Sabato, 22 Marzo, 2025

EGRAEGIAE VIRTUTIS

LETTERA APOSTOLICA
EGREGIAE VIRTUTIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II

1. Alle illustri figure dei santi Cirillo e Metodio si rivolgono di nuovo i pensieri ed i cuori in quest'anno in cui ricorrono due centenari particolarmente significativi. Si compiono infatti cent'anni dalla pubblicazione della lettera enciclica «Grande Munus» del 30 settembre 1880, con la quale il grande pontefice Leone XIII ricordava a tutta la Chiesa le figure e l'attività apostolica di questi due santi e, al tempo stesso, ne introduceva la festività liturgica nel calendario della Chiesa cattolica (Leonis XIII «Acta», vol. II, pp. 125-137). Ricorre inoltre l'XI centenario della lettera «Industriae Tuae» (cfr. «Magna Moraviae Fontes Historici», t. III, Brno 1969, pp. 197-208), inviata dal mio predecessore Giovanni VIII al principe Svatopluk nel giugno dell'anno 880, nella quale veniva lodato e raccomandato l'uso della lingua slava nella liturgia, affinché «in quella lingua fossero proclamate le lodi e le opere di Cristo nostro Signore» (cfr. «Magna Moraviae Fontes Historici», t. III, Brno 1969, p. 207).

Cirillo e Metodio, fratelli, greci, nativi di Tessalonica, la città dove visse e operò san Paolo, fin dall'inizio della loro vocazione, entrarono in stretti rapporti culturali e spirituali con la Chiesa patriarcale di Costantinopoli, allora fiorente per cultura e attività missionaria alla cui alta scuola essi si formarono (cfr. «Costantinus et Methodius Thessalonicenses, Fontes»). Entrambi avevano scelto lo stato religioso unendo i doveri della vocazione religiosa con il servizio missionario, di cui diedero una prima testimonianza recandosi ad evangelizzare i Cazari della Crimea.

La loro preminente opera evangelizzatrice fu, tuttavia, la missione nella Grande Moravia tra i popoli, che abitavano allora la penisola balcanica e le terre percorse dal Danubio; essa fu intrapresa su richiesta del principe di Moravia Roscislaw, presentata all'imperatore e alla Chiesa di Costantinopoli. Per corrispondere alle necessità del loro servizio apostolico in mezzo ai popoli slavi tradussero nella loro lingua i libri sacri a scopo liturgico e catechetico, gettando con questo le basi di tutta la letteratura nelle lingue dei medesimi popoli. Giustamente perciò essi sono considerati non solo gli apostoli degli slavi ma anche i padri della cultura tra tutti questi popoli e tutte queste nazioni, per i quali i primi scritti della lingua slava non cessano di essere il punto fondamentale di riferimento nella storia della loro letteratura.

Cirillo e Metodio svolsero il loro servizio missionario in unione sia con la Chiesa di Costantinopoli, dalla quale erano stati mandati, sia con la sede romana di Pietro, dalla quale furono confermati, manifestando in questo modo l'unità della Chiesa, che durante il periodo della loro vita e della loro attività non era colpita dalla sventura della divisione tra l'oriente e l'occidente, nonostante le gravi tensioni, che, in quel tempo, segnarono le relazioni fra Roma e Costantinopoli.

A Roma Cirillo e Metodio furono accolti con onore dal Papa e dalla Chiesa romana e trovarono approvazione e appoggio per tutta la loro opera apostolica ed anche per la loro innovazione di celebrare la liturgia nella lingua slava, osteggiata in alcuni ambienti occidentali. A Roma concluse la sua vita Cirillo (14 febbraio 869) e fu sepolto nella Chiesa di san Clemente, mentre Metodio fu dal Papa ordinato arcivescovo dell'antica sede di Sirmio e fu inviato in Moravia per continuarvi la sua provvidenziale opera apostolica, proseguita con zelo e coraggio insieme ai suoi discepoli e in mezzo al suo popolo sino al termine della sua vita (6 aprile 885).

2. Cento anni fa il papa Leone XIII con l'enciclica «Grande Munus» ricordò a tutta la Chiesa gli straordinari meriti dei santi Cirillo e Metodio per la loro opera di evangelizzazione degli slavi. Dato però che in quest'anno la Chiesa ricorda solennemente il 1500· anniversario della nascita di san Benedetto, proclamato nel 1964 dal mio venerato predecessore, Paolo VI, patrono d'Europa, è parso che questa protezione nei riguardi di tutta l'Europa sarà meglio messa in risalto, se alla grande opera del santo patriarca d'occidente aggiungeremo i particolari meriti dei due santi fratelli, Cirillo e Metodio. A favore di questo ci sono molteplici ragioni di natura storica, sia di quella passata come di quella contemporanea, che hanno la loro garanzia sia teologica che ecclesiale, come pure culturale nella storia del nostro continente europeo. E perciò prima ancora che si chiuda quest'anno dedicato al particolare ricordo di san Benedetto, desidero che per il centenario della enciclica leoniana, si valorizzino tutte queste ragioni, mediante la presente proclamazione dei santi Cirillo e Metodio a compatroni d'Europa.

3. L'Europa, infatti, nel suo insieme geografico è per così dire frutto dell'azione di due correnti di tradizioni cristiane, alle quali si aggiungono anche due diverse, ma al tempo stesso profondamente complementari, forme di cultura. San Benedetto, il quale con il suo influsso ha abbracciato non solo l'Europa, prima di tutto occidentale e centrale, ma mediante i centri benedettini è arrivato anche negli altri continenti, si trova al centro stesso di quella corrente che parte da Roma, dalla sede dei successori di san Pietro. I santi fratelli da Tessalonica mettono in risalto prima il contributo dell'antica cultura greca e, in seguito, la portata dell'irradiazione della Chiesa di Costantinopoli e della tradizione orientale, la quale si è così profondamente iscritta nella spiritualità e nella cultura di tanti popoli e nazioni nella parte orientale del continente europeo.

Poiché oggi, dopo secoli di divisione della Chiesa tra oriente e occidente, tra Roma e Costantinopoli a partire dal Concilio Vaticano II sono stati intrapresi passi decisivi nella direzione della piena comunione, pare che la proclamazione dei santi Cirillo e Metodio a compatroni d'Europa, accanto a san Benedetto, corrisponda pienamente ai segni del nostro tempo. Specialmente se ciò avviene nell'anno nel quale le due Chiese, cattolica ed ortodossa, sono entrate nella tappa di un decisivo dialogo, che si è iniziato nell'isola di Patmos, legata alla tradizione di san Giovanni apostolo ed evangelista. Pertanto questo atto intende anche rendere memorabile tale data.

Questa proclamazione vuole in pari tempo essere una testimonianza, per gli uomini del nostro tempo, della preminenza dell'annuncio del Vangelo, affidato da Gesù Cristo alle Chiese, per il quale hanno faticato i due fratelli apostoli degli slavi. Tale annuncio è stato via e strumento di reciproca conoscenza e di unione fra i diversi popoli dell'Europa nascente, ed ha assicurato all'Europa di oggi un comune patrimonio spirituale e culturale.

4. Auspico, quindi, che per opera della misericordia della santissima Trinità, per l'intercessione della Madre di Dio e di tutti i santi, sparisca ciò che divide le Chiese come pure i popoli e le nazioni; e le diversità di tradizioni e di cultura dimostrino invece il reciproco completamento di una comune ricchezza.

Che la consapevolezza di questa spirituale ricchezza, diventata su strade diverse patrimonio delle singole società del continente europeo, aiuti le generazioni contemporanee a perseverare nel reciproco rispetto dei giusti diritti di ogni nazione e nella pace, non cessando di rendere i servizi necessari al bene comune di tutta l'umanità e al futuro dell'uomo su tutta la terra.

Pertanto, con sicura cognizione e mia matura deliberazione, nella pienezza della potestà apostolica, in forza di questa lettera ed in perpetuo costituisco e dichiaro celesti compatroni di tutta l'Europa presso Dio i santi Cirillo e Metodio, concedendo inoltre tutti gli onori ed i privilegi liturgici che competono, secondo il diritto, ai patroni principali dei luoghi.

Pace agli uomini di buona volontà!

Dato a Roma, presso san Pietro, sotto l'«anello del pescatore», il giorno 31 del mese di dicembre dell'anno 1980, terzo di Pontificato.

 

 

DILECTI AMICI

LETTERA APOSTOLICA
DILECTI AMICI
DEL PAPA
GIOVANNI PAOLO II
PER L'ANNO INTERNAZIONALE DELLA GIOVENTU'

Cari amici!

Auguri per l'anno della gioventù

1. «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

E' questo l'augurio che rivolgo a voi, giovani, sin dall'inizio dell'anno corrente. Il 1985 è stato proclamato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite l'Anno Internazionale della Gioventù, e ciò riveste un molteplice significato prima di tutto per voi stessi, ed anche per tutte le generazioni, per le singole persone, per le comunità e per l'intera società. Ciò riveste un particolare significato anche per la Chiesa, quale custode di fondamentali verità e valori ed insieme ministra degli eterni destini che l'uomo e la grande famiglia umana hanno in Dio stesso.

Se l'uomo è la fondamentale ed insieme quotidiana via della Chiesa (Redemptor Hominis, 14), allora si comprende bene perché la Chiesa attribuisca una speciale importanza al periodo della giovinezza come ad una tappa-chiave della vita di ogni uomo. Voi, giovani, incarnate appunto questa giovinezza: voi siete la giovinezza delle nazioni e delle società, la giovinezza di ogni famiglia e dell'intera umanità; voi siete anche la giovinezza della Chiesa. Tutti guardiamo in direzione vostra, poiché noi tutti, grazie a voi, in un certo senso ridiventiamo di continuo giovani. Pertanto, la vostra giovinezza non è solo proprietà vostra, proprietà personale o di una generazione: essa appartiene al complesso di quello spazio, che ogni uomo percorre nell'itinerario della sua vita, ed è al tempo stesso un bene speciale di tutti. E' un bene dell'umanità stessa.

In voi c'è la speranza, perché voi appartenete al futuro, come il futuro appartiene a voi. La speranza, infatti, è sempre legata al futuro, è l'attesa dei «beni futuri». Come virtù cristiana, essa è unita all'attesa di quei beni eterni, che Dio ha promesso all'uomo in Gesù Cristo (cfr. Rm 8,19.21; Ef 4,4; Fil 3,10s; Tm 3,7; Eb 7,19; 1Pt 1,13). E contemporaneamente questa speranza, come virtù insieme cristiana e umana, è l'attesa dei beni che l'uomo si costruirà utilizzando i talenti a lui dati dalla Provvidenza.

In questo senso a voi, giovani, appartiene il futuro, così come un tempo esso appartenne alla generazione degli adulti e proprio insieme con essi è divenuto attualità. Di questa attualità, della sua molteplice forma e profilo sono responsabili prima di tutto gli adulti. A voi spetta la responsabilità di ciò che un giorno diventerà attualità insieme con voi, ed ora è ancora futuro.

Quando diciamo che a voi appartiene il futuro, pensiamo in categorie di transitorietà umana, la quale è sempre un passaggio verso il futuro. Quando diciamo che da voi dipende il futuro, pensiamo in categorie etiche, secondo le esigenze della responsabilità morale, che ci ordina di attribuire all'uomo come persona - e alle comunità e società che sono composte da persone - il valore fondamentale degli atti, dei propositi, delle iniziative e delle intenzioni umane.

Questa dimensione è anche la dimensione propria della speranza cristiana e umana. E in questa dimensione il primo e principale augurio che la Chiesa fa a voi giovani, per mia bocca, in quest'Anno dedicato alla Gioventù è: siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

Cristo parla con i giovani

2. Queste parole, scritte un tempo dall'apostolo Pietro alla prima generazione cristiana, sono in rapporto con tutto il Vangelo di Gesù Cristo. Avvertiremo questo rapporto in modo forse più distinto, quando mediteremo il colloquio di Cristo col giovane, riferito dagli evangelisti (cfr. Mc 10,17-22; Mt 19,16-22; Lc 18,18-23). Tra i molti testi biblici è questo prima di tutto che merita di essere qui ricordato.

Alla domanda: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», Gesù risponde prima con la domanda: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». Poi continua dicendo: «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,17-19). Con queste parole Gesù ricorda al suo interlocutore alcuni dei comandamenti del Decalogo.

Ma la conversazione non finisce qui. Il giovane, infatti, afferma: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora - scrive l'evangelista - «Gesù, fissatolo, lo amò» e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10,20s).

A questo punto cambia il clima dell'incontro. L'evangelista scrive che il giovane «rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Mc 10,22).

Ci sono ancora altri passi nei Vangeli, in cui Gesù di Nazareth incontra i giovani - particolarmente suggestive sono le due risurrezioni: quella della figlia di Giairo (cfr. Lc 8,49-56) e quella del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,11-17) -; tuttavia, possiamo ammettere senz'altro che il colloquio sopra ricordato è l'incontro più completo e più ricco di contenuto. Si può anche dire che esso ha carattere più universale e ultratemporale, e cioè che vale, in un certo senso, costantemente e continuamente, attraverso i secoli e le generazioni. Cristo parla così con un giovane, con un ragazzo o una ragazza: conversa in diversi luoghi della terra, in mezzo alle diverse nazioni, razze e culture. Ognuno di voi in questo colloquio è un suo potenziale interlocutore.

Al tempo stesso, tutti gli elementi della descrizione e tutte le parole, dette in quella conversazione da ambedue le parti, hanno un significato quanto mai essenziale, possiedono un loro peso specifico. Si può dire che queste parole contengano una verità particolarmente profonda sull'uomo in genere e, soprattutto, la verità sulla giovinezza umana. Esse sono davvero importanti per i giovani.

Permettete, perciò, che in linea di massima io colleghi la mia riflessione nella presente lettera con questo incontro e con questo testo evangelico. Forse in tal modo sarà più facile per voi sviluppare il proprio colloquio con Cristo: un colloquio che è d'importanza fondamentale ed essenziale per un giovane.

La giovinezza è una ricchezza singolare

3. Inizieremo da ciò che si trova alla fine del testo evangelico. Il giovane se ne va rattristato, «perché aveva molti beni».

Senza dubbio questa frase si riferisce ai beni materiali, dei quali quel giovane era proprietario o erede. Forse è questa una situazione propria solo di alcuni, ma non è tipica. E perciò le parole dell'evangelista suggeriscono un'altra impostazione del problema: si tratta del fatto che la giovinezza di per se stessa (indipendentemente da qualsiasi bene materiale) è una singolare ricchezza dell'uomo, di una ragazza o di un ragazzo, e il più delle volte viene vissuta dai giovani come una specifica ricchezza. Il più delle volte, ma non sempre, non di regola, perché non mancano al mondo uomini che per diversi motivi non sperimentano la giovinezza come ricchezza. Occorrerà parlarne separatamente.

Ci sono tuttavia ragioni - e anche di natura oggettiva - per pensare alla giovinezza come ad una singolare ricchezza, che l'uomo sperimenta proprio in tale periodo della sua vita. Questo si distingue certamente dal periodo dell'infanzia (è appunto l'uscita dagli anni dell'infanzia), come si distingue anche dal periodo della piena maturità. Il periodo della giovinezza, infatti, è il tempo di una scoperta particolarmente intensa dell'«io» umano e delle proprietà e capacità ad esso unite. Davanti alla vista interiore della personalità in sviluppo di un giovane o di una giovane, gradualmente e successivamente si scopre quella specifica e, in un certo senso, unica e irripetibile potenzialità di una concreta umanità, nella quale è come inscritto l'intero progetto della vita futura. La vita si delinea come la realizzazione di quel progetto: come «auto-realizzazione».

La questione merita naturalmente una spiegazione da molti punti di vista; a volerla tuttavia esprimere in breve, si rivela proprio un tale profilo e forma di quella ricchezza che è la giovinezza. E' questa la ricchezza di scoprire ed insieme di programmare, di scegliere, di prevedere e di assumere le prime decisioni in proprio, che avranno importanza per il futuro nella dimensione strettamente personale dell'esistenza umana. Nello stesso tempo, tali decisioni hanno non poca importanza sociale. Il giovane del Vangelo si trovava proprio in questa fase esistenziale, come desumiamo dalle domande stesse che egli fa nel colloquio con Gesù. Perciò, anche quelle parole conclusive sui «molti beni», cioè sulla ricchezza, possono essere intese proprio in tale senso: ricchezza che è la giovinezza stessa.

Dobbiamo però chiedere: questa ricchezza, che è la giovinezza, deve forse allontanare l'uomo da Cristo? L'evangelista certamente non dice questo; l'esame del testo permette, piuttosto, di concludere diversamente. Sulla decisione di allontanarsi da Cristo hanno pesato in definitiva solo le ricchezze esteriori, ciò che quel giovane possedeva («i beni»). Non ciò che egli era! Ciò che egli era, proprio in quanto giovane uomo - cioè la ricchezza interiore che si nasconde nella giovinezza umana - l'aveva condotto a Gesù. E gli aveva anche imposto di fare quelle domande, in cui si tratta nella maniera più chiara del progetto di tutta la vita. Che cosa devo fare? «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno senso?

La giovinezza di ciascuno di voi, cari amici, è una ricchezza che si manifesta proprio in questi interrogativi. L'uomo se li pone nell'arco di tutta la vita; tuttavia, nella giovinezza essi si impongono in modo particolarmente intenso, addirittura insistente.. Ed è bene che sia così. Questi interrogativi provano appunto la dinamica dello sviluppo della personalità umana, che è propria della vostra età. Queste domande ve le ponete a volte in modo impaziente, e contemporaneamente voi stessi capite che la risposta ad esse non può essere frettolosa né superficiale. Essa deve avere un peso specifico e definitivo. Si tratta qui di una risposta che riguarda tutta la vita, che racchiude in sé l'insieme dell'esistenza umana.

In modo particolare queste domande essenziali se le pongono quei vostri coetanei, la cui vita sin dalla giovinezza è gravata dalla sofferenza: da qualche carenza fisica, da qualche deficienza, da qualche handicap o limitazione, dalla difficile situazione familiare o sociale. Se con tutto ciò la loro coscienza si sviluppa normalmente, l'interrogativo sul senso e sul valore della vita diventa per loro tanto più essenziale ed insieme particolarmente drammatico, perché sin dall'inizio è contrassegnato dal dolore dell'esistenza. E quanti di questi giovani si trovano in mezzo alla grande moltitudine dei giovani nel mondo intero! Nelle diverse nazioni e società; nelle singole famiglie! Quanti sin dalla giovinezza sono costretti a vivere in un istituto o in un ospedale, condannati ad una certa passività, che può far nascere in loro ii sentimento di essere inutili all'umanità!

Si può dire allora che anche tale loro giovinezza sia una ricchezza interiore? A chi dobbiamo chiedere questo? A chi essi devono porre questo interrogativo essenziale? Sembra che qui sia Cristo l'unico interlocutore competente, quello che nessuno può sostituire pienamente.

Dio è amore

4. Cristo risponde al suo giovane interlocutore nel Vangelo. Egli dice: «Nessuno è buono, se non Dio solo». Abbiamo già sentito che cosa l'altro aveva domandato: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Come agire, affinché la mia vita abbia senso, pieno senso e valore? Noi potremmo tradurre così la sua domanda nel linguaggio della nostra epoca. In questo contesto la risposta di Cristo vuol dire: solo Dio è il fondamento ultimo di tutti i valori; solo lui dà il senso definitivo alla nostra esistenza umana. Solo Dio è buono, il che significa: in lui e solo in lui tutti i valori hanno la loro prima fonte e il loro compimento finale: egli è «l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine» (Ap 21,6). Solo in lui essi trovano la loro autenticità e la loro conferma definitiva. Senza di lui - senza il riferimento a Dio - l'intero mondo dei valori creati resta come sospeso in un vuoto assoluto. Esso perde anche la sua trasparenza, la sua espressività. Il male si presenta come bene e il bene viene squalificato. Non ci indica questo l'esperienza stessa dei nostri tempi, dovunque Dio sia stato rimosso oltre l'orizzonte delle valutazioni, degli apprezzamenti, degli atti?

Perché solo Dio è buono? Perché egli è amore. Cristo dà questa risposta con le parole del Vangelo e, soprattutto, con la testimonianza della propria vita e morte: «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Dio è buono proprio perché «è amore» (1Gv 4,8.16).

L'interrogativo sul valore, l'interrogativo sul senso della vita - abbiamo detto - fa parte della ricchezza singolare della giovinezza. Esso erompe dal cuore stesso delle ricchezze e delle inquietudini, legate a quel progetto di vita che si deve assumere e realizzare. Ancor più, quando la giovinezza è provata dalla sofferenza personale o è profondamente cosciente della sofferenza altrui; quando sperimenta una forte scossa di fronte al male multiforme, che è nel mondo; infine, quando si pone a faccia a faccia col mistero del peccato, dell'iniquità umana «mysterium iniquitatis» (cfr. 2Ts 2,7). La risposta di Cristo suona così: «Solo Dio è buono»; solo Dio è amore. Questa risposta può sembrare difficile, ma nello stesso tempo essa è ferma ed è vera: essa porta in sé la soluzione definitiva. Quanto prego affinché voi, giovani amici, udiate questa risposta di Cristo in modo veramente personale, affinché troviate la strada interiore per comprenderla, per accettarla e per intraprenderne la realizzazione!

Tale è Cristo nella conversazione col giovane. Tale è nel colloquio con ciascuno e con ciascuna di voi. Quando voi gli dite: «Maestro buono ...», egli domanda: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo». E dunque: il fatto che io sono buono dà testimonianza a Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Così dice Cristo, maestro e amico, Cristo crocifisso e risorto: sempre lo stesso ieri, oggi e nei secoli (cfr. Eb 13,8).

Tale è il nucleo, il punto essenziale della risposta a questi interrogativi che voi, giovani, ponete a lui mediante la ricchezza che è in voi, che è radicata nella vostra giovinezza. Questa schiude davanti a voi diverse prospettive, vi offre come compito il progetto di tutta la vita. Di qui l'interrogativo sui valori; di qui la domanda sul senso, sulla verità, sul bene e sul male. Quando Cristo rispondendovi vi comanda di riferire tutto questo a Dio, nello stesso tempo vi indica quale di ciò sia la fonte e il fondamento in voi stessi. Ognuno di voi, infatti, è immagine e somiglianza di Dio per il fatto stesso della creazione (cfr. Gen 1,26). Proprio una tale immagine e somiglianza fa sì che voi poniate quegli interrogativi che dovete porvi. Essi dimostrano fino a che punto l'uomo senza Dio non può comprendere se stesso, e non può neanche realizzarsi senza Dio. Gesù Cristo è venuto nel mondo prima di tutto per rendere ognuno di noi consapevole di questo. Senza di lui questa dimensione fondamentale della verità sull'uomo sprofonderebbe facilmente nel buio. Tuttavia, «la luce è venuta nel mondo» (Gv 3,19; cfr. 1,9) «ma le tenebre non l'hanno accolta» (Gv 1,5).

La domanda sulla vita eterna ...

5. Che cosa devo fare perché la mia vita abbia valore, abbia senso? Questo interrogativo appassionante nella bocca del giovane del Vangelo suona così: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Un uomo, che ponga la domanda in questa forma, parla in un linguaggio ancora comprensibile agli uomini d'oggi? Non siamo noi la generazione, alla quale il mondo e il progresso temporale riempiono completamente l'orizzonte dell'esistenza? Noi pensiamo prima di tutto in categorie terrene. Se oltrepassiamo i confini del nostro pianeta, ciò facciamo allo scopo di inaugurare i voli interplanetari, per trasmettere segnali agli altri pianeti ed inviare le sonde cosmiche nella loro direzione.

Tutto questo è diventato il contenuto della nostra civiltà moderna. La scienza insieme alla tecnica ha scoperto in modo impareggiabile le possibilità dell'uomo nei riguardi della materia, ed è riuscita, altresì, a dominare il mondo interiore del suo pensiero, delle sue capacità, delle sue tendenze, delle sue passioni.

Allo stesso tempo, però, è chiaro che, quando ci poniamo di fronte a Cristo, quando egli diventa il confidente degli interrogativi della nostra giovinezza, non possiamo porre la domanda diversamente da quel giovane del Vangelo: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Ogni altra domanda sul senso e sul valore della nostra vita sarebbe, di fronte a Cristo, insufficiente e non essenziale.

Cristo, infatti, non solo è il «maestro buono», che indica le vie della vita sulla terra. Egli è il testimone di quei definitivi destini che l'uomo ha in Dio stesso. Egli è il testimone dell'immortalità dell'uomo. Il Vangelo, che egli annunciava con la sua voce, viene definitivamente sigillato con la Croce e con la Risurrezione nel mistero pasquale. «Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui» (Rm 6,9). Nella sua risurrezione Cristo è divenuto anche il permanente «segno di contraddizione» (Lc 2,34) di fronte a tutti i programmi incapaci di condurre l'uomo oltre la frontiera della morte. Anzi essi con questo confine chiudono ogni interrogativo dell'uomo sul valore e sul senso della vita. Di fronte a tutti questi programmi, ai modi di vedere il mondo e alle ideologie Cristo ripete costantemente: «lo sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).

Se tu dunque, caro fratello e cara sorella, desideri parlare con Cristo aderendo a tutta la verità della sua testimonianza, devi da un lato «amare il mondo» - poiché «Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16) - e, nello stesso tempo, devi acquistare il distacco interiore nei riguardi di tutta questa ricca e appassionante realtà, qual è «il mondo». Devi deciderti a fare la domanda sulla vita eterna. Infatti, «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,13), e ciascuno di noi è soggetto a tale passaggio. L'uomo nasce con la prospettiva del giorno della sua morte, nella dimensione del mondo visibile; al tempo stesso, l'uomo, per cui l'interiore ragion d'essere è di superare se stesso, porta in sé anche tutto ciò con cui supera il mondo.

Tutto quello con cui l'uomo supera in se stesso il mondo - pur essendo in esso radicato - si spiega con l'immagine e la somiglianza di Dio, che è inscritta nell'essere umano sin dall'inizio. E tutto ciò con cui l'uomo supera il mondo non solo giustifica l'interrogativo sulla vita eterna, ma lo rende addirittura indispensabile. Questa è la domanda che gli uomini si pongono da tempo non solo nell'ambito del cristianesimo, ma anche al di fuori di esso. Voi dovete trovare il coraggio anche di porla come il giovane del Vangelo. Il cristianesimo ci insegna a comprendere la temporalità dalla prospettiva del Regno di Dio, dalla prospettiva della vita eterna. Senza di essa la temporalità, anche la più ricca, anche la più formata in tutti gli aspetti, alla fine non porta all'uomo null'altro che l'ineluttabile necessità della morte.

Ora, esiste un'antinomia tra la giovinezza e la morte. La morte sembra essere lontana dalla giovinezza. E' così. Poiché, tuttavia, la giovinezza significa il progetto di tutta la vita, progetto costruito secondo il criterio del senso e del valore, anche durante la giovinezza è indispensabile la domanda sulla fine. L'esperienza umana, lasciata a se stessa, dice la stessa cosa della Sacra Scrittura: «E' stabilito che gli uomini muoiano una sola volta» (Eb 9,27). Lo scrittore ispirato aggiunge: «Dopo di che viene il giudizio». E Cristo dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25s). Domandate dunque a Cristo, come il giovane del Vangelo: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?».

... sulla morale e sulla coscienza

6. A questo interrogativo Gesù risponde: «Tu conosci i comandamenti», e subito elenca questi comandamenti, che fan parte del Decalogo. Li ricevette un giorno Mosè sul monte Sinai, al momento dell'Alleanza di Dio con Israele. Essi furono scritti su tavole di pietra (cfr. Es 34,1; Dt 9,10; 2Cor 3,3) e costituivano per ogni israelita l'indicazione quotidiana della strada (cfr. Dt 4,5-9). Il giovane che parla con Cristo conosce naturalmente a memoria, i comandamenti del Decalogo; può, anzi, dichiarare con gioia: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (Mc 10, 20).

Dobbiamo presupporre che in quel dialogo che Cristo sviluppa con ciascuno di voi, o giovani, si ripeta la stessa domanda: «Conosci i comandamenti?». Essa si ripeterà infallibilmente, perché i comandamenti fanno parte dell'Alleanza tra Dio e l'umanità. I comandamenti determinano le basi essenziali del comportamento, decidono del valore morale degli atti umani, rimangono in rapporto organico con la vocazione dell'uomo alla vita eterna, con l'instaurazione del Regno di Dio negli uomini e tra gli uomini. Nella parola della Rivelazione divina è inscritto il chiaro codice della moralità, di cui rimangono punto-chiave le tavole del Decalogo del monte Sinai, ed il cui apice si trova nel Vangelo: nel Discorso della montagna (cfr. Mt 5-7) e nel comandamento dell'amore (Cfr. Mt 22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27).

Questo codice della moralità trova, al tempo stesso, un'altra redazione. Esso è inscritto nella coscienza morale dell'umanità, sicché coloro che non conoscono i comandamenti, cioè la legge rivelata da Dio, «sono legge a se stessi» (cfr. Rm 2,14). Così scrive san Paolo nella Lettera ai Romani, e subito aggiunge: «Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza» (Rm 2,15).

Tocchiamo qui problemi di somma importanza per la vostra giovinezza e per quel progetto di vita, che da essa emerge.

Questo progetto aderisce alla prospettiva della vita eterna prima di tutto attraverso la verità delle opere, sulle quali verrà costruito. La verità delle opere ha il suo fondamento in quella duplice redazione della legge morale: quella che si trova scritta nelle tavole del Decalogo di Mosè e nel Vangelo, e quella che si trova scolpita nella coscienza morale dell'uomo. E la coscienza «si presenta come testimone» di quella legge, come scrive san Paolo. Questa coscienza - secondo le parole della Lettera ai Romani - sono «i ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15). Ognuno sa quanto queste parole corrispondano alla nostra realtà interiore: ciascuno di noi sin dalla giovinezza sperimenta la voce della coscienza.

Quando dunque Gesù, nel colloquio col giovane, elenca i comandamenti: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,19), la retta coscienza risponde con una reazione interiore alle rispettive opere dell'uomo: essa accusa o difende. Bisogna, però, che la coscienza non sia deviata; bisogna che la fondamentale formulazione dei principi della morale non ceda alla deformazione ad opera di un qualsiasi relativismo o utilitarismo.

Cari giovani amici! La risposta, che Gesù dà al suo interlocutore del Vangelo, è rivolta a ciascuno e a ciascuna di voi. Cristo vi interroga circa lo stato della vostra consapevolezza morale, e vi interroga, al tempo stesso, circa lo stato delle vostre coscienze. Questa è una domanda-chiave per l'uomo: è l'interrogativo fondamentale della vostra giovinezza, valevole per tutto il progetto di vita, che appunto deve formarsi nella giovinezza. Il suo valore è quello più strettamente unito al rapporto che ognuno di voi ha nei confronti del bene e del male morale. Il valore di questo progetto dipende in modo essenziale dall'autenticità e dalla rettitudine della vostra coscienza. Dipende anche dalla sua sensibilità.

In tal modo ci troviamo qui in un momento cruciale, in cui ad ogni passo temporalità ed eternità si incontrano ad un livello che è proprio dell'uomo. E' il livello della coscienza, il livello dei valori morali: questa è la più importante dimensione della temporalità e della storia. La storia, infatti, viene scritta non solo dagli avvenimenti, che si svolgono in un certo qual senso «dall'esterno», ma è scritta prima di tutto «dal di dentro»: è la storia delle coscienze umane, delle vittorie o delle sconfitte morali. Qui trova anche il suo fondamento l'essenziale grandezza dell'uomo: la sua dignità autenticamente umana. Questo è quel tesoro interiore, per il quale l'uomo supera di continuo se stesso nella direzione dell'eternità. Se è vero che «è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta», è anche vero che il tesoro della coscienza, il deposito del bene e del male, l'uomo lo porta attraverso la frontiera della morte, affinché, al cospetto di colui che è la santità stessa, trovi l'ultima e definitiva verità su tutta la sua vita: «Dopo di che viene il giudizio» (Eb 9,27).

Così appunto avviene nella coscienza: nella verità interiore dei nostri atti, in un certo senso, è costantemente presente la dimensione della vita eterna. E contemporaneamente la stessa coscienza, mediante i valori morali, imprime il più espressivo sigillo nella vita delle generazioni, nella storia e nella cultura degli ambienti umani, delle società, delle nazioni e dell'intera umanità.

Quanto in questo campo dipende da ciascuna e da ciascuno di voi!

«Gesù, fissatolo, lo amò»

7. Continuando nell'esame del colloquio di Cristo col giovane, entriamo ora in un'altra fase. Essa è nuova e decisiva. Il giovane ha ricevuto la risposta essenziale e fondamentale alla domanda: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?», e questa risposta coincide con tutta la strada della sua vita, finora percorsa: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Quanto ardentemente auguro a ciascuno di voi che la strada della vostra vita, finora percorsa, coincida similmente con la risposta di Cristo! Auguro, anzi, che la giovinezza vi fornisca una robusta base di sani principi, che la vostra coscienza raggiunga già in questi anni della giovinezza quella trasparenza matura che nella vita permetterà a ciascuno di voi di rimanere sempre «persona di coscienza», «persona di principi», «persona che ispira fiducia», cioè che è credibile. La personalità morale, così formata, costituisce insieme il più importante contributo che voi potete portare nella vita comunitaria, nella famiglia, nella società, nell'attività professionale e anche nell'attività culturale o politica e, finalmente, nella comunità stessa della Chiesa, con la quale già siete o sarete un giorno legati.

Si tratta qui insieme di una piena e profonda autenticità dell'umanità e di un'eguale autenticità dello sviluppo della personalità umana, femminile o maschile, con tutte le caratteristiche che costituiscono il tratto irripetibile di questa personalità e, al tempo stesso, provocano una molteplice risonanza nella vita della comunità e degli ambienti, iniziando già dalla famiglia. Ognuno di voi deve in qualche modo contribuire alla ricchezza di queste comunità, prima di tutto, per mezzo di ciò che è. Non si chiude in questa direzione quella giovinezza, che è la ricchezza «personale» di ciascuno di voi? L'uomo legge se stesso, la propria umanità sia come il proprio mondo interiore, sia come il terreno specifico dell'essere «con gli altri», «per gli altri».

Proprio qui assumono un significato decisivo i comandamenti del Decalogo e del Vangelo, specialmente il comandamento della carità, che apre l'uomo verso Dio e verso il prossimo. La carità, infatti, è «il vincolo della perfezione» (Col 3,14). Per mezzo di essa maturano più pienamente l'uomo e la fratellanza inter-umana. Perciò, la carità è più grande (cfr. 1Cor 13,13), è il primo tra tutti i comandamenti, come insegna il Cristo (cfr. Mt 22,38); in esso anche tutti gli altri si racchiudono e si unificano.

Vi auguro, dunque, che le strade della vostra giovinezza si incontrino col Cristo, affinché possiate confermare davanti a lui, con la testimonianza della coscienza, questo codice evangelico della morale, ai cui valori, nel corso delle generazioni, si sono avvicinati in qualche modo tanti uomini grandi di spirito.

Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l'intera storia dell'umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell'altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé.

In questo vediamo già emergere chiaramente quella morale oggettiva, della quale san Paolo afferma che è «scritta nei cuori» e riceve la «testimonianza della coscienza» (cfr. Rm 2,15). Il cristiano vi scorge facilmente un raggio del Verbo creatore che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9; Nostra Aetate, 2), e proprio perché di questo Verbo, fatto carne, è seguace, si eleva alla legge superiore del Vangelo che positivamente gli impone - col comandamento della carità - di fare al prossimo tutto quel bene che vuole sia fatto a sé. Egli sigilla così l'intima voce della sua coscienza con l'adesione assoluta a Cristo ed alla sua parola.

Vi auguro anche di sperimentare, dopo il discernimento dei problemi essenziali ed importanti per la vostra giovinezza, per il progetto di tutta la vita che è davanti a voi, ciò di cui parla il Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò». Vi auguro di sperimentare una sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi guarda con amore!

Egli guarda con amore ogni uomo. Il Vangelo lo conferma ad ogni passo. Si può anche dire che in questo «sguardo amorevole» di Cristo sia contenuto quasi il riassunto e la sintesi di tutta la Buona Novella. Se cerchiamo l'inizio di questo sguardo, occorre che torniamo indietro al Libro della Genesi, a quell'istante in cui, dopo la creazione dell'uomo «maschio e femmina», Dio vide che «era cosa molto buona» (Gen 1,31). Questo primissimo sguardo del Creatore si rispecchia nello sguardo di Cristo, che accompagna la conversazione col giovane del Vangelo.

Sappiamo che Cristo confermerà e sigillerà questo sguardo col sacrificio redentivo della Croce, poiché proprio per mezzo di questo sacrificio quello «sguardo» raggiunse una particolare profondità di amore. In esso è contenuta una tale affermazione dell'uomo e dell'umanità, della quale solo egli è capace, solo Cristo Redentore e Sposo. Egli solo «sa quello che c'è in ogni uomo» (cfr. Gv 2,25): conosce la sua debolezza, ma conosce anche e soprattutto la sua dignità.

Auguro a ciascuno e a ciascuna di voi di scoprire questo sguardo di Cristo e di sperimentarlo fino in fondo. Non so in quale momento della vita. Penso che ciò avverrà quando ce ne sarà più bisogno: forse nella sofferenza, forse insieme con la testimonianza di una coscienza pura, come nel caso di quel giovane del Vangelo, o forse proprio in una situazione opposta: insieme col senso di colpa, col rimorso di coscienza. Cristo, infatti, guardò anche Pietro nell'ora della sua caduta, quando egli ebbe rinnegato tre volte il suo Maestro (cfr. Lc 22,61).

E' necessario all'uomo questo sguardo amorevole: è a lui necessaria la consapevolezza di essere amato, di essere amato eternamente e scelto dall'eternità (cfr. Ef 1,4). Al tempo stesso, questo eterno amore di elezione divina accompagna l'uomo durante la vita come lo sguardo d'amore di Cristo. E forse massimamente nel momento della prova, dell'umiliazione, della persecuzione, della sconfitta, allorché la nostra umanità viene quasi cancellata agli occhi degli uomini, oltraggiata e calpestata: allora la consapevolezza che il Padre ci ha da sempre amati nel suo Figlio, che il Cristo ama ognuno e sempre, diventa un fermo punto di sostegno per tutta la nostra esistenza umana. Quando tutto si pronuncia in favore del dubbio su se stessi e sul senso della propria vita, allora questo sguardo di Cristo, cioè la consapevolezza dell'amore che in lui si è dimostrato più potente di ogni male e di ogni distruzione, questa consapevolezza ci permette di sopravvivere.

Vi auguro, dunque, di sperimentare ciò che sperimentò il giovane del Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò».

«Seguimi»

8. Dall'esame del testo evangelico risulta che questo sguardo fu per così dire, la risposta di Cristo alla testimonianza che il giovane aveva dato della sua vita fino a quel momento ossia di aver agito secondo i comandamenti di Dio: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».

Al tempo stesso, questo «sguardo d'amore» fu l'introduzione alla fase conclusiva della conversazione. Volendo seguire la redazione di Matteo, fu quel giovane stesso ad aprire questa fase, dato che non solo affermò la propria fedeltà nei confronti dei comandamenti del Decalogo, che caratterizzava tutta la sua precedente condotta, ma contemporaneamente pose una nuova domanda. Difatti chiese: «Che cosa mi manca ancora?» (Mt 19,20).

Questa domanda è molto importante. Indica che nella coscienza morale dell'uomo, e proprio dell'uomo giovane, che forma il progetto di tutta la sua vita, è nascosta l'aspirazione a un «qualcosa di più». Questa aspirazione si fa sentire in diversi modi, e noi possiamo notarla anche tra gli uomini che sembrano esser lontani dalla nostra religione.

Tra i seguaci delle religioni non cristiane, soprattutto del Buddhismo, dell'Induismo e dell'Islamismo, troviamo già da millenni schiere di uomini «spirituali», i quali spesso fin dalla giovinezza lasciano tutto per mettersi in stato di povertà e di purezza alla ricerca dell'Assoluto che sta oltre l'apparenza delle cose sensibili, si sforzano di acquistare lo stato di liberazione perfetta, si rifugiano in Dio con amore e confidenza, cercano di sottomettersi con tutta l'anima ai decreti nascosti di lui. Essi sono come spinti da una misteriosa voce interiore che risuona nel loro spirito, quasi echeggiando la parola di san Paolo: «Passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31) e li guida alla ricerca di cose più grandi e durature: «Cercate le cose di lassù» (Col 3,1). Essi tendono con tutte le forze verso la meta lavorando con serio tirocinio alla purificazione del loro spirito, giungendo talvolta a fare della propria vita una donazione d'amore alla divinità. Così facendo, si levano come un esempio vivente per i loro contemporanei, ai quali additano con la loro stessa condotta il primato dei valori eterni su quelli fuggevoli e talora ambigui offerti dalla società, in cui vivono.

Ma è nel Vangelo che l'aspirazione alla perfezione, a un «qualcosa di più» trova il suo esplicito punto di riferimento. Cristo nel Discorso della montagna conferma tutta la legge morale, al cui centro si trovano le tavole mosaiche dei dieci comandamenti; nello stesso tempo, però, egli conferisce a questi comandamenti un significato nuovo, evangelico. E tutto viene concentrato - come è già stato detto - intorno alla carità, non solo come comandamento, ma anche come dono: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

In questo nuovo contesto diventa anche comprensibile il programma delle otto Beatitudini, con cui si apre il Discorso della montagna nel Vangelo secondo Matteo (cfr. Mt 5,3-12).

In questo stesso contesto l'insieme dei comandamenti, che costituiscono il codice fondamentale della morale cristiana, viene completato dall'insieme dei consigli evangelici, nei quali in modo speciale si esprime e si concretizza la chiamata di Cristo alla perfezione, che è chiamata alla santità.

Quando il giovane chiede intorno al «di più»: «Che cosa mi manca ancora?», Gesù lo fissa con amore, e questo amore trova qui un nuovo significato. L'uomo viene portato interiormente, per mano dello Spirito Santo, da una vita secondo i comandamenti ad una vita nella consapevolezza del dono, e lo sguardo pieno di amore di Cristo esprime questo «passaggio» interiore. E Gesù dice: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).

Sì, miei amati giovani amici! L'uomo, il cristiano è capace di vivere nella dimensione del dono. Anzi, questa dimensione non solo è «superiore» alla dimensione dei soli obblighi morali noti dai comandamenti, ma è anche «più profonda» di essa e più fondamentale. Essi testimonia una più piena espressione di quel progetto di vita, che costruiamo già nella giovinezza. La dimensione del dono crea anche il profilo maturo di ogni vocazione umana e cristiana, come verrà detto in seguito.

In questo momento desidero, tuttavia, parlarvi del particolare significato delle parole, che Cristo disse a quel giovane. E ciò faccio nella convinzione che Cristo le rivolga nella Chiesa ad alcuni suoi giovani interlocutori di ogni generazione. Anche della nostra. Quelle sue parole significano allora una particolare vocazione nella comunità del Popolo di Dio. La Chiesa trova il «seguimi» di Cristo (cfr. Mc 10,21; Gv 1,43; 21,23) all'inizio di ogni chiamata al servizio nel sacerdozio ministeriale, il che simultaneamente nella Chiesa cattolica latina è unito alla consapevole e libera scelta del celibato. La Chiesa trova lo stesso «seguimi» di Cristo all'inizio della vocazione religiosa, nella quale mediante la professione dei consigli evangelici (castità, povertà e obbedienza) un uomo o una donna riconoscono come proprio il programma di vita che Cristo stesso realizzò sulla terra, per il Regno di Dio (cfr. Mt 19,12). Emettendo i voti religiosi, tali persone si impegnano a dare una particolare testimonianza dell'amore di Dio sopra ogni cosa ed insieme di quella chiamata all'unione con Dio nell'eternità, che è rivolta a tutti. C'è, tuttavia, bisogno che alcuni ne diano una testimonianza eccezionale davanti agli altri.

Mi limito solo a menzionare questi argomenti nella presente Lettera, perché essi sono stati già presentati ampiamente altrove ed anche più volte (Redemptionis Donum). Io li ricordo, perché nel contesto del colloquio di Cristo col giovane essi acquistano una particolare chiarezza, specialmente l'argomento della povertà evangelica. Li ricordo anche perché la chiamata «seguimi» di Cristo, proprio in questo senso eccezionale e carismatico, si fa sentire il più delle volte già nel periodo della giovinezza; a volte si avverte addirittura nel periodo dell'infanzia.

E' per questo che desidero dire a tutti voi, giovani, in questa importante fase dello sviluppo della vostra personalità femminile o maschile: se una tale chiamata giunge al tuo cuore, non farla tacere! Lascia che si sviluppi fino alla maturità di una vocazione! Collabora con essa mediante la preghiera e la fedeltà ai comandamenti! «La messe, infatti, è molta» (Mt 9,37). C'è un enorme bisogno di molti che siano raggiunti dalla chiamata di Cristo: «Seguimi». C'è un enorme bisogno di sacerdoti secondo il cuore di Dio, e la Chiesa e il mondo d'oggi hanno un enorme bisogno di una testimonianza di vita donata senza riserva a Dio: della testimonianza di un tale amore sponsale di Cristo stesso, che in modo particolare renda presente tra gli uomini il Regno di Dio e lo avvicini al mondo.

Permettetemi, dunque, di completare ancora le parole di Cristo Signore sulla messe che è molta. Sì, è molta questa messe del Vangelo, questa messe della salvezza!... «Ma gli operai sono pochi!». Forse oggi ciò si risente più che in passato, specialmente in alcuni paesi, come anche in alcuni istituti di vita consacrata e simili.

«Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe» (Mt 9,37), continua Cristo. E queste parole, specialmente ai nostri tempi, diventano un programma di preghiera e di azione in favore delle vocazioni sacerdotali e religiose. Con questo programma la Chiesa si rivolge a voi, ai giovani. Anche voi: chiedete! E se il frutto di questa preghiera della Chiesa nascerà nel profondo del vostro cuore, ascoltate il Maestro che dice: «Seguimi».

Il progetto di vita e la vocazione cristiana

9. Queste parole nel Vangelo certamente riguardano la vocazione sacerdotale o religiosa; al tempo stesso, però, esse ci permettono di comprendere più profondamente la questione della vocazione in un senso ancor più ampio e fondamentale.

Si potrebbe parlare qui della vocazione «di vita», la quale in qualche modo si identifica con quel progetto di vita, che ognuno di voi elabora nel periodo della sua giovinezza. Tuttavia, «la vocazione» dice ancora qualcosa di più del «progetto». In questo secondo caso sono io stesso il soggetto che elabora, e ciò corrisponde meglio alla realtà della persona, qual è ognuna e ognuno di voi. Questo «progetto» è la «vocazione», in quanto in essa si fanno sentire i vari fattori che chiamano. Questi fattori compongono di solito un determinato ordine di valori (detto anche «gerarchia di valori»), dai quali emerge un ideale da realizzare, che è attraente per un cuore giovane. In questo processo la «vocazione» diventa «progetto», e il progetto comincia a essere anche vocazione.

Dato però che ci troviamo davanti a Cristo e basiamo le nostre riflessioni intorno alla giovinezza sul suo colloquio col giovane, occorre precisare ancor meglio quel rapporto del «progetto di vita» nei riguardi della «vocazione di vita». L'uomo è una creatura ed è insieme un figlio adottivo di Dio in Cristo: è figlio di Dio. Allora, l'interrogativo: «Che cosa devo fare?» l'uomo lo pone durante la sua giovinezza non solo a sé e agli altri uomini, dai quali può attendere una risposta, specialmente ai genitori e agli educatori, ma lo pone anche a Dio, come suo creatore e padre. Egli lo pone nell'ambito di quel particolare spazio interiore, nel quale ha imparato ad essere in stretta relazione con Dio, prima di tutto nella preghiera. Egli chiede dunque a Dio: «Che cosa devo fare?», qual è il tuo piano riguardo alla mia vita? Il tuo piano creativo e paterno? Qual'è la tua volontà? lo desidero compierla.

In un tale contesto il «progetto» acquista il significato di «vocazione di vita», come qualcosa che viene all'uomo affidato da Dio come compito. Una persona giovane, rientrando dentro di sé ed insieme intraprendendo il colloquio con Cristo nella preghiera, desidera quasi leggere quel pensiero eterno, che Dio, creatore e padre, ha nei suoi riguardi. Si convince allora che il compito, a lei assegnato da Dio, è lasciato completamente alla sua libertà e, al tempo stesso, è determinato da diverse circostanze di natura interna ed esterna. Esaminandole la persona giovane, ragazzo o ragazza, costruisce il suo progetto di vita ed insieme riconosce questo progetto come la vocazione alla quale Dio la chiama.

Desidero, dunque, affidare a voi tutti, giovani destinatari della presente Lettera, questo lavoro meraviglioso, che si collega alla scoperta, davanti a Dio, della rispettiva vocazione di vita. E' questo un lavoro appassionante. E' un affascinante impegno interiore. In questo impegno si sviluppa e cresce la vostra umanità, mentre la vostra giovane personalità va acquistando la maturità interiore. Vi radicate in ciò che ognuno e ognuna di voi è, per diventare ciò che deve diventare: per sé - per gli uomini - per Dio.

Di pari passo col processo di scoprire la propria «vocazione di vita» dovrebbe svilupparsi il rendersi conto in qual modo questa vocazione di vita sia, al tempo stesso, una «vocazione cristiana».

Occorre qui osservare che, nel periodo anteriore al Concilio Vaticano II, il concetto di «vocazione» veniva applicato prima di tutto in relazione al sacerdozio e alla vita religiosa, come se Cristo avesse rivolto al giovane il suo «seguimi» evangelico solo per questi casi. Il Concilio ha allargato questa visuale. La vocazione sacerdotale e religiosa ha conservato il suo carattere particolare e la sua sacramentale e carismatica importanza nella vita del Popolo di Dio. Al tempo stesso, però, la consapevolezza, rinnovata dal Vaticano II, dell'universale partecipazione di tutti i battezzati alla triplice missione di Cristo (tria munera) profetica, sacerdotale e regale, come anche la consapevolezza dell'universale vocazione alla santità (Lumen Gentium, 39-42), fanno sì che ogni vocazione di vita dell'uomo come la vocazione cristiana corrisponda alla chiamata evangelica. Il «seguimi» di Cristo si fa sentire su diverse strade, lungo le quali camminano i discepoli ed i confessori del divin Redentore, In diversi modi si può diventare imitatori di Cristo, cioè non solamente dando una testimonianza del Regno escatologico di verità e di amore, ma anche adoperandosi per la trasformazione secondo lo spirito del Vangelo di tutta la realtà temporale (cfr. Gaudium et Spes, 43-44). E' a questo punto che prende anche inizio l'apostolato dei laici, che è inseparabile dall'essenza stessa della vocazione cristiana.

Sono queste le premesse estremamente importanti per il progetto di vita, che corrisponde all'essenziale dinamismo della vostra giovinezza. Bisogna che voi esaminiate questo progetto - indipendentemente dal concreto contenuto «di vita», di cui esso si riempirà - alla luce delle parole rivolte da Cristo a quel giovane.

Bisogna anche che ripensiate - e molto profondamente - al significato del battesimo e della cresima. In questi due sacramenti, infatti, è contenuto il deposito fondamentale della vita e della vocazione cristiana. Da essi parte la strada verso l'Eucaristia, che contiene la pienezza della sacramentale elargizione concessa al cristiano: tutta la ricchezza della Chiesa si concentra in questo sacramento di amore. A sua volta - e sempre in rapporto all'Eucaristia - bisogna riflettere sull'argomento del sacramento della penitenza, il quale ha un'importanza insostituibile per la formazione della personalità cristiana, specialmente se ad esso viene unita la direzione spirituale, cioè una scuola sistematica di vita interiore.

Su tutto questo mi pronuncio brevemente, anche se ciascuno dei sacramenti della Chiesa ha il suo definito e specifico riferimento alla giovinezza ed ai giovani. Confido che questo tema venga trattato in maniera particolareggiata da altri, specialmente dagli operatori pastorali appositamente inviati a collaborare con la gioventù.

La Chiesa stessa - come insegna il Concilio Vaticano II - è «come un sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1). Ogni vocazione di vita, come vocazione «cristiana», è radicata nella sacramentalità della Chiesa: essa si forma, dunque, mediante i sacramenti della nostra fede. Sono essi a permetterci sin dalla giovinezza di aprire il nostro «io» umano all'azione salvifica di Dio, cioè della santissima Trinità. Essi ci permettono di partecipare alla vita di Dio, vivendo al massimo un'autentica vita umana. In tal modo questa vita umana acquista una nuova dimensione ed insieme la sua originalità cristiana: la consapevolezza delle esigenze poste all'uomo dal Vangelo viene completata dalla consapevolezza del dono, che supera ogni cosa. «Se tu conoscessi il dono di Dio» (Gv 4,10), disse Cristo parlando con la Samaritana.

«Grande Sacramento sponsale»

10. Su questo vasto sfondo, che il vostro progetto giovanile di vita acquista in confronto con l'idea della vocazione cristiana, io desidero rivolgere l'attenzione insieme con voi, giovani destinatari della presente Lettera, verso il problema che, in un certo senso, si trova al centro della giovinezza di voi tutti. Questo è uno dei problemi centrali della vita umana ed è insieme uno dei temi centrali di riflessione, di creatività e di cultura. Questo è anche uno dei principali temi biblici, al quale personalmente ho dedicato molte riflessioni e molte analisi. Dio ha creato l'essere umano uomo e donna, introducendo con ciò nella storia dell'umanità quella particolare «duplicità» con una completa parità, se si tratta della dignità umana, e con una meravigliosa complementarietà, se si tratta della divisione degli attributi, delle proprietà e dei compiti, uniti alla mascolinità ed alla femminilità dell'essere umano.

Pertanto, questo è un tema di per sé inscritto nello stesso «io» personale di ciascuno e di ciascuna di voi. La giovinezza è quel periodo, in cui questo grande tema attraversa in modo sperimentale e creativo l'anima e il corpo di ogni ragazza e di ogni ragazzo, e si manifesta all'interno della coscienza giovanile insieme con la scoperta fondamentale del proprio «io» in tutta la sua molteplice potenzialità. Allora anche, sull'orizzonte di un giovane cuore, si delinea un'esperienza nuova: questa è l'esperienza dell'amore, che sin dall'inizio richiede di essere inscritta in quel progetto di vita, che la giovinezza crea e forma spontaneamente.

Tutto questo possiede ogni volta la sua irripetibile espressione soggettiva, la sua ricchezza affettiva, la sua bellezza addirittura metafisica. Al tempo stesso, in tutto questo è contenuta una possente esortazione a non falsare questa espressione, a non distruggere tale ricchezza e a non deturpare tale bellezza. Siate convinti che questo appello viene da Dio stesso, che ha creato l'uomo «a sua immagine e somiglianza» proprio «come uomo e donna». Questo appello scaturisce dal Vangelo e si fa sentire nella voce delle giovani coscienze, se esse hanno conservato la loro semplicità e limpidezza: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Sì! Per mezzo di quell'amore che nasce in voi - e vuol essere inscritto nel progetto di tutta la vita - dovete vedere Dio che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16).

E perciò vi chiedo di non interrompere il colloquio con Cristo in questa fase estremamente importante della vostra giovinezza; vi chiedo, anzi, di impegnarvi ancora di più. Quando Cristo dice «seguimi», la sua chiamata può significare: «Ti chiamo ad un altro amore ancora»; però, molto spesso significa: «Seguimi», segui me che sono lo sposo della Chiesa, della mia sposa ...; vieni, diventa anche tu lo sposo della tua sposa ..., diventa anche tu la sposa del tuo sposo. Diventate ambedue i partecipanti a quel mistero, a quel sacramento, del quale nella Lettera agli Efesini si dice che è grande: grande «in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (cfr. Ef 5,32).

Molto dipende dal fatto che voi, anche su questa via, seguiate il Cristo; che non fuggiate da lui mentre avete questo problema che giustamente ritenete il grande evento del vostro cuore, un problema che esiste solo in voi e tra voi. Desidero che crediate e vi convinciate che questo grande problema ha la sua dimensione definitiva in Dio, che è amore, in Dio, che nell'assoluta unità della sua divinità è insieme una comunione di persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Desidero che voi crediate e vi convinciate che questo vostro umano «grande mistero» ha il suo principio in Dio che è il Creatore, che esso è radicato in Cristo Redentore, il quale come lo sposo «ha dato se stesso», ed a tutti gli sposi e a tutte le spose insegna a «donarsi» secondo la piena misura della dignità personale di ciascuno e di ciascuna. Cristo ci insegna l'amore sponsale.

Imboccare la via della vocazione matrimoniale significa imparare l'amore sponsale giorno per giorno, anno per anno: l'amore secondo l'anima e il corpo, l'amore che «è paziente, è benigno, che non cerca il suo ... e non tiene conto del male»; l'amore, che sa «compiacersi della verità», l'amore che «tutto sopporta» (cfr. 1Cor 13,4.5.6.7).

Proprio di questo amore voi, giovani, avete bisogno, se il vostro futuro matrimonio deve «superare» la prova di tutta la vita. E proprio questa prova fa parte dell'essenza stessa della vocazione che, mediante il matrimonio, intendete inscrivere nel progetto della vostra vita.

E perciò io non smetto di pregare il Cristo e la Madre del bell'Amore per l'amore che nasce nei giovani cuori. Molte volte nella mia vita mi è stato dato di accompagnare, in un certo senso, più da vicino questo amore dei giovani. Grazie a questa esperienza ho capito quanto sia essenziale il problema, di cui si tratta qui, quanto esso sia importante e quanto grande. Penso che il futuro dell'uomo si decida in misura importante sulle vie di questo amore, inizialmente giovanile, che tu e lei... che tu e lui scoprite sulle strade della vostra giovinezza. Questa è - si può dire - una grande avventura, ma è anche un grande compito.

Oggi i principi della morale cristiana matrimoniale in molti ambienti vengono presentati secondo un'immagine distorta. Si cerca di imporre ad ambienti, e perfino a intere società un modello che si autoproclama «progressista» e «moderno». Non si nota all'occasione che in questo modello l'uomo e, forse, soprattutto la donna da soggetto è trasformato in oggetto (oggetto di una specifica manipolazione), e tutto il grande contenuto dell'amore viene ridotto a «godimento», il quale, anche se fosse da ambedue le parti, non cesserebbe di essere egoistico nella sua essenza. Infine il bambino, che è il frutto e la nuova incarnazione dell'amore dei due, diventa sempre più «un'aggiunta fastidiosa». La civiltà materialistica e consumistica penetra in tutto questo meraviglioso insieme dell'amore coniugale e paterno e materno, e lo spoglia di quel contenuto profondamente umano, che sin dall'inizio fu pervaso anche da un contrassegno e riflesso divino.

Cari giovani amici! Non permettete che vi sia tolta questa ricchezza! Non inscrivete nel progetto della vostra vita un contenuto deformato, impoverito e falsato: l'amore «si compiace della verità». Cercatela questa verità là dove essa si trova realmente! Se c'è bisogno, siate decisi ad andare contro la corrente delle opinioni che circolano e degli slogans propagandati! Non abbiate paura dell'amore, che pone precise esigenze all'uomo. Queste esigenze - così come le trovate nel costante insegnamento della Chiesa - sono appunto capaci di rendere il vostro amore un vero amore.

E se dovessi farlo in qualche luogo, qui specialmente io desidero ripetere l'augurio formulato all'inizio, che cioè siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»! La Chiesa e l'umanità vi affidano il grande problema di quell'amore, sul quale si basa il matrimonio, la famiglia: il futuro. Esse confidano che saprete farlo rinascere; confidano che saprete renderlo bello: umanamente e cristianamente bello. Umanamente e cristianamente grande, maturo e responsabile.

Eredità

11. Nel vasto ambito nel quale il progetto di vita, elaborato nella giovinezza, s'incontra con «gli altri», abbiamo toccato il punto più nevralgico. Consideriamo ancora che questo punto centrale, nel quale il nostro «io» personale si apre verso la vita «con gli altri» e «per gli altri» nell'alleanza matrimoniale, trova nella Sacra Scrittura una parola molto significativa: «L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie» (Gen 2,24; cfr. Mt 19,5).

Quell'«abbandonerà» merita una particolare attenzione. La storia dell'umanità passa sin dall'inizio - e passerà sino alla fine - attraverso la famiglia. L'uomo entra in essa mediante la nascita che deve ai genitori: al padre e alla madre, per abbandonare poi al momento opportuno questo primo ambiente di vita e di amore e passare al nuovo. «Abbandonando il padre e la madre», ognuno e ognuna di voi contemporaneamente, in un certo senso li porta dentro con sé, assume la molteplice eredità, che in loro e nella loro famiglia ha il suo diretto inizio e la sua fonte. In questo modo, anche abbandonando, ognuno di voi rimane: l'eredità che assume lo lega stabilmente con coloro che l'hanno trasmessa a lui ed ai quali tanto deve. E egli stesso - lei e lui - continuerà a trasmettere la stessa eredità. Perciò, anche il quarto comandamento del Decalogo possiede una così grande importanza: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12; Dt 5,16; Mt 15,4).

Si tratta qui, prima di tutto, del retaggio di essere uomo e, successivamente, di essere uomo in una più definita situazione personale e sociale. In questo ha la sua parte persino la somiglianza fisica nei riguardi dei genitori. Ancor più importante di questo è l'intero retaggio della cultura, al centro del quale si trova quasi quotidianamente la lingua. I genitori hanno insegnato a ciascuno di voi a parlare quella lingua, che costituisce l'espressione essenziale del legame sociale con altri uomini. Esso è determinato da confini più ampi della famiglia stessa oppure di un certo ambiente. Questi sono i confini almeno di una tribù e il più delle volte i confini di un popolo o di una nazione, nella quale siete nati.

In questo modo l'eredità familiare si estende. Attraverso l'educazione familiare partecipate ad una determinata cultura, partecipate anche alla storia del vostro popolo o nazione. Il legame familiare significa insieme l'appartenenza ad una comunità più grande della famiglia, e ancora un'altra base di identità della persona. Se la famiglia è la prima educatrice di ognuno di voi, al tempo stesso - mediante la famiglia - educatrice è la tribù, il popolo o la nazione, con cui siamo legati per l'unità della cultura, della lingua e della storia.

Questo retaggio costituisce, altresì, una chiamata in senso etico. Ricevendo la fede ed ereditando i valori e contenuti che costituiscono l'insieme della cultura della sua società, della storia della sua nazione, ciascuno e ciascuna di voi viene dotato spiritualmente nella sua individuale umanità. Ritorna qui la parabola dei talenti, che riceviamo dal Creatore per il tramite dei nostri genitori e delle nostre famiglie, ed anche della comunità nazionale, alla quale apparteniamo. Nei riguardi di questa eredità noi non possiamo mantenere un atteggiamento passivo, o addirittura rinunciatario, come fece l'ultimo di quei servi che sono nominati nella parabola dei talenti (cfr. Mt 25,14-30; Lc 19,12-26). Noi dobbiamo fare tutto ciò di cui siamo capaci, per assumere questo retaggio spirituale, per confermarlo, mantenerlo e incrementarlo. Questo è un compito importante per tutte le società, specialmente forse per quelle che si trovano all'inizio della loro esistenza autonoma, oppure per quelle che devono difendere dal pericolo di distruzione dall'esterno o di decomposizione dall'interno questa stessa esistenza e l'essenziale identità della propria nazione.

Scrivendo a voi, giovani, io cerco di avere davanti agli occhi dell'anima la complessa e distinta situazione delle tribù, dei popoli e delle nazioni sul nostro globo terrestre. La vostra giovinezza ed il progetto di vita, che durante la giovinezza ciascuno e ciascuna di voi elabora, sono sin dall'inizio inseriti nella storia di queste diverse società, e ciò avviene non «dall'esterno», ma eminentemente «dall'interno». Questo diventa per voi una questione di consapevolezza familiare e, conseguentemente, nazionale: una questione di cuore, una questione di coscienza. Il concetto di «patria» si sviluppa in immediata contiguità col concetto di «famiglia» e, in un certo senso, l'uno nell'ambito dell'altro. E voi gradualmente, sperimentando questo legame sociale, che è più ampio del legame familiare, iniziate anche a partecipare alla responsabilità per il bene comune di quella più grande famiglia, che è la «patria» terrena di ciascuno e di ciascuna di voi. Le eminenti figure della storia, antica o contemporanea, di una nazione guidano anche la vostra giovinezza, e favoriscono lo sviluppo di quell'amore sociale, che più spesso viene chiamato «amor patrio».

Talenti e compiti

12. Ecco, in questo contesto della famiglia e della società, che è la vostra patria, si inserisce gradualmente un tema connesso molto da vicino con la parabola dei talenti. Gradualmente, infatti, voi riconoscete quel «talento» o quei «talenti», che sono propri di ciascuno e di ciascuna di voi, e cominciate a servirvene in modo creativo, cominciate a moltiplicarli. E ciò avviene per mezzo del lavoro.

Quale scala enorme di possibili direzioni, capacità, interessi esiste in questo campo! lo non mi impegno ad enumerarli qui neanche a titolo di esempio, perché c'è pericolo di ometterne più di quanti possa prenderne in considerazione. Presuppongo, dunque, tutta quella varietà e molteplicità di direzioni. Essa dimostra anche la molteplice ricchezza delle scoperte che la giovinezza porta con sé. Facendo riferimento al Vangelo, si può dire che la giovinezza sia il tempo del discernimento dei talenti. Ed insieme essa è il tempo in cui si entra nei molteplici itinerari, lungo i quali si sono sviluppate e ancora continuano a svilupparsi tutta l'attività umana, il lavoro e la creatività.

Auguro a ciascuna e a ciascuno di scoprire se stesso lungo questi itinerari. Auguro di entrarvi con interesse, con diligenza, con entusiasmo. Il lavoro - ogni lavoro - è unito alla fatica: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen 3,19) e questa esperienza di fatica viene partecipata da ciascuno e da ciascuna di voi sin dai primissimi anni. Al tempo stesso, tuttavia, il lavoro in modo specifico forma l'uomo e, in un certo senso, lo crea. Dunque, si tratta sempre di una fatica creativa.

Ciò si riferisce non solo al lavoro di ricerca o, in genere, al lavoro intellettuale conoscitivo, ma anche agli ordinari lavori fisici, i quali apparentemente non hanno in sé niente di «creativo».

Il lavoro, che è caratteristico del periodo della giovinezza, costituisce, prima di tutto, una preparazione al lavoro dell'età matura, ed è perciò legato alla scuola. Penso, dunque, mentre scrivo queste parole a voi, giovani, a tutte le scuole esistenti in tutto quanto il mondo, alle quali la vostra giovane esistenza è collegata per vari anni, successivamente a diversi livelli, a seconda del grado dello sviluppo mentale e l'indirizzo delle inclinazioni: dalle scuole elementari fino alle università. Penso anche a tutte le persone adulte, miei fratelli e sorelle, che sono i vostri insegnanti, educatori, guide delle giovani menti e dei giovani caratteri. Quanto è grande il loro compito! Quale particolare responsabilità è la loro! Ma quanto grande è anche il loro merito!

Penso, infine, a quei settori della gioventù, dei vostri coetanei e coetanee, i quali - specialmente in alcune società e in alcuni ambienti - sono privi della possibilità dell'istruzione, spesso perfino dell'istruzione elementare. Questo fatto costituisce una sfida permanente per tutte le istituzioni responsabili su scala nazionale ed internazionale, affinché un tale stato di cose venga sottoposto ai necessari miglioramenti. L'istruzione, infatti, è uno dei beni fondamentali della civiltà umana. Essa ha un'importanza particolare per i giovani. Da essa dipende anche in larga misura il futuro dell'intera società.

Quando però poniamo il problema dell'istruzione, dello studio, della scienza e delle scuole, emerge un problema di importanza fondamentale per l'uomo e, in modo speciale, per il giovane. Questo è il problema della verità. La verità è la luce dell'intelletto umano. Se, fin dalla giovinezza, esso cerca di conoscere la realtà nelle sue diverse dimensioni, ciò fa allo scopo di possedere la verità: per vivere di verità. Tale è la struttura dello spirito umano. La fame di verità costituisce la sua fondamentale aspirazione ed espressione.

Ora Cristo dice: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Delle parole contenute nel Vangelo queste certamente sono tra le più importanti. Esse, infatti, si riferiscono all'uomo nella sua totalità. Esse spiegano su che cosa si edificano dal di dentro, nelle dimensioni dello spirito umano, la dignità e la grandezza proprie dell'uomo. La conoscenza che libera l'uomo non dipende solamente dall'istruzione, anche se universitaria: può appartenere anche ad un analfabeta; pur tuttavia l'istruzione, quale conoscenza sistematica della realtà, dovrebbe servire tale dignità e grandezza. Essa dovrebbe, dunque, servire la verità.

Il servizio alla verità si compie anche nel lavoro, che sarete chiamati a svolgere dopo aver completato il programma della vostra istruzione. A scuola dovete acquistare le capacità intellettuali, tecniche e pratiche, che vi permetteranno di prendere utilmente il vostro posto presso il grande banco del lavoro umano. Ma se è vero che la scuola deve preparare al lavoro, anche a quello manuale, è pure vero che il lavoro in se stesso è una scuola di grandi ed importanti valori: esso possiede una sua eloquenza, che apporta un valido contributo alla cultura dell'uomo.

Nel rapporto, però, tra istruzione e lavoro, che caratterizza l'odierna società, emergono gravissimi problemi di ordine pratico. Mi riferisco, in particolare, al problema della disoccupazione e, più in generale, della mancanza di posti di lavoro, che travaglia in forme diverse le giovani generazioni di tutto il mondo. Esso - voi lo sapete bene - porta con sé altri interrogativi, che fin dagli anni della scuola proiettano un'ombra di insicurezza circa il vostro futuro. Voi vi domandate: «Ha bisogno di me la società? Potrò anch'io trovare un lavoro adeguato, che mi consenta di rendermi indipendente? Di formare una mia famiglia in dignitose condizioni di vita e, prima fra tutte, in una cosa propria? Insomma, è proprio vero che la società aspetta il mio contributo?».

La gravità di questi interrogativi mi sollecita a ricordare anche in questa occasione ai governanti ed a tutti coloro che hanno responsabilità per l'economia e lo sviluppo delle nazione che il lavoro è un diritto dell'uomo e, perciò, va garantito, rivolgendo ad esso le cure più assidue e mettendo al centro della politica economica la preoccupazione di creare occasioni adeguate di lavoro per tutti e, soprattutto, per i giovani, che tanto spesso oggi soffrono per la piaga della disoccupazione. Siamo tutti convinti che «il lavoro è un bene dell'uomo, è un bene della sua umanità, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo» (Laborem Exercens, 9).

L'auto-educazione e le minacce

13. Quel che riguarda la scuola come istituzione e ambiente comprende in sé, prima di tutto, la gioventù. Direi, però, che l'eloquenza delle summenzionate parole di Cristo intorno alla verità riguarda ancor più i giovani stessi. Se, infatti, non c'è dubbio che la famiglia educa, che la scuola istruisce ed educa, al tempo stesso sia l'azione della famiglia, come quella della scuola, rimarrà incompleta (e potrà addirittura essere vanificata), se ciascuno e ciascuna di voi, giovani, non intraprenderà da sé l'opera della propria educazione. L'educazione familiare e scolastica potrà fornirvi solo alcuni elementi per l'opera dell'auto-educazione.

E in questo campo le parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi», diventano un programma essenziale. I giovani - se così ci si può esprimere - hanno congenito il «senso della verità». E la verità deve servire per la libertà: i giovani hanno anche spontaneo il «desiderio della libertà». E che cosa significa essere liberi? Significa saper usare la propria libertà nella verità: essere «veramente» liberi. Essere veramente liberi non significa affatto fare tutto ciò che mi piace, o ciò che ho voglia di fare. La libertà contiene in sé il criterio della verità, la disciplina della verità. Essere veramente liberi significa usare la propria libertà per ciò che è un vero bene. Continuando dunque: essere veramente liberi significa essere un uomo di retta coscienza, essere responsabile, essere un uomo «per gli altri».

Tutto questo costituisce il nucleo interiore stesso di ciò che chiamiamo educazione e, innanzitutto, di ciò che chiamiamo auto-educazione. Sì: auto-educazione! Infatti, una tale struttura interiore, dove «la verità ci fa liberi», non può essere costruita solamente «dall'esterno». Ognuno deve costruirla «dal di dentro», edificarla nella fatica, con perseveranza e pazienza (il che non è sempre così facile ai giovani). E proprio questa costruzione si chiama auto-educazione. Il Signore Gesù parla anche di questo, quando sottolinea che solo «con la perseveranza» possiamo «salvare le nostre anime» (cfr. Lc 21,19). «Salvare la propria anima»: ecco il frutto dell'auto-educazione.

In tutto questo è contenuto un nuovo modo di vedere la giovinezza. Qui non si tratta più del semplice progetto di vita, che deve essere realizzato in futuro. Esso si realizza ormai nella fase della giovinezza, se noi mediante il lavoro, l'istruzione e, specialmente, mediante l'auto-educazione creiamo la vita stessa, costruendo il fondamento del successivo sviluppo della nostra personalità. In questo senso, si può dire che la giovinezza è «la scultrice che scolpisce tutta la vita», e la forma, che essa conferisce alla concreta umanità di ciascuno e di ciascuna di voi, si consolida in tutta la vita.

Se ciò ha un importante significato positivo, purtroppo può anche avere un importante significato negativo. Non potete coprirvi gli occhi davanti alle minacce, che vi insidiano durante il periodo della giovinezza. Anche esse possono imprimere il loro segno su tutta la vita.

Intendo alludere, ad esempio, alla tentazione del criticismo esasperato, che vorrebbe tutto discutere e tutto rivedere; o a quella dello scetticismo nei confronti dei valori tradizionali, da cui facilmente si scivola in una sorta di cinismo spregiudicato, quando si tratta di affrontare i problemi del lavoro, della carriera o dello stesso matrimonio. E come tacere, poi, della tentazione costituita dal diffondersi, soprattutto nei paesi più prosperi, di un mercato del divertimento che distoglie da un serio impegno nella vita ed educa alla passività, all'egoismo ed all'isolamento? Vi minaccia, carissimi giovani, il cattivo uso delle tecniche pubblicitarie, che incentiva la naturale inclinazione ad evitare la fatica, promettendo la soddisfazione immediata di ogni desiderio, mentre il consumismo, ad esso legato, suggerisce che l'uomo cerchi di realizzare se stesso soprattutto nella fruizione dei beni materiali. Quanti giovani, conquistati dal fascino di ingannevoli miraggi, si abbandonano alla forza incontrollata degli istinti o si avventurano su strade apparentemente ricche di promesse, ma prive in realtà di prospettive autenticamente umane! Sento il bisogno di ripetere qui quanto ho scritto nel Messaggio, che proprio a voi ho dedicato per la Giornata Mondiale della Pace: «Alcuni di voi possono essere tentati di rifuggire dalle responsabilità negli illusori mondi dell'alcool e della droga, nelle fugaci relazioni sessuali senza impegno per il matrimonio e la famiglia, nell'indifferenza, nel cinismo e perfino nella violenza. State in guardia contro l'inganno di un mondo che vuole sfruttare o far deviare la vostra energica e potente ricerca della felicità e del senso della vita».

Vi scrivo tutto ciò per esprimere la viva preoccupazione che ho per voi. Se, infatti, dovete essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi», allora tutto ciò che insidia questa speranza deve destare preoccupazione. Ed a tutti coloro, che con varie tentazioni ed illusioni cercano di distruggere la vostra giovinezza, non posso non ricordare le parole di Cristo, con le quali parla dello scandalo e di coloro che lo provocano: «Guai a colui per cui avvengono gli scandali! E' meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Lc 17,1s).

Gravi parole! Specialmente gravi sulla bocca di colui che è venuto a rivelare l'amore. Chi, però, legge attentamente proprio queste parole del Vangelo, deve sentire quanto profonda sia l'antitesi tra il bene e il male, tra la virtù e il peccato. Egli deve ancor più chiaramente notare quale importanza abbia agli occhi di Cristo la giovinezza di ciascuno e di ciascuna di voi. E' stato proprio l'amore per i giovani a dettare queste gravi e severe parole. E' contenuta in esse quasi un'eco lontana del colloquio evangelico di Cristo col giovane, al quale la presente Lettera fa costante riferimento.

La giovinezza come «crescita»

14. Permettetemi di concludere questa parte delle mie considerazioni ricordando le parole, con le quali il Vangelo parla della giovinezza stessa di Gesù di Nazareth. Esse sono brevi, anche se coprono il periodo dei trent'anni da lui trascorsi nella casa di famiglia, a fianco di Maria e di Giuseppe, il carpentiere. L'evangelista Luca scrive: E Gesù cresceva (o progrediva) in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52).

Così dunque la giovinezza è una «crescita». Alla luce di tutto ciò che è stato detto finora su questo tema, tale parola evangelica sembra essere particolarmente sintetica e suggestiva. La crescita «in età» si riferisce al naturale rapporto dell'uomo col tempo: questa crescita è come una tappa «ascendente» nell'insieme del passaggio umano. A questo corrisponde tutto lo sviluppo psico-fisico: è la crescita di tutte le energie, per meno delle quali si costituisce la normale individualità umana. Ma bisogna che a questo processo corrisponda la crescita «in sapienza e in grazia».

A voi tutti, cari giovani amici, auguro proprio una tale «crescita». Si può dire che per mezzo di essa la giovinezza è proprio la giovinezza. In questo modo essa acquista la sua propria, irripetibile caratteristica. In questo modo essa viene data a ciascuno e ciascuna di voi, nell'esperienza personale ed insieme comunitaria, come uno speciale valore. E in modo simile essa si consolida anche nell'esperienza degli uomini adulti, che hanno ormai la giovinezza dietro di sé, e che dalla tappa «ascendente» si spostano verso quella «discendente» facendo il bilancio globale della vita.

Bisogna che la giovinezza sia una «crescita», che porti con sé il graduale accumulo di tutto ciò che è vero, che è buono e che è bello, perfino quando essa sia «dall'esterno» unita alle sofferenze, alla perdita di persone care ed a tutta l'esperienza del male, che incessantemente si fa sentire nel mondo in cui viviamo.

Bisogna che la giovinezza sia una «crescita». A questo fine è di enorme importanza il contatto col mondo visibile, quello con la natura. Questo rapporto ci arricchisce durante la giovinezza in modo diverso da quello della scienza sul mondo «attinta dai libri». Ci arricchisce in modo diretto. Si potrebbe dire che, rimanendo in contatto con la natura, noi assumiamo nella nostra esistenza umana il mistero stesso della creazione, che si scopre davanti a noi con inaudita ricchezza e varietà di esseri visibili e, al tempo stesso, costantemente invita verso ciò che è nascosto, che è invisibile. La sapienza - sia per bocca dei libri ispirati (cfr. Sal 104[103]; Sal 19[18]; Sap 13,1-9; 7,15-20), come del resto con la testimonianza di molte menti geniali - sembra mettere in evidenza in diversi modi «la trasparenza del mondo». E' bene per l'uomo leggere in questo mirabile libro qual è il «libro della natura», spalancato per ognuno di noi. Ciò che una giovane mente e un giovane cuore leggono in esso sembra essere sincronizzato profondamente con l'esortazione alla sapienza: «Acquista la sapienza, acquista l'intelligenza ... Non abbandonarla, ed essa ti custodirà; amala, e veglierà su di te» (Pr 4,5s).

L'uomo d'oggi, specialmente nell'ambito della civiltà tecnica ed industriale altamente sviluppata, è divenuto su grande scala l'esploratore della natura, trattandola non di rado in modo utilitario, distruggendo così molte delle ricchezze e delle sue attrattive ed inquinando l'ambiente naturale della sua esistenza terrena. La natura, invece, è data all'uomo anche come oggetto di ammirazione e di contemplazione, come un grande specchio del mondo. Si riflette in essa l'alleanza del Creatore con la sua creatura, il cui centro sin dall'inizio si trova nell'uomo, creato direttamente «ad immagine» del suo Creatore.

E perciò auguro anche a voi, giovani, che la vostra crescita «in età e in sapienza» avvenga mediante il contatto con la natura. Abbiate tempo per questo! Non lo risparmiate! Accettate anche la fatica e lo sforzo che questo contatto a volte comporta, specialmente quando desideriamo raggiungere obiettivi particolarmente rilevanti. Questa fatica è creativa, costituisce insieme l'elemento di un sano riposo, che è necessario al pari dello studio e del lavoro.

Questa fatica e questo sforzo possiedono anche una loro classificazione biblica, specialmente in san Paolo, il quale paragona tutta la vita cristiana ad una gara nello stadio sportivo (1Cor 9,24-27).

A ciascuna e a ciascuno di voi sono necessari questa fatica e questo sforzo, in cui non solo si tempra il corpo, ma tutto l'uomo prova la gioia di dominarsi e di superare gli ostacoli e le resistenze. Certamente, è questo uno degli elementi della «crescita», che caratterizza la giovinezza.

Vi auguro, altresì, che questa «crescita» avvenga mediante il contatto con le opere dell'uomo e, ancor più, con gli uomini viventi. Quante sono le opere che gli uomini hanno compiuto nella storia! Quanto grande è la loro ricchezza e varietà! La giovinezza sembra essere particolarmente sensibile alla verità, al bene e alla bellezza, che sono contenute nelle opere dell'uomo. Rimanendo in contatto con loro sul terreno di tante culture diverse, di tante arti e di tante scienze, noi impariamo la verità sull'uomo (espressa così suggestivamente anche nel Salmo 8), la verità che è in grado di formare e di approfondire l'umanità di ciascuno di noi.

In maniera particolare, però, noi studiamo l'uomo, avendo rapporti con gli uomini. Bisogna che la giovinezza vi permetta di crescere «in sapienza» mediante questo contatto. E' questo, infatti, il tempo in cui si instaurano nuovi contatti, compagnie ed amicizie, in un ambito più vasto della sola famiglia. Si schiude il grande campo dell'esperienza, che possiede non solo un'importanza conoscitiva, ma al tempo stesso anche educativa ed etica. Tutta questa esperienza della giovinezza sarà utile, allorché produrrà in ciascuno e in ciascuna di voi anche il senso critico e, innanzitutto, la capacità del discernimento nel campo di tutto ciò che è umano. Benedetta sarà questa esperienza della giovinezza, se da essa imparerete gradualmente quell'essenziale verità sull'uomo - su ogni uomo e su se stessi -, la verità che viene così sintetizzata nell'insigne testo della Costituzione pastorale «Gaudium et Spes»: «L'uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé» (Gaudium et Spes, 24).

Così dunque impariamo a conoscere gli uomini, per essere più pienamente uomini mediante la capacità di «donarsi»; essere uomo «per gli altri». Una tale verità sull'uomo - una tale antropologia - trova il suo apice irraggiungibile in Gesù di Nazareth. E perciò è così importante anche la sua adolescenza, mentre «cresceva in sapienza ... e grazia davanti a Dio e agli uomini».

Vi auguro anche questa «crescita» mediante il contatto con Dio. Può servire per esso - in senso indiretto - anche il contatto con la natura e con gli uomini; ma in modo diretto serve per esso specialmente la preghiera. Pregate ed imparate a pregare! Aprite i vostri cuori e le vostre coscienze davanti a colui che vi conosce meglio di voi stessi. Parlate con lui! Approfondite la Parola del Dio vivo, leggendo e meditando la Sacra Scrittura.

Sono questi i metodi e i mezzi per avvicinarsi a Dio ed aver contatto con lui. Ricordate che si tratta di un rapporto reciproco. Dio risponde anche col più «gratuito dono di sé», dono che nel linguaggio biblico si chiama «grazia». Cercate di vivere in grazia di Dio!

Questo per quanto riguarda il tema della «crescita», di cui scrivo segnalando solamente i principali problemi. Ognuno di essi, infatti, è suscettibile di una più ampia discussione. Spero che ciò stia avvenendo nei diversi ambienti giovanili e gruppi, nei movimenti e nelle organizzazioni, che sono così numerosi nei diversi paesi e nei singoli continenti, mentre ognuno viene guidato dal suo proprio metodo di lavoro spirituale e di apostolato. Questi organismi, con la partecipazione dei Pastori della Chiesa, desiderano indicare ai giovani la via di quella «crescita», che costituisce, in un certo senso, la definizione evangelica della giovinezza.

La grande sfida del futuro

15. La Chiesa guarda i giovani; anzi, la Chiesa in modo speciale guarda se stessa nei giovani, in voi tutti ed insieme in ciascuna e in ciascuno di voi. Così è stato sin dall'inizio, dai tempi apostolici. Le parole di san Giovanni nella sua Prima Lettera possono essere una particolare testimonianza: «Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il maligno. Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre... Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi» (1Gv 2,13s).

Le parole dell'apostolo si aggiungono alla conversazione evangelica di Cristo col giovane, e risuonano con un'eco potente di generazione in generazione.

Nella nostra generazione, al termine del secondo Millennio dopo Cristo, anche la Chiesa guarda se stessa nei giovani. E come la Chiesa guarda se stessa? Ne sia una particolare testimonianza l'insegnamento del Concilio Vaticano II. La Chiesa vede se stessa come «un sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1). E dunque vede se stessa in relazione a tutta la grande famiglia umana costantemente in crescita. Vede se stessa nelle dimensioni universali. Vede se stessa sulle vie dell'ecumenismo, cioè dell'unità di tutti i cristiani, per la quale Cristo stesso ha pregato e che è di indiscutibile urgenza nel nostro tempo. Vede se stessa anche nel dialogo con i seguaci delle religioni non cristiane e con tutti gli uomini di buona volontà. Un tale dialogo è un dialogo di salvezza il quale deve servire anche alla pace nel mondo e alla giustizia tra gli uomini.

Voi, giovani, siete la speranza della Chiesa che proprio in questo modo vede se stessa e la sua missione nel mondo. Essa vi parla di questa missione. Di ciò è stato espressione il recente Messaggio del 1· gennaio 1985, per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace. Esso è stato indirizzato proprio a voi sulla base della convinzione che «la via della pace è insieme la via dei giovani» (La pace e i giovani camminano insieme). Questa convinzione è un appello ed insieme un impegno: ancora una volta si tratta di essere «pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi», della speranza che a voi è collegata. Come vedete, questa speranza riguarda istanze fondamentali ed insieme universali.

Tutti vivete ogni giorno in mezzo ai vostri cari. Questa cerchia, tuttavia, si allarga gradualmente. Un numero sempre maggiore di persone partecipa alla vostra vita, e voi stessi scorgete l'abbozzo di una comunione che vi unisce a loro. Quasi sempre questa è una comunità, in qualche modo, differenziata. E' differenziata così come intravvedeva e dichiarava il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa e in quella pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. La vostra giovinezza si forma a volte in ambienti uniformi dal punto di vista delle confessioni, a volte differenziati religiosamente o, addirittura, sul confine tra la fede e la miscredenza, sia questa sotto la forma dell'agnosticismo o dell'ateismo dipinto in diversi modi.

Sembra, tuttavia, che di fronte ad alcuni problemi queste molteplici e differenziate comunità di giovani sentano, pensino, reagiscano in maniera molto simile. Sembra, ad esempio, che tutti li unisca un atteggiamento simile verso il fatto che centinaia di migliaia di uomini vivono in estrema miseria e muoiono addirittura di fame, mentre contemporaneamente cifre vertiginose sono impiegate per la produzione delle armi nucleari, i cui arsenali già al momento presente sono in grado di portare all'autodistruzione dell'umanità. Ci sono altre simili tensioni e minacce, su scala finora non mai conosciuta nella storia dell'umanità. Di questo si parla nel menzionato Messaggio per il Capodanno; perciò, non ripeto questi problemi. Tutti siamo consapevoli che all'orizzonte dell'esistenza di miliardi di persone, che formano la famiglia umana al termine del secondo millennio dopo Cristo, sembra profilarsi la possibilità di calamità e di catastrofi in misura davvero apocalittica.

In tale situazione voi, giovani, potete domandare giustamente alle precedenti generazioni: Perché si è arrivati a questo? Perché è stato raggiunto un tale grado di minaccia all'umanità sul globo terrestre? Quali sono le cause dell'ingiustizia che ferisce gli occhi? Perché tanti che muoiono di fame? Tanti milioni di profughi alle diverse frontiere? Tanti casi in cui vengono calpestati i diritti elementari dell'uomo? Tante prigioni e campi di concentramento, tanta sistematica violenza e uccisioni di persone innocenti, tanti maltrattamenti dell'uomo e torture, tanti tormenti inflitti ai corpi umani e alle coscienze umane? E in mezzo a tutto questo c'è anche il fatto di uomini in giovane età, che hanno sulla coscienza tante vittime innocenti, perché è stata loro inculcata la convinzione che solo per questa via - del terrorismo programmato - si può migliorare il mondo. Voi, dunque, ancora una volta chiedete: perché?

Voi, giovani, potete domandare tutto questo, anzi voi lo dovete! Si tratta, infatti, del mondo nel quale vivete oggi, e nel quale dovrete vivere domani, allorché la generazione di età più matura sarà passata. A ragione, dunque, voi chiedete: Perché un così grande progresso dell'umanità - che non si può paragonare a nessuna epoca precedente della storia - nel campo della scienza e della tecnica; perché il progresso nel dominio della materia da parte dell'uomo si rivolge per tanti aspetti contro l'uomo? Giustamente voi chiedete anche, pur con un senso di interiore tremore: Questo stato di cose è forse irreversibile? Può essere mutato? Riusciremo noi a cambiarlo?

Questo voi giustamente chiedete. Sì, è questa la domanda fondamentale nell'ambito della vostra generazione.

In questa forma continua il vostro colloquio con Cristo, iniziato un giorno nel Vangelo. Quel giovane domandava: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». E voi ponete la domanda a seconda dei tempi, nei quali vi trovate ad essere giovani: Che cosa dobbiamo fare affinché la vita - la vita fiorente dell'umanità - non si trasformi nel cimitero della morte nucleare? Che cosa dobbiamo fare affinché non domini su di noi il peccato dell'universale ingiustizia? Il peccato del disprezzo dell'uomo e il vilipendio della sua dignità, pur con tante dichiarazioni che confermano tutti i suoi diritti? Che cosa dobbiamo fare? E ancora: Sapremo noi farlo?

Il Cristo risponde come già rispondeva ai giovani della prima generazione della Chiesa con le parole dell'Apostolo: «Scrivo a voi giovani perché avete vinto il maligno. Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre... Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio dimora in voi» (1Gv 2,13s). Le parole dell'Apostolo, risalenti a quasi duemila anni fa, sono anche una risposta per oggi. Esse usano il semplice e forte linguaggio della fede, che implica la vittoria contro il male che è nel mondo: «E' questa la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4). Queste parole sono forti dell'esperienza apostolica - e delle successive generazioni cristiane - della Croce e della Risurrezione di Cristo. In questa esperienza si conferma tutto il Vangelo. Si conferma, tra l'altro, la verità contenuta nel colloquio di Cristo col giovane.

Soffermiamoci, dunque - verso la fine della presente Lettera - su queste parole apostoliche, che sono ad un tempo una conferma ed una sfida per voi. Esse sono anche una risposta.

Palpita in voi, nei vostri giovani cuori, il desiderio di un'autentica fratellanza fra tutti gli uomini, senza divisioni né contrapposizioni né discriminazioni. Sì! Il desiderio di una fratellanza e di una molteplice solidarietà, voi giovani, lo portate con voi - e non desiderate certo la reciproca lotta dell'uomo contro l'uomo sotto qualsiasi forma. Questo desiderio di fratellanza - l'uomo è il prossimo dell'altro uomo! l'uomo è fratello per l'altro uomo! - non testimonia forse il fatto (come scrive l'Apostolo) che «avete conosciuto il Padre»? Che i fratelli sono solo là dove c'è un padre. E solo là dove c'è il Padre gli uomini sono fratelli.

Se voi, dunque, portate in voi stessi il desiderio della fratellanza, ciò significa che «la parola di Dio dimora in voi». Dimora in voi quella dottrina che Cristo ha portato e che giustamente ha il nome di «Buona Novella». E dimora sulle vostre labbra, o almeno è radicata nei vostri cuori, la preghiera del Signore, che inizia con le parole «Padre nostro». La preghiera che, mentre rivela il Padre, conferma al tempo stesso che gli uomini sono fratelli - e si oppone nell'intero suo contenuto a tutti i programmi costruiti secondo un principio di lotta dell'uomo contro l'uomo in qualsiasi forma. La preghiera del «Padre nostro» allontana i cuori umani dall'inimicizia, dall'odio, dalla violenza, dal terrorismo, dalla discriminazione, dalle situazioni in cui la dignità umana e i diritti umani sono calpestati.

L'Apostolo scrive che voi, giovani, siete forti della dottrina divina: di quella dottrina che è contenuta nel Vangelo di Cristo e si riassume nella preghiera del «Padre nostro». Sì! Siete forti di questo insegnamento divino, siete forti di questa preghiera. Siete forti, perché essa infonde in voi l'amore, la benevolenza, il rispetto dell'uomo, della sua vita, della sua dignità, della sua coscienza, delle sue convinzioni e dei suoi diritti. Se «avete conosciuto il Padre», siete forti con la potenza della fratellanza umana.

Siete anche forti per la lotta: non per la lotta contro l'uomo, nel nome di qualsiasi ideologia o pratica distaccata dalle radici stesse del Vangelo, ma forti per la lotta contro il male, contro il vero male: contro tutto ciò che offende Dio, contro ogni ingiustizia e ogni sfruttamento, contro ogni falsità e menzogna, contro tutto ciò che offende ed umilia, contro tutto ciò che profana la convivenza umana e le relazioni umane, contro ogni crimine nei riguardi della vita: contro ogni peccato.

L'Apostolo scrive: «Avete vinto il maligno»! E' così. Bisogna costantemente risalire alle radici del male e del peccato nella storia dell'umanità e dell'universo, così come Cristo risalì a queste stesse radici nel suo mistero pasquale della Croce e della Risurrezione. Non bisogna aver timore di chiamare per nome il primo artefice del male: il Maligno. La tattica, che egli adoperava ed adopera, consiste nel non rivelarsi, affinché il male, da lui innestato sin dall'inizio, riceva il suo sviluppo dall'uomo stesso, dai sistemi stessi e dalle religioni interumane, tra le classi e tra le nazioni ... per diventare anche sempre di più peccato «strutturale», e lasciarsi sempre di meno identificare come peccato «personale». Dunque, affinché l'uomo si senta in un certo senso «liberato» dal peccato e, al tempo stesso, sempre di più sia in esso sprofondato.

L'Apostolo dice: «Giovani, siete forti»: occorre soltanto che «la parola di Dio dimori in voi». Allora siete forti: potrete così arrivare ai meccanismi nascosti del male, alle sue radici, e così riuscirete gradualmente a cambiare il mondo, a trasformarlo, a renderlo più umano, più fraterno e, al tempo stesso, più di Dio. Non si può, infatti, staccare il mondo da Dio e contrapporlo a Dio nel cuore dell'uomo. Né si può staccare l'uomo da Dio e contrapporlo a Dio. Ciò sarebbe contro la natura del mondo e contro la natura dell'uomo: contro l'intrinseca verità, che costituisce tutta la realtà! Davvero il cuore dell'uomo è irrequieto, finché non riposi in Dio. Queste parole del grande Agostino non perdono mai la loro attualità (cfr. Sant'Agostino, Confessiones, I, 1).

Messaggio finale

16. Ecco dunque, giovani amici, io depongo nelle vostre mani questa Lettera, che si colloca nella scia del colloquio evangelico di Cristo col giovane e scaturisce dalla testimonianza degli apostoli e delle prime generazioni di cristiani. Vi consegno questa Lettera nell'Anno della Gioventù, mentre ci stiamo avvicinando al termine del secondo millennio cristiano. Ve la consegno nell'anno in cui ricorre il ventesimo della conclusione del Concilio Vaticano II, che chiamò i giovani «speranza della Chiesa» (Gravissimum Educationis, 2) ed ai giovani di allora - come a quelli di oggi e di sempre - indirizzò quel suo «ultimo Messaggio», in cui la Chiesa è presentata come la vera giovinezza del mondo, come colei che «possiede ciò che fa la forza e l'attrattiva dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di donarsi gratuitamente, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste». Ciò faccio nella Domenica delle Palme, giorno in cui mi è dato di incontrarmi con molti di voi, pellegrini in Piazza San Pietro, qui a Roma. Proprio in questo giorno il Vescovo di Roma prega insieme con voi per tutti i giovani di tutto il mondo, per ciascuna e ciascuno. Stiamo pregando nella comunità della Chiesa, affinché - sullo sfondo dei tempi difficili in cui viviamo - siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Sì, proprio voi, perché da voi dipende il futuro, da voi dipende il termine di questo millennio e l'inizio del nuovo. Non siate, dunque, passivi; assumetevi le vostre responsabilità in tutti i campi a voi aperti nel nostro mondo! Per questa stessa intenzione pregheranno insieme con voi i vescovi e i sacerdoti nei diversi luoghi.

E pregando così nella grande comunità dei giovani di tutta la Chiesa e di tutte le Chiese, abbiamo davanti agli occhi Maria, la quale accompagna il Cristo all'inizio della sua missione tra gli uomini. Questa è Maria di Cana di Galilea, che intercede per i giovani, per gli sposi novelli, quando al banchetto nuziale viene a mancare il vino per gli ospiti. Allora la Madre di Cristo rivolge agli uomini, ivi presenti per servire durante il banchetto, queste parole: «Fate quello che egli vi dirà» (Gv 2,5). Egli, il Cristo.

Io ripeto queste parole della Madre di Dio e le rivolgo a voi, giovani, a ciascuno e a ciascuna: «Fate quello che Cristo vi dirà». E vi benedico nel nome della Trinità Santissima. Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 31 marzo, domenica delle Palme «de Passione Domini», dell'anno 1985, settimo di Pontificato.

 

 

DIES DOMINI

 

ETTERA APOSTOLICA
DIES DOMINI
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
SULLA SANTIFICAZIONE DELLA DOMENICA

 

Venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio,
Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Il giorno del Signore — come fu definita la domenica fin dai tempi apostolici (1) — ha avuto sempre, nella storia della Chiesa, una considerazione privilegiata per la sua stretta connessione col nucleo stesso del mistero cristiano. La domenica infatti richiama, nella scansione settimanale del tempo, il giorno della risurrezione di Cristo. È la Pasqua della settimana, in cui si celebra la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, il compimento in lui della prima creazione, e l'inizio della « nuova creazione » (cfr 2 Cor 5, 17). È il giorno dell'evocazione adorante e grata del primo giorno del mondo, ed insieme la prefigurazione, nella speranza operosa, dell'« ultimo giorno », quando Cristo verrà nella gloria (cfr At 1, 11; 1 Ts 4, 13-17) e saranno fatte « nuove tutte le cose » (cfr Ap 21, 5).

Alla domenica, pertanto, ben s'addice l'esclamazione del Salmista: « Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso » (Sal 118 [117], 24). Questo invito alla gioia, che la liturgia di Pasqua fa proprio, porta il segno dello stupore da cui furono investite le donne che avevano assistito alla crocifissione di Cristo quando, recatesi al sepolcro « di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato » (Mc 16, 2), lo trovarono vuoto. È invito a rivivere, in qualche modo, l'esperienza dei due discepoli di Emmaus, che sentirono « ardere il cuore nel petto » mentre il Risorto si affiancava a loro lungo il cammino, spiegando le Scritture e rivelandosi nello « spezzare il pane » (cfr Lc 24, 32.35). È l'eco della gioia, prima esitante e poi travolgente, che gli Apostoli provarono la sera di quello stesso giorno, quando furono visitati da Gesù risorto e ricevettero il dono della sua pace e del suo Spirito (cfr Gv 20, 19-23).

2. La risurrezione di Gesù è il dato originario su cui poggia la fede cristiana (cfr 1 Cor 15, 14): stupenda realtà, colta pienamente nella luce della fede, ma storicamente attestata da coloro che ebbero il privilegio di vedere il Signore risorto; evento mirabile che non solo si distingue in modo assolutamente singolare nella storia degli uomini, ma si colloca al centro del mistero del tempo. A Cristo, infatti, come ricorda, nella suggestiva liturgia della notte di Pasqua, il rito di preparazione del cero pasquale, « appartengono il tempo e i secoli ». Per questo, commemorando non solo una volta all'anno, ma ogni domenica, il giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa intende additare ad ogni generazione ciò che costituisce l'asse portante della storia, al quale si riconducono il mistero delle origini e quello del destino finale del mondo.

C'è ragione dunque per dire, come suggerisce l'omelia di un autore del IV secolo, che il « giorno del Signore » è il « signore dei giorni ».(2) Quanti hanno ricevuto la grazia di credere nel Signore risorto non possono non cogliere il significato di questo giorno settimanale con l'emozione vibrante che faceva dire a san Girolamo: « La domenica è il giorno della risurrezione, è il giorno dei cristiani, è il nostro giorno ».(3) Essa è in effetti per i cristiani la « festa primordiale »,(4) posta non solo a scandire il succedersi del tempo, ma a rivelarne il senso profondo.

3. La sua importanza fondamentale, sempre riconosciuta in duemila anni di storia, è stata ribadita con forza dal Concilio Vaticano II: « Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dal giorno stesso della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente giorno del Signore o domenica ».(5) Paolo VI ha sottolineato nuovamente tale importanza nell'approvare il nuovo Calendario romano generale e le Norme universali che regolano l'ordinamento dell'Anno liturgico.(6) L'imminenza del terzo millennio, sollecitando i credenti a riflettere, alla luce di Cristo, sul cammino della storia, li invita a riscoprire con nuovo vigore il senso della domenica: il suo « mistero », il valore della sua celebrazione, il suo significato per l'esistenza cristiana ed umana.

Prendo atto volentieri dei molteplici interventi magisteriali e delle iniziative pastorali che, in questi anni del post-Concilio, voi, venerati Fratelli nell'episcopato, sia come singoli sia congiuntamente — ben coadiuvati dal vostro clero —, avete sviluppato su questo importante tema. Alle soglie del Grande Giubileo dell'anno 2000, ho voluto offrirvi questa Lettera apostolica per sostenere il vostro impegno pastorale in un settore tanto vitale. Ma insieme desidero rivolgermi a voi tutti, carissimi fedeli, quasi rendendomi presente spiritualmente nelle singole comunità dove ogni domenica vi raccogliete coi vostri Pastori per celebrare l'Eucaristia e il « giorno del Signore ». Molte delle riflessioni e dei sentimenti che animano questa Lettera apostolica sono maturati durante il mio servizio episcopale a Cracovia e poi, dopo l'assunzione del ministero di Vescovo di Roma e Successore di Pietro, nelle visite alle parrocchie romane, effettuate regolarmente proprio nelle domeniche dei diversi periodi dell'anno liturgico. In questa Lettera mi sembra così di continuare il dialogo vivo che amo intrattenere con i fedeli, riflettendo con voi sul senso della domenica, e sottolineando le ragioni per viverla come vero « giorno del Signore » anche nelle nuove circostanze del nostro tempo.

4. A nessuno sfugge infatti che, fino ad un passato relativamente recente, la « santificazione » della domenica era facilitata, nei Paesi di tradizione cristiana, da una larga partecipazione popolare e quasi dall'organizzazione stessa della società civile, che prevedeva il riposo domenicale come punto fermo nella normativa concernente le varie attività lavorative. Ma oggi, negli stessi Paesi in cui le leggi sanciscono il carattere festivo di questo giorno, l'evoluzione delle condizioni socio-economiche ha finito spesso per modificare profondamente i comportamenti collettivi e conseguentemente la fisionomia della domenica. Si è affermata largamente la pratica del « week-end », inteso come tempo settimanale di sollievo, da trascorrere magari lontano dalla dimora abituale, e spesso caratterizzato dalla partecipazione ad attività culturali, politiche, sportive, il cui svolgimento coincide in genere proprio coi giorni festivi. Si tratta di un fenomeno sociale e culturale che non manca certo di elementi positivi nella misura in cui può contribuire, nel rispetto di valori autentici, allo sviluppo umano e al progresso della vita sociale nel suo insieme. Esso risponde non solo alla necessità del riposo, ma anche all'esigenza di « far festa » che è insita nell'essere umano. Purtroppo, quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro « fine settimana », può capitare che l'uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il « cielo ». Allora, per quanto vestito a festa, diventa intimamente incapace di « far festa ».(7)

Ai discepoli di Cristo è comunque chiesto di non confondere la celebrazione della domenica, che dev'essere una vera santificazione del giorno del Signore, col « fine settimana », inteso fondamentalmente come tempo di semplice riposo o di evasione. È urgente a tal proposito un'autentica maturità spirituale, che aiuti i cristiani ad « essere se stessi », in piena coerenza con il dono della fede, sempre pronti a rendere conto della speranza che è in loro (cfr 1 Pt 3, 15). Ciò non può non comportare anche una comprensione più profonda della domenica, per poterla vivere, pure in situazioni difficili, con piena docilità allo Spirito Santo.

5. La situazione, da questo punto di vista, si presenta piuttosto variegata. C'è, da una parte, l'esempio di alcune giovani Chiese, le quali mostrano con quanto fervore si possa animare la celebrazione domenicale, sia nelle città che nei villaggi più dispersi. Al contrario, in altre regioni, a causa delle menzionate difficoltà sociologiche, e forse della mancanza di forti motivazioni di fede, si registra una percentuale singolarmente bassa di partecipanti alla liturgia domenicale. Nella coscienza di molti fedeli sembra attenuarsi non soltanto il senso della centralità dell'Eucaristia, ma persino quello del dovere di rendere grazie al Signore, pregandolo insieme con gli altri in seno alla comunità ecclesiale.

A tutto ciò si aggiunge che, non solo nei Paesi di missione, ma anche in quelli di antica evangelizzazione, per l'insufficienza dei sacerdoti non si può talvolta assicurare la celebrazione eucaristica domenicale nelle singole comunità.

6. Di fronte a questo scenario di nuove situazioni e conseguenti interrogativi, sembra più che mai necessario ricuperare le motivazioni dottrinali profonde che stanno alla base del precetto ecclesiale, perché a tutti i fedeli risulti ben chiaro il valore irrinunciabile della domenica nella vita cristiana. Così facendo, ci muoviamo sulle tracce della perenne tradizione della Chiesa, vigorosamente richiamata dal Concilio Vaticano II quando ha insegnato che, nel giorno della domenica, « i fedeli devono riunirsi in assemblea perché, ascoltando la parola di Dio e partecipando all'Eucaristia, facciano memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e rendano grazie a Dio che li ha rigenerati per una speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo dai morti (cfr 1 Pt 1, 3) ».(8)

7. In effetti, il dovere di santificare la domenica, soprattutto con la partecipazione all'Eucaristia e con un riposo ricco di gioia cristiana e di fraternità, ben si comprende se si considerano le molteplici dimensioni di questa giornata, a cui porteremo attenzione nella presente Lettera.

Essa è un giorno che sta nel cuore stesso della vita cristiana. Se, fin dall'inizio del mio Pontificato, non mi sono stancato di ripetere: « Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! »,(9) in questa stessa linea vorrei oggi invitare tutti con forza a riscoprire la domenica: Non abbiate paura di dare il vostro tempo a Cristo! Sì, apriamo a Cristo il nostro tempo, perché egli lo possa illuminare e indirizzare. Egli è Colui che conosce il segreto del tempo e il segreto dell'eterno, e ci consegna il « suo giorno » come un dono sempre nuovo del suo amore. La riscoperta di questo giorno è grazia da implorare, non solo per vivere in pienezza le esigenze proprie della fede, ma anche per dare concreta risposta ad aneliti intimi e veri che sono in ogni essere umano. Il tempo donato a Cristo non è mai tempo perduto, ma piuttosto tempo guadagnato per l'umanizzazione profonda dei nostri rapporti e della nostra vita.

 

CAPITOLO PRIMO

DIES DOMINI

La celebrazione
dell'opera del Creatore

« Tutto è stato fatto per mezzo di lui » (Gv 1, 3)

8. Nell'esperienza cristiana, la domenica è prima di tutto una festa pasquale, totalmente illuminata dalla gloria del Cristo risorto. È la celebrazione della « nuova creazione ». Ma proprio questo suo carattere, se compreso in profondità, appare inscindibile dal messaggio che la Scrittura, fin dalle prime sue pagine, ci offre sul disegno di Dio nella creazione del mondo. Se è vero, infatti, che il Verbo si è fatto carne nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4), non è meno vero che, in forza del suo stesso mistero di Figlio eterno del Padre, egli è origine e fine dell'universo. Lo afferma Giovanni, nel prologo del suo Vangelo: « Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste » (1, 3). Lo sottolinea ugualmente Paolo scrivendo ai Colossesi: « Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili [...]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (1, 16). Questa presenza attiva del Figlio nell'opera creatrice di Dio si è rivelata pienamente nel mistero pasquale, in cui Cristo, risorgendo come « primizia di coloro che sono morti » (1 Cor 15, 20), ha inaugurato la nuova creazione ed ha avviato il processo che egli stesso porterà a compimento al momento del suo ritorno glorioso, « quando consegnerà il regno a Dio Padre [...], perché Dio sia tutto in tutti » (1 Cor 15, 24.28).

Già nel mattino della creazione, quindi, il progetto di Dio implicava questo « compito cosmico » di Cristo. Questa prospettiva cristocentrica, proiettata su tutto l'arco del tempo, era presente nello sguardo compiaciuto di Dio quando, cessando da ogni suo lavoro, « benedisse il settimo giorno e lo santificò » (Gn 2, 3). Nasceva allora — secondo l'autore sacerdotale del primo racconto biblico della creazione — il « sabato », che tanto caratterizza la prima Alleanza, ed in qualche modo preannuncia il giorno sacro della nuova e definitiva Alleanza. Lo stesso tema del « riposo di Dio » (cfr Gn 2, 2) e del riposo da lui offerto al popolo dell'Esodo con l'ingresso nella terra promessa (cfr Es 33, 14; Dt 3, 20; 12, 9; Gs 21, 44; Sal 95 [94], 11) è riletto nel Nuovo Testamento in una luce nuova, quella del definitivo « riposo sabbatico » (Eb 4, 9) in cui Cristo stesso è entrato con la sua risurrezione e in cui è chiamato ad entrare il popolo di Dio, perseverando sulle orme della sua obbedienza filiale (cfr Eb 4, 3-16). È necessario pertanto rileggere la grande pagina della creazione e approfondire la teologia del « sabato », per introdursi alla piena comprensione della domenica.

« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1, 1)

9. Lo stile poetico del racconto genesiaco della creazione rende bene lo stupore che l'uomo avverte di fronte all'immensità del creato e il sentimento di adorazione che ne deriva verso Colui che ha tratto dal nulla tutte le cose. È una pagina di intenso significato religioso, un inno al Creatore dell'universo, additato come l'unico Signore di fronte alle ricorrenti tentazioni di divinizzare il mondo stesso. È insieme un inno alla bontà del creato, tutto plasmato dalla mano potente e misericordiosa di Dio.

« Dio vide che era cosa buona » (Gn 1, 10.12, ecc.). Questo ritornello che scandisce il racconto proietta una luce positiva su ogni elemento dell'universo, lasciando al tempo stesso intravedere il segreto per la sua appropriata comprensione e per la sua possibile rigenerazione: il mondo è buono nella misura in cui rimane ancorato alla sua origine e, dopo che il peccato lo ha deturpato, ridiventa buono, se torna, con l'aiuto della grazia, a Colui che lo ha fatto. Questa dialettica, ovviamente, non riguarda direttamente le cose inanimate e gli animali, ma gli esseri umani, ai quali è stato concesso il dono incomparabile, ma anche il rischio, della libertà. La Bibbia, subito dopo i racconti della creazione, mette appunto in evidenza il drammatico contrasto tra la grandezza dell'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, e la sua caduta, che apre nel mondo l'oscuro scenario del peccato e della morte (cfr Gn 3).

10. Uscito com'è dalle mani di Dio, il cosmo porta l'impronta della sua bontà. È un mondo bello, degno di essere ammirato e goduto, ma destinato anche ad essere coltivato e sviluppato. Il « completamento » dell'opera di Dio apre il mondo al lavoro dell'uomo. « Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto » (Gn 2, 2). Attraverso questa evocazione antropomorfica del « lavoro » divino, la Bibbia non soltanto ci apre uno spiraglio sul misterioso rapporto tra il Creatore e il mondo creato, ma proietta luce anche sul compito che l'uomo ha verso il cosmo. Il « lavoro » di Dio è in qualche modo esemplare per l'uomo. Questi infatti non è solo chiamato ad abitare, ma anche a « costruire » il mondo, facendosi così « collaboratore » di Dio. I primi capitoli della Genesi, come scrivevo nell'Enciclica Laborem exercens, costituiscono in certo senso il primo « vangelo del lavoro ».(10) È una verità sottolineata anche dal Concilio Vaticano II: « L'uomo, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutte le realtà all'uomo sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra ».(11)

La vicenda esaltante dello sviluppo della scienza, della tecnica, della cultura nelle loro varie espressioni — sviluppo sempre più rapido, ed oggi addirittura vertiginoso — è il frutto, nella storia del mondo, della missione con la quale Dio ha affidato all'uomo e alla donna il compito e la responsabilità di riempire la terra e di soggiogarla attraverso il lavoro, nell'osservanza della sua Legge.

Lo « shabbat »: il gioioso riposo del Creatore

11. Se è esemplare per l'uomo, nella prima pagina della Genesi, il « lavoro » di Dio, altrettanto lo è il suo « riposo »: « Cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro« (Gn 2, 2). Anche qui siamo di fronte ad un antropomorfismo ricco di un fecondo messaggio.

Il « riposo » di Dio non può essere banalmente interpretato come una sorta di « inattività » di Dio. L'atto creatore che è a fondamento del mondo è infatti di sua natura permanente e Dio non cessa mai di operare, come Gesù stesso si preoccupa di ricordare proprio in riferimento al precetto del sabato: « Il Padre mio opera sempre e anch'io opero » (Gv 5, 17). Il riposo divino del settimo giorno non allude a un Dio inoperoso, ma sottolinea la pienezza della realizzazione compiuta e quasi esprime la sosta di Dio di fronte all'opera « molto buona » (Gn 1, 31) uscita dalle sue mani, per volgere ad essa uno sguardo colmo di gioioso compiacimento: uno sguardo « contemplativo », che non mira più a nuove realizzazioni, ma piuttosto a godere la bellezza di quanto è stato compiuto; uno sguardo portato su tutte le cose, ma in modo particolare sull'uomo, vertice della creazione. È uno sguardo in cui si può in qualche modo già intuire la dinamica « sponsale » del rapporto che Dio vuole stabilire con la creatura fatta a sua immagine, chiamandola ad impegnarsi in un patto di amore. È ciò che egli realizzerà progressivamente, nella prospettiva della salvezza offerta all'intera umanità, mediante l'alleanza salvifica stabilita con Israele e culminata poi in Cristo: sarà proprio il Verbo incarnato, attraverso il dono escatologico dello Spirito Santo e la costituzione della Chiesa come suo corpo e sua sposa, ad estendere l'offerta di misericordia e la proposta dell'amore del Padre all'intera umanità.

12. Nel disegno del Creatore c'è una distinzione, ma anche un intimo nesso tra l'ordine della creazione e l'ordine della salvezza. Già l'Antico Testamento lo sottolinea, quando pone il comandamento concernente lo « shabbat » in rapporto non soltanto col misterioso « riposo » di Dio dopo i giorni dell'attività creatrice (cfr Es 20, 8-11), ma anche con la salvezza da lui offerta ad Israele nella liberazione dalla schiavitù dell'Egitto (cfr Dt 5, 12-15). Il Dio che riposa il settimo giorno rallegrandosi per la sua creazione, è lo stesso che mostra la sua gloria liberando i suoi figli dall'oppressione del faraone. Nell'uno e nell'altro caso si potrebbe dire, secondo un'immagine cara ai profeti, che egli si manifesta come lo sposo di fronte alla sposa (cfr Os 2, 16-24; Ger 2, 2; Is 54, 4-8).

Per andare infatti al cuore dello « shabbat », del « riposo » di Dio, come alcuni elementi della stessa tradizione ebraica suggeriscono,(12) occorre cogliere l'intensità sponsale che caratterizza, dall'Antico al Nuovo Testamento, il rapporto di Dio con il suo popolo. Così la esprime, ad esempio, questa meravigliosa pagina di Osea: « In quel tempo farò per loro un'alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese; e li farò riposare tranquilli. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore » (2, 20-22).

« Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò » (Gn 2, 3)

13. Il precetto del sabato, che nella prima Alleanza prepara la domenica della nuova ed eterna Alleanza, si radica dunque nella profondità del disegno di Dio. Proprio per questo esso non è collocato accanto ad ordinamenti semplicemente cultuali, come è il caso di tanti altri precetti, ma all'interno del Decalogo, le « dieci parole » che delineano i pilastri della vita morale, inscritta universalmente nel cuore dell'uomo. Cogliendo questo comandamento nell'orizzonte delle strutture fondamentali dell'etica, Israele e poi la Chiesa mostrano di non considerarlo una semplice disposizione di disciplina religiosa comunitaria, ma un'espressione qualificante e irrinunciabile del rapporto con Dio annunciato e proposto dalla rivelazione biblica. È in questa prospettiva che tale precetto va anche oggi riscoperto da parte dei cristiani. Se esso ha pure una naturale convergenza con il bisogno umano del riposo, è tuttavia alla fede che bisogna far capo per coglierne il senso profondo, e non rischiare di banalizzarlo e tradirlo.

14. Il giorno del riposo è dunque tale innanzitutto perché è il giorno « benedetto » da Dio e da lui « santificato », ossia separato dagli altri giorni per essere, tra tutti, il « giorno del Signore ».

Per comprendere appieno il senso di questa « santificazione » del sabato nel primo racconto biblico della creazione, occorre guardare all'insieme del testo, dal quale emerge con chiarezza come ogni realtà, senza eccezioni, vada ricondotta a Dio. Il tempo e lo spazio gli appartengono. Egli non è il Dio di un solo giorno, ma il Dio di tutti i giorni dell'uomo.

Se dunque egli « santifica » il settimo giorno con una speciale benedizione e ne fa il « suo giorno » per eccellenza, ciò va inteso proprio nella dinamica profonda del dialogo di alleanza, anzi del dialogo « sponsale ». È un dialogo di amore che non conosce interruzioni, e che tuttavia non è monocorde: si svolge infatti adoperando i diversi registri dell'amore, dalle manifestazioni ordinarie e indirette a quelle più intense che le parole della Scrittura e poi le testimonianze di tanti mistici non temono di descrivere con immagini tratte dall'esperienza dell'amore nuziale.

15. In realtà, tutta la vita dell'uomo e tutto il tempo dell'uomo, devono essere vissuti come lode e ringraziamento nei confronti del Creatore. Ma il rapporto dell'uomo con Dio ha bisogno anche di momenti di esplicita preghiera, in cui il rapporto si fa dialogo intenso, coinvolgente ogni dimensione della persona. Il « giorno del Signore » è, per eccellenza, il giorno di questo rapporto, in cui l'uomo eleva a Dio il suo canto, facendosi voce dell'intera creazione.

Proprio per questo è anche il giorno del riposo: l'interruzione del ritmo spesso opprimente delle occupazioni esprime, con il linguaggio plastico della « novità » e del « distacco », il riconoscimento della dipendenza propria e del cosmo da Dio. Tutto è di Dio! Il giorno del Signore torna continuamente ad affermare questo principio. Il « sabato » è stato perciò suggestivamente interpretato come un elemento qualificante in quella sorta di « architettura sacra » del tempo che caratterizza la rivelazione biblica.(13) Esso sta a ricordare che a Dio appartengono il cosmo e la storia, e l'uomo non può dedicarsi alla sua opera di collaboratore del Creatore nel mondo, senza prendere costantemente coscienza di questa verità.

« Ricordare » per « santificare »

16. Il comandamento del Decalogo con cui Dio impone l'osservanza del sabato ha, nel Libro dell'Esodo, una formulazione caratteristica: « Ricordati del giorno di sabato per santificarlo » (20, 8). E più oltre il testo ispirato ne dà la motivazione richiamando l'opera di Dio: « perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perché il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro » (v. 11). Prima di imporre qualcosa da fare, il comandamento segnala qualcosa da ricordare. Invita a risvegliare la memoria di quella grande e fondamentale opera di Dio che è la creazione. E memoria che deve animare tutta la vita religiosa dell'uomo, per confluire poi nel giorno in cui l'uomo è chiamato a riposare. Il riposo assume così una tipica valenza sacra: il fedele è invitato a riposare non solo come Dio ha riposato, ma a riposare nel Signore, riportando a lui tutta la creazione, nella lode, nel rendimento di grazie, nell'intimità filiale e nell'amicizia sponsale.

17. Il tema del « ricordo » delle meraviglie compiute da Dio, in rapporto al riposo sabbatico, emerge anche nel testo del Deuteronomio (5, 12-15), dove il fondamento del precetto è colto non tanto nell'opera della creazione, quanto in quella della liberazione operata da Dio nell'Esodo: « Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato » (Dt 5, 15).

Questa formulazione appare complementare alla precedente: considerate insieme, esse svelano il senso del « giorno del Signore » all'interno di una prospettiva unitaria di teologia della creazione e della salvezza. Il contenuto del precetto non è dunque primariamente una qualunque interruzione del lavoro, ma la celebrazione delle meraviglie operate da Dio.

Nella misura in cui questo « ricordo », colmo di gratitudine e di lode verso Dio, è vivo, il riposo dell'uomo, nel giorno del Signore, assume il suo pieno significato. Con esso, l'uomo entra nella dimensione del « riposo » di Dio e ne partecipa profondamente, diventando così capace di provare un fremito di quella gioia che il Creatore stesso provò dopo la creazione, vedendo che tutto quello che aveva fatto « era cosa molto buona » (Gn 1, 31).

Dal sabato alla domenica

18. Per questa essenziale dipendenza del terzo comandamento dalla memoria delle opere salvifiche di Dio, i cristiani, percependo l'originalità del tempo nuovo e definitivo inaugurato da Cristo, hanno assunto come festivo il primo giorno dopo il sabato, perché in esso è avvenuta la risurrezione del Signore. Il mistero pasquale di Cristo costituisce, infatti, la rivelazione piena del mistero delle origini, il vertice della storia della salvezza e l'anticipazione del compimento escatologico del mondo. Ciò che Dio ha operato nella creazione e ciò che ha attuato per il suo popolo nell'Esodo ha trovato nella morte e risurrezione di Cristo il suo compimento, anche se questo avrà la sua espressione definitiva solo nella parusia, con la venuta gloriosa di Cristo. In lui si realizza pienamente il senso « spirituale » del sabato, come sottolinea san Gregorio Magno: « Noi consideriamo vero sabato la persona del nostro Redentore, il Signore nostro Gesù Cristo ».(14) Per questo la gioia con cui Dio, nel primo sabato dell'umanità, contempla la creazione tratta dal nulla è ormai espressa da quella gioia con cui Cristo, nella domenica di Pasqua è apparso ai suoi, portando il dono della pace e dello Spirito (cfr Gv 20, 19-23). Nel mistero pasquale, infatti, la condizione umana, e con essa l'intera creazione, « che geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto » (Rm 8, 22), ha conosciuto il suo nuovo « esodo » verso la libertà dei figli di Dio che possono gridare, con Cristo, « Abbà, Padre » (Rm 8, 15; Gal 4, 6). Alla luce di questo mistero, il senso del precetto antico-testamentario sul giorno del Signore viene ricuperato, integrato e pienamente svelato nella gloria che rifulge sul volto di Cristo Risorto (cfr 2 Cor 4, 6). Dal « sabato » si passa al « primo giorno dopo il sabato », dal settimo giorno al primo giorno: il dies Domini diventa il dies Christi !

 

CAPITOLO SECONDO

DIES CHRISTI

Il giorno del Signore risorto
e del dono dello Spirito

La Pasqua settimanale

19. « Noi celebriamo la domenica a causa della venerabile risurrezione del nostro Signore Gesù Cristo, non soltanto a Pasqua, ma anche a ogni ciclo settimanale »: così scriveva, agli inizi del V° secolo, Papa Innocenzo I,(15) testimoniando una prassi ormai consolidata, che era andata sviluppandosi a partire già dai primi anni successivi alla risurrezione del Signore. San Basilio parla della « santa domenica, onorata dalla risurrezione del Signore, primizia di tutti gli altri giorni ».(16) Sant'Agostino chiama la domenica « sacramento della Pasqua ».(17)

Questo intimo legame della domenica con la risurrezione del Signore è sottolineato fortemente da tutte le Chiese, in Occidente come in Oriente. Nella tradizione delle Chiese orientali, in particolare, ogni domenica è la anastàsimos hemèra, il giorno della risurrezione,(18) e proprio per questo suo carattere è il centro di tutto il culto.

Alla luce di questa ininterrotta ed universale tradizione, si vede chiaramente che, per quanto il giorno del Signore affondi le radici, come s'è detto, nell'opera stessa della creazione, e più direttamente nel mistero del biblico « riposo » di Dio, è tuttavia alla risurrezione di Cristo che bisogna far specifico riferimento per coglierne appieno il significato. È quanto avviene nella domenica cristiana, la quale ripropone ogni settimana alla considerazione e alla vita dei fedeli l'evento pasquale, da cui sgorga la salvezza del mondo.

20. Secondo la concorde testimonianza evangelica, la risurrezione di Gesù Cristo dai morti avvenne nel « primo giorno dopo il sabato » (Mc 16, 2.9; Lc 24, 1; Gv 20, 1). In quello stesso giorno, il Risorto si manifestò ai due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24, 13-35) ed apparve agli undici Apostoli riuniti insieme (cfr Lc 24, 36; Gv 20, 19). Otto giorni dopo — come testimonia il Vangelo di Giovanni (cfr 20, 26) — i discepoli si trovavano nuovamente riuniti, quando Gesù apparve loro e si fece riconoscere da Tommaso, mostrando i segni della sua passione. Era domenica il giorno della Pentecoste, primo giorno dell'ottava settimana dopo la pasqua giudaica (cfr At 2, 1), quando con l'effusione dello Spirito Santo si realizzò la promessa fatta da Gesù agli Apostoli dopo la risurrezione (cfr Lc 24, 49; At 1, 4-5). Fu quello il giorno del primo annuncio e dei primi battesimi: Pietro proclamò alla folla riunita che il Cristo era risuscitato e « quelli che accolsero la sua parola furono battezzati » (At 2, 41). Fu l'epifania della Chiesa, manifestata come popolo nel quale confluiscono in unità, al di là di tutte le diversità, i figli di Dio dispersi.

Il primo giorno della settimana

21. È su questa base che, fin dai tempi apostolici, « il primo giorno dopo il sabato », primo della settimana, cominciò a caratterizzare il ritmo stesso della vita dei discepoli di Cristo (cfr 1 Cor 16, 2). « Primo giorno dopo il sabato » era anche quello in cui i fedeli di Troade si trovavano riuniti « per la frazione del pane », quando Paolo rivolse loro il discorso di addio e compì un miracolo per rianimare il giovane Eutico (cfr At 20, 7-12). Il Libro dell'Apocalisse testimonia l'uso di dare a questo primo giorno della settimana il nome di « giorno del Signore » (1, 10). Ormai ciò sarà una delle caratteristiche che distingueranno i cristiani dal mondo circostante. Lo notava, fin dall'inizio del secondo secolo, il governatore della Bitinia, Plinio il Giovane, constatando l'abitudine dei cristiani « di riunirsi a giorno fisso prima della levata del sole e di cantare tra di loro un inno a Cristo come a un dio ».(19) E, in effetti, quando i cristiani dicevano « giorno del Signore », lo facevano dando a questo termine la pienezza di senso derivante dal messaggio pasquale: « Gesù Cristo è Signore » (Fil 2, 11; cfr At 2, 36; 1 Cor 12, 3). Si riconosceva con ciò a Cristo lo stesso titolo col quale i Settanta traducevano, nella rivelazione dell'Antico Testamento, il nome proprio di Dio, JHWH, che non era lecito pronunciare.

22. In questi primi tempi della Chiesa, il ritmo settimanale dei giorni non era generalmente conosciuto nelle regioni in cui il Vangelo si diffondeva e i giorni festivi dei calendari greco e romano non coincidevano con la domenica cristiana. Ciò comportava per i cristiani una notevole difficoltà a osservare il giorno del Signore col suo carattere fisso settimanale. Si spiega così perché i fedeli fossero costretti a riunirsi prima del sorgere del sole.(20) La fedeltà al ritmo settimanale tuttavia si imponeva, in quanto fondata sul Nuovo Testamento e legata alla rivelazione dell'Antico Testamento. Lo sottolineano volentieri gli Apologisti ed i Padri della Chiesa nei loro scritti e nella loro predicazione. Il mistero pasquale veniva illustrato attraverso quei testi della Scrittura che, secondo la testimonianza di san Luca (cfr 24, 27.44-47), il Cristo risorto stesso doveva aver spiegato ai discepoli. Alla luce di tali testi, la celebrazione del giorno della risurrezione acquistava un valore dottrinale e simbolico capace di esprimere tutta la novità del mistero cristiano.

Progressiva distinzione dal sabato

23. È proprio su questa novità che insiste la catechesi dei primi secoli, impegnata a caratterizzare la domenica rispetto al sabato ebraico. Di sabato cadeva per gli ebrei il dovere della riunione nella sinagoga e andava praticato il riposo prescritto dalla Legge. Gli Apostoli, e in particolare san Paolo, continuarono dapprima a frequentare la sinagoga per potervi annunciare Gesù Cristo commentando « le parole dei profeti che si leggono ogni sabato » (At 13, 27). In alcune comunità si poteva registrare la coesistenza dell'osservanza del sabato con la celebrazione domenicale. Ben presto, però, si iniziò a distinguere i due giorni in modo sempre più netto, soprattutto per reagire alle insistenze di quei cristiani che, provenendo dal giudaismo, erano inclini a conservare l'obbligo dell'antica Legge. Sant'Ignazio di Antiochia scrive: « Se coloro che vivevano nell'antico ordine di cose sono venuti a una nuova speranza, non osservando più il sabato ma vivendo secondo il giorno del Signore, giorno in cui la nostra vita è sorta attraverso lui e la sua morte [...], mistero dal quale abbiamo ricevuto la fede e nel quale perseveriamo per essere trovati discepoli di Cristo, nostro solo Maestro, come potremmo vivere senza di lui, che anche i profeti attendevano come maestro, essendo suoi discepoli nello Spirito? ».(21) E sant'Agostino a sua volta osserva: « Perciò anche il Signore ha impresso il suo sigillo al suo giorno, che è il terzo dopo la passione. Esso però, nel ciclo settimanale, è l'ottavo dopo il settimo cioè dopo il sabato, e il primo della settimana ».(22) La distinzione della domenica dal sabato ebraico si consolida sempre più nella coscienza ecclesiale, ma in certi periodi della storia, per l'enfasi data all'obbligo del riposo festivo, si registrerà una certa tendenza alla « sabbatizzazione » del giorno del Signore. Non sono mancati inoltre settori della cristianità in cui il sabato e la domenica sono stati osservati come « due giorni fratelli ».(23)

Il giorno della nuova creazione

24. Il confronto della domenica cristiana con la prospettiva sabbatica, propria dell'Antico Testamento, suscitò anche approfondimenti teologici di grande interesse. In particolare, fu posta in luce la singolare connessione esistente tra la risurrezione e la creazione. Fu infatti spontaneo per la riflessione cristiana collegare la risurrezione avvenuta « il primo giorno della settimana » con il primo giorno di quella settimana cosmica (cfr Gn 1, 1-2.4) secondo cui il libro della Genesi scandisce l'evento della creazione: il giorno della creazione della luce (cfr 1, 3-5). Tale nesso invitava a comprendere la risurrezione come l'inizio di una nuova creazione, della quale il Cristo glorioso costituisce la primizia, essendo egli, « generato prima di ogni creatura » (Col 1, 15), anche « il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » (Col 1, 18).

25. La domenica è, in effetti, il giorno in cui, più che in ogni altro, il cristiano è chiamato a ricordare la salvezza che gli è stata offerta nel battesimo e che lo ha reso uomo nuovo in Cristo. « Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti » (Col 2, 12; cfr Rm 6, 4-6). La liturgia sottolinea questa dimensione battesimale della domenica, sia esortando a celebrare i battesimi, oltre che nella Veglia pasquale, anche in questo giorno settimanale « in cui la Chiesa commemora la risurrezione del Signore »,(24) sia suggerendo, quale opportuno rito penitenziale all'inizio della Messa, l'aspersione con l'acqua benedetta, che richiama appunto l'evento battesimale in cui nasce ogni esistenza cristiana.(25)

L'ottavo giorno, figura dell'eternità

26. D'altra parte, il fatto che il sabato risulti settimo giorno della settimana fece considerare il giorno del Signore alla luce di un simbolismo complementare, molto caro ai Padri: la domenica, oltre che primo giorno, è anche « giorno ottavo », posto cioè, rispetto alla successione settenaria dei giorni, in una posizione unica e trascendente, evocatrice non solo dell'inizio del tempo, ma anche della sua fine nel « secolo futuro ». San Basilio spiega che la domenica significa il giorno veramente unico che seguirà il tempo attuale, il giorno senza termine che non conoscerà né sera né mattino, il secolo imperituro che non potrà invecchiare; la domnenica è il preannuncio incessante della vita senza fine, che rianima la speranza dei cristiani e li incoraggia nel loro cammino.(26) Nella prospettiva del giorno ultimo, che invera pienamente il simbolismo anticipatore del sabato, sant'Agostino conclude le Confessioni parlando dell'eschaton come « pace del riposo, pace del sabato, pace senza sera ».(27) La celebrazione della domenica, giorno « primo » e insieme « ottavo », proietta il cristiano verso il traguardo della vita eterna.(28)

Il giorno di Cristo-luce

27. In questa prospettiva cristocentrica, si comprende un'altra valenza simbolica che la riflessione credente e la pratica pastorale attribuirono al giorno del Signore. Un'accorta intuizione pastorale, infatti, suggerì alla Chiesa di cristianizzare, per la domenica, la connotazione di « giorno del sole », espressione con cui i romani denominavano questo giorno e che ancora emerge in alcune lingue contemporanee,(29) sottraendo i fedeli alle seduzioni di culti che divinizzavano il sole e indirizzando la celebrazione di questo giorno a Cristo, vero « sole » dell'umanità. San Giustino, scrivendo ai pagani, utilizza la terminologia corrente per annotare che i cristiani facevano la loro adunanza « nel giorno detto del sole »,(30) ma il riferimento a questa espressione assume ormai per i credenti un senso nuovo, perfettamente evangelico.(31) Cristo è infatti la luce del mondo (cfr Gv 9, 5; cfr anche 1, 4-5.9), e il giorno commemorativo della sua risurrezione è il riflesso perenne, nella scansione settimanale del tempo, di questa epifania della sua gloria. Il tema della domenica come giorno illuminato dal trionfo di Cristo risorto trova spazio nella Liturgia delle Ore (32) ed ha una particolare enfasi nella veglia notturna che, nelle liturgie orientali, prepara e introduce la domenica. Radunandosi in questo giorno, la Chiesa fa suo, di generazione in generazione, lo stupore di Zaccaria, quando volge lo sguardo verso Cristo annunciandolo come « sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte » (Lc 1, 78-79), e vibra in sintonia con la gioia provata da Simeone nel prendere tra le braccia il Bimbo divino venuto come « luce per illuminare le genti » (Lc 2, 32).

Il giorno del dono dello Spirito

28. Giorno di luce, la domenica potrebbe dirsi anche, in riferimento allo Spirito Santo, giorno del « fuoco ». La luce di Cristo, infatti, è intimamente connessa col « fuoco » dello Spirito, e ambedue le immagini indicano il senso della domenica cristiana.(33) Apparendo agli Apostoli la sera di Pasqua, Gesù alitò su di loro e disse: « Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi » (Gv 20, 22-23). L'effusione dello Spirito fu il grande dono del Risorto ai suoi discepoli la domenica di Pasqua. Era ancora domenica, quando, cinquanta giorni dopo la risurrezione, lo Spirito scese con potenza, come « vento gagliardo » e « fuoco » (At 2, 23) sugli Apostoli riuniti con Maria. La Pentecoste non è solo evento originario, ma mistero che anima permanentemente la Chiesa.(34) Se tale evento ha il suo tempo liturgico forte nella celebrazione annuale con cui si chiude la « grande domenica »,(35) esso rimane inscritto, proprio per la sua intima connessione col mistero pasquale, anche nel senso profondo di ogni domenica. La « Pasqua della settimana » si fa così, in qualche modo, « Pentecoste della settimana », nella quale i cristiani rivivono l'esperienza gioiosa dell'incontro degli Apostoli col Risorto, lasciandosi vivificare dal soffio del suo Spirito.

Il giorno della fede

29. Per tutte queste dimensioni che la contraddistinguono, la domenica appare il giorno della fede per eccellenza. In esso lo Spirito Santo, « memoria » viva della Chiesa (cfr Gv 14, 26), fa della prima manifestazione del Risorto un evento che si rinnova nell'« oggi » di ciascuno dei discepoli di Cristo. Posti davanti a lui, nell'assemblea domenicale, i credenti si sentono interpellati come l'apostolo Tommaso: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente! » (Gv 20, 27). Sì, la domenica è il giorno della fede. Lo sottolinea il fatto che la liturgia eucaristica domenicale, come peraltro quella delle solennità liturgiche, prevede la professione di fede. Il « Credo », recitato o cantato, evidenzia il carattere battesimale e pasquale della domenica, facendone il giorno in cui, a titolo speciale, il battezzato rinnova la propria adesione a Cristo ed al suo Vangelo nella ravvivata consapevolezza delle promesse battesimali. Accogliendo la Parola e ricevendo il Corpo del Signore, egli contempla Gesù risorto presente nei « santi segni » e confessa con l'apostolo Tommaso: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20, 28).

Un giorno irrinunciabile!

30. Si comprende allora perché, anche nel contesto delle difficoltà del nostro tempo, l'identità di questo giorno debba essere salvaguardata e soprattutto profondamente vissuta. Un autore orientale dell'inizio del III secolo riferisce che in ogni regione i fedeli già allora santificavano regolarmente la domenica.(36) La prassi spontanea è divenuta poi norma giuridicamente sancita: il giorno del Signore ha scandito la storia bimillenaria della Chiesa. Come potrebbe pensarsi che esso non continui a segnare il suo futuro? I problemi che, nel nostro tempo, possono rendere più difficile la pratica del dovere domenicale non mancano di trovare la Chiesa sensibile e maternamente attenta alle condizioni dei singoli suoi figli. In particolare, essa si sente chiamata ad un nuovo impegno catechetico e pastorale, perché nessuno di essi, nelle normali condizioni di vita, resti privo dell'abbondante flusso di grazia che la celebrazione del giorno del Signore porta con sé. Nello stesso spirito, prendendo posizione su ipotesi di riforma del calendario ecclesiale in rapporto a variazioni dei sistemi di calendario civile, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dichiarato che la Chiesa « non si oppone a quelli soltanto che conservano e tutelano la settimana di sette giorni con la domenica ».(37) Alle soglie del terzo millennio, la celebrazione della domenica cristiana, per i significati che evoca e le dimensioni che implica, in rapporto ai fondamenti stessi della fede, rimane un elemento qualificante dell'identità cristiana.

 

CAPITOLO TERZO

DIES ECCLESIAE

L'assemblea eucaristica
cuore della domenica

La presenza del Risorto

31. « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28, 20). Questa promessa di Cristo continua a risuonare nella Chiesa, che in essa coglie il segreto fecondo della sua vita e la sorgente della sua speranza. Se la domenica è il giorno della risurrezione, essa non è solo la memoria di un evento passato: è celebrazione della viva presenza del Risorto in mezzo ai suoi.

Perché tale presenza sia annunciata e vissuta in modo adeguato, non basta che i discepoli di Cristo preghino individualmente e ricordino interiormente, nel segreto del cuore, la morte e la risurrezione di Cristo. Quanti infatti hanno ricevuto la grazia del battesimo, non sono stati salvati solo a titolo individuale, ma come membra del Corpo mistico, entrati a far parte del Popolo di Dio.(38) È importante perciò che si radunino, per esprimere pienamente l'identità stessa della Chiesa, la ekklesía, l'assemblea convocata dal Signore risorto, il quale ha offerto la sua vita « per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi » (Gv 11, 52). Essi sono diventati « uno » in Cristo (cfr Gal 3, 28), attraverso il dono dello Spirito. Questa unità si manifesta esteriormente quando i cristiani si riuniscono: prendono allora viva coscienza e testimoniano al mondo di essere il popolo dei redenti composto da « uomini di ogni tribù, lingua, popolo, nazione » (Ap 5, 9). Nell'assemblea dei discepoli di Cristo si perpetua nel tempo l'immagine della prima comunità cristiana disegnata con intento esemplare da Luca negli Atti degli Apostoli, quando riferisce che i primi battezzati « erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere » (2, 42).

L'assemblea eucaristica

32. Questa realtà della vita ecclesiale ha nell'Eucaristia non solo una particolare intensità espressiva, ma in certo senso il suo luogo « sorgivo ».(39) L'Eucaristia nutre e plasma la Chiesa: « Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane » (1 Cor 10, 17). Per tale suo rapporto vitale con il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il mistero della Chiesa è in modo supremo annunciato, gustato e vissuto nell'Eucaristia.(40)

L'intrinseca dimensione ecclesiale dell'Eucaristia si realizza ogni volta che essa viene celebrata. Ma a maggior ragione si esprime nel giorno in cui tutta la comunità è convocata per fare memoria della risurrezione del Signore. Significativamente il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che « la celebrazione domenicale del Giorno e dell'Eucaristia del Signore sta al centro della vita della Chiesa ».(41)

33. È proprio nella Messa domenicale, infatti, che i cristiani rivivono in modo particolarmente intenso l'esperienza fatta dagli Apostoli la sera di Pasqua, quando il Risorto si manifestò ad essi riuniti insieme (cfr Gv 20, 19). In quel piccolo nucleo di discepoli, primizia della Chiesa, era in qualche modo presente il Popolo di Dio di tutti i tempi. Attraverso la loro testimonianza, rimbalza su ogni generazione di credenti il saluto di Cristo, ricco del dono messianico della pace, acquistata col suo sangue e offerta insieme col suo Spirito: « Pace a voi! ». Nel ritorno di Cristo tra loro « otto giorni dopo » (Gv 20, 26) può vedersi raffigurato in radice l'uso della comunità cristiana di riunirsi ogni ottavo giorno, nel « giorno del Signore » o domenica, a professare la fede nella sua risurrezione ed a raccogliere i frutti della beatitudine da lui promessa: « Beati quelli che pur non avendo visto crederanno! » (Gv 20, 29). Quest'intima connessione tra la manifestazione del Risorto e l'Eucaristia è adombrata dal Vangelo di Luca nella narrazione riguardante i due discepoli di Emmaus, ai quali Cristo stesso si accompagnò, guidandoli alla comprensione della Parola e sedendosi infine a mensa con loro. Essi lo riconobbero quando egli « prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro » (24, 30). I gesti di Gesù in questo racconto sono i medesimi da lui compiuti nell'Ultima Cena, con la chiara allusione alla « frazione del pane », come è denominata l'Eucaristia nella prima generazione cristiana.

L'Eucaristia domenicale

34. Certo, l'Eucaristia domenicale non ha, in sé, uno statuto diverso da quella celebrata in ogni altro giorno, né è separabile dall'intera vita liturgica e sacramentale. Questa è per sua natura una epifania della Chiesa,(42) che trova il suo momento più significativo quando la comunità diocesana si raduna in preghiera col proprio Pastore: « La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri ».(43) Il rapporto col Vescovo e con l'intera comunità ecclesiale è insito in ogni celebrazione eucaristica, anche non presieduta dal Vescovo, in qualunque giorno della settimana essa venga celebrata. Ne è espressione la menzione del Vescovo nella preghiera eucaristica.

L'Eucaristia domenicale, tuttavia, con l'obbligo della presenza comunitaria e la speciale solennità che la contraddistinguono proprio perché celebrata « nel giorno in cui Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale »,(44) manifesta con un'ulteriore enfasi la propria dimensione ecclesiale, ponendosi come paradigmatica rispetto alle altre celebrazioni eucaristiche. Ogni comunità, radunando tutti i suoi membri per la « frazione del pane », si sperimenta quale luogo in cui il mistero della Chiesa concretamente si attua. Nella stessa celebrazione la comunità si apre alla comunione con la Chiesa universale,(45) implorando il Padre perché si ricordi « della Chiesa diffusa su tutta la terra », e la faccia crescere, nell'unità di tutti i fedeli col Papa e coi Pastori delle singole Chiese, fino alla perfezione dell'amore.

Il giorno della Chiesa

35. Il dies Domini si rivela così anche dies Ecclesiae. Si comprende allora perché la dimensione comunitaria della celebrazione domenicale debba essere, sul piano pastorale, particolarmente sottolineata. Come ho avuto modo, in altra occasione, di ricordare, tra le numerose attività che una parrocchia svolge, « nessuna è tanto vitale o formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia ».(46) In questo senso il Concilio Vaticano II ha richiamato la necessità di adoperarsi perché « il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della Messa domenicale ».(47) Nella stessa linea si pongono i successivi orientamenti liturgici, chiedendo che, nella domenica e nei giorni festivi, le celebrazioni eucaristiche fatte normalmente in altre chiese ed oratori siano coordinate con la celebrazione della chiesa parrocchiale, e ciò proprio per « fomentare il senso della comunità ecclesiale, che è alimentato ed espresso in modo speciale nella celebrazione comunitaria della domenica, sia intorno al Vescovo, soprattutto nella cattedrale, sia nell'assemblea parrocchiale, il cui pastore fa le veci del Vescovo ».(48)

36. L'assemblea domenicale è luogo privilegiato di unità: vi si celebra infatti il sacramentum unitatis che caratterizza profondamente la Chiesa, popolo adunato « dalla » e « nella » unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.(49) In essa le famiglie cristiane vivono una delle espressioni più qualificate della loro identità e del loro « ministero » di « chiese domestiche », quando i genitori partecipano con i loro figli all'unica mensa della Parola e del Pane di vita.(50) Va ricordato a tal proposito che spetta innanzitutto ai genitori educare i loro figli alla partecipazione alla Messa domenicale, aiutati in ciò dai catechisti, che devono preoccuparsi di inserire l'iniziazione alla Messa nel cammino formativo dei ragazzi loro affidati, illustrando il motivo profondo dell'obbligatorietà del precetto. A questo contribuirà anche, quando le circostanze lo consiglino, la celebrazione di Messe per fanciulli, secondo le varie modalità previste dalle norme liturgiche.(51)

Nelle Messe domenicali della parrocchia, in quanto « comunità eucaristica »,(52) è normale poi che si ritrovino i vari gruppi, movimenti, associazioni, le stesse piccole comunità religiose in essa presenti. Questo consente loro di fare esperienza di ciò che è ad essi più profondamente comune, al di là delle specifiche vie spirituali che legittimamente li caratterizzano, in obbedienza al discernimento dell'autorità ecclesiale.(53) È per questo che di domenica, giorno dell'assemblea, le Messe dei piccoli gruppi non sono da incoraggiare: non si tratta solo di evitare che le assemblee parrocchiali manchino del necessario ministero dei sacerdoti, ma anche di fare in modo che la vita e l'unità della comunità ecclesiale vengano pienamente salvaguardate e promosse.(54) Spetta all'oculato discernimento dei Pastori delle Chiese particolari autorizzare eventuali e ben circoscritte deroghe a questo orientamento, in considerazione di specifiche esigenze formative e pastorali, tenendo conto del bene di singoli o di gruppi, e specialmente dei frutti che possono derivarne all'intera comunità cristiana.

Popolo pellegrinante

37. Nella prospettiva poi del cammino della Chiesa nel tempo, il riferimento alla risurrezione di Cristo e la scadenza settimanale di tale solenne memoria aiutano a ricordare il carattere pellegrinante e la dimensione escatologica del Popolo di Dio. Di domenica in domenica, infatti, la Chiesa procede verso l'ultimo « giorno del Signore », la domenica senza fine. In realtà, l'attesa della venuta di Cristo è inscritta nel mistero stesso della Chiesa (55) ed emerge in ogni celebrazione eucaristica. Ma il giorno del Signore, con la sua specifica memoria della gloria del Cristo risorto, richiama con maggior intensità anche la gloria futura del suo « ritorno ». Ciò fa della domenica il giorno in cui la Chiesa, manifestando più chiaramente il suo carattere « sponsale », anticipa in qualche modo la realtà escatologica della Gerusalemme celeste. Raccogliendo i suoi figli nell'assemblea eucaristica ed educandoli all'attesa dello « Sposo divino », essa fa come un « esercizio del desiderio »,(56) in cui pregusta la gioia dei cieli nuovi e della terra nuova, quando la città santa, la nuova Gerusalemme, scenderà dal cielo, da Dio, « pronta come una sposa adorna per il suo sposo » (Ap 21, 2).

Giorno della speranza

38. Da questo angolo visuale, se la domenica è il giorno della fede, essa non è meno il giorno della speranza cristiana. La partecipazione alla « cena del Signore » è infatti anticipazione del banchetto escatologico per le « nozze dell'Agnello » (Ap 19, 9). Celebrando il memoriale di Cristo, risorto e asceso al cielo, la comunità cristiana si pone « nell'attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo ».(57) Vissuta e alimentata con questo intenso ritmo settimanale, la speranza cristiana si fa lievito e luce della stessa speranza umana. Per questo, nella preghiera « universale », si raccolgono i bisogni non della sola comunità cristiana, ma dell'intera umanità; la Chiesa, radunata per la Celebrazione eucaristica, testimonia in questo modo al mondo di far sue « le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono ».(58) Coronando poi con l'offerta eucaristica domenicale la testimonianza che, in tutti i giorni della settimana, i suoi figli, immersi nel lavoro e nei vari impegni della vita, si sforzano di offrire con l'annuncio del Vangelo e la pratica della carità, la Chiesa manifesta in modo più evidente il suo essere « come sacramento, ossia segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano ».(59)

La mensa della Parola

39. Nell'assemblea domenicale, come del resto in ogni Celebrazione eucaristica, l'incontro col Risorto avviene mediante la partecipazione alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita. La prima continua a dare quell'intelligenza della storia della salvezza e, in particolare, del mistero pasquale che lo stesso Gesù risorto procurò ai discepoli: è lui che parla, presente com'è nella sua parola « quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura ».(60) Nella seconda si attua la reale, sostanziale e duratura presenza del Signore risorto attraverso il memoriale della sua passione e della sua risurrezione, e viene offerto quel pane di vita che è pegno della gloria futura. Il Concilio Vaticano II ha ricordato che « la liturgia della parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto ».(61) Lo stesso Concilio ha anche stabilito che « la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, aprendo più largamente i tesori della Bibbia ».(62) Ha poi ordinato che nelle Messe della domenica, come in quelle delle feste di precetto, l'omelia non sia omessa se non per grave causa.(63) Queste felici disposizioni hanno trovato fedele espressione nella riforma liturgica, a proposito della quale Paolo VI, commentando la più abbondante offerta di letture bibliche nelle domeniche e nei giorni festivi, scriveva: « Tutto ciò è stato ordinato in modo da far aumentare sempre più nei fedeli "quella fame di ascoltare la parola del Signore" (Am 8, 11) che, sotto la guida dello Spirito Santo, spinga il popolo della nuova alleanza alla perfetta unità della Chiesa ».(64)

40. A distanza di oltre trent'anni dal Concilio, mentre riflettiamo sull'Eucaristia domenicale, è necessario verificare come la Parola di Dio venga proclamata, nonché l'effettiva crescita, nel Popolo di Dio, della conoscenza e dell'amore della Sacra Scrittura.(65) L'uno e l'altro aspetto, quello della celebrazione e quello dell'esperienza vissuta, stanno in intima relazione. Da una parte, la possibilità offerta dal Concilio di proclamare la Parola di Dio nella lingua propria della comunità partecipante deve portarci a sentire una « nuova responsabilità » verso di essa, facendo risplendere, « fin dal modo stesso di leggere o di cantare, il carattere peculiare del testo sacro ».(66) Dall'altra, occorre che l'ascolto della Parola di Dio proclamata sia ben preparato nell'animo dei fedeli da una conoscenza appropriata della Scrittura e, ove pastoralmente possibile, da specifiche iniziative di approfondimento dei brani biblici, specie di quelli delle Messe festive. Se infatti la lettura del testo sacro, compiuta in spirito di preghiera e in docilità all'interpretazione ecclesiale,(67) non anima abitualmente la vita dei singoli e delle famiglie cristiane, è difficile che la sola proclamazione liturgica della Parola di Dio possa portare i frutti sperati. Sono dunque molto lodevoli quelle iniziative con cui le comunità parrocchiali, attraverso il coinvolgimento di quanti partecipano all'Eucaristia — sacerdote, ministri e fedeli — (68) preparano la liturgia domenicale già nel corso della settimana, riflettendo in anticipo sulla Parola di Dio che sarà proclamata. L'obiettivo a cui tendere è che tutta la celebrazione, in quanto preghiera, ascolto, canto, e non solo l'omelia, esprima in qualche modo il messaggio della liturgia domenicale, così che esso possa incidere più efficacemente su quanti vi prendono parte. Ovviamente molto è affidato alla responsabilità di coloro che esercitano il ministero della Parola. Ad essi incombe il dovere di preparare con particolare cura, nello studio del testo sacro e nella preghiera, il commento alla parola del Signore, esprimendone fedelmente i contenuti e attualizzandoli in rapporto agli interrogativi e alla vita degli uomini del nostro tempo.

41. Occorre peraltro non dimenticare che la proclamazione liturgica della Parola di Dio, soprattutto nel contesto dell'assemblea eucaristica, non è tanto un momento di meditazione e di catechesi, ma è il dialogo di Dio col suo popolo, dialogo in cui vengono proclamate le meraviglie della salvezza e continuamente riproposte le esigenze dell'Alleanza. Da parte sua, il Popolo di Dio si sente chiamato a rispondere a questo dialogo di amore ringraziando e lodando, ma al tempo stesso verificando la propria fedeltà nello sforzo di una continua « conversione ». L'assemblea domenicale si impegna così all'interiore rinnovamento delle promesse battesimali, che sono in qualche modo implicite nella recita del Credo, e che la liturgia espressamente prevede nella celebrazione della veglia pasquale o quando viene amministrato il battesimo durante la Messa. In questo quadro, la proclamazione della Parola nella Celebrazione eucaristica della domenica acquista il tono solenne che già l'Antico Testamento prevedeva per i momenti di rinnovamento dell'Alleanza, quando veniva proclamata la Legge e la comunità di Israele era chiamata, come il popolo del deserto ai piedi del Sinai (cfr Es 19, 7-8; 24, 3.7), a ribadire il suo « sì », rinnovando la scelta di fedeltà a Dio e di adesione ai suoi precetti. Dio infatti, nel comunicare la sua Parola, attende la nostra risposta: risposta che Cristo ha già dato per noi con il suo « Amen » (cfr 2 Cor 1, 20-22), e che lo Spirito Santo fa risuonare in noi in modo che ciò che si è udito coinvolga profondamente la nostra vita.(69)

La mensa del Corpo di Cristo

42. La mensa della Parola sfocia naturalmente nella mensa del Pane eucaristico e prepara la comunità a viverne le molteplici dimensioni, che assumono nell'Eucaristia domenicale un carattere particolarmente solenne. Nel tono festoso del convenire di tutta la comunità nel « giorno del Signore », l'Eucaristia si propone in modo più visibile che negli altri giorni come la grande « azione di grazie », con cui la Chiesa, colma dello Spirito, si rivolge al Padre, unendosi a Cristo e facendosi voce dell'intera umanità. La scansione settimanale suggerisce di raccogliere in grata memoria gli eventi dei giorni appena trascorsi, per rileggerli alla luce di Dio, e rendergli grazie per i suoi innumerevoli doni, glorificandolo « per Cristo, con Cristo e in Cristo, nell'unità dello Spirito Santo ». La comunità cristiana prende così rinnovata coscienza del fatto che tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo (cfr Col 1, 16; Gv 1, 3) e in lui, venuto in forma di servo a condividere e redimere la nostra condizione umana, esse sono state ricapitolate (cfr Ef 1, 10), per essere offerte a Dio Padre, dal quale ogni cosa prende origine e vita. Aderendo infine con il suo « Amen » alla dossologia eucaristica, il Popolo di Dio si proietta nella fede e nella speranza verso il traguardo escatologico, quando Cristo « consegnerà il regno a Dio Padre [...] perché Dio sia tutto in tutti » (1 Cor 15, 24.28).

43. Questo movimento « ascendente » è insito in ogni celebrazione eucaristica e ne fa un evento gioioso, intriso di riconoscenza e di speranza, ma è particolarmente sottolineato, nella Messa domenicale, dalla sua speciale connessione con la memoria della risurrezione. D'altra parte, la gioia « eucaristica » che porta « in alto i nostri cuori » è frutto del « movimento discendente » che Dio ha operato verso di noi, e che resta perennemente inscritto nell'essenza sacrificale dell'Eucaristia, suprema espressione e celebrazione del mistero della kénosis, ossia dell'abbassamento mediante il quale Cristo « umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce » (Fil 2, 8).

La Messa infatti è viva ripresentazione del sacrificio della Croce. Sotto le specie del pane e del vino, su cui è stata invocata l'effusione dello Spirito, operante con efficacia del tutto singolare nelle parole della consacrazione, Cristo si offre al Padre nel medesimo gesto di immolazione con cui si offrì sulla croce. « In questo divino sacrificio che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offrì una sola volta in modo cruento sull'altare della croce ».(70) Al suo sacrificio Cristo unisce quello della Chiesa: « Nell'Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio delle membra del suo corpo. La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo ».(71) Questa partecipazione dell'intera comunità assume una particolare evidenza nel convenire domenicale, che consente di portare all'altare la settimana trascorsa con l'intero carico umano che l'ha segnata.

Convito pasquale e incontro fraterno

44. Questa coralità s'esprime poi specialmente nel carattere di convito pasquale che è proprio dell'Eucaristia, nella quale Cristo stesso si fa nutrimento. Infatti « a questo scopo Cristo affidò alla Chiesa questo sacrificio: perché i fedeli partecipassero ad esso, sia spiritualmente, con la fede e la carità, sia sacramentalmente, con il banchetto della santa comunione. La partecipazione alla cena del Signore è sempre comunione con il Cristo, che si offre per noi in sacrificio al Padre ».(72) Per questo la Chiesa raccomanda ai fedeli di fare la comunione quando partecipano all'Eucaristia, purché siano nelle debite disposizioni e, se consapevoli di peccati gravi, abbiano ricevuto il perdono di Dio nel sacramento della Riconciliazione,(73) nello spirito di quanto san Paolo ricordava alla comunità di Corinto (cfr 1 Cor 11, 27-32). L'invito alla comunione eucaristica si fa particolarmente insistente, com'è ovvio, in occasione della Messa in giorno di domenica e negli altri giorni festivi.

È importante inoltre che si prenda coscienza viva di quanto la comunione con Cristo sia profondamente legata alla comunione con i fratelli. L'assemblea eucaristica domenicale è un evento di fraternità, che la celebrazione deve mettere bene in evidenza, pur nel rispetto dello stile proprio dell'azione liturgica. A ciò contribuiscono il servizio dell'accoglienza e il tono della preghiera, attenta ai bisogni dell'intera comunità. Lo scambio del segno della pace, significativamente posto nel Rito romano prima della comunione eucaristica, è un gesto particolarmente espressivo, che i fedeli sono invitati a fare come manifestazione del consenso dato dal popolo di Dio a tutto ciò che si è compiuto nella celebrazione (74) e dell'impegno di vicendevole amore che si assume partecipando all'unico pane, nel ricordo dell'esigente parola di Cristo: « Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono » (Mt 5, 23-24).

Dalla Messa alla « missione »

45. Ricevendo il Pane di vita, i discepoli di Cristo si dispongono ad affrontare, con la forza del Risorto e del suo Spirito, i compiti che li attendono nella loro vita ordinaria. In effetti, per il fedele che ha compreso il senso di ciò che ha compiuto, la celebrazione eucaristica non può esaurirsi all'interno del tempio. Come i primi testimoni della risurrezione, i cristiani convocati ogni domenica per vivere e confessare la presenza del Risorto sono chiamati a farsi nella loro vita quotidiana evangelizzatori e testimoni. L'orazione dopo la comunione e il rito di conclusione — benedizione e congedo — vanno, sotto questo profilo, riscoperti e meglio valorizzati, perché quanti hanno partecipato all'Eucaristia sentano più profondamente la responsabilità ad essi affidata. Dopo lo scioglimento dell'assemblea, il discepolo di Cristo torna nel suo ambiente abituale con l'impegno di fare di tutta la sua vita un dono, un sacrificio spirituale gradito a Dio (cfr Rm 12, 1). Egli si sente debitore verso i fratelli di ciò che nella celebrazione ha ricevuto, non diversamente dai discepoli di Emmaus i quali, dopo aver riconosciuto « alla frazione del pane » il Cristo risuscitato (cfr Lc 24, 30-32), avvertirono l'esigenza di andare subito a condividere con i loro fratelli la gioia dell'incontro con il Signore (cfr Lc 24, 33-35).

Il precetto domenicale

46. Essendo l'Eucaristia il vero cuore della domenica, si comprende perché, fin dai primi secoli, i Pastori non abbiano cessato di ricordare ai loro fedeli la necessità di partecipare all'assemblea liturgica. « Lasciate tutto nel giorno del Signore — dichiara per esempio il trattato del III° secolo intitolato Didascalia degli Apostoli — e correte con diligenza alla vostra assemblea, perché è la vostra lode verso Dio. Altrimenti, quale scusa avranno presso Dio quelli che non si riuniscono nel giorno del Signore per ascoltare la parola di vita e nutrirsi dell'alimento divino che rimane eterno? ».(75) L'appello dei Pastori ha generalmente incontrato nell'anima dei fedeli un'adesione convinta e, se non sono mancati tempi e situazioni in cui è calata la tensione ideale nell'adempimento di questo dovere, non si può però non ricordare l'autentico eroismo con cui sacerdoti e fedeli hanno ottemperato a quest'obbligo in tante situazioni di pericolo e di restrizione della libertà religiosa, come è possibile costatare dai primi secoli della Chiesa fino al nostro tempo.

San Giustino, nella sua prima Apologia indirizzata all'imperatore Antonino e al Senato, poteva descrivere con fierezza la prassi cristiana dell'assemblea domenicale, che riuniva insieme nello stesso luogo i cristiani delle città e quelli delle campagne.(76) Quando, durante la persecuzione di Diocleziano, le loro assemblee furono interdette con la più grande severità, furono molti i coraggiosi che sfidarono l'editto imperiale e accettarono la morte pur di non mancare alla Eucaristia domenicale. E il caso di quei martiri di Abitine, in Africa proconsolare, che risposero ai loro accusatori: « È senza alcun timore che abbiamo celebrato la cena del Signore, perché non la si può tralasciare; è la nostra legge »; « Noi non possiamo stare senza la cena del Signore ». E una delle martiri confessò: « Sì, sono andata all'assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana ».(77)

47. Quest'obbligo di coscienza, fondato in una esigenza interiore che i cristiani dei primi secoli sentivano con tanta forza, la Chiesa non ha cessato di affermarlo, anche se dapprima non ha ritenuto necessario prescriverlo. Solo più tardi, davanti alla tiepidezza o alla negligenza di alcuni, ha dovuto esplicitare il dovere di partecipare alla Messa domenicale: il più delle volte lo ha fatto sotto forma di esortazioni, ma talvolta ha dovuto ricorrere anche a precise disposizioni canoniche. È quanto ha fatto in diversi Concili particolari a partire dal IV secolo (così nel Concilio di Elvira del 300, che non parla di obbligo ma di conseguenze penali dopo tre assenze) (78) e soprattutto dal VI secolo in poi (come è avvenuto nel Concilio di Agde del 506).(79) Questi decreti di Concili particolari sono sfociati in una consuetudine universale di carattere obbligante, come cosa del tutto ovvia.(80)

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 per la prima volta raccoglieva la tradizione in una legge universale.(81) L'attuale Codice la ribadisce, dicendo che « la domenica e le altre feste di precetto, i fedeli sono tenuti all'obbligo di partecipare alla Messa ».(82) Una tale legge è stata normalmente intesa come implicante un obbligo grave: è quanto insegna anche il Catechismo della Chiesa Cattolica,(83) e ben se ne comprende il motivo, se si considera la rilevanza che la domenica ha per la vita cristiana.

48. Oggi, come nei tempi eroici degli inizi, in molte regioni del mondo si ripropongono situazioni difficili per tanti che intendono vivere con coerenza la propria fede. L'ambiente è a volte dichiaratamente ostile, altre volte — e più spesso — indifferente e refrattario al messaggio evangelico. Il credente, se non vuole essere sopraffatto, deve poter contare sul sostegno della comunità cristiana. È perciò necessario che egli si convinca dell'importanza decisiva che per la sua vita di fede ha il riunirsi la domenica con gli altri fratelli per celebrare la Pasqua del Signore nel sacramento della Nuova Alleanza. Spetta, poi, in modo particolare ai Vescovi di adoperarsi « per far sì che la domenica venga da tutti i fedeli riconosciuta, santificata e celebrata come vero "giorno del Signore", nel quale la Chiesa si raduna per rinnovare la memoria del suo mistero pasquale con l'ascolto della parola di Dio, con l'offerta del sacrificio del Signore, con la santificazione del giorno mediante la preghiera, le opere di carità e l'astensione dal lavoro ».(84)

49. E dal momento che per i fedeli partecipare alla Messa è un obbligo, a meno che non abbiano un impedimento grave, ai Pastori s'impone il corrispettivo dovere di offrire a tutti l'effettiva possibilità di soddisfare al precetto. In questa linea si muovono le disposizioni del diritto ecclesiastico, quali per esempio la facoltà per il sacerdote, previa autorizzazione del Vescovo diocesano, di celebrare più di una Messa di domenica e nei giorni festivi,(85) l'istituzione delle Messe vespertine (86) ed infine l'indicazione secondo cui il tempo utile per l'adempimento dell'obbligo comincia già il sabato sera, in coincidenza con i primi Vespri della domenica.(87) Dal punto di vista liturgico, infatti, il giorno festivo ha inizio con tali Vespri.(88) Conseguentemente la liturgia della Messa detta talvolta « prefestiva », ma che in realtà è a tutti gli effetti « festiva », è quella della domenica, con l'impegno per il celebrante di tenere l'omelia e di recitare con i fedeli la preghiera universale.

I pastori inoltre ricorderanno ai fedeli che, in caso di assenza dalla loro residenza abituale in giorno di domenica, essi devono preoccuparsi di partecipare alla Messa là dove si trovano, arricchendo così la comunità del luogo con la loro testimonianza personale. Allo stesso tempo, bisognerà che queste comunità esprimano un caldo senso di accoglienza per i fratelli venuti da fuori, particolarmente nei luoghi che attirano numerosi turisti e pellegrini, per i quali sarà spesso necessario prevedere iniziative particolari di assistenza religiosa.(89)

Celebrazione gioiosa e canora

50. Dato il carattere proprio della Messa domenicale e l'importanza che essa riveste per la vita dei fedeli, è necessario prepararla con speciale cura. Nelle forme suggerite dalla saggezza pastorale e dagli usi locali in armonia con le norme liturgiche, bisogna assicurare alla celebrazione quel carattere festoso che s'addice al giorno commemorativo della Risurrezione del Signore. A tale scopo è importante dedicare attenzione al canto dell'assemblea, poiché esso è particolarmente adatto ad esprimere la gioia del cuore, sottolinea la solennità e favorisce la condivisione dell'unica fede e del medesimo amore. Ci si preoccupi pertanto della sua qualità, sia per quanto riguarda i testi che le melodie, affinché quanto si propone oggi di nuovo e creativo sia conforme alle disposizioni liturgiche e degno di quella tradizione ecclesiale che vanta, in materia di musica sacra, un patrimonio di inestimabile valore.

Celebrazione coinvolgente e partecipata

51. È necessario inoltre fare ogni sforzo perché tutti i presenti — ragazzi e adulti — si sentano interessati, favorendo il loro coinvolgimento in quelle espressioni di partecipazione che la liturgia suggerisce e raccomanda.(90) Certo, spetta soltanto a quelli che esercitano il sacerdozio ministeriale a servizio dei loro fratelli di compiere il Sacrificio eucaristico e di offrirlo a Dio a nome dell'intero popolo.(91) Ha qui il suo fondamento la distinzione, che è ben più che disciplinare, tra il compito proprio del celebrante e quello che è attribuito ai diaconi e ai fedeli non ordinati.(92) I fedeli tuttavia devono essere consapevoli che, in virtù del sacerdozio comune ricevuto nel battesimo, « concorrono ad offrire l'Eucaristia ».(93) Pur nella distinzione dei ruoli, essi « offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa. Offrendo il sacrificio e ricevendo la santa comunione, prendono parte attivamente all'azione liturgica »,(94) attingendovi luce e forza per vivere il loro sacerdozio battesimale con la testimonianza di una vita santa.

Altri momenti della domenica cristiana

52. Se la partecipazione all'Eucaristia è il cuore della domenica, sarebbe tuttavia limitativo ridurre solo ad essa il dovere di « santificarla ». Il giorno del Signore è infatti vissuto bene, se è tutto segnato dalla memoria grata ed operosa dei gesti salvifici di Dio. Questo impegna ciascuno dei discepoli di Cristo a dare anche agli altri momenti della giornata, vissuti al di fuori del contesto liturgico — vita di famiglia, relazioni sociali, occasioni di svago — uno stile che aiuti a far emergere la pace e la gioia del Risorto nel tessuto ordinario della vita. Il più tranquillo ritrovarsi dei genitori e dei figli può essere, ad esempio, occasione non solo per aprirsi all'ascolto reciproco, ma anche per vivere insieme qualche momento formativo e di maggior raccoglimento. E perché poi non mettere in programma, anche nella vita laicale, quando è possibile, speciali iniziative di preghiera — quali, in particolare, la celebrazione solenne dei Vespri —, come pure eventuali momenti di catechesi, che nella vigilia della domenica o nel pomeriggio di essa preparino e completino nell'animo cristiano il dono proprio dell'Eucaristia?

Questa forma abbastanza tradizionale di « santificazione della domenica » è diventata forse, in molti ambienti, più difficile; ma la Chiesa manifesta la sua fede nella forza del Risorto e nella potenza dello Spirito Santo mostrando, oggi più che mai, di non accontentarsi di proposte minimali o mediocri sul piano della fede, e aiutando i cristiani a compiere quanto è più perfetto e gradito al Signore. Del resto, accanto alle difficoltà, non mancano segnali positivi ed incoraggianti. Grazie al dono dello Spirito, in molti ambienti ecclesiali si avverte una nuova esigenza di preghiera nella molteplicità delle sue forme. Vengono riscoperte anche espressioni antiche della religiosità, come il pellegrinaggio, e spesso i fedeli approfittano del riposo domenicale per recarsi in Santuari dove vivere, magari con l'intera famiglia, qualche ora di più intensa esperienza di fede. Sono momenti di grazia che occorre nutrire con una adeguata evangelizzazione ed orientare con vera sapienza pastorale.

Assemblee domenicali in assenza del sacerdote

53. Resta il problema delle parrocchie per le quali non è possibile godere del ministero di un sacerdote che celebri l'Eucaristia domenicale. Ciò avviene spesso nelle giovani Chiese, dove un solo sacerdote ha la responsabilità pastorale di fedeli dispersi su un vasto territorio. Situazioni di emergenza possono verificarsi anche nei Paesi di secolare tradizione cristiana, quando la rarefazione del clero impedisce di assicurare la presenza del sacerdote in ogni comunità parrocchiale. La Chiesa, considerando il caso di impossibilità della celebrazione eucaristica, raccomanda la convocazione di assemblee domenicali in assenza del sacerdote,(95) secondo le indicazioni e le direttive date dalla Santa Sede e affidate, per la loro applicazione, alle Conferenze Episcopali.(96) Tuttavia, l'obiettivo deve rimanere la celebrazione del sacrificio della Messa, sola vera attuazione della Pasqua del Signore, sola realizzazione completa dell'assemblea eucaristica che il sacerdote presiede in persona Christi, spezzando il pane della Parola e quello dell'Eucaristia. Si prenderanno dunque, a livello pastorale, tutte le misure necessarie perché i fedeli che ne sono abitualmente privi possano beneficiarne il più spesso possibile, sia favorendo la periodica presenza di un sacerdote, sia valorizzando tutte le opportunità per organizzare il raduno in un luogo centrale, accessibile a diversi gruppi lontani.

Trasmissioni radiofoniche e televisive

54. Infine, i fedeli che, a causa di malattia, infermità o per qualche altra grave ragione, ne sono impediti, avranno a cuore di unirsi da lontano nel modo migliore alla celebrazione della Messa domenicale, preferibilmente con le letture e preghiere previste dal Messale per quel giorno, come pure attraverso il desiderio dell'Eucaristia.(97) In molti Paesi, la televisione e la radio offrono la possibilità di unirsi ad una Celebrazione eucaristica nel momento in cui essa si svolge in un luogo sacro.(98) Ovviamente questo genere di trasmissioni non permette in sé di soddisfare al precetto domenicale, che esige la partecipazione all'assemblea dei fratelli mediante la riunione in un medesimo luogo e la conseguente possibilità della comunione eucaristica. Ma per coloro che sono impediti dal partecipare all'Eucaristia e sono perciò scusati dall'adempiere il precetto, la trasmissione televisiva o radiofonica costituisce un aiuto prezioso, soprattutto se integrato dal generoso servizio dei ministri straordinari che portano l'Eucaristia ai malati, recando ad essi il saluto e la solidarietà dell'intera comunità. In tal modo, anche per questi cristiani, la Messa domenicale produce abbondanti frutti ed essi possono vivere la domenica come vero « giorno del Signore » e « giorno della Chiesa ».

 

CAPITOLO QUARTO

DIES HOMINIS

La domenica giorno di gioia,
riposo e solidarietà

La « gioia piena » di Cristo

55. « Sia benedetto Colui che ha elevato il grande giorno della domenica sopra tutti i giorni. Il cielo e la terra, gli angeli e gli uomini s'abbandonano alla gioia ».(99) Questi accenti della liturgia maronita ben rappresentano le intense acclamazioni di gaudio che da sempre, nella liturgia occidentale e in quella orientale, hanno caratterizzato la domenica. Del resto, storicamente, prima ancora che come giorno di riposo — oltre tutto allora non previsto dal calendario civile — i cristiani vissero il giorno settimanale del Signore risorto soprattutto come giorno di gioia. « Il primo giorno della settimana, siate tutti lieti » si legge nella Didascalia degli Apostoli. (100) E questo era ben sottolineato anche nella prassi liturgica, attraverso la scelta di gesti appropriati. (101) Sant'Agostino, facendosi interprete della diffusa coscienza ecclesiale, mette appunto in evidenza tale carattere della Pasqua settimanale: « Si tralasciano i digiuni e si prega stando in piedi come segno della risurrezione; per questo inoltre tutte le domeniche si canta l'alleluia ». (102)

56. Al di là delle singole espressioni rituali, che possono variare nel tempo secondo la disciplina ecclesiale, rimane il dato che la domenica, eco settimanale della prima esperienza del Risorto, non può non portare il segno della gioia con cui i discepoli accolsero il Maestro: « I discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20, 20). Si realizzava per loro, come poi si attuerà per tutte le generazioni cristiane, la parola detta da Gesù prima della passione: « Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia » (Gv 16, 20). Non aveva forse pregato egli stesso perché i discepoli avessero « la pienezza della sua gioia » (cfr Gv 17, 13)? Il carattere festoso dell'Eucaristia domenicale esprime la gioia che Cristo trasmette alla sua Chiesa attraverso il dono dello Spirito. La gioia è appunto uno dei frutti dello Spirito Santo (cfr Rm 14, 17; Gal 5, 22).

57. Per cogliere dunque in pienezza il senso della domenica, occorre riscoprire questa dimensione dell'esistenza credente. Certamente, essa deve caratterizzare tutta la vita, e non solo un giorno della settimana. Ma la domenica, in forza del suo significato di giorno del Signore risorto, nel quale si celebra l'opera divina della creazione e della « nuova creazione », è giorno di gioia a titolo speciale, anzi giorno propizio per educarsi alla gioia, riscoprendone i tratti autentici e le radici profonde. Essa non va infatti confusa con fatui sentimenti di appagamento e di piacere, che inebriano la sensibilità e l'affettività per un momento, lasciando poi il cuore nell'insoddisfazione e magari nell'amarezza. Cristianamente intesa, è qualcosa di molto più duraturo e consolante; sa resistere persino, come attestano i santi, (103) alla notte oscura del dolore, e, in certo senso, è una « virtù » da coltivare.

58. Non c'è tuttavia alcuna opposizione tra la gioia cristiana e le vere gioie umane. Queste anzi vengono esaltate e trovano il loro fondamento ultimo proprio nella gioia di Cristo glorificato (cfr At 2, 24-31), immagine perfetta e rivelazione dell'uomo secondo il disegno di Dio. Come scrisse nell'Esortazione sulla gioia cristiana il mio venerato predecessore Paolo VI, « per essenza, la gioia cristiana è partecipazione alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato ». (104) E lo stesso Pontefice concludeva la sua Esortazione chiedendo che, nel giorno del Signore, la Chiesa testimoniasse fortemente la gioia provata dagli Apostoli nel vedere il Signore la sera di Pasqua. Invitava pertanto i Pastori ad insistere « sulla fedeltà dei battezzati a celebrare nella gioia l'Eucaristia domenicale. Come potrebbero essi trascurare questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore? Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il culmine, quaggiù, dell'alleanza d'amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la festa eterna ». (105) In questa prospettiva di fede, la domenica cristiana è un autentico « far festa », un giorno da Dio donato all'uomo per la sua piena crescita umana e spirituale.

Il compimento del sabato

59. Questo aspetto della domenica cristiana ne evidenzia in modo speciale la dimensione di compimento del sabato veterotestamentario. Nel giorno del Signore, che l'Antico Testamento, come s'è detto, lega all'opera della creazione (cfr Gn 2, 1-3; Es 20, 8-11) e dell'Esodo (cfr Dt 5, 12-15), il cristiano è chiamato ad annunciare la nuova creazione e la nuova alleanza compiute nel mistero pasquale di Cristo. La celebrazione della creazione, lungi dall'essere annullata, è approfondita in prospettiva cristocentrica, ossia alla luce del disegno divino « di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra » (Ef 1, 10). A sua volta, è dato senso pieno anche al memoriale della liberazione compiuta nell'Esodo, che diventa memoriale dell'universale redenzione compiuta da Cristo morto e risorto. La domenica, pertanto, più che una « sostituzione » del sabato, è la sua realizzazione compiuta, e in certo senso la sua espansione e la sua piena espressione, in ordine al cammino della storia della salvezza, che ha il suo culmine in Cristo.

60. In quest'ottica la teologia biblica dello « shabbat », senza recare pregiudizio al carattere cristiano della domenica, può essere pienamente recuperata. Essa ci riconduce sempre nuovamente e con stupore mai attenuato a quel misterioso inizio, in cui l'eterna Parola di Dio, con libera decisione d'amore, trasse dal nulla il mondo. Sigillo dell'opera creatrice fu la benedizione e consacrazione del giorno in cui Dio cessò « da ogni lavoro che egli creando aveva fatto » (Gn 2, 3). Da questo giorno del riposo di Dio prende senso il tempo, assumendo, nella successione delle settimane, non soltanto un ritmo cronologico, ma, per così dire, un respiro teologico. Il costante ritorno dello « shabbat » sottrae infatti il tempo al rischio del ripiegamento su di sé, perché resti aperto all'orizzonte dell'eterno, attraverso l'accoglienza di Dio e dei suoi kairoì, ossia dei tempi della sua grazia e dei suoi interventi di salvezza.

61. Lo « shabbat », il giorno settimo benedetto e consacrato da Dio, mentre chiude l'intera opera della creazione, si lega immediatamente all'opera del sesto giorno, in cui Dio fece l'uomo « a sua immagine e somiglianza » (cfr Gn 1, 26). Questa relazione più immediata tra il « giorno di Dio » e il « giorno dell'uomo » non sfuggì ai Padri nella loro meditazione sul racconto biblico della creazione. Dice a tal proposito Ambrogio: « Grazie dunque al Signore Dio nostro che fece un'opera ove egli potesse trovare riposo. Fece il cielo, ma non leggo che ivi abbia riposato; fece le stelle, la luna, il sole, e neppure qui leggo che abbia in essi riposato. Leggo invece che fece l'uomo e che allora si riposò, avendo in lui uno al quale poteva perdonare i peccati ». (106) Il « giorno di Dio » avrà così per sempre un collegamento diretto con il « giorno dell'uomo ». Quando il comandamento di Dio recita: « Ricordati del giorno di sabato per santificarlo » (Es 20, 8), la sosta comandata per onorare il giorno a lui dedicato non è affatto, per l'uomo, un'imposizione onerosa, ma piuttosto un aiuto perché egli avverta la sua vitale e liberante dipendenza dal Creatore, e insieme la vocazione a collaborare alla sua opera e ad accogliere la sua grazia. Onorando il « riposo » di Dio, l'uomo ritrova pienamente se stesso, e così il giorno del Signore si manifesta profondamente segnato dalla benedizione divina (cfr Gn 2, 3) e si direbbe dotato, in forza di essa, al pari degli animali e degli uomini (cfr Gn 1, 22.28), di una sorta di « fecondità ». Essa si esprime soprattutto nel ravvivare e, in certo senso, « moltiplicare » il tempo stesso, accrescendo nell'uomo, col ricordo del Dio vivente, la gioia di vivere e il desiderio di promuovere e donare la vita.

62. Il cristiano dovrà allora ricordare che, se per lui sono cadute le modalità del sabato giudaico, superate dal « compimento » domenicale, restano validi i motivi di fondo che impongono la santificazione del « giorno del Signore », fissati nella solennità del Decalogo, ma da rileggere alla luce della teologia e della spiritualità della domenica: « Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato » (Dt 5, 12-15). L'osservanza del sabato appare qui intimamente legata all'opera di liberazione compiuta da Dio per il suo popolo.

63. Cristo è venuto a realizzare un nuovo « esodo », a rendere la libertà agli oppressi. Egli ha operato molte guarigioni il giorno di sabato (cfr Mt 12, 9-14 e paralleli), non certo per violare il giorno del Signore, ma per realizzarne il pieno significato: « Il sabato è stato fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato » (Mc 2, 27). Opponendosi all'interpretazione troppo legalistica di alcuni suoi contemporanei, e sviluppando l'autentico senso del sabato biblico, Gesù, « Signore del sabato » (Mc 2, 28), riconduce l'osservanza di questo giorno al suo carattere liberante, posto insieme a salvaguardia dei diritti di Dio e dei diritti dell'uomo. Si comprende così perché i cristiani, annunciatori della liberazione compiuta nel sangue di Cristo, si sentissero autorizzati a trasporre il senso del sabato nel giorno della risurrezione. La Pasqua di Cristo ha infatti liberato l'uomo da una schiavitù ben più radicale di quella gravante su un popolo oppresso: la schiavitù del peccato, che allontana l'uomo da Dio, lo allontana anche da se stesso e dagli altri, ponendo nella storia sempre nuovi germi di cattiveria e di violenza.

Il giorno del riposo

64. Per alcuni secoli i cristiani vissero la domenica solo come giorno del culto, senza potervi annettere anche il significato specifico del riposo sabbatico. Solo nel IV secolo, la legge civile dell'Impero Romano riconobbe il ritmo settimanale, facendo in modo che nel « giorno del sole » i giudici, le popolazioni delle città e le corporazioni dei vari mestieri cessassero di lavorare. (107) I cristiani si rallegrarono di veder così tolti gli ostacoli che fino ad allora avevano reso talvolta eroica l'osservanza del giorno del Signore. Essi potevano ormai dedicarsi alla preghiera comune senza impedimenti. (108)

Sarebbe quindi un errore vedere nella legislazione rispettosa del ritmo settimanale una semplice circostanza storica senza valore per la Chiesa e che essa potrebbe abbandonare. I Concili non hanno cessato di conservare, anche dopo la fine dell'Impero, le disposizioni relative al riposo festivo. Nei Paesi poi dove i cristiani sono in piccolo numero e dove i giorni festivi del calendario non corrispondono alla domenica, quest'ultima rimane pur sempre il giorno del Signore, il giorno in cui i fedeli si riuniscono per l'assemblea eucaristica. Ciò però avviene a prezzo di non piccoli sacrifici. Per i cristiani non è normale che la domenica, giorno di festa e di gioia, non sia anche giorno di riposo e resta comunque per essi difficile « santificare » la domenica, non disponendo di un tempo libero sufficiente.

65. D'altra parte, il legame tra il giorno del Signore e il giorno del riposo nella società civile ha una importanza e un significato che vanno al di là della prospettiva propriamente cristiana. L'alternanza infatti tra lavoro e riposo, inscritta nella natura umana, è voluta da Dio stesso, come si rileva dal brano della creazione nel Libro della Genesi (cfr 2, 2-3; Es 20, 8-11): il riposo è cosa « sacra », essendo per l'uomo la condizione per sottrarsi al ciclo, talvolta eccessivamente assorbente, degli impegni terreni e riprendere coscienza che tutto è opera di Dio. Il potere prodigioso che Dio dà all'uomo sulla creazione rischierebbe di fargli dimenticare che Dio è il Creatore, dal quale tutto dipende. Tanto più urgente è questo riconoscimento nella nostra epoca, nella quale la scienza e la tecnica hanno incredibilmente esteso il potere che l'uomo esercita attraverso il suo lavoro.

66. Infine, non bisogna perdere di vista che, anche nel nostro tempo, per molti il lavoro è una dura servitù, sia in ragione delle miserevoli condizioni in cui si svolge e degli orari che impone, specie nelle regioni più povere del mondo, sia perché sussistono, nelle stesse società economicamente più evolute, troppi casi di ingiustizia e di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Quando la Chiesa nel corso dei secoli ha legiferato sul riposo domenicale, (109) ha considerato soprattutto il lavoro dei servi e degli operai, non certo perché esso fosse un lavoro meno dignitoso rispetto alle esigenze spirituali della pratica domenicale, ma piuttosto perché più bisognoso di una regolamentazione che ne alleggerisse il peso, e consentisse a tutti di santificare il giorno del Signore. In questa chiave il mio predecessore Leone XIII nell'Enciclica Rerum novarum additava il riposo festivo come un diritto del lavoratore che lo Stato deve garantire. (110)

Resta anche nel nostro contesto storico l'obbligo di adoperarsi perché tutti possano conoscere la libertà, il riposo e la distensione che sono necessari alla loro dignità di uomini, con le connesse esigenze religiose, familiari, culturali, interpersonali, che difficilmente possono essere soddisfatte, se non viene salvaguardato almeno un giorno settimanale in cui godere insieme della possibilità di riposare e di far festa. Ovviamente, questo diritto del lavoratore al riposo presuppone il suo diritto al lavoro e, mentre riflettiamo su questa problematica connessa con la concezione cristiana della domenica, non possiamo non ricordare con intima partecipazione il disagio di tanti uomini e donne che, per la mancanza di posti di lavoro, sono costretti anche nei giorni lavorativi all'inattività.

67. Attraverso il riposo domenicale, le preoccupazioni e i compiti quotidiani possono ritrovare la loro giusta dimensione: le cose materiali per le quali ci agitiamo lasciano posto ai valori dello spirito; le persone con le quali viviamo riprendono, nell'incontro e nel dialogo più pacato, il loro vero volto. Le stesse bellezze della natura — troppe volte sciupate da una logica di dominio che si ritorce contro l'uomo — possono essere riscoperte e profondamente gustate. Giorno di pace dell'uomo con Dio, con se stesso e con i propri simili, la domenica diviene così anche momento in cui l'uomo è invitato a gettare uno sguardo rigenerato sulle meraviglie della natura, lasciandosi coinvolgere in quella stupenda e misteriosa armonia che, al dire di sant'Ambrogio, per una « legge inviolabile di concordia e di amore », unisce i diversi elementi del cosmo in un « vincolo di unione e di pace ». (111) L'uomo si fa allora più consapevole, secondo le parole dell'Apostolo, che « tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera » (1 Tm 4, 4-5). Se dunque, dopo sei giorni di lavoro — ridotti in verità già per molti a cinque — l'uomo cerca un tempo di distensione e di migliore cura di altri aspetti della propria vita, ciò risponde ad un bisogno autentico, in piena armonia con la prospettiva del messaggio evangelico. Il credente è chiamato perciò a soddisfare questa esigenza, armonizzandola con le espressioni della sua fede personale e comunitaria, manifestata nella celebrazione e santificazione del giorno del Signore.

Per questo è naturale che i cristiani si adoperino perché, anche nelle circostanze speciali del nostro tempo, la legislazione civile tenga conto del loro dovere di santificare la domenica. È comunque un loro obbligo di coscienza quello di organizzare il riposo domenicale in modo che sia loro possibile partecipare all'Eucaristia, astenendosi dai lavori ed affari incompatibili con la santificazione del giorno del Signore, con la sua tipica gioia e con il necessario riposo dello spirito e del corpo. (112)

68. Dato poi che il riposo stesso, per non risolversi in vacuità o divenire fonte di noia, deve portare arricchimento spirituale, più grande libertà, possibilità di contemplazione e di comunione fraterna, i fedeli sceglieranno, tra i mezzi della cultura e i divertimenti che la società offre, quelli che si accordano meglio con una vita conforme ai precetti del Vangelo. In questa prospettiva, il riposo domenicale e festivo acquista una dimensione « profetica », affermando non solo il primato assoluto di Dio, ma anche il primato e la dignità della persona rispetto alle esigenze della vita sociale ed economica, e anticipando in certo modo i « cieli nuovi » e la « terra nuova », dove la liberazione dalla schiavitù dei bisogni sarà definitiva e totale. In breve, il giorno del Signore diventa così, nel modo più autentico, anche il giorno dell'uomo.

Giorno di solidarietà

69. La domenica deve anche dare ai fedeli l'occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato. La partecipazione interiore alla gioia di Cristo risorto implica la condivisione piena dell'amore che pulsa nel suo cuore: non c'è gioia senza amore! Gesù stesso lo spiega, ponendo in rapporto il « comandamento nuovo » con il dono della gioia: « Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia con voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15, 10-12).

L'Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli « a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini ». (113)

70. Di fatto, fin dai tempi apostolici, la riunione domenicale è stata per i cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri. « Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare » (1 Cor 16, 2). Qui si tratta della colletta organizzata da Paolo per le Chiese povere della Giudea: nell'Eucaristia domenicale il cuore credente si allarga alle dimensioni della Chiesa. Ma occorre cogliere in profondità l'invito dell'Apostolo, che lungi dal promuovere un'angusta mentalità dell'« obolo », fa piuttosto appello a una esigente cultura della condivisione, attuata sia tra i membri stessi della comunità che in rapporto all'intera società. (114) Sono più che mai da riascoltare i severi moniti che egli rivolge alla comunità di Corinto, colpevole di aver umiliato i poveri nell'agape fraterna che accompagnava la « cena del Signore »: « Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? » (1 Cor 11, 20-22). Altrettanto vigorosa è la parola di Giacomo: « Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito splendidamente, e entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: "Tu siediti qui comodamente" e al povero dite: "Tu mettiti in piedi lì", oppure "Siediti qui ai piedi del mio sgabello", non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? » (2, 2-4).

71. Le indicazioni degli Apostoli trovarono pronta eco fin dai primi secoli e suscitarono vibrati accenti nella predicazione dei Padri della Chiesa. Parole di fuoco rivolgeva sant'Ambrogio ai ricchi che presumevano di assolvere ai loro obblighi religiosi frequentando la chiesa senza condividere i loro beni con i poveri e magari opprimendoli: « Ascolti, o ricco, cosa dice il Signore? E tu vieni in chiesa non per dare qualcosa a chi è povero ma per prendere ». (115) Non meno esigente san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", è il medesimo che ha detto: "Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito", e "Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l'avete fatto a me" [...]. A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d'oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l'altare ». (116)

Sono parole che ricordano efficacemente alla comunità cristiana il dovere di fare dell'Eucaristia il luogo dove la fraternità diventi concreta solidarietà, dove gli ultimi siano i primi nella considerazione e nell'affetto dei fratelli, dove Cristo stesso, attraverso il dono generoso fatto dai ricchi ai più poveri, possa in qualche modo continuare nel tempo il miracolo della moltiplicazione dei pani. (117)

72. L'Eucaristia è evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un'onda di carità, destinata ad espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto della domenica. Se essa è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti atteggiamenti che non si può essere felici « da soli ». Egli si guarda attorno, per individuare le persone che possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le loro necessità, la loro condizione di sofferenza. Certamente l'impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale. Ma posto un atteggiamento di impegno più globale, perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di condivisione, attivando tutta l'inventiva di cui è capace la carità cristiana? Invitare a tavola con sé qualche persona sola, fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di Cristo attinta alla Mensa eucaristica.

73. Vissuta così, non solo l'Eucaristia domenicale, ma l'intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza del Risorto in mezzo ai suoi si fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti. Lungi dall'essere evasione, la domenica cristiana è piuttosto « profezia » inscritta nel tempo, profezia che obbliga i credenti a seguire le orme di Colui che è venuto « per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore » (Lc 4, 18-19). Mettendosi alla sua scuola, nella memoria domenicale della Pasqua, e ricordando la sua promessa: « Vi lascio la pace, vi dò la mia pace » (Gv 14, 27), il credente diventa a sua volta operatore di pace.

 

CAPITOLO QUINTO

DIES DIERUM

La domenica festa primordiale,
rivelatrice del senso del tempo

Cristo Alfa e Omega del tempo

74. « Nel cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale. Dentro la sua dimensione viene creato il mondo, al suo interno si svolge la storia della salvezza, che ha il suo culmine nella "pienezza del tempo" dell'Incarnazione e il suo traguardo nel ritorno glorioso del Figlio di Dio alla fine dei tempi. In Gesù Cristo, Verbo incarnato, il tempo diventa una dimensione di Dio, che in se stesso è eterno ». (118)

Gli anni dell'esistenza terrena di Cristo, alla luce del Nuovo Testamento, costituiscono realmente il centro del tempo. Questo centro ha il suo culmine nella risurrezione. Se è vero, infatti, che egli è Dio fatto uomo fin dal primo istante del concepimento nel grembo della Vergine Santa, è anche vero che solo con la risurrezione la sua umanità è totalmente trasfigurata e glorificata, rivelando così pienamente la sua identità e gloria divina. Nel discorso tenuto nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (cfr At 13, 33), Paolo applica appunto alla risurrezione di Cristo l'affermazione del Salmo 2: « Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato » (v. 7). Proprio per questo, nella celebrazione della Veglia pasquale, la Chiesa presenta il Cristo risorto come « Principio e Fine, Alfa e Omega ». Queste parole, pronunciate dal celebrante nella preparazione del cero pasquale, sul quale è incisa la cifra dell'anno in corso, mettono in evidenza il fatto che « Cristo è il Signore del tempo; è il suo principio e il suo compimento; ogni anno, ogni giorno ed ogni momento vengono abbracciati nella sua incarnazione e risurrezione, per ritrovarsi in questo modo nella "pienezza del tempo" ». (119)

75. Essendo la domenica la Pasqua settimanale, in cui è rievocato e reso presente il giorno nel quale Cristo risuscitò dai morti, essa è anche il giorno che rivela il senso del tempo. Non c'è parentela con i cicli cosmici, secondo cui la religione naturale e la cultura umana tendono a ritmare il tempo, indulgendo magari al mito dell'eterno ritorno. La domenica cristiana è altra cosa! Sgorgando dalla Risurrezione, essa fende i tempi dell'uomo, i mesi, gli anni, i secoli, come una freccia direzionale che li attraversa orientandoli al traguardo della seconda venuta di Cristo. La domenica prefigura il giorno finale, quello della Parusía, già in qualche modo anticipata dalla gloria di Cristo nell'evento della Risurrezione.

In effetti, tutto quanto avverrà, fino alla fine del mondo, non sarà che una espansione e una esplicitazione di ciò che è avvenuto nel giorno in cui il corpo martoriato del Crocifisso è risuscitato per la potenza dello Spirito ed è diventato a sua volta la sorgente dello Spirito per l'umanità. Il cristiano sa, perciò, di non dover attendere un altro tempo di salvezza, giacché il mondo, quale che sia la sua durata cronologica, vive già nell'ultimo tempo. Dal Cristo glorificato non solo la Chiesa, ma il cosmo stesso e la storia sono continuamente retti e guidati. E questa energia di vita a spingere la creazione, che « geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto » (Rm 8, 22), verso la meta del suo pieno riscatto. Di questo cammino l'uomo non può avere che un oscuro intuito; i cristiani ne hanno la cifra e la certezza, e la santificazione della domenica è una testimonianza significativa che essi sono chiamati a dare, perché i tempi dell'uomo siano sempre sorretti dalla speranza.

La domenica nell'anno liturgico

76. Se il giorno del Signore, con la sua cadenza settimanale, è radicato nella tradizione più antica della Chiesa ed è di vitale importanza per il cristiano, un altro ritmo non ha tardato ad affermarsi: il ciclo annuale. Corrisponde in effetti alla psicologia umana celebrare gli anniversari, associando al ritorno delle date e delle stagioni il ricordo di avvenimenti passati. Quando poi si tratta di avvenimenti decisivi per la vita di un popolo, è normale che la loro ricorrenza susciti un clima di festa che viene a rompere la monotonia dei giorni.

Ora i principali eventi di salvezza su cui poggia la vita della Chiesa furono, per disegno di Dio, strettamente legati alla Pasqua e alla Pentecoste, feste annuali dei giudei, e in esse profeticamente prefigurati. Dal secondo secolo, la celebrazione da parte dei cristiani della Pasqua annuale, aggiungendosi a quella della Pasqua settimanale, ha permesso di dare più ampiezza alla meditazione del mistero di Cristo morto e risorto. Preceduta da un digiuno che la prepara, celebrata nel corso di una lunga veglia, prolungata con i cinquanta giorni che portano alla Pentecoste, la festa di Pasqua, « solennità delle solennità », è divenuta il giorno per eccellenza dell'iniziazione dei catecumeni. In effetti, se attraverso il battesimo essi muoiono al peccato e risuscitano a una vita nuova, è perché Gesù « è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4, 25; cfr 6, 3-11). Intimamente connessa col mistero pasquale, acquista rilievo speciale la solennità di Pentecoste, in cui si celebrano la venuta dello Spirito Santo sugli Apostoli, riuniti con Maria, e l'inizio della missione verso tutti i popoli. (120)

77. Una simile logica commemorativa ha presieduto alla strutturazione di tutto l'anno liturgico. Come ricorda il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha voluto distribuire nel corso dell'anno « tutto il mistero di Cristo, dall'Incarnazione e Natività fino all'Ascensione, al giorno di Pentecoste e all'attesa della beata speranza e del ritorno del Signore. Ricordando in questo modo i misteri della redenzione, essa apre ai fedeli i tesori di potenza e di meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia di salvezza ». (121)

Celebrazione solennissima, dopo la Pasqua e la Pentecoste, è indubbiamente la Natività del Signore, nella quale i cristiani meditano il mistero dell'Incarnazione e contemplano il Verbo di Dio che si degna di assumere la nostra umanità per renderci partecipi della sua divinità.

78. Ugualmente, « nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con speciale amore la beata Maria Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l'opera salvifica del Figlio suo ». (122) Allo stesso modo, introducendo nel ciclo annuale, in occasione dei loro anniversari, le memorie dei Martiri e di altri Santi, « la Chiesa predica il mistero pasquale nei Santi che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati ». (123) Il ricordo dei Santi, celebrato nell'autentico spirito della liturgia, non oscura la centralità di Cristo, ma al contrario la esalta, mostrando la potenza della sua redenzione. Come canta san Paolino di Nola, « tutto passa, la gloria dei Santi dura in Cristo, che tutto rinnova, mentre egli rimane lo stesso ». (124) Questo intrinseco rapporto della gloria dei Santi a quella di Cristo è inscritto nello statuto stesso dell'anno liturgico, e trova proprio nel carattere fondamentale e dominante della domenica, quale giorno del Signore, la sua espressione più eloquente. Seguendo i tempi dell'anno liturgico, nell'osservanza della domenica che interamente lo scandisce, l'impegno ecclesiale e spirituale del cristiano viene profondamente incardinato in Cristo, nel quale trova la sua ragion d'essere e dal quale trae alimento e stimolo.

79. La domenica appare così il naturale modello per comprendere e celebrare quelle solennità dell'anno liturgico, il cui valore per l'esistenza cristiana è così grande che la Chiesa ha stabilito di sottolinearne l'importanza facendo obbligo ai fedeli di partecipare alla Messa e di osservare il riposo, benché cadano in giorni variabili della settimana. (125) Il numero di queste feste è cambiato nelle diverse epoche, tenuto conto delle condizioni sociali ed economiche, come del loro radicamento nella tradizione, oltre che dell'appoggio della legislazione civile. (126)

L'attuale ordinamento canonico-liturgico prevede la possibilità che ogni Conferenza Episcopale, in ragione di circostanze proprie di questo o quell'altro Paese, riduca la lista dei giorni di precetto. L'eventuale decisione in tal senso ha bisogno di essere confermata da una speciale approvazione della Sede Apostolica, (127) ed in questo caso, la celebrazione di un mistero del Signore, come l'Epifania, l'Ascensione o la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, dev'essere rinviata alla domenica, secondo le norme liturgiche, perché i fedeli non siano privati della meditazione del mistero. (128) I Pastori avranno altresì a cuore di incoraggiare i fedeli a partecipare alla Messa anche in occasione delle feste di una certa importanza che cadono nel corso della settimana. (129)

80. Uno specifico discorso pastorale va affrontato in rapporto alle frequenti situazioni in cui tradizioni popolari e culturali tipiche di un ambiente rischiano di invadere la celebrazione delle domeniche e delle altre feste liturgiche, mescolando allo spirito dell'autentica fede cristiana elementi che le sono estranei e potrebbero sfigurarla. Occorre in questi casi far chiarezza, con la catechesi e opportuni interventi pastorali, respingendo quanto è inconciliabile col Vangelo di Cristo. Non bisogna tuttavia dimenticare che spesso tali tradizioni — ciò vale analogamente per nuove proposte culturali della società civile — non mancano di valori che si coniugano senza difficoltà con le esigenze della fede. Spetta ai Pastori operare un discernimento che salvi i valori presenti nella cultura di un determinato contesto sociale e soprattutto nella religiosità popolare, facendo in modo che la celebrazione liturgica, specie quella delle domeniche e delle feste, non ne soffra, ma piuttosto ne sia avvantaggiata. (130)

 

CONCLUSIONE

81. Veramente grande è la ricchezza spirituale e pastorale della domenica, quale la tradizione ce l'ha consegnata. Colta nella totalità dei suoi significati e delle sue implicazioni, essa è, in qualche modo, sintesi della vita cristiana e condizione per viverla bene. Si comprende dunque perché l'osservanza del giorno del Signore stia particolarmente a cuore alla Chiesa e resti un vero e proprio obbligo all'interno della disciplina ecclesiale. Tale osservanza, tuttavia, prima ancora che come precetto, deve essere sentita come un'esigenza inscritta nella profondità dell'esistenza cristiana. È davvero di capitale importanza che ciascun fedele si convinca di non poter vivere la sua fede, nella piena partecipazione alla vita della comunità cristiana, senza prendere regolarmente parte all'assemblea eucaristica domenicale. Se nell'Eucaristia si realizza quella pienezza del culto che gli uomini devono a Dio, e che non ha paragone con nessun'altra esperienza religiosa, ciò si esprime con particolare efficacia proprio nel convenire domenicale di tutta la comunità, obbediente alla voce del Risorto che la convoca, per donarle la luce della sua Parola e il nutrimento del suo Corpo come perenne sorgente sacramentale di redenzione. La grazia che sgorga da questa sorgente rinnova gli uomini, la vita, la storia.

82. È con questa forte convinzione di fede, accompagnata dalla consapevolezza del patrimonio di valori anche umani insiti nella pratica domenicale, che i cristiani di oggi devono porsi di fronte alle sollecitazioni di una cultura che ha beneficamente acquisito le esigenze di riposo e di tempo libero, ma le vive spesso in modo superficiale, e talvolta è sedotta da forme di divertimento che sono moralmente discutibili. Il cristiano si sente certo solidale con gli altri uomini nel godere il giorno di riposo settimanale; al tempo stesso, però, egli ha viva coscienza della novità e originalità della domenica, giorno in cui è chiamato a celebrare la salvezza sua e dell'intera umanità. Se essa è giorno di gioia e di riposo, ciò scaturisce proprio dal fatto che è il « giorno del Signore », il giorno del Signore risorto.

83. Percepita e vissuta così, la domenica diventa in qualche modo l'anima degli altri giorni, e in questo senso si può richiamare la riflessione di Origene, secondo il quale il cristiano perfetto « è sempre nel giorno del Signore, celebra sempre la domenica ». (131) La domenica è un'autentica scuola, un itinerario permanente di pedagogia ecclesiale. Pedagogia insostituibile, specie nelle condizioni dell'odierna società, segnata sempre più fortemente dalla frammentazione e dal pluralismo culturale, che mettono continuamente alla prova la fedeltà dei singoli cristiani alle esigenze specifiche della loro fede. In molte parti del mondo si profila la condizione di un cristianesimo della « diaspora », provato cioè da una situazione di dispersione, in cui i discepoli di Cristo non riescono più a mantenere facilmente i contatti fra loro né sono aiutati da strutture e tradizioni proprie della cultura cristiana. In questo contesto problematico, la possibilità di ritrovarsi la domenica con tutti i fratelli di fede, scambiandosi i doni della fraternità, è un aiuto irrinunciabile.

84. Posta a sostegno della vita cristiana, la domenica acquista naturalmente anche un valore di testimonianza e di annuncio. Giorno di preghiera, di comunione, di gioia, essa si riverbera sulla società, irradiando energie di vita e motivi di speranza. Essa è l'annuncio che il tempo, abitato da Colui che è il Risorto e il Signore della storia, non è la bara delle nostre illusioni, ma la culla di un futuro sempre nuovo, l'opportunità che ci viene data per trasformare i momenti fugaci di questa vita in semi di eternità. La domenica è invito a guardare in avanti, è il giorno in cui la comunità cristiana grida a Cristo il suo « Marána tha: vieni, o Signore! » (1 Cor 16, 22). In questo grido di speranza e di attesa, essa si fa compagnia e sostegno della speranza degli uomini. E di domenica in domenica, illuminata da Cristo, cammina verso la domenica senza fine della Gerusalemme celeste, quando sarà compiuta in tutti i suoi lineamenti la mistica Città di Dio, che « non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello » (Ap 21, 23).

85. In questa tensione verso il traguardo la Chiesa è sostenuta e animata dallo Spirito. Egli ne risveglia la memoria e attualizza per ogni generazione di credenti l'evento della Risurrezione. E il dono interiore che ci unisce al Risorto e ai fratelli nell'intimità di un unico corpo, ravvivando la nostra fede, effondendo nel nostro cuore la carità, rianimando la nostra speranza. Lo Spirito è presente senza interruzione ad ogni giorno della Chiesa, irrompendo imprevedibile e generoso con la ricchezza dei suoi doni, ma nel raduno domenicale per la celebrazione settimanale della Pasqua la Chiesa si mette in speciale ascolto di lui, e si protende con lui verso Cristo, nel desiderio ardente del suo ritorno glorioso: « Lo Spirito e la sposa dicono: "Vieni"! » (Ap 22, 17). Proprio in considerazione del ruolo dello Spirito ho desiderato che questa esortazione a riscoprire il senso della domenica cadesse in quest'anno che, nella preparazione immediata al Giubileo, è dedicato appunto allo Spirito Santo.

86. Affido l'accoglimento operoso di questa Lettera apostolica, da parte della comunità cristiana, all'intercessione della Vergine Santa. Ella, senza nulla detrarre alla centralità di Cristo e del suo Spirito, è presente in ogni domenica della Chiesa. E lo stesso mistero di Cristo che lo esige: come potrebbe infatti, Lei che è la Mater Domini e la Mater Ecclesiae, non essere presente a titolo speciale, nel giorno che è insieme dies Domini e dies Ecclesiae?

Alla Vergine Maria guardano i fedeli che ascoltano la Parola proclamata nell'assemblea domenicale, imparando da lei a custodirla e meditarla nel proprio cuore (cfr Lc 2, 19). Con Maria essi imparano a stare ai piedi della croce, per offrire al Padre il sacrificio di Cristo ed unire ad esso l'offerta della propria vita. Con Maria vivono la gioia della risurrezione, facendo proprie le parole del Magnificat che cantano l'inesauribile dono della divina misericordia nell'inesorabile fluire del tempo: « Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono » (Lc 1, 50). Di domenica in domenica, il popolo pellegrinante si pone sulle orme di Maria, e la sua intercessione materna rende particolarmente intensa ed efficace la preghiera che la Chiesa eleva alla Santissima Trinità.

87. L'imminenza del Giubileo, carissimi Fratelli e Sorelle, ci invita ad approfondire il nostro impegno spirituale e pastorale. È questo, infatti, il suo vero scopo. Nell'anno in cui verrà celebrato, molte iniziative lo caratterizzeranno e daranno ad esso il timbro singolare che non può non avere la conclusione del secondo millennio e l'inizio del terzo dall'Incarnazione del Verbo di Dio. Ma questo anno e questo tempo speciale passeranno, in attesa di altri giubilei e di altre scadenze solenni. La domenica, con la sua ordinaria « solennità », resterà a scandire il tempo del pellegrinaggio della Chiesa, fino alla domenica senza tramonto.

Vi esorto, perciò, cari Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, ad operare instancabilmente, insieme con i fedeli, perché il valore di questo giorno sacro sia sempre meglio riconosciuto e vissuto. Ciò recherà frutti alle comunità cristiane e non mancherà di esercitare benefici influssi sull'intera società civile.

Gli uomini e le donne del terzo millennio, incontrando la Chiesa che ogni domenica celebra gioiosamente il mistero da cui attinge tutta la sua vita, possano incontrare lo stesso Cristo risorto. E i suoi discepoli, rinnovandosi costantemente nel memoriale settimanale della Pasqua, siano annunciatori sempre più credibili del Vangelo che salva e costruttori operosi della civiltà dell'amore.

A tutti la mia Benedizione!

Dal Vaticano, il 31 maggio, solennità di Pentecoste, dell'anno 1998, ventesimo di Pontificato.


INDICE

Introduzione

Capitolo I
DIES DOMINI
La celebrazione dell'opera del Creatore

« Tutto è stato fatto per mezzo di lui » (Gv 1, 3)

« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1, 1)

Lo « shabbat »: il gioioso riposo del Creatore

« Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò » (Gn 2, 3)

« Ricordare » per « santificare »

Dal sabato alla domenica

Capitolo II
DIES CHRISTI
Il giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito

La Pasqua settimanale

Il primo giorno della settimana

Progressiva distinzione dal sabato

Il giorno della nuova creazione

L'ottavo giorno, figura dell'eternità

Il giorno di Cristo-luce

Il giorno del dono dello Spirito

Il giorno della fede

Un giorno irrinunciabile!

Capitolo III
DIES ECCLESIAE
L'assemblea eucaristica cuore della domenica

La presenza del Risorto

L'assemblea eucaristica

L'Eucaristia domenicale

Il giorno della Chiesa

Popolo pellegrinante

Giorno della speranza

La mensa della Parola

La mensa del Corpo di Cristo

Convito pasquale e incontro fraterno

Dalla Messa alla « missione »

Il precetto domenicale

Celebrazione gioiosa e canora

Celebrazione coinvolgente e partecipata

Altri momenti della domenica cristiana

Assemblee domenicali in assenza del sacerdote

Trasmissioni radiofoniche e televisive

Capitolo IV
DIES HOMINIS
La domenica giorno di gioia, riposo e solidarietà

La « gioia piena » di Cristo

Il compimento del sabato

Il giorno del riposo

Giorno di solidarietà

Capitolo V
DIES DIERUM
La domenica festa primordiale, rivelatrice del senso del tempo

Cristo Alfa ed Omega del tempo

La domenica nell'anno liturgico

Conclusione


(1) Cfr Ap 1,10: « Kyriake heméra »; cfr anche Didachè 14,1; s. Ignazio di Antiochia, Ai cristiani di Magnesia 9, 1-2: SC 10, 88-89.

(2) Pseudo Eusebio di Alessandria, Sermone 16: PG 86, 416.

(3) In die dominica Paschae II, 52: CCL 78, 550.

(4) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 106.

(5) Ibid.

(6) Cfr Motu proprio Mysterii paschalis (14 febbraio 1969): AAS 61 (1969), 222-226.

(7) Cfr Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana « Il giorno del Signore » (15 luglio 1984), 5: Ench. CEI 3, 1938.

(8) Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 106.

(9) Omelia per il solenne inizio del Pontificato (22 ottobre 1978), 5: AAS 70 (1978), 947.

(10) N. 25: AAS 73 (1981), 639.

(11) Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 34.

(12) Il sabato è vissuto dai nostri fratelli ebrei con una spiritualità « sponsale », come emerge, ad esempio, in testi di Genesi Rabbah X, 9 e XI, 8 (cfr J. Neusner, Genesis Rabbah, vol. I, Atlanta 1985, p. 107 e p. 117). Di tonalità nuziale è pure il canto Leka dôdi: « Sarà felice di te il tuo Dio, come è felice lo sposo con la sposa. In mezzo ai fedeli del tuo popolo prediletto vieni o sposa, shabbat regina » (Preghiera serale del sabato, a cura di A. Toaff, Roma 1968-69, p. 3).

(13) Cfr A. J. Heschel, The sabbath. Its meaning for modern man (22a ed. 1995), pp. 3-24.

(14) « Verum autem sabbatum ipsum redemptorem nostrum Iesum Christum Dominum habemus »: Epist. 13, 1: CCL 140A, 992.

(15) Epist. ad Decentium XXV, 4, 7: PL 20, 555.

(16) Homiliae in Hexaemeron II, 8: SC 26, 184.

(17) Cfr In Io. ev. tract. XX, 20, 2: CCL 36, 203; Epist. 55, 2: CSEL 34, 170-171.

(18) Questo riferimento alla risurrezione è particolarmente visibile nella lingua russa, dove la domenica si dice appunto « risurrezione » (voskresén'e).

(19) Epist. 10, 96, 7.

(20) Cfr ibid. In riferimento alla lettera di Plinio, anche Tertulliano ricorda i coetus antelucani in Apologeticum 2, 6: CCL 1, 88; De corona 3, 3: CCL 2, 1043.

(21) Ai cristiani di Magnesia 9, 1-2: SC 10, 88-89.

(22) Sermo 8 in octava Paschalis 4: PL 46, 841. Questo carattere di « primo giorno » della domenica è ben evidente nel calendario liturgico latino, dove il lunedì è denominato feria secunda, il martedì feria tertia ecc. Una simile denominazione dei giorni della settimana si ritrova nella lingua portoghese.

(23) S. Gregorio di Nissa, De castigatione: PG 46, 309. Anche nella liturgia maronita è sottolineato il nesso fra il sabato e la domenica, a partire dal « mistero del Sabato Santo » (cfr M. Hayek, Maronite [Eglise], Dictionnaire de spiritualité, X [1980], 632-644).

(24) Rito del Battesimo dei bambini, n. 9; cfr Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti, n. 59.

(25) Cfr Messale Romano, Rito dell'aspersione domenicale dell'acqua benedetta.

(26) Cfr s. Basilio, Sullo Spirito Santo 27, 66: SC 17, 484-485. Cfr anche Epistola di Barnaba 15, 8-9: SC 172, 186-189; s. Giustino, Dialogo con Trifone 24.138: PG 6, 528.793; Origene, Comm. sui Salmi, Salmo 118 (119), 1: PG 12, 1588.

(27) « Domine, praestitisti nobis pacem quietis, pacem sabbati, pacem sine vespera »: Confess. 13, 50: CCL 27, 272.

(28) Cfr s. Agostino, Epist. 55,17: CSEL 34, 188: « Ita ergo erit octavus, qui primus, ut prima vita sed aeterna reddatur ».

(29) Così nell'inglese Sunday e nel tedesco Sonntag.

(30) Apologia I, 67: PG 6, 430.

(31) Cfr s. Massimo di Torino, Sermo 44, 1: CCL 23, 178; Id., Sermo 53, 2: CCL 23, 219; Eusebio di Cesarea, Comm. in Ps. 91: PG 23, 1169-1173.

(32) Si veda, ad esempio, l'inno per l'Ufficio delle Letture: « Dies aetasque ceteris octava splendet sanctior in te quam, Iesu, consecras primitiae surgentium » (I sett.); ed anche: « Salve dies, dierum gloria dies felix Christi victoria, dies digna iugi laetitia dies prima. Lux divina caecis irradiat, in qua Christus infernum spoliat, mortem vincit et reconciliat summis ima » (II sett.). Analoghe espressioni si ritrovano in inni adottati nella Liturgia delle Ore in diverse lingue moderne.

(33) Cfr s. Clemente Alessandrino Stromati VI, 138, 1-2: PG 9, 364.

(34) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et vivificantem (18 maggio 1986), 22-26: AAS 78 (1986), 829-837.

(35) Cfr s. Atanasio di Alessandria, Lettere domenicali 1, 10: PG 26, 1366.

(36) Cfr Bardesane, Dialogo sul destino 46: PS 2, 606-607.

(37) Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, Appendice: Dichiarazione circa la riforma del calendario.

(38) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 9.

(39) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. Dominicae Cenae (24 febbraio 1980), 4: AAS 72 (1980), 120; Lett. enc. Dominum et vivificantem (18 maggio 1986), 62-64: AAS 78 (1986), 889-894.

(40) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Vicesimus quintus annus (4 dicembre 1988), 9: AAS 81 (1989), 905-906.

(41) N. 2177.

(42) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Vicesimus quintus annus (4 dicembre 1988), 9: AAS 81 (1989), 905-906.

(43) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 41; cfr Decr. sull'ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus, 15.

(44) Sono le parole dell'embolismo, formulato con questa o analoghe espressioni all'interno di alcuni canoni eucaristici in diverse lingue. Esse sottolineano efficacemente il carattere « pasquale » della domenica.

(45) Cfr Congr. per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione Communionis notio (28 maggio 1992), 11-14: AAS 85 (1993), 844-847.

(46) Discorso al terzo gruppo di Vescovi degli Stati Uniti d'America (17 marzo 1998), 4: L'Osservatore Romano 18 marzo 1998, p. 4.

(47) Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 42.

(48) S. Congr. dei Riti, Istr. sul culto del mistero eucaristico Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967), 26: AAS 59 (1967), 555.

(49) Cfr s. Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; Id. De cath. Eccl. unitate, 7: CSEL 3-1, 215; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 4; Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 26.

(50) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 57; 61: AAS 74 (1982), 151; 154.

(51) Cfr S. Congr. per il Culto Divino, Direttorio per le Messe dei fanciulli (1 novembre 1973): AAS 66 (1974), 30-46.

(52) Cfr S. Congr. dei Riti, Istr. sul culto del mistero eucaristico Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967), 26: AAS 59 (1967), 555-556; S. Congr. per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Ecclesiae imago (22 febbraio 1973), 86 c: Ench. Vat., 4, 2071.

(53) Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), 30: AAS 81 (1989), 446-447.

(54) Cfr S. Congr. per il Culto Divino, Istr. Le messe per gruppi particolari (15 maggio 1969), 10: AAS 61 (1969), 810.

(55) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 48-51.

(56) « Haec est vita nostra, ut desiderando exerceamur »: S. Agostino, In prima Ioan. tract. 4, 6: SC 75, 232.

(57) Messale Romano, Embolismo dopo il Padre Nostro.

(58) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, 1.

(59) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et vivificantem (18 maggio 1986), 61-64: AAS 78 (1986), 888-894.

(60) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 7; cfr 33.

(61) Ibid., 56; cfr Ordo Lectionum Missae, Praenotanda, n. 10.

(62) Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 51.

(63) Cfr ibid., 52; Codice di Diritto Canonico, can. 767 § 2; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 614.

(64) Cost. ap. Missale Romanum (3 aprile 1969): AAS 61 (1969), 220.

(65) Nella Cost. conciliare Sacrosanctum Concilium, 24, si parla di « suavis et vivus Sacrae Scripturae affectus ».

(66) Giovanni Paolo II, Lett. Dominicae Cenae (24 febbraio 1980), 10: AAS 72 (1980), 135.

(67) Cfr Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 25.

(68) Cfr Ordo lectionum Missae, Praenotanda, cap. III.

(69) Cfr Ordo Lectionum Missae, Praenotanda, cap. I, n. 6.

(70) Conc. Ecum. Tridentino, Sess. XXII, Dottrina e canoni sul santissimo sacrificio della Messa, II: DS, 1743; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1366.

(71) Catechismo della Chiesa Cattolica, 1368.

(72) S. Congr. dei Riti Istr. sul culto del mistero eucaristico Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967), 3 b: AAS 59 (1967), 541; cfr Pio XII, Lett. enc. Mediator Dei (20 novembre 1947), II: AAS 39 (1947), 564-566.

(73) Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1385; cfr anche Congr. per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati (14 settembre 1994): AAS 86 (1994), 974-979.

(74) Cfr Innocenzo I, Epist. 25, 1 a Decenzio di Gubbio: PL 20, 553.

(75) II, 59, 2-3: ed. F. X. Funk, 1905, 170-171.

(76) Cfr Apologia I, 67, 3-5: PG 6, 430.

(77) Acta SS. Saturnini, Dativi et aliorum plurimorum martyrum in Africa 7, 9, 10: PL 8, 707.709-710.

(78) Cfr can. 21, Mansi, Conc. II, col. 9.

(79) Cfr can. 47, Mansi, Conc. VIII, col. 332.

(80) Cfr la proposizione contraria, condannata da Innocenzo XI nel 1679, riguardante l'obbligo morale della santificazione della festa: DS 2152.

(81) Can. 1248: « Festis de praecepto diebus Missa audienda est »; can. 1247 § 1: « Dies festi sub praecepto in universa Ecclesia sunt... omnes et singuli dies dominici ».

(82) Codice di Diritto Canonico, can. 1247; il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 881 § 1, prescrive che « i fedeli cristiani sono tenuti all'obbligo, nelle domeniche e nelle feste di precetto, di partecipare alla Divina Liturgia oppure, secondo le prescrizioni o la legittima consuetudine della propria Chiesa sui iuris, alla celebrazione delle lodi divine ».

(83) « Coloro che deliberatamente non ottemperano a questo obbligo commettono un peccato grave ». N. 2181.

(84) S. Congr. per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Ecclesiae imago (22 febbraio 1973), 86 a: Ench. Vat. 4, 2069.

(85) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 905 § 2.

(86) Cfr Pio XII, Cost. ap. Christus Dominus (6 gennaio 1953): AAS 45 (1953), 15-24; Motu proprio Sacram Communionem (19 marzo 1957): AAS 49 (1957), 177-178. Congr. S. Uffizio, Istr. sulla disciplina circa il digiuno eucaristico (6 gennaio 1953): AAS 45 (1953), 47-51.

(87) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1248 § 1; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 881 § 2.

(88) Cfr Missale Romanum, Normae universales de Anno liturgico et de Calendario, 3.

(89) Cfr S. Congr. per i vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Ecclesiae imago (22 febbraio 1973), 86: Ench. Vat. 4, 2069-2073.

(90) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia, Sacrosanctum Concilium, 14.26; Giovanni Paolo II, Lett. ap. Vicesimus quintus annus (4 dicembre 1988), 4.6.12: AAS 81 (1989), 900-901; 902; 909-910.

(91) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 10.

(92) Cfr Istr. interdicasteriale su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti Ecclesiae de mysterio (15 agosto 1997), 6.8: AAS 89 (1997), 869.870-872.

(93) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 10: « in oblationem Eucharistiae concurrunt ».

(94) Ibid., 11.

(95) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1248 § 2.

(96) Cfr S. Congr. per il Culto Divino, Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza del sacerdote Christi Ecclesia (2 giugno 1988): Ench. Vat. 11, 442-468; Istr. interdicasteriale su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti Ecclesiae de mysterio (15 agosto 1997): AAS 89 (1997), 852-877.

(97) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1248 § 2; Congr. per la Dottrina della Fede, Lettera Sacerdotium ministeriale (6 agosto 1983), III: AAS 75 (1983), 1007.

(98) Cfr Pont. Commissione per le Comunicazioni Sociali, Istr. Communio et progressio (23 maggio 1971), 150-152.157: AAS 63 (1971), 645-646.647.

(99) Proclamazione diaconale in onore del giorno del Signore: cfr il testo siriaco nel Messale secondo il rito della Chiesa di Antiochia dei Maroniti (edizione in siriaco e arabo), Jounieh (Libano) 1959, p. 38.

(100) V, 20, 11: ed. F. X. Funk, 1905, 298; cfr Didachè 14, 1: ed. F. X. Funk, 1901, 32; Tertulliano, Apologeticum 16, 11: CCL 1, 116. Si veda, in particolare, l'Epistola di Barnaba 15, 9: SC 172, 188-189: « Ecco perché celebriamo come una festa gioiosa l'ottavo giorno nel quale Gesù è risuscitato dai morti e, dopo essere apparso, è salito al cielo ».

(101) Tertulliano, ad esempio, ci informa che nelle domeniche era vietato l'inginocchiarsi, in quanto questa posizione, essendo allora colta soprattutto come gesto penitenziale, sembrava poco opportuna nel giorno della gioia: cfr De corona 3, 4: CCL 2, 1043.

(102) Epist. 55, 28: CSEL 342, 202.

(103) Cfr S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Derniers entretiens, 5-6 Juillet 1897, in: Oeuvres complètes, Cerf-Desclée de Brouwer, Paris 1992, pp. 1024-1025.

(104) Esort. ap. Gaudete in Domino (9 maggio 1975), II: AAS 67 (1975), 295.

(105) Ibid., VII, l.c., 322.

(106) Hex. 6, 10, 76: CSEL 321, 261.

(107) Cfr editto di Costantino, 3 luglio 321: Codex Theodosianus II, tit. 8, 1, ed. Th. Mommsen, 12, 87; Codex Iustiniani 3, 12, 2, ed. P. Krueger, 248.

(108) Cfr Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino 4, 18: PG 20, 1165.

(109) Il più antico documento ecclesiastico sull'argomento è il can. 29 del Concilio di Laodicea (2a metà del IV sec.): Mansi, II, col. 569-570. Dal VI al IX secolo molti Concili proibirono le « opera ruralia ». La legislazione sui lavori proibiti, sostenuta anche da leggi civili, diventò progressivamente più dettagliata.

(110) Cfr Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891): Acta Leonis XIII 11 (1891), 127-128.

(111) Hex. 2, 1, 1: CSEL 321, 41.

(112) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1247; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 881 §§ 1.4.

(113) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 9.

(114) Cfr anche s. Giustino, Apologia I, 67, 6: « Quelli che sono nell'abbondanza e che vogliono dare, danno liberamente ciascuno ciò che vuole, e ciò che è raccolto è consegnato a colui che presiede e egli assiste gli orfani, le vedove, i malati, gli indigenti, i prigionieri, gli ospiti stranieri, in una parola, soccorre tutti quelli che sono nel bisogno »: PG 6, 430.

(115) De Nabuthae 10, 45: « Audis, dives, quid Dominus Deus dicat? Et tu ad ecclesiam venis, non ut aliquid largiaris pauperi, sed ut auferas »: CSEL 322, 492.

(116) Omelie sul Vangelo di Matteo 50, 3-4: PG 58, 508-509.

(117) Cfr s. Paolino di Nola, Epist. 13, 11-12 a Pammachio: CSEL 29, 92-93. Il senatore romano è lodato appunto per aver quasi riprodotto il miracolo evangelico, unendo alla partecipazione eucaristica la distribuzione di cibo ai poveri.

(118) Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11.

(119) Ibid.

(120) Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 731-732.

(121) Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 102.

(122) Ibid., 103.

(123) Ibid., 104.

(124) Carm. XVI, 3-4: « Omnia praetereunt, sanctorum gloria durat in Christo qui cuncta novat, dum permanet ipse »: CSEL 30, 67.

(125) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1247; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 881 §§ 1.4.

(126) Di diritto comune, nella Chiesa latina, sono di precetto le feste della Natività del nostro Signore Gesù Cristo, dell'Epifania, dell'Ascensione, del Corpo e del Sangue di Cristo, di santa Maria Madre di Dio, della sua Immacolata Concezione e della sua Assunzione, di san Giuseppe, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, di Tutti i Santi: cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1246. Giorni festivi di precetto comuni a tutte le Chiese orientali sono quelli della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, dell'Epifania, dell'Ascensione, della Dormizione di santa Maria Madre di Dio, dei santi Apostoli Pietro e Paolo: cfr Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 880 § 3.

(127) Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 1246 § 2; per le Chiese orientali cfr Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 880 § 3.

(128) Cfr S. Congr. der Riti, Normae universales de Anno liturgico et de Calendario (21 marzo 1969), 5. 7: Ench. Vat. 3, 895. 897.

(129) Cfr Caeremoniale Episcoporum, Ed. typica 1995, n. 230.

(130) Cfr ibid., n. 233.

(131) Contro Celso VIII, 22: SC 150, 222-224.

 

 

ANNIVERSARIO DELL’INIZIO II GUERRA MONDIALE

LETTERA APOSTOLICA IN OCCASIONE DEL CINQUANTESIMO ANNIVERSARIO DELL'INIZIO DELLA II GUERRA MONDIALE

Ai miei fratelli nell'Episcopato, ai sacerdoti e alle famiglie religiose, ai figli e alle figlie della Chiesa, i governanti, a tutti gli uomini di buona volontà.

L'ora delle tenebre

1. «Mi hai gettato nella fossa profonda, nelle tenebre e nell'ombra di morte» (Sal 88[87],7). Quante volte questo grido di sofferenza si è dovuto levare dal cuore di milioni di donne e di uomini che, dal 1· settembre 1939 alla fine dell'estate 1945, sono stati scossi da una delle tragedie tra le più devastanti e tra le più disumane della nostra storia!

Mentre l'Europa era ancora sotto il trauma dei colpi di forza, che erano stati perpetrati dal Reich e che avevano condotto all'annessione dell'Austria, allo smembramento della Cecoslovacchia e alla conquista dell'Albania, il primo giorno del mese di settembre 1939, la Polonia si vedeva invasa ad Occidente dalle truppe tedesche e, il 17 dello stesso mese, ad Oriente dall'Armata Rossa. La distruzione dell'esercito polacco e il martirio di un intero popolo dovevano purtroppo essere il preludio alla sorte che sarebbe stata ben presto riservata a numerosi popoli europei e, successivamente e nella maggior parte dei cinque continenti, a molti altri.

Infatti, sin dal 1940 i Tedeschi occuparono la Norvegia, la Danimarca, l'Olanda, il Belgio e metà della Francia. Durante quel periodo, l'Unione Sovietica, già ampliatasi con una parte della Polonia, si annetteva l'Estonia, la Lettonia e la Lituania e toglieva sia la Bessarabia alla Romania che alcuni territori alla Finlandia.

Poi, come un fuoco distruttore che si propaga, la guerra e i drammi umani, che inesorabilmente l'accompagnano. cominciarono a debordare rapidamente dalle frontiere del «vecchio continente» per divenire «mondiali». Da una parte, la Germania e l'Italia portarono i combattimenti oltre i Balcani e nell'Africa mediterranea, e, dall'altra, il Reich invase improvvisamente la Russia. Infine, nel distruggere Pearl-Harbour, i Giapponesi spinsero gli Stati Uniti d'America in guerra a fianco della Gran Bretagna. Terminava l'anno 1941.

Fu necessario attendere il 1943, con il successo della controffensiva russa che liberò la città di Stalingrado dalla morsa tedesca, perché si producesse una svolta nella storia della guerra. Le forze alleate da una parte e le truppe sovietiche dall'altra riuscirono, al prezzo di combattimenti accaniti che, dall'Egitto a Mosca, inflissero sofferenze indicibili a milioni di civili indifesi, a sconfiggere la Germania. Questa, l'8 maggio 1945, offerse la propria incondizionata capitolazione.

Ma la lotta continuò nel Pacifico, Per affrettarne il termine, due bombe atomiche, all'inizio del mese di agosto dello stesso anno, furono lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki. All'indomani di questo spaventoso avvenimento, il Giappone presentò a sua volta la domanda di capitolazione. Era il 10 agosto 1945.

Nessun'altra guerra ha talmente meritato il nome di «guerra mondiale». Essa fu pure totale, infatti non è possibile dimenticare che alle operazioni militari terrestri si aggiunsero combattimenti aerei e navali in tutti i cieli e i mari del globo. Intere città furono soggette a distruzioni impietose, che immersero popolazioni terrorizzate nell'angoscia e nella miseria. Roma stessa fu minacciata e l'intervento di Papa Pio XII evitò all'«Urbe» di diventare un campo di battaglia.

Ecco il buio quadro degli avvenimenti dei quali oggi facciamo memoria. Questi fatti provocarono la morte di cinquantacinque milioni di persone, lasciarono i vincitori divisi e l'Europa da ricostruire.

Ricordarsi

2. Cinquant'anni dopo, abbiamo il dovere di ricordarci davanti a Dio di quei fatti drammatici, per onorare i morti e per compiangere tutti quelli che questo dilagare di crudeltà, ha feriti nel cuore e nel corpo, completamente perdonando le offese.

Nella mia sollecitudine per tutta la Chiesa e nella mia attenzione al bene dell'intera umanità, non potevo lasciar trascorrere questo anniversario senza invitare i fratelli nell'Episcopato, i sacerdoti, i fedeli come pure tutti gli uomini di buona volontà a riflettere sul processo che ha condotto tale conflitto sino agli abissi della disumanità e della desolazione.

Sento, infatti il dovere di ricavare una lezione da quel passato perché non si possa mai più rinnovare il fascio di cause capaci di innescare nuovamente un'analoga conflagrazione.

E' ormai noto per esperienza che la divisione arbitraria di nazioni, lo spostamento forzato di popolazioni, il riarmo senza limiti, l'uso incontrollato di armi sofisticate, la violazione dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli, la non osservanza delle regole di comportamento internazionale come l'imposizione di ideologie totalitarie non possono che condurre alla rovina dell'umanità.

Azione della Santa Sede

3. Dall'inizio del suo pontificato, il 2 marzo 1939, Papa Pio XII non mancò di lanciare un appello per la pace, che tutti erano concordi nel considerare seriamente minacciata. Alcuni giorni prima dello scoppio delle ostilità, il 24 agosto 1939, egli pronunciò delle parole premonitrici, l'eco delle quali riecheggia ancora: «Un'ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana (...). Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra» («Nuntius radiophonicus», die 24 aug. 1939: «AAS 31 [1939] 333-334).

Purtroppo l'avvertimento di quel grande Pontefice non fu affatto ascoltato e il disastro arrivò. Non avendo potuto contribuire ad evitare la guerra, la Santa Sede si sforzò - nei limiti dei suoi mezzi - di circoscriverne l'estensione. Il Papa ed i suoi collaboratori vi lavorarono incessantemente, sia a livello diplomatico che nell'ambito umanitario, senza lasciarsi trascinare a schierarsi da una parte o dall'altra, in un conflitto che opponeva popoli di ideologie e religioni differenti. In questo lavoro la loro preoccupazione fu anche quella di non aggravare la situazione e di non compromettere la sicurezza delle popolazioni sottomesse a prove non comuni. Ascoltiamo ancora Papa Pio XII, quando a proposito di ciò che accadeva in Polonia, dichiarò: «Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e la sola ragione che ce ne dissuade è di sapere che, se parlassimo, renderemmo ancora più dura la condizione di quegli sfortunati» («Actes et Documenta du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale», 1970, vol. I, p. 455).

Alcuni mesi dopo la conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945) e all'indomani della fine della guerra in Europa, lo stesso Papa, indirizzandosi - il 2 giugno 1945 - al sacro Collegio, non mancò di rivolgere la propria attenzione al futuro del mondo e di perorare la vittoria del diritto: «Le Nazioni, segnatamente quelle medie e piccole, reclamano che sia loro dato di prendere in mano i propri destini. Esse possono essere condotte a contrarre, con il loro pieno gradimento, nell'interesse del progresso comune, vincoli che modifichino i loro diritti sovrani. Ma dopo aver sostenuto la loro parte, la loro larga parte, di sacrifici per distruggere il sistema della violenza brutale, esse sono nel diritto di non accettare che venga loro imposto un nuovo sistema politico o culturale che la grande maggioranza delle loro popolazioni recisamente respinge (...). Nel fondo della loro coscienza i popoli sentono che i loro reggitori si screditerebbero se, al folle delirio di un'egemonia della forza, non facessero seguire la vittoria del diritto» (AAS 37 [1945] 166).

L'uomo disprezzato

4. Questa «vittoria del diritto» resta la miglior garanzia del rispetto delle persone. Ora, quando ci si volge a quei sei, terribili anni, non si può che essere giustamente inorriditi per il disprezzo di cui l'uomo e stato oggetto.

Alle rovine materiali, all'annientamento delle risorse agricole e industriali dei paesi devastati da combattimenti e distruzioni, che sono giunte sino all'olocausto nucleare di due città giapponesi, si sono aggiunti massacri e miseria.

Penso, in particolare, alla sorte crudele che fu inflitta alle popolazioni delle grandi pianure dell'Est. Io stesso ne sono stato lo scosso testimone a fianco dell'Arcivescovo di Cracovia monsignor Adam Stefan Sapieha. Le disumane richieste dell'occupante del momento hanno colpito in modo brutale gli oppositori e le persone sospette, mentre le donne, i bambini ed i vecchi erano sottomessi a costanti umiliazioni.

Non si può neppure dimenticare il dramma causato dallo spostamento forzato di popolazioni, che furono gettate sulle strade d'Europa, esposte ai pericoli, in cerca di un rifugio e di mezzi per vivere.

Una speciale menzione deve essere, altresì, fatta per i prigionieri di guerra che, nell'isolamento, nella spoliazione e nell'umiliazione, hanno anch'essi pagato, dopo l'asprezza dei combattimenti, un altro pesante tributo.

E' doveroso infine ricordare che la creazione di governi imposti dall'occupante negl Stati dell'Europa centrale e orientale è stata accompagnata da misure repressive ed anche da una moltitudine di esecuzioni capitali, per sottomettere le popolazioni refrattarie.

Le persecuzioni contro gli Ebrei

5. Ma, fra tutte quelle misure antiumane, ve ne è una che resta per sempre una vergogna per l'umanità: la barbarie pianificata che si è accanita contro il popolo ebraico.

Oggetto della «soluzione finale» pensata da un'ideologia aberrante, gli Ebrei sono stati sottomessi a privazioni e brutalità a malapena descrivibili. Perseguitati inizialmente mediante misure vessatorie o discriminatorie, essi, poi, finirono a milioni nei campi di sterminio.

Gli Ebrei in Polonia, più di altri, hanno vissuto quel calvario: le immagini dell'assedio del ghetto di Varsavia, come le notizie apprese sui campi di concentramento di Auschwitz, di Majdanek o di Treblinka superano quanto si può umanamente concepire.

Va pure ricordato che questa follia omicida si è abbattuta su molti altri gruppi, che avevano il torto di essere «differenti» o ribelli alla tirannia dell'occupante.

In occasione di questo doloroso anniversario, faccio appello ancora una volta a tutti gli uomini, invitandoli a superare i pregiudizi ed a combattere tutte le forme di razzismo, accettando di riconoscere in ogni persona umana la dignità fondamentale e il bene che vi dimorano, a prendere sempre più coscienza di appartenere ad un'unica famiglia umana voluta e riunita da Dio.

Desidero qui ridire con forza che l'ostilità o l'odio verso l'ebraismo sono in completa contraddizione con la visione cristiana della dignità dell'uomo.

Le prove della Chiesa cattolica

6. Il nuovo paganesimo e i sistemi, che gli erano connessi, si accanivano certamente contro gli Ebrei, ma si indirizzavano del pari contro il cristianesimo, il cui insegnamento aveva formato l'anima dell'Europa. Mediante la persecuzione del popolo, da cui «proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,5), il messaggio evangelico della pari dignità di tutti i figli di Dio veniva schernito.

Il mio predecessore, il Papa Pio XI mostrò la consueta lucidità quando, nell'enciclica «Mit brennender Sorge», dichiarò: «Chiunque eleva la razza o il popolo, o lo Stato o una delle sue forme determinate, i depositari del potere o di altri elementi fondamentali della società umana (...) a regola suprema di tutto, anche dei valori religiosi, e li divinizza con un culto idolatrico, questi perverte ed altera l'ordine delle cose creato e voluto da Dio» («Mit Brennender Sorge», die 14 mar. 1937; AAS 29 [1937] 149 et 171).

Questa pretesa dell'ideologia del sistema nazionalsocialista non risparmiò le Chiese, e la Chiesa cattolica in particolare la quale, prima e durante il conflitto, conobbe anch'essa la passione. La sua sorte non è stata certamente migliore nelle contrade, dove si impose l'ideologia marxista del materialismo dialettico.

Tuttavia, dobbiamo rendere grazie a Dio per i numerosi testimoni, noti e ignoti, che - in quelle ore di tribolazione - hanno avuto il coraggio di professare intrepidamente la fede, che hanno saputo ergersi contro l'arbitrio ateo e che non si sono piegati sotto la forza.

Totalitarismo e religione

7. Infatti, in ultima analisi, il paganesimo nazista e il dogma marxista hanno in comune il fatto di essere delle ideologie totalitarie, con una tendenza a divenire delle religioni sostitutive.

Già ben prima del 1939, in certi settori della cultura europea appariva una volontà di cancellare Dio e la sua immagine dall'orizzonte dell'uomo. Si iniziava a indottrinare in tal senso i fanciulli, fin dalla loro più tenera età.

L'esperienza ha sfortunatamente mostrato che l'uomo consegnato al solo potere dell'uomo, mutilato nelle sue aspirazioni religiose, diventa presto un numero o un oggetto. D'altro canto, nessuna epoca dell'umanità è sfuggita al rischio del chiuso ripiegamento dell'uomo su se stesso, in un atteggiamento di orgogliosa sufficienza. Ma tale rischio si è accentuato in questo secolo nella misura in cui la forza delle armi, la scienza e la tecnica hanno potuto dare all'uomo contemporaneo l'illusione di diventare il solo padrone della natura e della storia. Questa è la pretesa che si trova alla base degli eccessi che deploriamo.

L'abisso morale, nel quale il disprezzo di Dio - e quindi dell'uomo - ha cinquant'anni or sono gettato il mondo, ci fa toccare con mano la potenza del «Principe di questo mondo» (Gv 14,30), che può sedurre le coscienze con la menzogna, con il disprezzo dell'uomo e del diritto, con il culto del potere e della potenza.

Oggi noi ricordiamo tutto ciò e meditiamo sugli estremismi, cui può condurre l'abbandono di ogni riferimento a Dio e di ogni legge morale trascendente.

Rispettare i diritti dei popoli

8. Ma quanto è vero per l'uomo è vero anche per i popoli. Commemorare gli avvenimenti del 1939 significa ricordare che l'ultimo conflitto mondiale ha avuto come causa l'annientamento sia dei diritti dei popoli che di quelli delle persone. L'ho ricordato ieri, indirizzandomi alla Conferenza Episcopale Polacca.

Non c'è pace se i diritti di tutti i popoli - e particolarmente di quelli più vulnerabili - non sono rispettati! L'intero edificio del diritto internazionale poggia sul principio dell'uguale rispetto degli Stati, del diritto all'autodeterminazione di ciascun popolo e della libera cooperazione in vista del superiore bene comune dell'umanità.

E' essenziale che oggi situazioni analoghe a quella della Polonia del 1939, devastata e frantumata a piacimento da invasori senza scrupoli, non si riproducano più. A tal riguardo non si può impedire di pensare ai paesi, che non hanno ancora ottenuto la loro piena indipendenza, ed a quelli che sono sotto la minaccia di perderla. In tale contesto e in questi giorni è necessario evocare il caso del Libano, dove forze congiunte, che perseguono loro propri interessi, non esitano a mettere in pericolo l'esistenza stessa di una nazione.

Non dimentichiamo che l'Organizzazione delle Nazioni Unite è nata, dopo il secondo conflitto mondiale, quale strumento di dialogo e di pace, fondato sul rispetto della eguaglianza dei diritti dei popoli.

Il disarmo

9. Ma una delle condizioni essenziali di questo «vivere insieme» è il disarmo.

Le terribili prove subite dai militari e dalle popolazioni civili, al tempo dell'ultimo conflitto mondiale, non possono che incitare i responsabili delle nazioni a fare tutto il possibile perché senza tardare si arrivi all'elaborazione di processi di cooperazione, di controllo e di disarmo, che rendano la guerra impensabile. Chi oserebbe giustificare ancora l'uso delle armi più crudeli, che uccidono gli uomini e distruggono le loro realizzazioni, per risolvere le vertenze tra gli Stati? Come ho avuto occasione di dire: «La guerra è in sè irrazionale e (...) il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell'uomo» («Nuntius ob diem ad pacem fovendam dicatum pro a. D. 1984», 4, die 8 dec. 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 2 [1983] 1278).

E' per questo che noi non possiamo che accogliere con favore i negoziati in corso per il disarmo nucleare e convenzionale come per la messa al bando totale delle armi chimiche ed altre. La Santa Sede a più riprese ha dichiarato che stima necessario che le parti giungano almeno ad un livello di armamento che sia il più basso possibile compatibilmente con le loro esigenze di sicurezza e di difesa.

Questi passi promettenti avranno tuttavia possibilità di successo solamente nel caso siano sostenuti e accompagnati da una volontà di intensificare in pari modo la cooperazione negli altri ambiti, specificatamente quelli economici e culturali. L'ultima riunione della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, tenutasi recentemente a Parigi sul tema della «dimensione umana», ha registrato l'auspicio, espresso da paesi delle due parti d'Europa, di veder instaurato ovunque il regime dello Stato di diritto. Questa forma di Stato appare, infatti, come il migliore garante dei diritti della persona, ivi compreso il diritto alla libertà religiosa, il cui rispetto e un elemento insostituibile della pace sociale e internazionale.

Educare le giovani generazioni

10. Edotti dagli errori e dalle deviazioni del passato, gli Europei d'oggi hanno ormai il dovere di trasmettere alle giovani generazioni uno stile di vita e una cultura ispirata dalla solidarietà e dalla stima per l'altro. A tal riguardo, il cristianesimo, che ha forgiato così profondamente i valori spirituali di detto continente, dovrebbe essere una fonte di costante ispirazione: la sua dottrina sulla persona creata ad immagine di Dio non può che contribuire allo sviluppo di un umanesimo rinnovato.

Nell'inevitabile dibattito sociale, dove si affrontano differenti concezioni della società, gli adulti devono darsi l'esempio del rispetto reciproco, sapendo sempre riconoscere la parte di verità che è nell'altro.

In un continente con non pochi contrasti, bisogna che le persone, le etnie ed i paesi di cultura, di credenza o di sistema sociale differenti reimparino incessantemente la mutua accettazione.

Gli educatori ed i mass-media hanno a tal riguardo un ruolo fondamentale. Purtroppo è giocoforza costatare che l'educazione al rispetto della dignità della persona creata a immagine di Dio non è certamente favorita dagli spettacoli di violenza o di depravazione che troppo frequentemente sono diffusi dai mezzi di comunicazione sociale: le giovani coscienze in via di formazione ne sono turbate e il senso morale degli adulti ne è ottenebrato.

Moralizzare la vita pubblica

11. La vita pubblica, in effetti, non può prescindere dai criteri etici. La pace si propaga in primo luogo sul terreno dei valori umani, vissuti e trasmessi dai cittadini e dai popoli. Quando si sfilaccia il tessuto morale di una nazione, tutto e da temere.

La vigile memoria del passato dovrebbe rendere i nostri contemporanei attenti agli abusi sempre possibili nell'esercizio della libertà, che la generazione di quest'epoca ha conquistato al prezzo di molti sacrifici. L'equilibrio fragile della pace potrebbe essere compromesso qualora nelle coscienze si risveglino mali come l'odio razziale, il disprezzo per lo straniero, la segregazione del malato o del vecchio, l'emarginazione del povero, il ricorso alla violenza privata e collettiva.

Spetta ai cittadini il saper distinguere tra le proposte politiche quelle che si ispirano alla ragione ed ai valori morali, ed è compito degli Stati il vigilare a che siano bloccate le cause dell'esasperazione o dell'insofferenza di uno o dell'altro gruppo svantaggiato della società.

Appello all'Europa

12. A voi, uomini di governo e responsabili delle nazioni, ridico ancora una volta la mia profonda convinzione che il rispetto di Dio e il rispetto dell'uomo vanno di pari passo. Essi costituiscono il principio assoluto che permetterà agli Stati e ai blocchi politici di andare oltre i loro antagonismi.

Non possiamo dimenticare, in particolare, l'Europa dove è nato quel terribile conflitto e che per sei anni ha vissuto una vera «passione», che l'ha rovinata e resa esangue. Sin dal 1945, siamo testimoni e attori di lodevoli sforzi condotti felicemente a termine in vista della sua ricostruzione materiale e spirituale.

Ieri, questo continente ha esportato la guerra; oggi gli spetta di essere «artefice di pace». Confido che il messaggio di umanesimo e di liberazione, eredità della sua storia cristiana, saprà ancora fecondare i suoi popoli e continuerà ad irradiarsi nel mondo.

Sì, Europa, tutti ti guardano, coscienti che tu hai sempre qualcosa da dire, dopo il naufragio di quegli anni di fuoco: che la vera civiltà non è nella forza, che essa è frutto della vittoria su noi stessi, sulle potenze dell'ingiustizia, dell'egoismo e dell'odio, che possono giungere sino a sfigurare l'uomo!

Indirizzo ai cattolici

13. Terminando, desidero rivolgermi in modo tutto particolare ai pastori e ai fedeli della Chiesa cattolica.

Abbiamo or ora ricordato una delle guerre più omicide della storia, nata in un continente di tradizione cristiana.

Una tale constatazione non può che incitarci ad un esame di coscienza sulla qualità dell'evangelizzazione dell'Europa. La caduta dei valori cristiani, che ha favorito gli errori di ieri, deve renderci vigili circa la modalità con cui oggi il Vangelo è annunciato e vissuto.

Dobbiamo purtroppo osservare che in molti ambiti della sua esistenza l'uomo moderno pensa, vive e lavora come se Dio non esistesse. Esiste qui lo stesso pericolo di ieri: l'uomo consegnato al potere dell'uomo.

Mentre l'Europa si appresta ad assumere un nuovo volto, mentre sviluppi positivi hanno luogo in certi paesi della sua parte centrale ed orientale e mentre i responsabili delle nazioni collaborano sempre più alla soluzione dei grandi problemi dell'umanità, Dio chiama la sua Chiesa a portare il proprio contributo all'avvento di un mondo più fraterno.

Con le altre Chiese cristiane, malgrado la nostra imperfetta unità, noi vogliamo ridire all'umanità d'oggi che l'uomo è vero solo quando si riconosce di Dio, come creatura; che l'uomo è cosciente della sua dignità solo quando riconosce in sè e negli altri l'impronta di Dio che l'ha creato a sua immagine; che egli è grande solo nella misura in cui fa della sua vita una risposta all'amore di Dio e si mette al servizio dei fratelli.

Dio non dispera dell'uomo. Cristiani, neppure noi possiamo disperare dell'uomo, perché sappiamo che egli è sempre più grande dei suoi errori e delle sue colpe.

Ricordandoci della beatitudine un tempo pronunciata dal Signore: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9), desideriamo invitare tutti gli uomini a perdonare e a mettersi gli uni a servizio degli altri, a causa di colui che, nella sua carne, ha una volta per tutte «ucciso l'odio» (Ef 2,16).

A Maria, regina della pace, affido questa umanità, raccomandando alla sua materna intercessione la storia di cui noi siamo gli attori.

Affinché il mondo non conosca più la disumanità e la barbarie, che l'hanno devastato cinquant'anni fa, annunciamo senza stancarci il «Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5,11), pegno della riconciliazione di tutti gli uomini tra di loro.

Che la sua pace e la sua benedizione siano con tutti voi!

Dal Vaticano, il 27 agosto dell'anno 1989, undicesimo di Pontificato.

 

 

CENTENARIO DELL’OPERA DI SAN PIETRO APOSTOLO

LETTERA APOSTOLICA
PER IL CENTENARIO DELL'OPERA DI S.PIETRO APOSTOLO

Venerabili fratelli, cari figli e figli, salute e apostolica benedizione!

1. In questo tempo in cui le Chiese di recente fondazione vedono dei giovani sempre più numerosi rispondere alla chiamata del Signore ed assumersi il compito sacerdotale, è giusto che tutto il Popolo di Dio celebri nella gioia e nel rendimento di grazie il centesimo anniversario della fondazione dell'Opera di san Pietro apostolo per la promozione del clero autoctono e lo sviluppo dei seminari nelle Chiese locali dei territori di missione. Godendo della collaborazione di innumerevoli fratelli e sorelle mobilitati per questa Opera, in realtà, un gran numero di vocazioni seminate nelle giovani Chiese sono germogliate e hanno portato frutti di grazia e di salvezza. Si sono costruiti e messi in funzione seminari minori e maggiori, si sono create case di formazione alla vita religiosa per rispondere al desiderio di quanti volevano consacrare radicalmente la loro vita alla proclamazione del Vangelo.

Quante belle pagine di storia della Chiesa sono state scritte nei diversi continenti dai soci dell'Opera di san Pietro apostolo! Quanti sacerdoti, religiosi e religiose hanno avuto, grazie a questa Opera, la gioia di realizzare la loro vocazione! Nel corso delle mie visite pastorali nelle Chiese locali, è per me una grande gioia incontrare i sacerdoti e i seminaristi, i religiosi e le religiose provenienti da questa comunità.

2. Il Concilio Vaticano II ha espresso bene il sentimento della Chiesa davanti a questa realtà incoraggiante, nel documento che dà gli orientamenti essenziali a tutti coloro che partecipano all'attività missionaria: «Si rallegra vivamente la Chiesa e ringrazia per il dono inestimabile della vocazione sacerdotale che Dio ha concesso a tanti giovani in mezzo a popoli, convertiti di recente al cristianesimo. E' indubbio che la Chiesa mette più profonde radici in un gruppo umano qualsiasi, quando le varie comunità di fedeli traggono dai propri membri i ministri della salvezza, che nell'ordine dei Vescovi, dei sacerdoti e dei diaconi, servono ai loro fratelli, sicché le nuove Chiese acquistano a poco a poco la struttura di diocesi, fornita di clero proprio» («Ad Gentes», 16).

Perché il Popolo di Dio possa testimoniare davanti all'umanità intera la salvezza in Gesù Cristo, morto e risuscitato per tutti, è necessario che le membra del suo Corpo, ovunque, siano unite al loro Capo attraverso il ministero dei Vescovi e dei sacerdoti. Costoro, «al servizio di Cristo Maestro, Sacerdote e Re, partecipano al suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo» («Presbyterorum Ordinis», 1).

Il centenario che celebriamo richiama nuovamente la nostra attenzione sul ruolo insostituibile dei sacerdoti. Grazie al loro ministero, la comunità tutta fonda la sua coesione sulla partecipazione al sacrificio redentore nell'Eucaristia, i doni misteriosi del perdono e della riconciliazione vengono elargiti nel sacramento della Penitenza, l'assemblea dei fedeli viene guidata dai dispensatori dei misteri di Dio, uniti ai Vescovi, in comunione con il successore di Pietro.

Nella diversità delle culture e l'unità fondamentale di tutta la Chiesa, il ministero sacerdotale può essere esercitato nel modo più adeguato al genio proprio di ciascun popolo. E' ancora lunga la strada perché tutte le diocesi abbiano a disposizione un numero sufficiente di sacerdoti autoctoni e la presenza di missionari stranieri è ancora indispensabile. Ma so che questi ultimi favoriscono attivamente la formazione di un presbiterio di origine locale, il cui sviluppo è la migliore ricompensa ai loro sforzi apostolici.

Un altro segno incoraggiante che desidero sottolineare è la grande disponibilità di molte giovani Chiese non solo ad assumersi la responsabilità della propria vita pastorale attraverso i sacerdoti chiamati tra i loro figli, ma a partecipare a loro volta alla missione di evangelizzazione «ad extra», non esitando ad inviare lontano alcuni sacerdoti e religiosi o religiose autoctoni delle prime generazioni.

E' opportuno ricordare la parte svolta dall'Opera di san Pietro apostolo in questo sviluppo. A partire dal secolo scorso, infatti essa ha lavorato efficacemente perché tutte le Chiese potessero godere del ministero dei loro figli chiamati dal Signore. Dando ai pionieri del clero locale il suo sostegno spirituale e materiale, ha svolto un ruolo di prim'ordine, per la partecipazione generosa di innumerevoli fedeli.

3. Come non ricordare in questo contesto la figura delle due fondatrici dell'Opera; Jeanne Bigard e la madre Stèphanie, donne di gran cuore alle quali lo Spirito Santo mostrò con chiarezza fa necessità di un clero autoctono per l'«implantatio» della Chiesa? Esse hanno accolto l'invito del Signore a consacrare le loro forze, la loro energia, la loro vita tutta alla promozione del Vangelo attraverso la formazione di sacerdoti e di consacrati e consacrate. Esse sono riuscite a forgiare con tenacia ed entusiasmo uno strumento adeguato alla realizzazione di questo nobile scopo.

Jeanne Bigard, in particolare, che si era offerta in olocausto alla volontà di Dio, conobbe nel corso degli anni il mistero della Croce che aveva presentito: «Soffrirò molto - scriveva nel 1903 - ma se questo è il prezzo perché il piccolo granello di senapa possa germogliare e crescere, sarei colpevole ad oppormi». Il suo generoso sacrificio è stato certamente fecondo. L'Opera di san Pietro apostolo le deve molto, poiché ha potuto svolgere il suo ruolo e favorire realmente la crescita di molte vocazioni nelle giovani Chiese.

Desidero ricordare l'attaccamento delle signore Bigard alla Sede Apostolica. Il nome stesso scelto per l'Opera manifesta la loro fedeltà alla Chiesa di Cristo. A partire da Leone XIII, i miei predecessori non hanno mancato di incoraggiarle, e hanno accordato di cuore le loro benedizioni alle fondatrici e a tutti i soci, poiché trovavano in questa iniziativa un aiuto prezioso al compito pastorale dell'evangelizzazione.

4. Il Papa Pio X, cui è stato dato il nome di «Papa delle Missioni», volle riaffermare il fondamento spirituale della fondazione attribuendole una speciale patrona: proclamò protettrice perenne dell'Opera di san Pietro apostolo santa Teresa del Bambin Gesù e del santo Volto, il 23 luglio 1925, l'anno stesso della sua canonizzazione e due anni prima di istituirla come patrona principale delle missioni di tutto il mondo insieme con san Francesco Saverio.

L'intuizione era profondamente giusta: attraverso la sua testimonianza e la sua intercessione, Teresa può ispirare e sostenere questa Opera di grande importanza per lo sviluppo delle Chiese di recente fondazione.

La giovane carmelitana di Lisieux, quando medita sul senso della sua vocazione, scrive: «Malgrado la mia piccolezza, vorrei illuminare le anime..., ho la vocazione di apostolo... Vorrei essere missionaria... fino alla consumazione dei secoli» («Manuscrits autobiographiques», B, folio 3). La santa, per la quale «l'amore racchiudeva in sè tutte le vocazioni» («Manuscrits autobiographiques», B, folio 3) chiede continuamente la grazia di amare di Dio per farlo amare. A un fratello spirituale, futuro missionario, ella confida con semplicità la sua preghiera e il suo desiderio più profondo: «Prego per tutte le anime che le saranno affidate... In paradiso desidererò le stesse cose che bramo quaggiù: amare Gesù e farlo amare» («Correspondance générale», lettre à l'Abbé Bellière, n. 220, p. 952).

Teresa non ha potuto andare lontano per realizzare il suo sogno missionario, ma, nella solitudine del Carmelo, ella «ama per i suoi fratelli che combattono» («Manuscrits autobiographiques», B, folio 4); ella supplica il Signore: «Che tutti coloro i quali non sono illuminati dal lume della fede lo vedano finalmente risplendere» («Manuscrits autobiographiques», C, folio 6). Per questo, ella vuole che il suo sacrificio sia totale, ella «accetta di mangiare... il pane del dolore» («Manuscrits autobiographiques», C, folio 6).

Il giorno in cui la Chiesa celebra la festa di santa Teresa del Bambin Gesù, in questo anno del centenario dell'Opera di san Pietro apostolo, esorto tutti i soci a meditare sulla spiritualità missionaria della loro santa patrona e a farla conoscere a molti fratelli e sorelle la cui generosità è necessaria per continuare nell'impegno intrapreso.

Risponderanno così all'orientamento essenziale proposto dal Concilio Vaticano II nell'introduzione del decreto sull'attività missionaria della Chiesa: «Questo santo Sinodo... desidera esporre i principi dell'attività missionaria e raccogliere le forze di tutti i fedeli, perché il popolo di Dio, attraverso la via della croce, che è angusta, possa dovunque diffondere il regno di Cristo, padrone e osservatore dei secoli (cfr. Sir 36,19) e preparare la strada alla sua venuta» («Ad Gentes», 1).

5. A cento anni dalla sua fondazione, l'Opera di san Pietro apostolo non ha certo esaurito la sua missione. Se le giovani Chiese vedono felicemente aumentare il numero delle vocazioni sacerdotali e religiose uscite dal loro interno, la supplica udita dall'apostolo Paolo: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At 16,9) non cessa di risuonare rivolto ai ministri del Vangelo, da tutte le parti del mondo, dal momento che il numero dei battezzati non cresce allo stesso ritmo della popolazione del globo.

L'invito di Cristo ci interpella tutti con forza. Il Concilio Vaticano II ha giustamente sottolineato il carattere comunitario della missione per la quale Cristo ha domandato di pregare il padrone della messe: «La comunità locale non deve limitarsi a prendersi cura dei propri fedeli, ma è tenuta anche a sentire lo zelo missionario di aprire a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo» («Presbyterorum Ordinis», 6).

Tenendo conto dell'ampiezza dei compiti dei sacerdoti e dei religiosi nel mondo contemporaneo, e considerando le molteplici difficoltà incontrate nell'apostolato, le vocazioni nate da Dio devono essere coltivate, rafforzate, formate in modo particolare. E questo è anzitutto il compito dei seminari minori e maggiori. Queste istituzioni hanno bisogno della collaborazione generosa di tutti i fedeli per poter dare ai candidati al sacerdozio la formazione equilibrata che è loro necessaria. La crescita del clero autoctono potrebbe essere impedita dall'insufficienza delle risorse. Secondo la testimonianza di alcuni Vescovi dei paesi di missione, anche oggi più di una diocesi potrebbe veder annullata la propria speranza di avere un clero autoctono senza l'aiuto dell'Opera di san Pietro apostolo. Non chiudiamo il nostro cuore: ciò che riceviamo dalla sua bontà, doniamolo con gioia!

6. Mi auguro che verranno intraprese delle iniziative atte a ravvivare l'attenzione e l'interesse del Popolo di Dio sul dono della fede che si trasmette di generazione in generazione nella Chiesa per la grazia di Dio e la testimonianza dei fedeli.

Per questo, è opportuno ricordare, per rendere loro l'omaggio dovuto, le numerose donne di ogni condizione (nubili, madri di famiglia, vedove o nonne) che svolgono un ruolo insostituibile non solo nella trasmissione della fede ma anche nella continuità dell'Opera oggi, in quanto ne sono le prime collaboratrici e molto spesso è proprio grazie a loro che si mantiene il senso della missione nelle famiglie cristiane.

Dal canto loro, i giovani di tutte le regioni del mondo porteranno il contributo del loro senso di solidarietà e di comunità, loro che superano facilmente le frontiere, loro che sanno essere fratelli: che essi scoprano e facciano scoprire ai loro genitori ciò che la vitalità della Chiesa deve al sacerdozio in ciascun popolo.

Il centenario dell'Opera di san Pietro apostolo deve essere un appello rivolto a tutta la Chiesa a riconoscere la grandezza della vocazione sacerdotale e religiosa, a riconoscere anche la presente necessità di ministri di Dio pronti a dedicare generosamente la loro vita all'annuncio del Vangelo, con la fede e la disponibilità della Vergine Maria, «stella dell'evangelizzazione», perché «serva del Signore». Fin dagli inizi, l'Opera di san Pietro apostolo richiedeva ai soci di invocare ogni giorno la Vergine con il titolo di «Maria, Regina degli Apostoli». In questo nuovo avvento della Chiesa che si avvia verso il terzo millennio, come santa Teresa del Bambin Gesù, preghiamo ancora la Vergine Maria con il medesimo attributo, perché susciti nella Chiesa numerosi apostoli e discepoli del suo Figlio Gesù.

La benedizione di Dio sia la ricompensa di tutti coloro che si associano all'Opera di san Pietro apostolo e di coloro di cui essa favorisce la vocazione!

Dal Vaticano, 1 ottobre 1989, festa di santa Teresa del Bambin Gesù e del Volto santo, undicesimo anno del mio Pontificato.

 

 

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