una più ampia fraternità.

La fecondità delle famiglie deve conoscere una sua incessante «creatività», frutto meraviglioso dello Spirito di Dio che spalanca gli occhi del cuore per scoprire le nuove necessità e sofferenze della nostra società, e che infonde coraggio per assumerle e darvi risposta. In questo quadro si presenta alle famiglie un vastissimo campo d'azione: infatti, ancor più preoccupante dell'abbandono dei bambini è oggi il fenomeno dell'emarginazione sociale e culturale, che duramente colpisce anziani, ammalati, handicappati, tossicodipendenti, ex carcerati, ecc.

In tal modo si dilata enormemente l'orizzonte della paternità e della maternità delle famiglie cristiane: il loro amore spiritualmente fecondo è sfidato da queste e da tante altre urgenze del nostro tempo. Con le famiglie e per mezzo loro, il Signore Gesù continua ad avere «compassione» delle folle.

III. La partecipazione allo sviluppo della società

La famiglia prima e vitale cellula della società

42. «Poiché il Creatore di tutte le cose ha costituito il matrimonio quale principio e fondamento dell'umana società», la famiglia e divenuta la «prima e vitale cellula della società» («Apostolicam Actuositatem», 11).

La famiglia possiede vincoli vitali e organici con la società, perché ne costituisce il fondamento e l'alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini e nella famiglia essi trovano la prima scuola di quelle virtù sociali, che sono l'anima della vita e dello sviluppo della società stessa.

Così in forza della sua natura e vocazione, lungi dal rinchiudersi in se stessa, la famiglia si apre alle altre famiglie e alla società, assumendo il suo compito sociale.

La vita familiare come esperienza di comunione e di partecipazione

43. La stessa esperienza di comunione e di partecipazione, che deve caratterizzare la vita quotidiana della famiglia, rappresenta il suo primo e fondamentale contributo alla società.

Le relazioni tra i membri della comunità familiare sono ispirate e guidate dalla legge della «gratuità» che, rispettando e favorendo in tutti e in ciascuno la dignità personale come unico titolo di valore, diventa accoglienza cordiale, incontro e dialogo, disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda.

Così la promozione di un'autentica e matura comunione di persone nella famiglia diventa prima e insostituibile scuola di socialità, esempio e stimolo per i più ampi rapporti comunitari all'insegna del rispetto, della giustizia, del dialogo, dell'amore.

In tal modo, come hanno ricordato i Padri Sinodali, la famiglia costituisce il luogo nativo e lo strumento più efficace di umanizzazione e di personalizzazione della società: essa collabora in un modo originale e profondo alla costruzione del mondo, rendendo possibile una vita propriamente umana, in particolare custodendo e trasmettendo le virtù e i «valori». Come scrive il Concilio Vaticano II, nella famiglia «le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa e a comporre i diritti delle persone con le altre esigenze della vita sociale («Gaudium et Spes», 52)

Di conseguenza, di fronte ad una società che rischia di essere sempre più spersonalizzata e massificata, e quindi disumana e disumanizzante, con le risultanze negative di tante forme di «evasione» - come sono, ad esempio, l'alcoolismo, la droga e lo stesso terrorismo -, la famiglia possiede e sprigiona ancora oggi energie formidabili capaci di strappare l'uomo dall'anonimato, di mantenerlo cosciente della sua dignità personale, di arricchirlo di profonda umanità e di inserirlo, attivamente con la sua unicità e irripetibilità nel tessuto della società.

Compito sociale e politico

44. Il compito sociale della famiglia non può certo fermarsi all'opera procreativa ed educativa, anche se trova in essa la sua prima ed insostituibile forma di espressione.

Le famiglie, sia singole che associate, possono e devono pertanto dedicarsi a molteplici opere di servizio sociale, specialmente a vantaggio dei poveri, e comunque di tutte quelle persone e situazioni che l'organizzazione previdenziale ed assistenziale delle pubbliche autorità non riesce a raggiungere.

Il contributo sociale della famiglia ha una sua originalità, che domanda di essere meglio conosciuta e più decisamente favorita, soprattutto man mano che i figli crescono, coinvolgendo di fatto il più possibile tutti i membri (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 11).

In particolare è da rilevare l'importanza sempre più grande che nella nostra società assume l'ospitalità, in tutte le sue forme, dall'aprire la porta della propria casa e ancor più del proprio cuore alle richieste dei fratelli, all'impegno concreto di assicurare ad ogni famiglia la sua casa, come ambiente naturale che la conserva e la fa crescere. Soprattutto la famiglia cristiana è chiamata ad ascoltare la raccomandazione dell'apostolo: «Siate... premurosi nell'ospitalità» (Rm 12,13), e quindi ad attuare, imitando l'esempio e condividendo la carità di Cristo, l'accoglienza del fratello bisognoso: «Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca ad uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42).

Il compito sociale delle famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie devono crescere nella coscienza di essere «protagoniste» della cosiddetta «politica familiare» ed assumersi la responsabilità di trasformare la società: diversamente le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza. L'appello del Concilio Vaticano II a superare l'etica individualistica ha perciò valore anche per la famiglia come tale (cfr. «Gaudium et Spes», 30).

La società al servizio della famiglia

45. L'intima connessione tra la famiglia e la società, come esige l'apertura e la partecipazione della famiglia alla società e al suo sviluppo, così impone che la società non venga mai meno al suo fondamentale compito di rispettare e di promuovere la famiglia stessa.

Certamente la famiglia e la società hanno una funzione complementare nella difesa e nella promozione del bene di tutti gli uomini e di ogni uomo. Ma la società, e più specificamente lo Stato, devono riconoscere che la famiglia è «una società che gode di un diritto proprio e primordiale» («Dignitatis Humanae», 5), e quindi nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà.

In forza di tale principio lo Stato non può né deve sottrarre alle famiglie quei compiti che esse possono ugualmente svolgere bene da sole o liberamente associate, ma positivamente favorire e sollecitare al massimo l'iniziativa responsabile delle famiglie. Convinte che il bene della famiglia costituisce un valore indispensabile e irrinunciabile della comunità civile, le autorità pubbliche devono fare il possibile per assicurare alle famiglie tutti quegli aiuti - economici, sociali, educativi, politici, culturali - di cui hanno bisogno per far fronte in modo umano a tutte le loro responsabilità.

La carta dei diritti della famiglia

46. L'ideale di una reciproca azione di sostegno e di sviluppo tra la famiglia e la società si scontra spesso, e in termini assai gravi, con la realtà di una loro separazione, anzi di una loro contrapposizione.

In effetti, come ha continuamente denunciato il Sinodo, la situazione che tantissime famiglie di diversi Paesi incontrano è molto problematica, se non addirittura decisamente negativa: istituzioni e leggi misconoscono ingiustamente i diritti inviolabili della famiglia e della stessa persona umana, e la società, lungi dal porsi al servizio della famiglia, la aggredisce con violenza nei suoi valori e nelle sue esigenze fondamentali. E così la famiglia che, secondo il disegno di Dio, è cellula base della società, soggetto di diritti e doveri prima dello Stato e di qualunque altra comunità, si trova ad essere vittima della società, dei ritardi e delle lentezze dei suoi interventi e ancor più delle sue palesi ingiustizie.

Per questo la Chiesa difende apertamente e fortemente i diritti della famiglia dalle intollerabili usurpazioni della società e dello Stato. In particolare, i Padri Sinodali hanno ricordato, tra gli altri, i seguenti diritti della famiglia:

  • di esistere e di progredire come famiglia, cioè il diritto di ogni uomo, specialmente anche se povero, a fondare una famiglia e ad avere i mezzi adeguati per sostenerla;
  • di esercitare la propria responsabilità nell'ambito della trasmissione della vita e di educare i figli;
  • dell'intimità della vita coniugale e familiare;
  • della stabilità del vincolo e dell'istituto matrimoniale;
  • di credere e di professare la propria fede, e di diffonderla;
  • di educare i figli secondo le proprie tradizioni e valori religiosi e culturali, con gli strumenti, i mezzi e le istituzioni necessarie;
  • di ottenere la sicurezza fisica, sociale, politica, economica, specialmente dei poveri e degli infermi;
  • il diritto all'abitazione adatta a condurre convenientemente la vita familiare;
  • di espressione e di rappresentanza davanti alle pubbliche autorità economiche, sociali e culturali e a quelle inferiori, sia direttamente sia attraverso associazioni
  • di creare associazioni con altre famiglie e istituzioni, per svolgere in modo adatto e sollecito il proprio compito;
  • di proteggere i minorenni mediante adeguate istituzioni e legislazioni da medicinali dannosi, dalla pornografia, dall'alcoolismo, ecc.;
  • di un onesto svago che favorisca anche i valori della famiglia;
  • il diritto degli anziani ad una vita degna e ad una morte dignitosa;
  • il diritto di emigrare come famiglie per cercare una vita migliore (Propositio 42).

La Santa Sede, accogliendo l'esplicita richiesta del Sinodo, avrà cura di approfondire tali suggerimenti, elaborando una «carta dei diritti della famiglia» da proporre agli ambienti e alle Autorità interessate.

Grazia e responsabilità della famiglia cristiana

47. Il compito sociale proprio di ogni famiglia compete, ad un titolo nuovo ed originale alla famiglia cristiana, fondata sul sacramento del matrimonio. Assumendo la realtà umana dell'amore coniugale in tutte le implicazioni, il sacramento abilita e impegna i coniugi e i genitori cristiani a vivere la loro vocazione di laici, e pertanto a «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» («Lumen Gentium», 31).

Il compito sociale e politico rientra in quella missione regale o di servizio, alla quale gli sposi cristiani partecipano in forza del sacramento del matrimonio, ricevendo ad un tempo un comandamento al quale non possono sottrarsi ed una grazia che li sostiene e li stimola.

In tal modo la famiglia cristiana è chiamata ad offrire a tutti la testimonianza di una dedizione generosa e disinteressata ai problemi sociali, mediante la «scelta preferenziale» dei poveri e degli emarginati. Perciò essa, progredendo nella sequela del Signore mediante una speciale dilezione verso tutti i poveri, deve avere a cuore specialmente gli affamati, gli indigenti, gli anziani, gli ammalati, i drogati, i senza famiglia.

Per un nuovo ordine internazionale

48. Di fronte alla dimensione mondiale che oggi caratterizza i vari problemi sociali, la famiglia vede allargarsi in modo del tutto nuovo il suo compito verso lo sviluppo della società: si tratta di cooperare anche ad un nuovo ordine internazionale, perché solo nella solidarietà mondiale si possono affrontare e risolvere gli enormi e drammatici problemi della giustizia nel mondo, della libertà dei popoli, della pace dell'umanità.

La comunione spirituale delle famiglie cristiane, radicate nella fede e speranza comuni e vivificate dalla carità, costituisce un'interiore energia che origina, diffonde e sviluppa giustizia, riconciliazione, fraternità e pace tra gli uomini. In quanto «piccola Chiesa», la famiglia cristiana è chiamata, a somiglianza della «grande Chiesa», ad essere segno di unità per il mondo e ad esercitare in tal modo il suo ruolo profetico testimoniando il Regno e la pace di Cristo, verso cui il mondo intero è in cammino.

Le famiglie cristiane potranno far questo sia mediante la loro opera educativa, offrendo cioè ai figli un modello di vita fondato sui valori della verità, della libertà, della giustizia e dell'amore, sia con un attivo e responsabile impegno per la crescita autenticamente umana della società e delle sue istituzioni, sia col sostenere in vario modo le associazioni specificamente dedicate ai problemi dell'ordine internazionale.

IV. La partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa

La famiglia nel mistero della Chiesa

49. Tra i compiti fondamentali della famiglia cristiana si pone il compito ecclesiale: essa, cioè, è posta al servizio dell'edificazione del Regno di Dio nella storia, mediante la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

Per meglio comprendere i fondamenti, i contenuti e le caratteristiche di tale partecipazione, occorre approfondire i molteplici e profondi vincoli che legano tra loro la Chiesa e la famiglia cristiana, e costituiscono quest'ultima come «una Chiesa in miniatura» (Ecclesia domestica) (cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11; Giovanni Paolo PP II, Omelia per l'apertura del VI Sinodo dei Vescovi, 3 [26 Settembre 1980]: AAS 72 [1980] 1008), facendo sì che questa, a suo modo, sia viva immagine e storica ripresentazione del mistero stesso della Chiesa.

E' anzitutto la Chiesa Madre che genera, educa, edifica la famiglia cristiana, mettendo in opera nei suoi riguardi la missione di salvezza che ha ricevuto dal suo Signore. Con l'annuncio della Parola di Dio, la Chiesa rivela alla famiglia cristiana la sua vera identità, ciò che essa è e deve essere secondo il disegno del Signore; con la celebrazione dei sacramenti, la Chiesa arricchisce e corrobora la famiglia cristiana con la grazia di Cristo in ordine alla sua santificazione per la gloria del Padre; con la rinnovata proclamazione del comandamento nuovo della carità, la Chiesa anima e guida la famiglia cristiana al servizio dell'amore, affinché imiti e riviva lo stesso amore di donazione e di sacrificio, che il Signore Gesù nutre per l'umanità intera.

A sua volta la famiglia cristiana è inserita a tal punto nel mistero della Chiesa da diventare partecipe, a suo modo, della missione di salvezza propria di questa: i coniugi e i genitori cristiani, in virtù del sacramento, «hanno nel loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al Popolo di Dio» («Lumen Gentium», 11). Perciò non solo «ricevono» l'amore di Cristo diventando comunità «salvata», ma sono anche chiamati a «trasmettere» ai fratelli il medesimo amore di Cristo, diventando così comunità «salvante». In tal modo, mentre è frutto e segno della fecondità soprannaturale della Chiesa, la famiglia cristiana è resa simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa (cfr. ibid. 41).

Un compito ecclesiale proprio e originale

50. La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire, in quanto intima comunità di vita e di amore.

Se la famiglia cristiana è comunità, i cui vincoli sono rinnovati da Cristo mediante la fede e i sacramenti, la sua partecipazione alla missione della Chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria: insieme, dunque, i coniugi in quanto coppia, i genitori e i figli in quanto famiglia, devono vivere il loro servizio alla Chiesa e al mondo. Devono essere nella fede «un cuore solo e un'anima sola» (cfr. At 4,32), mediante il comune spirito apostolico che li anima e la collaborazione che li impegna nelle opere di servizio alla comunità ecclesiale e civile.

La famiglia cristiana, poi, edifica il Regno di Dio nella storia mediante quelle stesse realtà quotidiane che riguardano e contraddistinguono la sua condizione di vita; è allora nell'amore coniugale e familiare - vissuto nella sua straordinaria ricchezza di valori ed esigenze di totalità, unicità, fedeltà e fecondità (cfr. Paolo PP. VI «Humanae Vitae», 9) - che si esprime e si realizza la partecipazione della famiglia cristiana alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù Cristo e della sua Chiesa: l'amore e la vita costituiscono pertanto il nucleo della missione salvifica della famiglia cristiana nella Chiesa e per la Chiesa.

Lo ricorda il Concilio Vaticano II quando scrive: «La famiglia metterà con generosità in comune con le altre famiglie le proprie ricchezze spirituali. Perciò la famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione del patto di amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa, sia con l'amore, la fecondità generosa, l'unità e la fedeltà degli sposi che con l'amorevole cooperazione di tutti i suoi membri» («Gaudium et Spes», 48)

Posto così il fondamento della partecipazione della famiglia cristiana alla missione ecclesiale, è ora da illustrare il suo contenuto nel triplice e unitario riferimento a Gesù Cristo Profeta, Sacerdote e Re, presentando perciò la famiglia cristiana come 1) comunità credente ed evangelizzante, 2) comunità in dialogo con Dio, 3) comunità al servizio dell'uomo.

1) La famiglia cristiana comunità credente ed evangelizzante

La fede scoperta e ammirazione del disegno di Dio sulla famiglia

51. Partecipe della vita e della missione della Chiesa, la quale sta in religioso ascolto della Parola di Dio e la proclama con ferma fiducia (cfr. «Dei Verbum», 1), la famiglia cristiana vive il suo compito profetico accogliendo e annunciando la Parola di Dio: diventa così, ogni giorno di più, comunità credente ed evangelizzante.

Anche agli sposi e ai genitori cristiani è chiesta l'obbedienza della fede (cfr. Rm 16,26): sono chiamati ad accogliere la Parola del Signore, che ad essi rivela la stupenda novità - la Buona Novella - della loro vita coniugale e familiare, resa da Cristo santa e santificante. Infatti, soltanto nella fede essi possono scoprire e ammirare in gioiosa gratitudine a quale dignità Dio abbia voluto elevare il matrimonio e la famiglia, costituendoli segno e luogo dell'alleanza d'amore tra Dio e gli uomini, tra Gesù Cristo e la Chiesa sua sposa.

Già la stessa preparazione al matrimonio cristiano si qualifica come itinerario di fede: si pone, infatti, come privilegiata occasione perché i fidanzati riscoprano e approfondiscano la fede ricevuta col Battesimo e nutrita con l'educazione cristiana. In tal modo riconoscono e liberamente accolgono la vocazione a vivere la sequela di Cristo e il servizio del Regno di Dio nello stato matrimoniale.

Il momento fondamentale della fede degli sposi è dato dalla celebrazione del sacramento del matrimonio, che nella sua profonda natura è la proclamazione, nella Chiesa, della Buona Novella sull'amore coniugale: esso è Parola di Dio che «rivela» e «compie» il progetto sapiente e amoroso che Dio ha sugli sposi, introdotti nella misteriosa e reale partecipazione all'amore stesso di Dio per l'umanità. Se in se stessa la celebrazione sacramentale del matrimonio è proclamazione della Parola di Dio, in quanti sono a vario titolo protagonisti e celebranti deve essere una «professione di fede» fatta entro e con la Chiesa, comunità di credenti.

Questa professione di fede richiede di essere prolungata nel corso della vita vissuta degli sposi e della famiglia: Dio, infatti, che ha chiamato gli sposi «al» matrimonio, continua a chiamarli «nel» matrimonio (cfr. Paolo PP. VI «Humanae Vitae», 25). Dentro e attraverso i fatti, i problemi, le difficoltà, gli avvenimenti dell'esistenza di tutti i giorni, Dio viene ad essi rivelando e proponendo le «esigenze» concrete della loro partecipazione all'amore di Cristo per la Chiesa in rapporto alla particolare situazione - familiare, sociale ed ecclesiale - nella quale si trovano.

La scoperta e l'obbedienza al disegno di Dio devono farsi «insieme» dalla comunità coniugale e familiare, attraverso la stessa esperienza umana dell'amore vissuto nello Spirito di Cristo tra gli sposi, tra i genitori e i figli.

Per questo, come la grande Chiesa, così anche la piccola Chiesa domestica ha bisogno di essere continuamente e intensamente evangelizzata: da qui il suo dovere di educazione permanente nella fede.

Il ministero di evangelizzazione della famiglia cristiana

52. Nella misura in cui la famiglia cristiana accoglie il Vangelo e matura nella fede diventa comunità evangelizzante. Riascoltiamo Paolo VI: «La famiglia, come la Chiesa, deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia. Dunque nell'intimo di una famiglia cosciente di questa missione tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo stesso Vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell'ambiente nel quale è inserita» («Evangelii Nuntiandi», 71).

Come ha ripetuto il Sinodo, riprendendo il mio appello lanciato a Puebla, la futura evangelizzazione dipende in gran parte dalla Chiesa domestica (cfr. Discorso alla III Assemblea Generale dei Vescovi dell'America Latina, IV, a [28 Gennaio 1979]: AAS 71 [1979] 204). Questa missione apostolica della famiglia è radicata nel battesimo e riceve dalla grazia sacramentale del matrimonio una nuova forza per trasmettere la fede. per santificare e trasformare l'attuale società secondo il disegno di Dio.

La famiglia cristiana, soprattutto oggi, ha una speciale vocazione ad essere testimone dell'alleanza pasquale di Cristo, mediante la costante irradiazione della gioia dell'amore e della sicurezza della speranza, della quale deve rendere ragione: «La famiglia cristiana proclama ad alta voce e le virtù presenti del Regno di Dio e la speranza della vita beata» («Lumen Gentium», 35).

L'assoluta necessità della catechesi familiare emerge con singolare forza in determinate situazioni, che la Chiesa purtroppo registra in diversi luoghi: «Laddove una legislazione antireligiosa pretende persino di impedire l'educazione alla fede, laddove una diffusa miscredenza o un invadente secolarismo rendono praticamente impossibile una vera crescita religiosa, questa che si potrebbe chiamare "Chiesa domestica" resta l'unico ambiente, in cui fanciulli e giovani possono ricevere una autentica catechesi» (Giovanni Paolo PP. II «Catechesi Tradendae», 68).

Un servizio ecclesiale

53. Il ministero di evangelizzazione dei genitori cristiani è originale e insostituibile: assume le connotazioni tipiche della vita familiare, intessuta come dovrebbe essere d'amore, di semplicità, di concretezza e di testimonianza quotidiana (cfr. ibid. 36).

La famiglia deve formare i figli alla vita, in modo che ciascuno adempia in pienezza il suo compito secondo la vocazione ricevuta da Dio. Infatti, la famiglia che è aperta ai valori trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo, diventa il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio.

Il ministero di evangelizzazione e di catechesi dei genitori deve accompagnare la vita dei figli anche negli anni della loro adolescenza e giovinezza, quando questi, come spesso avviene, contestano o addirittura rifiutano la fede cristiana ricevuta nei primi anni della loro vita. Come nella Chiesa l'opera di evangelizzazione non va mai disgiunta dalla sofferenza dell'apostolo, così nella famiglia cristiana i genitori devono affrontare con coraggio e con grande serenità d'animo le difficoltà, che il loro ministero di evangelizzazione alcune volte incontra negli stessi figli.

Non si dovrà dimenticare che il servizio svolto dai coniugi e dai genitori cristiani in favore del Vangelo è essenzialmente un servizio ecclesiale, rientra cioè nel contesto dell'intera Chiesa quale comunità evangelizzata ed evangelizzante. In quanto radicato e derivato dall'unica missione della Chiesa ed in quanto ordinato all'edificazione dell'unico Corpo di Cristo (cfr. 1Cor 12,4ss; Ef 4,12s), il ministero di evangelizzazione e di catechesi della Chiesa domestica deve restare in intima comunione e deve responsabilmente armonizzarsi con tutti gli altri servizi di evangelizzazione e di catechesi, presenti e operanti nella comunità ecclesiale, sia diocesana sia parrocchiale.

Predicare il Vangelo ad ogni creatura

54. L'universalità senza frontiere è l'orizzonte proprio dell'evangelizzazione, interiormente animata dallo slancio missionario: è infatti la risposta alla esplicita ed inequivocabile consegna di Cristo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15).

Anche la fede e la missione evangelizzatrice della famiglia cristiana posseggono questo respiro missionario cattolico. Il sacramento del matrimonio, che riprende e ripropone il compito, radicato nel battesimo e nella cresima, di difendere e diffondere la fede (cfr. «Lumen Gentium», 11), costituisce i coniugi e i genitori cristiani testimoni di Cristo «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8), veri e propri «missionari» dell'amore e della vita.

Una certa forma di attività missionaria può essere svolta già all'interno della famiglia. Ciò avviene quando qualche componente di essa non ha la fede o non la pratica con coerenza. In tale caso i congiunti devono offrirgli una testimonianza vissuta della loro fede, che lo stimoli e lo sostenga nel cammino verso la piena adesione a Cristo Salvatore (cfr. 1Pt 3,1s).

Animata dallo spirito missionario già al proprio interno, la Chiesa domestica è chiamata ad essere un segno luminoso della presenza di Cristo e del suo amore anche per i «lontani», per le famiglie che non credono ancora e per le stesse famiglie cristiane che non vivono più in coerenza con la fede ricevuta: è chiamata «col suo esempio e con la sua testimonianza» a illuminare «quelli che cercano la verità» (cfr. «Lumen Gentium», 35; «Apostolicam Actuositatem», 11).

Come già agli albori del cristianesimo Aquila e Priscilla si presentavano come coppia missionaria (cfr. At 18; Rm 16,3s), così oggi la Chiesa testimonia la sua incessante novità e fioritura con la presenza di coniugi e di famiglie cristiane che, almeno per un certo periodo di tempo, vanno nelle terre di missione ad annunciare il Vangelo, servendo l'uomo con l'amore di Gesù Cristo.

Le famiglie cristiane portano un particolare contributo alla causa missionaria della Chiesa coltivando le vocazioni missionarie in mezzo ai loro figli e figlie (cfr. «Ad Gentes», 39) e, più generalmente, con un'opera educativa che fa «disporre i loro figli, fin dalla giovinezza, a riconoscere l'amore di Dio verso tutti gli uomini» («Apostolicam Actuositatem», 30).

2) La famiglia cristiana comunità in dialogo con Dio

Il santuario domestico della Chiesa

55. L'annuncio del Vangelo e la sua accoglienza nella fede raggiungono la loro pienezza nella celebrazione sacramentale. La Chiesa, comunità credente ed evangelizzante, e anche popolo sacerdotale, rivestito cioè della dignità e partecipe della potestà di Cristo Sacerdote Sommo della Nuova ed Eterna Alleanza. (cfr. «Lumen Gentium», 10).

Anche la famiglia cristiana è inserita nella Chiesa, popolo sacerdotale: mediante il sacramento del matrimonio, nel quale è radicata e da cui trae alimento, essa viene continuamente vivificata dal Signore Gesù, e da Lui chiamata e impegnata al dialogo con Dio mediante la vita sacramentale, l'offerta della propria esistenza e la preghiera.

E' questo il compito sacerdotale che la famiglia cristiana può e deve esercitare in intima comunione con tutta la Chiesa, attraverso le realtà quotidiane della vita coniugale e familiare: in tal modo la famiglia cristiana è chiamata a santificarsi ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo.

Il matrimonio sacramento di mutua santificazione e atto di culto

56. Fonte propria e mezzo originale di santificazione per i coniugi e per la famiglia cristiana è il sacramento del matrimonio, che riprende e specifica la grazia santificante del battesimo. In virtù del mistero della morte e risurrezione di Cristo, entro cui il matrimonio cristiano nuovamente inserisce, l'amore coniugale viene purificato e santificato: «il Signore si è degnato di sanare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e di carità» («Gaudium et Spes», 49).

Il dono di Gesù Cristo non si esaurisce nella celebrazione del sacramento del matrimonio, ma accompagna i coniugi lungo tutta la loro esistenza. Lo ricorda esplicitamente il Concilio Vaticano II, quando dice che Gesù Cristo «rimane con loro perché, come Egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per lei, così anche i coniugi possano amarsi l'un l'altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione... Per questo motivo i coniugi cristiani sono corroborati e sono consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato. Ed essi, compiendo in forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare, penetrati dallo Spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione, e perciò partecipano alla glorificazione di Dio («Gaudium et Spes», 48).

La vocazione universale alla santità è rivolta anche ai coniugi e ai genitori cristiani: viene per essi specificata dal sacramento celebrato e tradotta concretamente nelle realtà proprie della esistenza coniugale e familiare («Lumen Gentium», 41). Nascono di qui la grazia e l'esigenza di una autentica e profonda spiritualità coniugale e familiare, che si ispiri ai motivi della creazione, dell'alleanza, della Croce, della risurrezione e del segno, sui quali più volte si è soffermato il Sinodo.

Il matrimonio cristiano, come tutti i sacramenti che «sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo, e, infine a rendere culto a Dio» («Sacrosantum Concilium», 59), è in se stesso un atto liturgico di glorificazione di Dio in Gesù Cristo e nella Chiesa: celebrandolo, i coniugi cristiani professano la loro gratitudine a Dio per il sublime dono ad essi elargito di poter rivivere nella loro esistenza coniugale e familiare l'amore stesso di Dio per gli uomini e del Signore Gesù per la Chiesa sua sposa.

E come dal sacramento derivano ai coniugi il dono dell'obbligo di vivere quotidianamente la santificazione ricevuta, così dallo stesso sacramento discendono la grazia e l'impegno morale di trasformare tutta la loro vita in un continuo «sacrificio spirituale» (cfr. 1Pt 2,5; «Lumen Gentium», 34). Anche agli sposi e ai genitori cristiani, in particolare per quelle realtà terrene e temporali che li caratterizzano, si applicano le parole del Concilio: «Così anche i laici, in quanto adoratori dappertutto santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso» («Lumen Gentium», 34).

Matrimonio ed Eucaristia

57. II compito di santificazione della famiglia cristiana ha la sua prima radice nel battesimo e la sua massima espressione nell'Eucaristia, alla quale è intimamente legato il matrimonio cristiano. Il Concilio Vaticano II ha voluto richiamare la speciale relazione che esiste tra l'Eucaristia e il matrimonio, chiedendo che questo «in via ordinaria si celebri nella Messa» («Sacrosantum Concilum», 78): riscoprire e approfondire tale relazione è del tutto necessario, se si vogliono comprendere e vivere con maggior intensità le grazie e le responsabilità del matrimonio e della famiglia cristiana.

L'Eucaristia è la fonte stessa del matrimonio cristiano. Il sacrificio eucaristico, infatti, ripresenta l'alleanza di amore di Cristo con la Chiesa, in quanto sigillata con il sangue della sua Croce (cfr. Gv 19,34). E' in questo sacrificio della Nuova ed Eterna Alleanza che i coniugi cristiani trovano la radice dalla quale scaturisce, è interiormente plasmata e continuamente vivificata la loro alleanza coniugale. In quanto ripresentazione del sacrificio d'amore di Cristo per la Chiesa, l'Eucaristia è sorgente di carità. E nel dono eucaristico della carità la famiglia cristiana trova il fondamento e l'anima della sua «comunione» e della sua «missione»: il Pane eucaristico fa dei diversi membri della comunità familiare un unico corpo, rivelazione e partecipazione della più ampia unità della Chiesa; la partecipazione poi al Corpo «dato» e al Sangue «versato» di Cristo diventa inesauribile sorgente del dinamismo missionario ed apostolico della famiglia cristiana.

Il Sacramento della conversione e della riconciliazione

58. Parte essenziale e permanente del compito di santificazione della famiglia cristiana è l'accoglienza dell'appello evangelico alla conversione rivolto a tutti i cristiani, che non sempre rimangono fedeli alla «novità» di quel battesimo, che li ha costituiti «santi». Anche la famiglia cristiana non è sempre coerente con la legge della grazia e della santità battesimale, proclamata nuovamente dal sacramento del matrimonio.

Il pentimento e il perdono vicendevole in seno alla famiglia cristiana, che tanta parte hanno nella vita quotidiana, trovano il momento sacramentale specifico nella penitenza cristiana. A riguardo dei coniugi così scriveva Paolo VI nell'enciclica «Humanae vitae»: «Se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita con abbondanza nel sacramento della penitenza» (num. 25).

La celebrazione di questo sacramento acquista un significato particolare per la vita familiare: mentre nella fede scoprono come il peccato contraddice non solo all'alleanza con Dio ma anche all'alleanza dei coniugi e alla comunione della famiglia, gli sposi e tutti i membri della famiglia sono condotti all'incontro con Dio «ricco di misericordia» (Ef 2,4), il quale, elargendo il suo amore che è più potente del peccato (cfr. Giovanni Paolo PP: II «Dives in Misericordia», 13), ricostruisce e perfeziona l'alleanza coniugale e la comunione familiare.

La preghiera familiare

59. La Chiesa prega per la famiglia cristiana e la educa a vivere in generosa coerenza con il dono e il compito sacerdotale, ricevuti da Cristo Sommo Sacerdote. In realtà, il sacerdozio battesimale dei fedeli, vissuto nel matrimonio-sacramento, costituisce per i coniugi e per la famiglia il fondamento di una vocazione e di una missione sacerdotale, per la quale le loro esistenze quotidiane si trasformano in «sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (cfr. 1Pt 2,5): è quanto avviene, non solo con la celebrazione dell'Eucaristia e degli altri sacramenti e con l'offerta di se stessi alla gloria di Dio, ma anche con la vita di preghiera, con il dialogo orante col Padre per Gesù Cristo nello Spirito Santo.

La preghiera familiare ha sue caratteristiche. E' una preghiera fatta in comune, marito e moglie insieme, genitori e figli insieme. La comunione nella preghiera è, ad un tempo, frutto ed esigenza di quella comunione che viene donata dai sacramenti del battesimo e del matrimonio. Ai membri della famiglia cristiana si possono applicare in modo particolare le parole con le quali il Signore Gesù promette la sua presenza: «In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,19s).

Tale preghiera ha come contenuto originale la stessa vita di famiglia, che in tutte le sue diverse circostanze viene interpretata come vocazione di Dio e attuata come risposta filiale al suo appello: gioie e dolori, speranze e tristezze, nascite e compleanni, anniversari delle nozze dei genitori, partenze, lontananze e ritorni, scelte importanti e decisive, la morte di persone care, ecc. segnano l'intervento dell'amore di Dio nella storia della famiglia, così come devono segnare il momento favorevole per il rendimento di grazie, per l'implorazione, per l'abbandono fiducioso della famiglia al comune Padre che sta nei cieli. La dignità, poi, e la responsabilità della famiglia cristiana come Chiesa domestica possono essere vissute solo con l'aiuto incessante di Dio, che immancabilmente sarà concesso, se sarà implorato con umiltà e fiducia nella preghiera.

Educatori di preghiera

60. In forza della loro dignità e missione, i genitori cristiani hanno il compito specifico di educare i figli alla preghiera, di introdurli nella progressiva scoperta del mistero di Dio e nel colloquio con lui: «Soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita della grazia e della missione del matrimonio-sacramento, i figli fin dalla più tenera età devono imparare a percepire il senso di Dio e a venerarlo e ad amare il prossimo secondo la fede che hanno ricevuto nel battesimo» («Gravissimum Educationis», 5; cfr. Giovanni Paolo PP. II «Catechesi Tradendae», 36).

Elemento fondamentale e insostituibile dell'educazione alla preghiera è l'esempio concreto, la testimonianza viva dei genitori: solo pregando insieme con i figli, il padre e la madre, mentre portano a compimento il proprio sacerdozio regale, scendono in profondità nel cuore dei figli, lasciando tracce che i successivi eventi della vita non riusciranno a cancellare. Riascoltiamo l'appello che Paolo VI ha rivolto ai genitori: «Mamme, le insegnate ai vostri bambini le preghiere del cristiano? Li preparate, in consonanza con i sacerdoti, i vostri figli ai sacramenti della prima età: confessione, comunione, cresima? Li abituate, se ammalati, a pensare a Cristo sofferente? A invocare l'aiuto della Madonna e dei santi? Lo dite il Rosario in famiglia? E voi, papà, sapete pregare con i vostri figliuoli, con tutta la comunità domestica, almeno qualche volta? L'esempio vostro, nella rettitudine del pensiero e dell'azione, suffragato da qualche preghiera comune, vale una lezione di vita, vale un atto di culto di singolare merito; portate così la pace nelle pareti domestiche: "Pax huic domui!" Ricordate: così costruite la Chiesa!» (Discorso all'Udienza generale [11 agosto 1976]: «Insegnamenti di Paolo VI», XIV [1976] 640).

Preghiera liturgica e privata

61. Tra la preghiera della Chiesa e quella dei singoli fedeli vi è un profondo e vitale rapporto, come ha chiaramente riaffermato il Concilio Vaticano II (cfr. «Sacrosantum Concilium», 12). Ora una finalità importante della preghiera della Chiesa domestica è di costituire, per i figli, la naturale introduzione alla preghiera liturgica propria dell'intera Chiesa, nel senso sia di preparare ad essa, sia di estenderla nell'ambito della vita personale, familiare e sociale. Di qui la necessità di una progressiva partecipazione di tutti i membri della famiglia cristiana all'Eucaristia, soprattutto domenicale e festiva, e agli altri sacramenti, in particolare quelli dell'iniziazione cristiana dei figli. Le direttive conciliari hanno aperto una nuova possibilità alla famiglia cristiana, che è stata annoverata tra i gruppi ai quali si raccomanda la celebrazione comunitaria dell'Ufficio divino (cfr. «Institutio Generalis de Liturgia Horarum» 27). Così pure sarà cura della famiglia cristiana celebrare, anche nella casa e in forma adatta ai suoi membri, i tempi e le festività dell'anno liturgico.

Per preparare e prolungare nella casa il culto celebrato nella Chiesa, la famiglia cristiana ricorre alla preghiera privata, che presenta una grande varietà, di forme: questa varietà mentre testimonia la straordinaria ricchezza secondo cui lo Spirito anima la preghiera cristiana, viene incontro alle diverse esigenze e situazioni di vita di chi si rivolge al Signore. Oltre alla preghiera del mattino e della sera, sono espressamente da consigliare, seguendo anche le indicazioni dei Padri Sinodali: la lettura e la meditazione della Parola di Dio, la preparazione ai sacramenti, la devozione e consacrazione al Cuore di Gesù, le varie forme di culto alla Vergine Santissima, la benedizione della mensa, l'osservanza della pietà popolare.

Nel rispetto della libertà dei figli di Dio, la Chiesa ha proposto e continua a proporre ai fedeli alcune pratiche di pietà con una particolare sollecitudine ed insistenza. Tra queste è da ricordare la recita del Rosario: «Vogliamo ora, in continuità con i nostri predecessori, raccomandare vivamente la recita del santo Rosario in famiglia... Non v'è dubbio che la Corona della beata Vergine Maria sia da ritenere come una delle più eccellenti ed efficaci preghiere in comune, che la famiglia cristiana è invitata a recitare. Noi amiamo, infatti, pensare e vivamente auspichiamo che, quando l'incontro familiare diventa tempo di preghiera. il Rosario ne sia espressione frequente e gradita» (Paolo PP. VI «Marialis Cultus», 52-54). Così l'autentica devozione mariana, che si esprime nel vincolo sincero e nella generosa sequela degli atteggiamenti spirituali della Vergine Santissima, costituisce uno strumento privilegiato per alimentare la comunione d'amore della famiglia e per sviluppare la spiritualità coniugale e familiare. Lei, la Madre di Cristo e della Chiesa, è infatti in maniera speciale anche la Madre delle famiglie cristiane delle Chiese domestiche.

Preghiera e vita

62. Non si dovrà mai dimenticare che la preghiera è parte costitutiva essenziale della vita cristiana, colta nella sua integralità e centralità, anzi appartiene alla nostra stessa «umanità»: è «la prima espressione della verità interiore dell'uomo, la prima condizione dell'autentica libertà dello spirito» (Giovanni Paolo PP. II, Discorso al Santuario della Mentorella [29 Ottobre 1978]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978] 78 s.).

Per questo la preghiera non rappresenta affatto un'evasione dall'impegno quotidiano, ma costituisce la spinta più forte perché la famiglia cristiana assuma ed assolva in pienezza tutte le sue responsabilità di cellula prima e fondamentale della società umana. In tal senso, l'effettiva partecipazione alla vita e missione della Chiesa nel mondo è proporzionale alla fedeltà e all'intensità della preghiera con la quale la famiglia cristiana si unisce alla Vite feconda, che è Cristo Signore (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 4).

Dall'unione vitale con Cristo, alimentata dalla liturgia, dall'offerta di sé e dalla preghiera, deriva pure la fecondità della famiglia cristiana nel suo specifico servizio di promozione umana, che di per se non può non portare alla trasformazione del mondo (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso ai Vescovi della XII Regione Pastorale degli Stati Uniti d'America [21 Settembre 1978]: ASS 70 [1978] 767).

3) La famiglia cristiana comunità al servizio dell'uomo

Il comandamento nuovo dell'amore

63. La Chiesa, popolo profetico-sacerdotale-regale, ha la missione di portare tutti gli uomini ad accogliere nella fede la Parola di Dio, e celebrarla e professarla nei sacramenti e nella preghiera, ed infine a manifestarla nella concretezza della vita secondo il dono e il comandamento nuovo dell'amore.

La vita cristiana trova la sua legge non in un codice scritto, ma nell'azione personale dello Spirito Santo che anima e guida il cristiano, cioè nella «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2): «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Ibid. 5,5).

Ciò ha valore anche per la coppia e per la famiglia cristiana: loro guida e norma è lo Spirito di Gesù, diffuso nei cuori con la celebrazione del sacramento del matrimonio. In continuità col battesimo nell'acqua e nello Spirito il matrimonio ripropone la legge evangelica dell'amore e col dono dello Spirito la incide più a fondo nel cuore dei coniugi cristiani: il loro amore, purificato e salvato, è frutto dello Spirito, che agisce nel cuore dei credenti, e si pone, nello stesso tempo, come il comandamento fondamentale della vita morale richiesta alla loro libertà responsabile.

La famiglia cristiana viene così animata e guidata con la legge nuova dello Spirito ed in intima comunione con la Chiesa, popolo regale, è chiamata a vivere il suo «servizio» d'amore a Dio e ai fratelli. Come Cristo esercita la sua potestà regale ponendosi al servizio degli uomini (Mc 10,45), così il cristiano trova il senso autentico della sua partecipazione alla regalità del suo Signore nel condividerne lo spirito e il comportamento di servizio nei confronti dell'uomo: «Questa potestà Egli (Cristo) l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato (cfr. Rm 6,12), anzi, servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re, servire al quale è regnare. Il Signore infatti desidera dilatare il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici, il regno cioè "della verità e della vita, il regno della santità e della grazia, il regno della giustizia, dell'amore e della pace"; e in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21)» («Lumen Gentium», 36).

Scoprire in ogni fratello l'immagine di Dio

64. Animata e sostenuta dal comandamento nuovo dell'amore, la famiglia cristiana vive l'accoglienza, il rispetto, il servizio verso ogni uomo, considerato sempre nella sua dignità di persona e di figlio di Dio.

Ciò deve avvenire, anzitutto, all'interno e a favore della coppia e della famiglia, mediante il quotidiano impegno a promuovere un'autentica comunità di persone, fondata e alimentata dall'interiore comunione di amore. Ciò deve poi svilupparsi entro la più vasta cerchia della comunità ecclesiale, entro cui la famiglia cristiana è inserita: grazie alla carità della famiglia, la Chiesa può e deve assumere una dimensione più domestica, cioè più familiare, adottando uno stile più umano e fraterno di rapporti.

La carità va oltre i propri fratelli di fede, perché «ogni uomo è mio fratello»; in ciascuno, soprattutto se povero, debole, sofferente e ingiustamente trattato, la carità sa scoprire il volto di Cristo e un fratello da amare e da servire.

Perché il servizio dell'uomo sia vissuto dalla famiglia secondo lo stile evangelico, occorrerà attuare con premura quanto scrive il Concilio Vaticano II: «Affinché tale esercizio di carità possa essere al di sopra di ogni sospetto e manifestarsi tale, si consideri nel prossimo l'immagine di Dio secondo cui è stato creato, e Cristo Signore al quale veramente è donato quanto si dà al bisognoso» («Apostolicam Actuositatem», 8)

La famiglia cristiana, mentre nella carità edifica la Chiesa, si pone al servizio dell'uomo e del mondo, attuando veramente quella «promozione umana», il cui contenuto è stato sintetizzato nel Messaggio del Sinodo alle famiglie: «Un altro compito della famiglia è quello di formare gli uomini all'amore e di praticare l'amore in ogni rapporto con gli altri, cosicché essa non si chiuda in se stessa, bensì rimanga aperta alla comunità, essendo mossa dal senso della giustizia e dalla sollecitudine verso gli altri, nonché dal dovere della propria responsabilità verso la società intera» (Messaggio del VI Sinodo dei Vescovi alle Famiglie cristiane nel mondo contemporaneo, 12 [24 Ottobre 1980]).

PARTE QUARTA

LA PASTORALE FAMILIARE: TEMPI, STRUTTURE, OPERATORI E SITUAZIONI

I. I tempi della pastorale familiare

La Chiesa accompagna la famiglia cristiana nel suo cammino

65. Come ogni realtà vivente, anche la famiglia è chiamata a svilupparsi e a crescere. Dopo la preparazione del fidanzamento e la celebrazione sacramentale del matrimonio, la coppia inizia il cammino quotidiano verso la progressiva attuazione dei valori e dei doveri del matrimonio stesso.

Alla luce della fede e in virtù della speranza, anche la famiglia cristiana partecipa, in comunione con la Chiesa, all'esperienza del pellegrinaggio terreno verso la piena rivelazione e realizzazione del Regno di Dio.

Perciò è da sottolineare una volta di più l'urgenza dell'intervento pastorale della Chiesa a sostegno della famiglia. Bisogna fare ogni sforzo perché la pastorale della famiglia si affermi e si sviluppi, dedicandosi a un settore veramente prioritario, con la certezza che l'evangelizzazione, in futuro, dipende in gran parte dalla Chiesa domestica (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso alla III Assemblea Generale dei Vescovi dell'America Latina, IV, a [28 Gennaio 1979]: AAS 71 [1979] 204).

La sollecitudine pastorale della Chiesa non si limiterà soltanto alle famiglie cristiane più vicine, ma, allargando i propri orizzonti sulla misura del Cuore di Cristo, si mostrerà ancor più viva per l'insieme delle famiglie in genere, e per quelle, in particolare, che si trovano in situazioni difficili o irregolari. Per tutte la Chiesa avrà una parola di verità, di bontà, di comprensione, di speranza, di viva partecipazione alle loro difficoltà a volte drammatiche; a tutte offrirà il suo aiuto disinteressato affinché possano avvicinarsi al modello di famiglia, che il Creatore ha voluto fin dal «principio» e che Cristo ha rinnovato con la sua grazia redentrice.

L'azione pastorale della Chiesa deve essere progressiva, anche nel senso che deve seguire la famiglia, accompagnandola passo a passo nelle diverse tappe della sua formazione e del suo sviluppo.

La preparazione

66. Più che mai necessaria ai nostri giorni è la preparazione dei giovani al matrimonio e alla vita familiare. In alcuni Paesi sono ancora le famiglie stesse che, secondo antiche usanze, si riservano di trasmettere ai giovani i valori riguardanti la vita matrimoniale e familiare, mediante una progressiva opera di educazione o iniziazione. Ma i mutamenti sopravvenuti in seno a quasi tutte le società moderne esigono che non solo la famiglia, ma anche la società e la Chiesa siano impegnate nello sforzo di preparare adeguatamente i giovani alle responsabilità del loro domani. Molti fenomeni negativi che oggi si lamentano nella vita familiare derivano dal fatto che, nelle nuove situazioni, i giovani non solo perdono di vista la giusta gerarchia dei valori, ma, non possedendo più criteri sicuri di comportamento, non sanno come affrontare e risolvere le nuove difficoltà. L'esperienza però insegna che i giovani ben preparati alla vita familiare in genere riescono meglio degli altri.

Ciò vale ancor più per il matrimonio cristiano, il cui influsso si estende sulla santità di tanti uomini e donne. Per questo la Chiesa deve promuovere migliori e più intensi programmi di preparazione al matrimonio, per eliminare, il più possibile, le difficoltà in cui si dibattono tante coppie a ancor più per favorire positivamente il sorgere e il maturare dei matrimoni riusciti.

La preparazione al matrimonio va vista e attuata come un processo graduale e continuo. Essa, infatti, comporta tre principali momenti: una preparazione remota, una prossima e una immediata.

La preparazione remota ha inizio fin dall'infanzia, in quella saggia pedagogia familiare, orientata a condurre i fanciulli a scoprire se stessi come esseri dotati di una ricca e complessa psicologia e di una personalità particolare con le proprie forze e debolezze. E' il periodo in cui va istillata la stima per ogni autentico valore umano, sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli sociali, con quel che ciò significa per la formazione del carattere, per il dominio ed il retto uso delle proprie inclinazioni, per il modo di considerare e incontrare le persone dell'altro sesso, e così via. E' richiesta, inoltre, specialmente per i cristiani, una solida formazione spirituale e catechetica, che sappia mostrare nel matrimonio una vera vocazione e missione, senza escludere la possibilità del dono totale di sé a Dio nella vocazione alla vita sacerdotale o religiosa.

Su questa base in seguito si imposterà, a largo respiro, la preparazione prossima, la quale - dall'età opportuna e con un'adeguata catechesi, come in un cammino catecumenale - comporta una più specifica preparazione ai sacramenti, quasi una loro riscoperta. Questa rinnovata catechesi di quanti si preparano al matrimonio cristiano è del tutto necessaria, affinché il sacramento sia celebrato e vissuto con le dovute disposizioni morali e spirituali. La formazione religiosa dei giovani dovrà essere integrata, al momento conveniente e secondo le varie esigenze concrete, da una preparazione alla vita a due che, presentando il matrimonio come un rapporto interpersonale dell'uomo e della donna da svilupparsi continuamente, stimoli ad approfondire i problemi della sessualità coniugale e della paternità responsabile, con le conoscenze medico-biologiche essenziali che vi sono connesse, ed avvii alla familiarità con retti metodi di educazione dei figli, favorendo l'acquisizione degli elementi di base per un'ordinata conduzione della famiglia (lavoro stabile, sufficiente disponibilità finanziaria, saggia amministrazione, nozioni di economia domestica, ecc.).

lnfine non si dovrà tralasciare la preparazione all'apostolato familiare, alla fraternità e collaborazione con le altre famiglie, all'inserimento attivo in gruppi, associazioni, movimenti e iniziative che hanno per finalità il bene umano e cristiano della famiglia.

La preparazione immediata a celebrare il sacramento del matrimonio deve aver luogo negli ultimi mesi e settimane che precedono le nozze quasi a dare un nuovo significato, nuovo contenuto e forma nuova al cosiddetto esame prematrimoniale richiesto dal diritto canonico. Sempre necessaria in ogni caso, tale preparazione si impone con maggiore urgenza per quei fidanzati che ancora presentassero carenze e difficoltà nella dottrina e nella pratica cristiana.

Tra gli elementi da comunicare in questo cammino di fede, analogo al catecumenato, ci deve essere anche una conoscenza approfondita del mistero di Cristo e della Chiesa, dei significati di grazia e di responsabilità del matrimonio cristiano, nonché la preparazione a prendere parte attiva e consapevole ai riti della liturgia nuziale.

Alle diverse fasi della preparazione al matrimonio - che abbiamo descritto solo a grandi linee indicative - devono sentirsi impegnate la famiglia cristiana e tutta la comunità ecclesiale. E' auspicabile che le conferenze episcopali, come sono interessate ad opportune iniziative per aiutare i futuri sposi ad essere più consapevoli della serietà della loro scelta e i pastori d'anime ad accertarsi delle loro convenienti disposizioni, così curino che sia emanato un Direttorio per la pastorale della famiglia. In esso si dovranno stabilire, anzitutto, gli elementi minimi di contenuto, di durata e di metodo dei «Corsi di preparazione», equilibrando fra loro i diversi aspetti - dottrinali, pedagogici, legali e medici - che interessano il matrimonio, e strutturandoli in modo che quanti si preparano al matrimonio, al di là di un approfondimento intellettuale, si sentano spinti ad inserirsi vitalmente nella comunità ecclesiale.

Benché il carattere di necessità e di obbligatorietà della preparazione immediata al matrimonio non sia da sottovalutare - ciò che succederebbe qualora se ne concedesse facilmente la dispensa - tuttavia, tale preparazione, deve essere sempre proposta e attuata in modo che la sua eventuale omissione non sia di impedimento per la celebrazione delle nozze.

La celebrazione

67. Il matrimonio cristiano richiede di norma una celebrazione liturgica, che esprima in forma sociale e comunitaria la natura essenzialmente ecclesiale e sacramentale del patto coniugale fra i battezzati.

In quanto gesto sacramentale di santificazione, la celebrazione del matrimonio - inserita nella liturgia, culmine di tutta l'azione della Chiesa e fonte della sua forza santificatrice (cfr. «Sacrosantum Concilium» 10) - deve essere per sé valida, degna e fruttuosa. Si apre qui un vasto campo alla sollecitudine pastorale, affinché siano pienamente assolte le esigenze derivanti dalla natura del patto coniugale elevato a sacramento, e sia altresì fedelmente osservata la disciplina della Chiesa per quanto riguarda il libero consenso, gli impedimenti, la forma canonica e il rito stesso della celebrazione. Quest'ultimo dev'essere semplice e dignitoso, secondo le norme delle competenti autorità della Chiesa, alle quali spetta pure - secondo le concrete circostanze di tempo e di luogo e in conformità con le norme impartite dalla Sede Apostolica (cfr. «Ordo celebrandi Matrimonium», 17) - di assumere eventualmente nella celebrazione liturgica quegli elementi propri di ciascuna cultura, che meglio valgono ad esprimere il profondo significato umano e religioso del patto coniugale purché nulla contengano di meno confacente con la fede e la morale cristiana.

In quanto segno, la celebrazione liturgica deve svolgersi in modo da costituire, anche nella sua realtà esteriore, una proclamazione della Parola di Dio e una professione di fede della comunità dei credenti. L'impegno pastorale si esprimerà qui con la cura intelligente e diligente della «liturgia della Parola» e con l'educazione alla fede dei partecipanti alla celebrazione e, in primo luogo, dei nubendi.

In quanto gesto sacramentale della Chiesa, la celebrazione liturgica del matrimonio deve coinvolgere la comunità cristiana, con la partecipazione piena, attiva e responsabile di tutti i presenti, secondo il posto e il compito di ciascuno: gli sposi, il sacerdote, i testimoni, i parenti, gli amici, gli altri fedeli, tutti membri di un'assemblea che manifesta e vive il mistero di Cristo e della sua Chiesa.

Per la celebrazione del matrimonio cristiano nell'ambito delle culture o tradizioni ancestrali, si seguano i principi qui sopra enunziati.

Celebrazione del matrimonio ed evangelizzazione dei battezzati non credenti

68. Proprio perché nella celebrazione del sacramento una attenzione tutta speciale va riservata alle disposizioni morali e spirituali dei nubendi, in particolare alla loro fede, va qui affrontata una difficoltà non infrequente, nella quale possono trovarsi i pastori della Chiesa nel contesto della nostra società secolarizzata.

La fede, infatti, di chi domanda alla Chiesa di sposarsi può esistere in gradi diversi ed è dovere primario dei pastori di farla riscoprire, di nutrirla e di renderla matura. Ma essi devono anche comprendere le ragioni che consigliano alla Chiesa di ammettere alla celebrazione anche chi è imperfettamente disposto.

Il sacramento del matrimonio ha questo di specifico fra tutti gli altri: di essere il sacramento di una realtà che già esiste nell'economia della creazione, di essere lo stesso patto coniugale istituito dal Creatore «al principio». La decisione dunque dell'uomo e della donna di sposarsi secondo questo progetto divino, la decisione cioè di impegnare nel loro irrevocabile consenso coniugale tutta la loro vita in un amore indissolubile ed in una fedeltà incondizionata, implica realmente, anche se non in modo pienamente consapevole, un atteggiamento di profonda obbedienza alla volontà di Dio, che non può darsi senza la sua grazia. Essi sono già, pertanto, inseriti in un vero e proprio cammino di salvezza, che la celebrazione del sacramento e l'immediata preparazione alla medesima possono completare e portare a termine, data la rettitudine della loro intenzione.

E' vero, d'altra parte, che in alcuni territori motivi di carattere più sociale che non autenticamente religioso spingono i fidanzati a chiedere di sposarsi in chiesa. La cosa non desta meraviglia. Il matrimonio, infatti, non è un avvenimento che riguarda solo chi si sposa. Esso è per sua stessa natura un fatto anche sociale, che impegna gli sposi davanti alla società. E da sempre la sua celebrazione è stata una festa, che unisce famiglie ed amici. Va da sé, dunque, che motivi sociali entrino, assieme a quelli personali, nella richiesta di sposarsi in chiesa.

Tuttavia, non si deve dimenticare che questi fidanzati, in forza del loro battesimo, sono realmente già inseriti nell'Alleanza sponsale di Cristo, con la Chiesa e che, per la loro retta intenzione, hanno accolto il progetto di Dio sul matrimonio e, quindi, almeno implicitamente, acconsentono a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il matrimonio. E, dunque, il solo fatto che in questa richiesta entrino anche motivi di carattere sociale non giustifica un eventuale rifiuto da parte dei pastori. Del resto, come ha insegnato il Concilio Vaticano II, i sacramenti con le parole e gli elementi rituali nutrono ed irrobustiscono la fede (cfr. «Sacrosantum Concilium», 59): quella fede verso cui i fidanzati già sono incamminati in forza della rettitudine della loro intenzione, che la grazia di Cristo non manca certo di favorire e di sostenere.

Voler stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione ecclesiale del matrimonio, che dovrebbero riguardare il grado di fede dei nubendi, comporta oltre tutto gravi rischi. Quello, anzitutto, di pronunciare giudizi infondati e discriminatori; il rischio, poi, di sollevare dubbi sulla validità di matrimoni già celebrati, con grave danno per le comunità cristiane, e di nuove ingiustificate inquietudini per la coscienza degli sposi; si cadrebbe nel pericolo di contestare o di mettere in dubbio la sacramentalità di molti matrimoni di fratelli separati dalla piena comunione con la Chiesa cattolica, contraddicendo così la tradizione ecclesiale.

Quando, al contrario, nonostante ogni tentativo fatto, i nubendi mostrano di rifiutare in modo esplicito e formale ciò che la Chiesa intende compiere quando si celebra il matrimonio dei battezzati, il pastore d'anime non può ammetterli alla celebrazione. Anche se a malincuore, egli ha il dovere di prendere atto della situazione e di far comprendere agli interessati che, stando così le cose, non è la Chiesa ma sono essi stessi ad impedire quella celebrazione che pure domandano.

Ancora una volta appare in tutta la sua urgenza la necessità di una evangelizzazione e catechesi pre e post-matrimoniale, messe in atto da tutta la comunità cristiana, perché ogni uomo ed ogni donna che si sposano, celebrino il sacramento del matrimonio non solo validamente ma anche fruttuosamente.

Pastorale post-matrimoniale

69. La cura pastorale della famiglia regolarmente costituita significa, in concreto, l'impegno di tutte le componenti della comunità ecclesiale locale nell'aiutare la coppia a scoprire e a vivere la sua nuova vocazione e missione. Perché la famiglia divenga sempre più una vera comunità di amore, è necessario che tutti i suoi membri siano aiutati e formati alle loro responsabilità di fronte ai nuovi problemi che si presentano, al servizio reciproco, alla compartecipazione attiva alla vita di famiglia.

Ciò vale soprattutto per le giovani famiglie, le quali, trovandosi in un contesto di nuovi valori e di nuove responsabilità, sono più esposte, specialmente nei primi anni di matrimonio, ad eventuali difficoltà, come quelle create dall'adattamento alla vita in comune o dalla nascita di figli. I giovani coniugi sappiano accogliere cordialmente e valorizzare intelligentemente l'aiuto discreto, delicato e generoso di altre coppie, che già da tempo vanno facendo l'esperienza del matrimonio e della famiglia. Così in seno alla comunità ecclesiale - grande famiglia formata da famiglie cristiane - si attuerà un mutuo scambio di presenza e di aiuto fra tutte le famiglie, ciascuna mettendo a servizio delle altre la propria esperienza umana, come pure i doni di fede e di grazia. Animato da vero spirito apostolico, questo aiuto da famiglia a famiglia costituirà uno dei modi più semplici, più efficaci e alla portata di tutti per trasfondere capillarmente quei valori cristiani, che sono il punto di partenza e di arrivo di ogni cura pastorale. In tal modo le giovani famiglie non si limiteranno solo a ricevere, ma a loro volta, così aiutate, diverranno fonte di arricchimento per le altre famiglie, già da tempo costituite, con la loro testimonianza di vita e il loro contributo fattivo.

Nell'azione pastorale verso le giovani famiglie, poi, la Chiesa dovrà riservare una specifica attenzione per educarle a vivere responsabilmente l'amore coniugale in rapporto alle sue esigenze di comunione e di servizio alla vita, come pure a conciliare l'intimità della vita di casa con la comune e generosa opera per edificare la Chiesa e la società umana. Quando, con l'avvento dei figli, la coppia diventa in senso pieno e specifico una famiglia, la Chiesa sarà ancora vicina ai genitori perché accolgano i loro figli e li amino come dono ricevuto dal Signore della vita, assumendo con gioia la fatica di servirli nella loro crescita umana e cristiana.

II. Strutture della pastorale familiare

L'azione pastorale è sempre espressione dinamica della realtà della Chiesa, impegnata nella sua missione di salvezza. Anche la pastorale familiare - forma particolare e specifica della pastorale - ha come suo principio operativo e come protagonista responsabile la Chiesa stessa, attraverso le sue strutture e i suoi operatori.

La comunità ecclesiale e in particolare la parrocchia

70. Comunità al tempo stesso salvata e salvante, la Chiesa deve essere qui considerata nella sua duplice dimensione universale e particolare: questa si esprime e si attua nella comunità diocesana, pastoralmente divisa in comunità minori fra cui si distingue, per la sua peculiare importanza, la parrocchia.

La comunione con la Chiesa universale non mortifica, ma garantisce e promuove la consistenza e l'originalità delle diverse Chiese particolari; queste ultime restano il soggetto operativo più immediato e più efficace per l'attuazione della pastorale familiare. In tal senso ogni Chiesa locale e, in termini più particolari, ogni comunità parrocchiale deve prendere più viva coscienza della grazia e della responsabilità che riceve dal Signore in ordine a promuovere la pastorale della famiglia. Ogni piano di pastorale organica, ad ogni livello, non deve mai prescindere dal prendere in considerazione la pastorale della famiglia.

Alla luce di tale responsabilità va compresa anche l'importanza di un'adeguata preparazione da parte di quanti verranno più specificamente impegnati in questo genere di apostolato. I sacerdoti, i religiosi e le religiose, fin dal tempo della loro formazione, vengano orientati e formati in maniera progressiva e adeguata ai rispettivi compiti. Fra le altre iniziative mi compiaccio di sottolineare la recente creazione in Roma, presso la Pontificia Università Lateranense, di un Istituto Superiore consacrato allo studio dei problemi della famiglia. Anche in alcune diocesi sono stati fondati Istituti di questo genere; i Vescovi s'impegnino affinché il più gran numero possibile di sacerdoti, prima di assumere responsabilità parrocchiali, vi frequentino corsi specializzati. Altrove corsi di formazione vengono periodicamente tenuti presso Istituti Superiori di studi teologici e pastorali. Tali iniziative vanno incoraggiate, sostenute, moltiplicate ed aperte, ovviamente, anche ai laici che presteranno la loro opera professionale (medica, legale, psicologica, sociale, educativa) in aiuto della famiglia.

La famiglia

71. Ma soprattutto dev'essere riconosciuto il posto singolare che, in questo campo, spetta alla missione dei coniugi e delle famiglie cristiane, in forza della grazia ricevuta nel sacramento. Tale missione dev'essere posta a servizio dell'edificazione della Chiesa, della costruzione del Regno di Dio nella storia. Ciò è richiesto come atto di docile obbedienza a Cristo Signore. Egli, infatti, in forza del matrimonio dei battezzati elevato a sacramento, conferisce agli sposi cristiani una peculiare missione di apostoli, inviandoli come operai nella sua vigna, e, in modo tutto speciale, in questo campo della famiglia.

In questa attività essi operano in comunione e collaborazione con gli altri membri della Chiesa, che pure s'impegnano a favore della famiglia, mettendo a frutto i loro doni e ministeri. Tale apostolato si svolgerà anzitutto in seno alla propria famiglia, con la testimonianza della vita vissuta in conformità della legge divina in tutti i suoi aspetti, con la formazione cristiana dei figli, con l'aiuto dato alla loro maturazione nella fede, con l'educazione alla castità, con la preparazione alla vita, con la vigilanza per preservarli dai pericoli ideologici e morali da cui spesso sono minacciati, col loro graduale e responsabile inserimento nella comunità ecclesiale e in quella civile, con l'assistenza e il consiglio nella scelta della vocazione, col mutuo aiuto tra i membri della famiglia per la comune crescita umana e cristiana, e così via. L'apostolato della famiglia, poi, si irradierà con opere di carità spirituale e materiale verso le altre famiglie, specialmente quelle più bisognose di aiuto e di sostegno, verso i poveri, i malati, gli anziani, gli handicappati, gli orfani, le vedove, i coniugi abbandonati, le madri nubili e quelle che, in situazioni difficili, sono tentate di disfarsi del frutto del loro seno, ecc.

Le associazioni di famiglie per le famiglie

72. Sempre nell'ambito della Chiesa, soggetto responsabile della pastorale familiare, sono da ricordare i diversi raggruppamenti di fedeli, nei quali si manifesta e si vive in qualche misura il mistero della Chiesa di Cristo. Sono perciò da riconoscere e valorizzare - ciascuna in rapporto alle caratteristiche, finalità, incidenze e metodi propri - le diverse comunità ecclesiali, i vari gruppi e i numerosi movimenti impegnati in vario modo, a diverso titolo e a diverso livello, nella pastorale familiare.

Per tale motivo il Sinodo ha espressamente riconosciuto l'utile apporto di tali associazioni di spiritualità, di formazione e di apostolato. Sarà loro compito suscitare nei fedeli un vivo senso di solidarietà, favorire una condotta di vita ispirata al Vangelo e alla fede della Chiesa, formare le coscienze secondo i valori cristiani e non sui parametri della pubblica opinione, stimolare alle opere di carità vicendevole e verso gli altri con uno spirito di apertura, che faccia delle famiglie cristiane una vera sorgente di luce e un sano fermento per le altre.

Similmente e desiderabile, che, con vivo senso del bene comune, le famiglie cristiane si impegnino attivamente a ogni livello anche in altre associazioni non ecclesiali. Alcune di tali associazioni si propongono la preservazione, trasmissione e tutela dei sani valori etici e culturali dei rispettivi popoli, lo sviluppo della persona umana, la protezione medica, giuridica e sociale della maternità e dell'infanzia, la giusta promozione della donna e la lotta a quanto mortifica la sua dignità, l'incremento della mutua solidarietà, la conoscenza dei problemi connessi con la responsabile regolazione della fecondità secondo i metodi naturali conformi alla dignità umana e alla dottrina della Chiesa. Altre mirano alla costruzione di un mondo più giusto e più umano, alla promozione di leggi giuste che favoriscano il retto ordine sociale nel pieno rispetto della dignità e di ogni legittima libertà dell'individuo e della famiglia, a livello sia nazionale sia internazionale, alla collaborazione con la scuola e con le altre istituzioni, che completano l'educazione dei figli, e così via

III. Operatori della pastorale familiare

Oltre che la famiglia - oggetto, ma anzitutto soggetto essa stessa della pastorale familiare - vanno ricordati anche gli altri principali operatori in questo particolare settore.

I vescovi ed i presbiteri

73. Il primo responsabile della pastorale familiare nella diocesi è il vescovo. Come Padre e Pastore egli dev'essere particolarmente sollecito di questo settore, senza dubbio prioritario, della pastorale. Ad esso deve consacrare interessamento, sollecitudine, tempo, personale, risorse; soprattutto, però, appoggio personale alle famiglie ed a quanti, nelle diverse strutture diocesane, lo aiutano nella pastorale della famiglia. Avrà particolarmente a cuore il proposito di far sì che la propria diocesi sia sempre più una vera «famiglia diocesana», modello e sorgente di speranza per tante famiglie che vi appartengono. La creazione del Pontificio Consiglio per la Famiglia va vista in questo contesto: essere un segno dell'importanza che attribuisco alla pastorale della famiglia nel mondo, e al tempo stesso uno strumento efficace per aiutare a promuoverla ad ogni livello.

I vescovi si valgono in modo particolare dei presbiteri, il cui compito - come ha espressamente sottolineato il Sinodo - costituisce parte essenziale del ministero della Chiesa verso il matrimonio e la famiglia. Lo stesso si dica di quei diaconi, ai quali eventualmente venga affidata la cura di questo settore pastorale.

La loro responsabilità si estende non solo ai problemi morali e liturgici, ma anche a quelli di carattere personale e sociale. Essi devono sostenere la famiglia nelle sue difficoltà e sofferenze, affiancandosi ai membri di essa, aiutandoli a vedere la loro vita alla luce del Vangelo. Non è superfluo notare che da tale missione, se esercitata col dovuto discernimento e con vero spirito apostolico, il ministro della Chiesa attinge nuovi stimoli ed energie spirituali anche per la propria vocazione e per l'esercizio stesso del ministero.

Tempestivamente e seriamente preparati a tale apostolato, il sacerdote o il diacono devono comportarsi costantemente, nei riguardi delle famiglie, come padre, fratello, pastore e maestro, aiutandole coi sussidi della grazia e illuminandole con la luce della verità. Il loro insegnamento e i loro consigli, quindi, dovranno essere sempre in piena consonanza col Magistero autentico della Chiesa, in modo da aiutare il Popolo di Dio a formarsi un retto senso della fede da applicare, poi, alla vita concreta. Tale fedeltà al Magistero consentirà pure ai sacerdoti di curare con ogni impegno l'unità nei loro giudizi, per evitare ai fedeli ansietà di coscienza.

Pastori e laici partecipano, nella Chiesa, alla missione profetica di Cristo: i laici, testimoniando la fede con le parole e con la vita cristiana; i pastori, discernendo in tale testimonianza ciò che è espressione di fede genuina da ciò che è meno rispondente alla luce della fede; la famiglia, in quanto comunità cristiana, con la sua peculiare partecipazione e testimonianza di fede. Si avvia così un dialogo anche tra i pastori e le famiglie. I teologi e gli esperti di problemi familiari possono essere di grande aiuto a tale dialogo, spiegando esattamente il contenuto del Magistero della Chiesa e quello dell'esperienza della vita di famiglia. In tal modo l'insegnamento del Magistero viene meglio compreso e si spiana la strada al suo progressivo sviluppo. Giova tuttavia ricordare che la norma prossima e obbligatoria nella dottrina della fede - anche circa i problemi della famiglia - compete al Magistero gerarchico. Rapporti chiari tra i teologi, gli esperti di problemi familiari e il Magistero giovano non poco alla retta intelligenza della fede ed a promuovere - entro i confini di essa - il legittimo pluralismo.

Religiosi e Religiose

74. Il contributo che i religiosi e le religiose, e le anime consacrate in genere, possono dare all'apostolato della famiglia trova la sua prima, fondamentale e originale espressione proprio nella loro consacrazione a Dio, che li rende «davanti a tutti i fedeli... richiamo di quel mirabile connubio operato da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, per cui la Chiesa ha Cristo come unico suo sposo» («Perfectae Caritatis», 12), e testimoni di quella carità universale che, per mezzo della castità abbracciata per il Regno dei cieli, li rende sempre più disponibili per dedicarsi generosamente al servizio divino e alle opere di apostolato.

Di qui la possibilità che religiosi e religiose, membri di Istituti secolari e di altri Istituti di perfezione, singolarmente o associati, sviluppino un loro servizio alle famiglie, con particolare sollecitudine verso i bambini, specialmente se abbandonati, indesiderati, orfani, poveri o handicappati; visitando le famiglie e prendendosi cura dei malati; coltivando rapporti di rispetto e di carità con famiglie incomplete, in difficoltà o disgregate; offrendo la propria opera di insegnamento e di consulenza nella preparazione dei giovani al matrimonio e nell'aiuto alle coppie per una procreazione veramente responsabile; aprendo le proprie case all'ospitalità semplice e cordiale, affinché le famiglie possano trovarvi il senso di Dio, il gusto della preghiera e del raccoglimento, l'esempio concreto di una vita vissuta in carità e letizia fraterna come membri della più grande famiglia di Dio.

Vorrei aggiungere l'esortazione più pressante ai responsabili degli Istituti di vita consacrata, a voler considerare - sempre nel sostanziale rispetto del carisma proprio ed originario - l'apostolato rivolto alle famiglie come uno dei compiti prioritari, resi più urgenti dall'odierno stato di cose.

Laici specializzati

75. Non poco giovamento possono recare alle famiglie quei laici specializzati (medici, uomini di legge, psicologi, assistenti sociali, consulenti, ecc.) che sia individualmente sia impegnati in diverse associazioni e iniziative, prestano la loro opera di illuminazione, di consiglio, di orientamento, di sostegno. Ad essi possono bene applicarsi le esortazioni che ebbi occasione di rivolgere alla Confederazione dei Consultori familiari di ispirazione cristiana: «E' un impegno il vostro, che ben merita la qualifica di missione, tanto nobili sono le finalità che persegue e tanto determinati, per il bene della società e della stessa comunità cristiana, sono i risultati che ne derivano... Tutto quello che riuscirete a fare a sostegno della famiglia è destinato ad avere un'efficacia che, travalicando il suo ambito proprio, raggiunge anche altre persone ed incide sulla società. Il futuro del mondo e della Chiesa passa attraverso la famiglia» (num. 3-4 [29 Novembre 1980]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 2 [1980] 1453).

Recettori e operatori della comunicazione sociale

76. Una parola a parte è da riservare a questa categoria tanto importante nella vita moderna. E' risaputo che gli strumenti della comunicazione sociale «incidono, e spesso profondamente, sia sotto l'aspetto affettivo e intellettuale, sia sotto l'aspetto morale e religioso, nell'ambito di quanti li usano», specialmente se giovani (Paolo PP. VI, Messaggio per la III Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali [7 Aprile 1969]: ASS 61 [1969] 455). Essi, perciò, possono esercitare un benefico influsso sulla vita e sui costumi della famiglia e sulla educazione dei figli, ma al tempo stesso nascondono anche «insidie e pericoli non trascurabili» (Giovanni Paolo PP. II, Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 1980 [1· Maggio 1980]: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II» III, 1 [1980] 1042, e potrebbero diventare veicolo - a volte abilmente e sistematicamente manovrato, come purtroppo accade in diversi Paesi del mondo - di ideologie disgregatrici e di visioni deformate della vita, della famiglia, della religione, della moralità, non rispettose della vera dignità e del destino dell'uomo.

Pericolo tanto più reale, in quanto «l'odierno modo di vivere - specialmente nelle nazioni più industrializzate - porta assai spesso le famiglie a scaricarsi delle loro responsabilità educative, trovando nella facilità di evasione (rappresentata, in casa, specialmente dalla televisione e da certe pubblicazioni), il modo di tenere occupati tempo ed attività dei bambini e dei ragazzi» (Giovanni Paolo PP. II, Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 1981, 5 [10 Maggio 1980]: «L'Osservatore Romano», 22 Maggio 1981). Di qui «il dovere... di proteggere specialmente i bambini e ragazzi dalle "aggressioni" che subiscono dai mass-media», procurando che l'uso di questi in famiglia sia accuratamente regolato. Così pure dovrebbe stare altrettanto a cuore alla famiglia cercare, per i propri figli, anche altri diversivi più sani, più utili e formativi fisicamente, moralmente e spiritualmente, «per potenziare e valorizzare il tempo libero dei ragazzi e indirizzarne le energie» (Ibid).

Poiché, poi, gli strumenti della comunicazione sociale - al pari della scuola e dell'ambiente - incidono spesso anche in notevole misura sulla formazione dei figli, i genitori, in quanto recettori, devono farsi parte attiva nell'uso moderato, critico, vigile e prudente di essi, individuando quale influsso esercitano sui figli, e nella mediazione orientativa che consenta «di educare la coscienza dei figli ad esprimere giudizi sereni e oggettivi, che poi la guidano nella scelta e nel rifiuto dei programmi proposti» (Paolo PP. VI, Messaggio per la III Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: ASS 61 [1969] 456).

Con eguale impegno i genitori cercheranno di influire sulla scelta e preparazione dei programmi stessi, mantenendosi in contatto - con opportune iniziative - con i responsabili dei vari momenti della produzione e della trasmissione, per assicurarsi che non siano abusivamente trascurati o espressamente conculcati quei valori umani fondamentali che fanno parte del vero bene comune della società, ma, al contrario, vengano diffusi programmi atti a presentare, nella loro giusta luce, i problemi della famiglia e la loro adeguata soluzione. A tal proposito il mio predecessore di venerabile memoria., Paolo VI, scriveva: «I produttori devono conoscere e rispettare le esigenze della famiglia, e questo suppone, a volte, in essi un vero coraggio, e sempre un alto senso di responsabilità. Essi, infatti, sono tenuti ad evitare tutto ciò che può ledere la famiglia nella sua esistenza, nella sua stabilità, nel suo equilibrio, nella sua felicità. Ogni offesa ai valori fondamentali della famiglia - si tratti di erotismo o di violenza, di apologia del divorzio o di atteggiamenti antisociali dei giovani - è un'offesa al vero bene dell'uomo (Ibid.).

Ed io stesso, in analoga occasione, facevo rilevare che le famiglie «devono poter contare in non piccola misura sulla buona volontà, sulla rettitudine e sul senso di responsabilità dei professionisti dei media: editori, scrittori, produttori, direttori, drammaturghi, informatori, commentatori ed attori» (Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 1980: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 1044). Perciò è doveroso che anche da parte della Chiesa si continui a dedicare ogni cura a queste categorie di operatori, incoraggiando e sostenendo, nello stesso tempo, quei cattolici che vi si sentono chiamati e ne hanno le doti, ad impegnarsi in questi delicati settori.

IV. La pastorale familiare nei casi difficili

Circostanze particolari

77. Un impegno pastorale ancor più generoso, intelligente e prudente, sull'esempio del Buon Pastore, è richiesto nei confronti di quelle famiglie che - spesso indipendentemente dalla propria volontà o premute da altre esigenze di diversa natura - si trovano ad affrontare situazioni obiettivamente difficili.

A questo proposito è necessario richiamare specialmente l'attenzione su alcune categorie particolari, che maggiormente abbisognano non solo di assistenza, ma di un'azione più incisiva sulla pubblica opinione e soprattutto sulle strutture culturali, economiche e giuridiche, al fine di eliminare al massimo le cause profonde dei loro disagi.

Tali sono, ad esempio, le famiglie dei migranti per motivi di lavoro; le famiglie di quanti sono costretti a lunghe assenze, quali, ad esempio, i militari, i naviganti, gli itineranti d'ogni tipo; le famiglie dei carcerati, dei profughi e degli esiliati; le famiglie che nelle grande città vivono praticamente emarginate; quelle che non hanno casa; quelle incomplete o monoparentali; le famiglie con i figli handicappati o drogati, le famiglie di alcoolizzati; quelle sradicate dal loro ambiente culturale e sociale o in rischio di perderlo; quelle discriminate per motivi politici o per altre ragioni; le famiglie ideologicamente divise; quelle che non riescono ad avere facilmente un contatto con la parrocchia; quelle che subiscono violenza o ingiusti trattamenti a motivo della propria fede; quelle composte da coniugi minorenni; gli anziani, non raramente costretti a vivere in solitudine e senza adeguati mezzi di sussistenza.

Le famiglie dei migranti, specialmente trattandosi di operai e di contadini, devono poter trovare dappertutto, nella Chiesa, la loro patria. E' questo un compito connaturale alla Chiesa, essendo segno di unità nella diversità. Per quanto è possibile siano assistiti da sacerdoti del loro stesso rito, cultura e idioma. Spetta pure alla Chiesa fare appello alla coscienza pubblica e a quanti hanno autorità nella vita sociale, economica e politica, affinché gli operai trovino lavoro nella propria regione e patria, siano retribuiti con giusto salario, le famiglie vengano al più presto riunite, siano prese in considerazione nella loro identità culturale, trattate al pari delle altre, ed ai loro figli sia data l'opportunità della formazione professionale e dell'esercizio della professione, come pure del possesso della terra necessaria per lavorare e vivere.

Un problema difficile è quello delle famiglie ideologicamente divise. In questi casi si richiede una particolare cura pastorale. Anzitutto bisogna, con discrezione, mantenere un contatto personale con tali famiglie. I credenti devono essere fortificati nella fede e sostenuti nella vita cristiana. Anche se la parte fedele al cattolicesimo non può cedere, tuttavia bisogna sempre mantenere vivo il dialogo con l'altra parte. Devono essere moltiplicate le manifestazioni di amore e di rispetto, nella ferma speranza di mantenere salda l'unità. Molto dipende anche dai rapporti tra genitori e figli. Le ideologie estranee alla fede possono, del resto, stimolare i membri credenti della famiglia a crescere nella fede e nella testimonianza di amore.

Altri momenti difficili, nei quali la famiglia ha bisogno dell'aiuto della comunità ecclesiale e dei suoi pastori, possono essere: l'adolescenza irrequieta contestatrice ed a volte tempestosa dei figli; il loro matrimonio, che li stacca dalla famiglia di origine; l'incomprensione o la mancanza di amore da parte delle persone più care; l'abbandono da parte del coniuge o la sua perdita, che apre la dolorosa esperienza della vedovanza, della morte di un familiare che mutila e trasforma in profondità il nucleo originario della famiglia.

Similmente non può essere trascurato dalla Chiesa il momento dell'età anziana, con tutti i suoi contenuti positivi e negativi: di possibile approfondimento dell'amore coniugale sempre più purificato e nobilitato dalla lunga e ininterrotta fedeltà; di disponibilità a porre a servizio degli altri, in forma nuova, la bontà e la saggezza accumulata e le energie rimaste; di pesante solitudine, più spesso psicologica e affettiva che non fisica, per l'eventuale abbandono o per una insufficiente attenzione da parte dei figli e dei parenti; di sofferenza per la malattia, per il progressivo declino delle forze, per l'umiliazione di dover dipendere da altri, per l'amarezza di sentirsi forse di peso ai propri cari, per l'avvicinarsi degli ultimi momenti della vita. Sono queste le occasioni nelle quali - come hanno insinuato i Padri Sinodali - più facilmente si possono far comprendere e vivere quegli elevati aspetti della spiritualità matrimoniale e familiare, che si ispirano al valore della Croce e risurrezione di Cristo, fonte di santificazione e di profonda letizia nella vita quotidiana, nella prospettiva delle grandi realtà escatologiche della vita terrena.

In tutte queste diverse situazioni non sia mai trascurata la preghiera, sorgente di luce e di forza ed alimento della speranza cristiana.

Matrimoni misti

78. Il numero crescente dei matrimoni fra cattolici ed altri battezzati richiede pure una peculiare attenzione pastorale alla luce degli orientamenti e delle norme, contenute nei più recenti documenti della Santa Sede e in quelli elaborati dalle Conferenze episcopali, per consentirne l'applicazione concreta alle diverse situazioni.

Le coppie che vivono in matrimonio misto presentano peculiari esigenze, le quali possono ridursi a tre capi principali.

Vanno, anzitutto, tenuti presenti gli obblighi della parte cattolica derivanti dalla fede, per quanto concerne il libero esercizio di essa e il conseguente obbligo di provvedere, secondo le proprie forze, a battezzare e ad educare i figli nella fede cattolica (cfr. Paolo PP. VI, Motu Proprio «Matrimonia Mixta», 4-5: ASS 62 [1970], 257ss; cfr. Giovanni Paolo PP. II, Discorso ai partecipanti alla plenaria del Segretariato per l'unione dei cristiani [13 Novembre 1981]: «L'Osservatore Romano» [14 Novembre 1981]).

Bisogna tenere presenti le particolari difficoltà inerenti ai rapporti tra marito e moglie, per quanto riguarda il rispetto della libertà religiosa: questa può essere violata sia mediante pressioni indebite per ottenere il cambiamento delle convinzioni religiose della comparte, sia mediante impedimenti frapposti alla libera manifestazione di esse nella pratica religiosa.

Per quanto riguarda la forma liturgica e canonica del matrimonio, gli Ordinari possono largamente far uso delle loro facoltà per varie necessità.

Nel trattare di queste speciali esigenze bisogna tener presenti i punti seguenti:

  • nell'apposita preparazione a questo tipo di matrimonio, deve essere compiuto ogni ragionevole sforzo per far ben comprendere la dottrina cattolica sulle qualità ed esigenze del matrimonio, come pure per assicurarsi che in futuro, non abbiano a verificarsi le pressioni e gli ostacoli, di cui si è parlato sopra;
  • è di somma importanza che, con l'appoggio della comunità, la parte cattolica venga fortificata nella sua fede e positivamente aiutata a maturare nella comprensione e nella pratica di essa, in modo da diventare vera testimone credibile in seno alla famiglia, attraverso la vita stessa e la qualità dell'amore dimostrato all'altro coniuge e ai figli.

I matrimoni fra cattolici ed altri battezzati presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l'apporto che possono dare al movimento ecumenico. Ciò è particolarmente vero quando ambedue i coniugi sono fedeli ai loro impegni religiosi. Il comune battesimo e il dinamismo della grazia forniscono agli sposi, in questi matrimoni, la base e la motivazione per esprimere la loro unità nella sfera dei valori morali e spirituali.

A tal fine, anche per mettere in evidenza l'importanza ecumenica di un tale matrimonio misto, vissuto pienamente nella fede dei due coniugi cristiani, va ricercata - anche se non sempre ciò si rivela facile - una cordiale collaborazione tra il ministro cattolico e quello non cattolico, fin dal tempo della preparazione al matrimonio e delle nozze.

Quanto alla partecipazione del coniuge non cattolico alla comunione eucaristica, si seguano le norme impartite dal Segretariato per l'unione dei cristiani (Istruz. «In quibus rerum circumstantiis» [15 Giugno 1972], 518-525; Nota del 17 Ottobre 1973: ASS 64 [1973] 616-619).

In varie parti del mondo si registra, oggi, un crescente numero di matrimoni fra cattolici e non battezzati. In molti di essi il coniuge non battezzato professa un'altra religione e le sue convinzioni devono essere trattate con rispetto, secondo i principi della Dichiarazione «Nostra Aetate» del Concilio Ecumenico Vaticano II circa le relazioni con le religioni non cristiane; ma in non pochi altri, particolarmente nelle società secolarizzate, la persona non battezzata non professa alcuna religione. Per questi matrimoni è necessario che le Conferenze episcopali ed i singoli vescovi prendano misure pastorali adeguate, dirette a garantire la difesa della fede del coniuge cattolico e la tutela del libero esercizio di essa, soprattutto per quanto concerne il dovere di fare quanto è in suo potere perché i figli siano battezzati ed educati cattolicamente. Il coniuge cattolico deve essere, altresì, sostenuto in ogni modo nell'impegno di offrire all'interno della famiglia una genuina testimonianza di fede e di vita cattolica.

Azione pastorale di fronte ad alcune situazioni irregolari

79. Nella sua sollecitudine di tutelare la famiglia in ogni sua dimensione, non soltanto in quella religiosa, il Sinodo dei Vescovi non ha tralasciato di prendere in attenta considerazione alcune situazioni religiosamente e spesso anche civilmente irregolari, che - negli odierni rapidi mutamenti delle culture - vanno purtroppo diffondendosi anche fra i cattolici, con non lieve danno dello stesso istituto familiare e della società, di cui esso costituisce la cellula fondamentale.

a) Il matrimonio per esperimento

80. Una prima situazione irregolare è data da quello che chiamano «matrimonio per esperimento», che molti oggi vorrebbero giustificare, attribuendo ad esso un certo valore. Già la stessa ragione umana insinua la sua inaccettabilità, mostrando quanto sia poco convincente che si faccia un «esperimento» nei riguardi di persone umane, la cui dignità esige che siano sempre e solo il termine dell'amore di donazione senza alcun limite né di tempo né di altra circostanza.

Dal canto suo, la Chiesa non può ammettere un tale tipo di unione per ulteriori, originali motivi, derivanti dalla fede. Da una parte, infatti, il dono del corpo nel rapporto sessuale è il simbolo reale della donazione di tutta la persona: una tale donazione peraltro, nell'attuale economia non può attuarsi con verità piena senza il concorso dell'amore di carità, dato da Cristo. Dall'altra parte, poi, il matrimonio fra due battezzati è il simbolo reale dell'unione di Cristo con la Chiesa, una unione non temporanea o «ad esperimento», ma eternamente fedele; tra due battezzati, pertanto, non può esistere che un matrimonio indissolubile.

Tale situazione ordinariamente non può essere superata, se la persona umana, fin dall'infanzia, con l'aiuto della grazia di Cristo e senza timori, non è stata educata a dominare la nascente concupiscenza e ad instaurare con gli altri rapporti di amore genuino. Ciò non si ottiene senza una vera educazione all'amore autentico e al retto uso della sessualità, tale che introduca la persona umana secondo ogni sua dimensione, e perciò anche in quella che riguarda il proprio corpo, nella pienezza del mistero di Cristo.

Sarà molto utile indagare sulle cause di questo fenomeno, anche nel suo aspetto psicologico e sociologico, per giungere a trovare un'adeguata terapia.

b) Unioni libere di fatto

81. Si tratta di unioni senza alcun vincolo istituzionale pubblicamente riconosciuto, né civile né religioso. Questo fenomeno - esso pure sempre più frequente - non può non attirare l'attenzione dei pastori d'anime, anche perché alla sua base possono esserci elementi molto diversi fra loro, agendo sui quali sarà forse possibile limitarne le conseguenze.

Alcuni, infatti, vi si considerano quasi costretti da situazioni difficili - economiche, culturali e religiose - in quanto, contraendo regolare matrimonio, verrebbero esposti ad un danno, alla perdita di vantaggi economici, a discriminazioni, ecc. In altri, invece, si riscontra un atteggiamento di disprezzo, di contestazione o di rigetto della società, dell'istituto familiare, dell'ordinamento socio-politico, o di sola ricerca del piacere. Altri, infine, vi sono spinti dall'estrema ignoranza e povertà, talvolta da condizionamenti dovuti a situazioni di vera ingiustizia, o anche da una certa immaturità psicologica, che li rende incerti e timorosi di contrarre un vincolo stabile e definitivo. In alcuni Paesi le consuetudini tradizionali prevedono il matrimonio vero e proprio solo dopo un periodo di coabitazione e dopo la nascita del primo figlio.

Ognuno di questi elementi pone alla Chiesa ardui problemi pastorali, per le gravi conseguenze che ne derivano, sia religiose e morali (perdita del senso religioso del matrimonio, visto alla luce dell'Alleanza di Dio con il suo popolo: privazione della grazia del sacramento; grave scandalo), sia anche sociali (distruzione del concetto di famiglia; indebolimento del senso di fedeltà anche verso la società; possibili traumi psicologici nei figli; affermazione dell'egoismo).

Sarà cura dei pastori e della comunità ecclesiale conoscere tali situazioni e le loro cause concrete, caso per caso; avvicinare i conviventi con discrezione e rispetto; adoperarsi con una azione di paziente illuminazione, di caritatevole correzione, di testimonianza familiare cristiana, che possa spianare loro la strada verso la regolarizzazione della situazione.

Soprattutto, però, sia fatta opera di prevenzione, coltivando il senso della fedeltà in tutta l'educazione morale e religiosa dei giovani, istruendoli circa le condizioni e le strutture che favoriscono tale fedeltà, senza la quale non si dà vera libertà, aiutandoli a maturare spiritualmente, facendo loro comprendere la ricca realtà umana e soprannaturale del matrimonio-sacramento.

Il Popolo di Dio si adoperi anche presso le pubbliche autorità affinché resistendo a queste tendenze disgregatrici della stessa società e dannose per la dignità, sicurezza e benessere dei singoli cittadini, si adoperino perché l'opinione pubblica non sia indotta a sottovalutare l'importanza istituzionale del matrimonio e della famiglia. E poiché in molte regioni, per l'estrema povertà derivante da strutture socioeconomiche ingiuste o inadeguate, i giovani non sono in condizione di sposarsi come si conviene, la società e le pubbliche autorità favoriscono il matrimonio legittimo mediante una serie di interventi sociali e politici, garantendo il salario familiare, emanando disposizioni per un'abitazione adatta alla vita familiare, creando adeguate possibilità di lavoro e di vita.

c) Cattolici uniti col solo matrimonio civile

82. E' sempre più diffuso il caso di cattolici che, per motivi ideologici e pratici, preferiscono contrarre il solo matrimonio civile, rifiutando o almeno rimandando quello religioso. La loro situazione non può equipararsi senz'altro a quella dei semplici conviventi senza alcun vincolo, in quanto vi si riscontra almeno un certo impegno a un preciso e probabilmente stabile stato di vita, anche se spesso non è estranea a questo passo la prospettiva di un eventuale divorzio. Ricercando il pubblico riconoscimento del vincolo da parte dello Stato, tali coppie mostrano di essere disposte ad assumersene, con i vantaggi, anche gli obblighi. Ciò nonostante, neppure questa situazione è accettabile da parte della Chiesa.

L'azione pastorale tenderà a far comprendere la necessità della coerenza tra la scelta di vita e la fede che si professa, e cercherà di far quanto è possibile per indurre tali persone a regolare la propria situazione alla luce dei principi cristiani. Pur trattandole con grande carità, e interessandole alla vita delle rispettive comunità, i pastori della Chiesa non potranno purtroppo ammetterle ai sacramenti.

d) Separati e divorziati non risposati

83. Motivi diversi, quali incomprensioni reciproche, incapacità di aprirsi a rapporti interpersonali, ecc. possono dolorosamente condurre il matrimonio valido a una frattura spesso irreparabile. Ovviamente la separazione deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano.

La solitudine e altre difficoltà sono spesso retaggio del coniuge separato, specialmente se innocente. In tal caso la comunità ecclesiale deve più che mai sostenerlo; prodigargli stima, solidarietà, comprensione ed aiuto concreto in modo che gli sia possibile conservare la fedeltà anche nella difficile situazione in cui si trova; aiutarlo a coltivare l'esigenza del perdono propria dell'amore cristiano e la disponibilità all'eventuale ripresa della vita coniugale anteriore.

Analogo è il caso del coniuge che ha subito divorzio, ma che - ben conoscendo l'indissolubilità del vincolo matrimoniale valido - non si lascia coinvolgere in una nuova unione, impegnandosi invece unicamente nell'adempimento dei suoi doveri di famiglia e delle responsabilità della vita cristiana. In tal caso il suo esempio di fedeltà e di coerenza cristiana assume un particolare valore di testimonianza di fronte al mondo e alla Chiesa, rendendo ancor più necessaria, da parte di questa, un'azione continua di amore e di aiuto, senza che vi sia alcun ostacolo per l'ammissione ai sacramenti.

e) I divorziati risposati

84. L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, che chi ha fatto ricorso al divorzio ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, ovviamente non col rito religioso cattolico. Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.

La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.

La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, 7 [25 Ottobre 1980]: AAS 72 [1980] 1082).

Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio sia agli stessi coniugi e ai loro familiari, sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad ogni pastore, per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere. Queste, infatti, darebbero l'impressione della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide e indurrebbero conseguentemente in errore circa l'indissolubilità del matrimonio validamente contratto.

Agendo in tal modo, la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità; nello stesso tempo si comporta con animo materno verso questi suoi figli, specialmente verso coloro che, senza loro colpa, sono stati abbandonati dal loro coniuge legittimo.

Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità.

I senza-famiglia

85. Ancora una parola desidero aggiungere per una categoria di persone che, per la concreta condizione in cui si trovano a vivere - e spesso non per loro deliberata volontà - io considero particolarmente vicine al Cuore di Cristo e degne dell'affetto della sollecitudine fattiva della Chiesa e dei pastori.

Esistono al mondo moltissime persone le quali, disgraziatamente, non possono riferirsi in alcun modo a ciò che si potrebbe definire in senso proprio una famiglia. Grandi settori dell'umanità vivono in condizioni di enorme povertà, in cui la promiscuità, la carenza di abitazioni, l'irregolarità ed instabilità dei rapporti, l'estrema mancanza di cultura non consentono praticamente di poter parlare di vera famiglia. Ci sono altre persone che, per motivi diversi, sono rimaste sole al mondo. Eppure per tutti costoro esiste un «buon annunzio della famiglia».

In favore di quanti vivono in estrema povertà, già ho parlato dell'urgente necessità di lavorare coraggiosamente per trovare soluzioni, anche a livello politico, che consentano di aiutarli a superare questa inumana condizione di prostrazione. E' un compito che incombe, solidarmente, all'intera società, ma in maniera speciale alle autorità in forza della loro carica e delle conseguenti responsabilità, nonché alle famiglie, che devono dimostrare grande comprensione e volontà di aiuto.

A coloro che non hanno una famiglia naturale bisogna aprire ancor più le porte della grande famiglia che è la Chiesa, la quale si concretizza a sua volta nella famiglia diocesana e parrocchiale, nelle comunità ecclesiali di base o nei movimenti apostolici. Nessuno è privo della famiglia in questo mondo: la Chiesa è casa e famiglia per tutti, specialmente per quanti sono «affaticati e oppressi» (cfr. Mt 11,28).

CONCLUSIONE

86. A voi sposi, a voi padri e madri di famiglia;

a voi, giovani e ragazze, che siete il futuro e la speranza della Chiesa e del mondo, e sarete il nucleo portante e dinamico della famiglia nel terzo millennio che si avvicina;

a voi, venerabili e cari fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, diletti figli religiosi e religiose, anime consacrate al Signore, che agli sposi testimoniate la realtà ultima dell'amore di Dio;

a voi, uomini tutti di retto sentire, che a qualsiasi titolo siete pensierosi delle sorti della famiglia, si rivolge con trepida sollecitudine il mio animo al termine di questa esortazione apostolica.

L'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia!

E', dunque, indispensabile ed urgente che ogni uomo di buona volontà si impegni a salvare ed a promuovere i valori e le esigenze della famiglia.

Un particolare sforzo a questo riguardo sento di dover chiedere ai figli della Chiesa. Essi, che nella fede conoscono pienamente il meraviglioso disegno di Dio, hanno una ragione in più per prendersi a cuore la realtà della famiglia in questo nostro tempo di prova e di grazia.

Essi devono amare in modo particolare la famiglia. E' questa una consegna concreta ed esigente.

Amare la famiglia significa saperne stimare i valori e le possibilità, promuovendoli sempre. Amare la famiglia significa individuare i pericoli ed i mali che la minacciano, per poterli superare. Amare la famiglia significa adoperarsi per crearle un ambiente che favorisca il suo sviluppo. E, ancora, è forma eminente di amore ridare alla famiglia cristiana di oggi, spesso tentata dallo sconforto e angosciata per le accresciute difficoltà, ragioni di fiducia in se stessa, nelle proprie ricchezze di natura e di grazia, nella missione che Dio le ha affidato. «Bisogna che le famiglie del nostro tempo riprendano quota! Bisogna che seguano Cristo!» (Giovanni Paolo PP. II, Lettera «Appropinaquat iam», 1 [15 Agosto 1980]: ASS 72 [1980], 791).

Spetta altresì ai cristiani il compito di annunciare con gioia e convinzione la «buona novella» sulla famiglia, la quale ha un assoluto bisogno di ascoltare sempre di nuovo e di comprendere sempre più a fondo le parole autentiche che le rivelano la sua identità, le sue risorse interiori, l'importanza della sua missione nella Città degli uomini e in quella di Dio.

La Chiesa conosce la via sulla quale la famiglia può giungere al cuore della sua verità profonda. Questa via, che la Chiesa ha imparato alla scuola di Cristo e a quella della storia, interpretata nella luce dello Spirito, essa non la impone, ma sente in sé l'insopprimibile esigenza di proporla a tutti senza timore, anzi con grande fiducia e speranza, pur sapendo che la «buona novella» conosce il linguaggio della Croce. Ma è attraverso la Croce che la famiglia può giungere alla pienezza del suo essere e alla perfezione del suo amore.

Desidero, infine, invitare tutti i cristiani a collaborare, cordialmente e coraggiosamente, con tutti gli uomini di buona volontà, che vivono la loro responsabilità al servizio della famiglia. Quanti si consacrano al suo bene in seno alla Chiesa, nel suo nome e da essa ispirati, siano essi individui o gruppi, movimenti o associazioni, trovano spesso al loro fianco persone e istituzioni diverse che operano per il medesimo ideale. Nella fedeltà ai valori del Vangelo e dell'uomo e nel rispetto di un legittimo pluralismo di iniziative, questa collaborazione potrà favorire una più rapida ed integrale promozione della famiglia.

Ed ora, concludendo questo messaggio pastorale, che intende sollecitare l'attenzione di tutti sui compiti gravosi ma affascinanti della famiglia cristiana, desidero invocare la protezione della santa Famiglia di Nazaret.

Per misterioso disegno di Dio, in essa è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa è dunque prototipo ed esempio di tutte le famiglie cristiane. E quella Famiglia, unica al mondo, che ha trascorso un'esistenza anonima e silenziosa in un piccolo borgo della Palestina; che è stata provata dalla povertà, dalla persecuzione, dall'esilio; che ha glorificato Dio in modo incomparabilmente alto e puro, non mancherà di assistere le famiglie cristiane, anzi tutte le famiglie del mondo, nella fedeltà ai loro doveri quotidiani, nel sopportare le ansie e le tribolazioni della vita, nella generosa apertura verso le necessità degli altri, nell'adempimento gioioso del piano di Dio nei loro riguardi.

Che san Giuseppe, «uomo giusto», lavoratore instancabile, custode integerrimo dei pegni a lui affidati, le custodisca, le protegga, le illumini sempre.

Che la Vergine Maria, come è Madre della Chiesa, così anche sia la Madre della «Chiesa domestica», e, grazie al suo aiuto materno, ogni famiglia cristiana possa diventare veramente una «piccola Chiesa», nella quale si rispecchi e riviva il mistero della Chiesa di Cristo. Sia Lei, l'ancella del Signore, l'esempio di accoglienza umile e generosa della volontà di Dio; sia Lei, Madre Addolorata ai piedi della Croce, a confortare le sofferenze e ad asciugare le lacrime di quanti soffrono per le difficoltà delle loro famiglie.

E Cristo Signore, Re dell'universo, Re delle famiglie, sia presente, come a Cana, in ogni focolare cristiano a donare luce, gioia, serenità, fortezza. A Lui, nel giorno solenne dedicato alla sua Regalità, chiedo che ogni famiglia sappia generosamente portare il suo originale contributo all'avvento nel mondo del suo Regno, «Regno di verità e di vita, di santità e di pace» («Prefatio» della Messa della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo), verso il quale è in cammino la storia.

A Lui, a Maria, a Giuseppe affido ogni famiglia. Alle loro mani e al loro cuore presento questa esortazione: siano Essi a porgerla a voi, venerati fratelli e diletti figli, e ad aprire i vostri cuori alla luce che il Vangelo irradia su ogni famiglia.

A tutti e a ciascuno, assicurando la mia costante preghiera, imparto di cuore l'apostolica benedizione, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 22 novembre, Solennità di N. S. Gesù Cristo Re dell'universo, dell'anno 1981, quarto del Pontificato.

 

 

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