Sabato, 22 Marzo, 2025

PATRES ECCLESIAE

LETTERA APOSTOLICA
PATRES ECCLESIAE
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL XVI CENTENARIO
DELLA MORTE DI SAN BASILIO

1. Padri della Chiesa sono giustamente chiamati quei santi che, con la forza di fede, la profondità e la ricchezza dei loro insegnamenti, nel corso dei primi secoli l'hanno rigenerata e grandemente incrementata (cfr. Gal 4,19; Vincentii Lirinensis «Commonitorium», I,3: PL 50,641).

In verità «padri» della Chiesa, perché da loro, mediante il Vangelo, essa ha ricevuto la vita (cfr. 1Cor 4,15). E anche suoi costruttori, perché da loro - sul fondamento unico posto dagli apostoli, che è il Cristo (cfr. 1Cor 3,11) - la Chiesa di Dio è stata edificata nelle sue strutture portanti.

Della vita attinta dai suoi padri la Chiesa ancora oggi vive; e sulle strutture poste dai suoi primi costruttori ancora oggi viene edificata, nella gioia e nella pena del suo cammino e del suo travaglio quotidiano.

Padri dunque sono stati, e padri restano per sempre: essi stessi, infatti, sono una struttura stabile della Chiesa, e per la Chiesa di tutti i secoli adempiono a una funzione perenne. Cosicché ogni annuncio e magistero successivo, se vuole essere autentico, deve confrontarsi con il loro annuncio e il loro magistero; ogni carisma e ogni ministero deve attingere alla sorgente vitale della loro paternità; e ogni pietra nuova, aggiunta all'edificio santo che ogni giorno cresce e si amplifica (cfr. Ef 2,21), deve collocarsi nelle strutture già da loro poste, e con esse saldarsi e connettersi.

Guidata da queste certezze, la Chiesa non si stanca di ritornare ai loro scritti - pieni di sapienza e incapaci di invecchiare - e di rinnovarne continuamente il ricordo. E' quindi con grande gioia che nel corso dell'anno liturgico sempre di nuovo incontriamo i nostri padri: e ogni volta ne siamo confermati nella fede e incoraggiati nella speranza.

E ancora più grande è la nostra gioia quando particolari circostanze invitano a incontrarli in modo più prolungato e profondo. Di tale natura è appunto la ricorrenza di questo anno, che segna il XVI centenario dal transito del nostro padre Basilio, Vescovo di Cesarea.

2. La vita e il ministero di san Basilio

Fra i padri greci chiamato «grande», nei testi liturgici bizantini Basilio è invocato come «luce della pietà» e «luminare della Chiesa». La illuminò, infatti, e tuttora la illumina: non meno per «la purezza della sua vita» che per l'eccellenza della sua dottrina. Poiché il primo e più grande insegnamento dei santi è pur sempre la loro vita.

Nato in una famiglia di santi, Basilio ebbe anche il privilegio di una educazione eletta, presso i più reputati maestri di Costantinopoli e di Atene.

Ma a lui parve che la sua vita cominciasse veramente solo quando, in modo più pieno e determinante, gli fu dato di conoscere il Cristo come suo Signore: quando, cioè, attirato irresistibilmente da lui, praticò quel distacco radicale che avrebbe poi tanto inculcato nel suo insegnamento (cfr. S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 8: PG 31,933c-941a), e divenne suo discepolo.

Si mise allora alla sequela del Cristo, volendo conformarsi soltanto a lui: guardando a lui solo, ascoltando lui solo (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,1: PG 31,860bc), e in tutto e per tutto considerandolo suo unico «sovrano, re, medico, e maestro di verità» (S.Basilii «De Baptismo», I,1: PG 31,1516b).

Senza esitare, quindi, abbandonò quegli studi che pure tanto aveva amato e dai quali aveva tratto immensi tesori di scienza (cfr. Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,525c-528c): avendo infatti deciso di servire a Dio solo, non volle più sapere nulla all'infuori del Cristo (cfr. 1Cor 2,2), e ritenne vanità ogni sapienza che non fosse quella della croce. Sono parole sue, con le quali, già verso il termine della vita, rievocava l'evento della sua conversione: «Io avevo sciupato molto tempo nella vanità, perdendo quasi tutta la mia giovinezza nel lavoro vano a cui mi applicavo per apprendere gli insegnamenti di quella sapienza che Dio ha resa stolta (cfr. 1Cor 1,20); finché un giorno, come svegliandomi da un sonno profondo, riguardai alla mirabile luce della verità del Vangelo, e considerai l'inutilità della sapienza dei prìncipi di questo mondo che sono ridotti all'impotenza (cfr. 1Cor 2,6). Allora piansi molto sulla mia miserabile vita» (cfr. S.Basilii «Epistula» 223: PG 32,824a).

Pianse sulla sua vita, benché già prima - secondo la testimonianza di Gregorio Nazianzeno, suo compagno di studi - fosse umanamente esemplare (cfr. S.Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,521cd): gli sembrò nondimeno «miserabile», perché non era in modo totale ed esclusivo consacrata a Dio, che è l'unico Signore.

Con irrefrenabile impazienza, interruppe dunque gli studi intrapresi e, abbandonati i maestri della sapienza ellenica, «attraversò molte terre e molti mari» (S.Basilii «Epistula» 204: PG 32,753a) in cerca di altri maestri: quegli «stolti» e quei poveri che nei deserti si esercitavano a ben diversa sapienza.

Cominciò così ad apprendere cose mai salite al cuore dell'uomo (cfr. 1Cor 2,9), verità che i retori e i filosofi non avrebbero mai potuto insegnargli (cfr. S.Basilii «Epistula» 223»: PG 32,824bd). E in questa sapienza nuova crebbe poi di giorno in giorno, in un meraviglioso itinerario di grazia: mediante la preghiera, la mortificazione, l'esercizio della carità, il continuo commercio con le sante Scritture e gli insegnamenti dei Padri (cfr. praesertim S.Basilii «Epistula» 2 et 22).

Ben presto fu chiamato al ministero.

Ma anche nel servizio delle anime, con saggio equilibrio seppe comporre la predicazione infaticabile con spazi di solitudine e ampio respiro di preghiera. Riteneva infatti che ciò fosse di inderogabile necessità per la «purificazione dell'anima» (S.Basilii «Epistula» 2: PG 32,228a; cfr. «Epistula» 210: PG 32,769a), e quindi perché l'annuncio della parola potesse sempre essere confermato dall'«evidente esempio» della vita (S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 43: PG 31,1028a-1029b; cfr. «Moralia», LXX,10: PG 31,824d-825b).

Così divenne pastore e fu insieme, nel senso più sostanziale del termine, monaco; anzi, fu certo fra i più grandi dei monaci-Pastori della Chiesa: figura singolarmente completa di Vescovo, e grande promotore e legislatore del monachesimo.

Forte, infatti, della propria personale esperienza, Basilio contribuì fortemente alla formazione di comunità di cristiani totalmente consacrati al «divino servizio» (S.Benedicti «Regula», Prologus), e si assunse l'impegno e la fatica di sostenerle con frequenti visite (cfr. S.Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,536b): per sua e loro edificazione intrattenendosi con esse in mirabili colloqui, molti dei quali, per grazia di Dio, ci sono stati trasmessi per scritto (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», Proemium: PG 31,1080ab). A questi scritti hanno attinto vari legislatori del monachesimo, non ultimo lo stesso san Benedetto, che considera Basilio come suo maestro (cfr. S.Benedicti «Regula», LXXIII,5); a questi scritti - direttamente o indirettamente conosciuti - si sono ispirati la più parte di coloro che, in oriente come in occidente, hanno abbracciato la vita monastica.

Per questo si ritiene da molti che quella struttura capitale della vita della Chiesa che è il monachesimo sia stata posta, per tutti i secoli, principalmente da san Basilio; o che, almeno, non sia stata definita nella sua natura più propria senza il suo decisivo contributo.

Basilio ebbe molto a soffrire per i mali in cui gemeva, in quell'ora difficile, il Popolo di Dio (cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 31,653b). Li denunciò con franchezza, e, con lucidità e amore, ne individuò le cause, per accingersi coraggiosamente a una vasta opera di riforma. Cioè all'opera - da perseguire in ogni tempo, da rinnovare a ogni generazione - volta a riportare la Chiesa del Signore, «per la quale il Cristo è morto e sulla quale ha effuso abbondante il suo Spirito» (cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 31,653b), alla sua forma primitiva: a quella normativa immagine, bella e pura, che ce ne trasmettono la parola del Cristo e degli Atti degli Apostoli. Quante volte Basilio ricorda, con passione e costruttiva nostalgia, il tempo in cui «la moltitudine dei credenti era un cuore solo e un'anima sola»! (At 4,32; cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 36,660c; cfr. «Regulae fusius tractatae», 7: PG 31,933c; cfr. «Homilia tempore famis»: PG 31,325ab).

Il suo impegno di riforma si volse insieme, con armonia e compiutezza, praticamente a tutti gli aspetti e gli ambiti della vita cristiana.

Per la natura stessa del suo ministero, il Vescovo è innanzitutto pontefice del suo popolo- e il Popolo di Dio è prima di tutto popolo sacerdotale.

Non può quindi in alcun modo trascurare la liturgia - la sua forza e ricchezza, la sua bellezza, la sua «verità» - un Vescovo veramente sollecito del bene della Chiesa. Nell'opera pastorale, anzi, l'impegno pr la liturgia sta logicamente al vertice di tutto e concretamente in cima a ogni altra scelta: la liturgia, infatti - come ricorda il Concilio Vaticano II - è «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa, e insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù» («Sacrosanctum Concilium», 10), cosicché «nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia» («Sacrosanctum Concilium», 7).

Di questo si mostrò perfettamente consapevole Basilio e il «legislatore di monaci» (cfr. S.Gregorii Nazianzenii «In laudem Basilii»: PG 36,541c) seppe essere anche sapiente «riformatore liturgico» (cfr. S.Gregorii Nazianzenii «In laudem Basilii»: PG 36,541c).

Della sua opera in questo ambito resta, eredità preziosissima per la Chiesa di tutti i tempi, l'anafora che legittimamente porta il suo nome: la grande preghiera eucaristica che, da lui rifusa e arricchita, è bellissima fra le più belle.

Non solo: lo stesso ordinamento fondamentale della preghiera salmodica ebbe in lui uno dei maggiori ispiratori e artefici (cfr. S.Basilii «Epistula» 2 et «Regula fusius tractatae», 37: PG 31,1013b-1016c). Così, soprattutto per l'impulso dato da lui, la salmodia - «incenso spirituale», respiro e conforto del Popolo di Dio (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 1: PG 29,212a-213c) - nella sua Chiesa fu amata moltissimo dai fedeli, e divenne nota ai piccoli e agli adulti, ai dotti e agli incolti (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 1: PG 29,212a-213c). Come riferisce lo stesso Basilio: «Presso di noi il popolo si alza di notte per recarsi alla casa della preghiera,... e trascorre la notte alternando salmi e preghiere» (S.Basilii «Epistula» 207: PG 32,764ab). I salmi, che nelle chiese rimbombavano come tuoni (cfr. S.Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,561cd), si udivano risuonare anche nelle case e nelle piazze (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 1: PG 29,212c).

Basilio amò di amore geloso la Chiesa (cfr. 2Cor 11,2): e sapendo che la sua verginità e la sua stessa fede, della purezza di questa fede fu custode vigilantissimo.

Per questo dovette e seppe combattere con coraggio: non contro uomini, ma contro ogni adulterazione della parola di Dio (cfr. 2Cor 2,17), ogni falsificazione della verità, ogni manomissione del deposito santo (cfr. 1Tm 6,20) trasmesso dai Padri. Il suo impeto perciò non aveva nulla di passionale: era forza di amore; e la sua chiarezza nulla di puntiglioso: era delicatezza di amore.

Così, dall'inizio al termine del suo ministero combatté per salvaguardare intatto il senso della formula di Nicea riguardo alla divinità del Cristo «consostanziale» al Padre (cfr. S.Basilii «Epistula» 9: PG 32,272a; «Epistula» 52: PG 32,392b-396a; «Adv. Eunomium», I: PG 29,556c); e ugualmente combatté perché non fosse sminuita la gloria dello Spirito che, «facendo parte della Trinità ed essendo della divina e beata natura di essa» (S.Basilii «Epistula» 243: PG 32,909a), deve essere con il Padre e il Figlio connumerato e conglorificato (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto»: PG 32,117c).

Con fermezza, ed esponendosi personalmente a pericoli gravissimi, vigilò e combatté anche per la libertà della Chiesa: da vero Vescovo, non esitando a contrapporsi ai regnanti per difendere il diritto suo e del Popolo di Dio di professare la verità e di ubbidire al Vangelo (cfr. S.Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,557c-561c). Il Nazianzeno, che riferisce un episodio saliente di questa lotta, fa ben comprendere che il segreto della sua forza non risiedeva che nella semplicità stessa del suo annuncio, nella chiarezza della sua testimonianza, e nell'inerme maestà della sua dignità sacerdotale (cfr. S.Gregorii Nazianzeni «In laudem Basilii»: PG 36,561c-564b).

Non minore severità che contro eresie e tiranni, Basilio mostrò contro equivoci e abusi all'interno della Chiesa: particolarmente, contro la mondanizzazione e l'attaccamento ai beni.

A muoverlo era, ancora e sempre, il medesimo amore alla verità e al Vangelo; benché in modo diverso, era pur sempre il Vangelo, infatti, a essere negato e contraddetto: sia dall'errore degli eresiarchi, che dall'egoismo dei ricchi.

Al riguardo sono memorabili, e rimangono esemplari, i testi di alcuni suoi discorsi: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri (Mt 19,22);... perché, anche se non hai ucciso o commesso adulterio o rubato o detto falsa testimonianza, non ti serve a nulla se non fai anche il resto: solo in tale modo potrai entrare nel regno di Dio» (S.Basilii «Homilia in divites»: PG 31,280b-281a). Chi infatti, secondo il comandamento di Dio, vuole amare il prossimo come se stesso (cfr. Lv 19,18; Mt 19,19), «non deve possedere niente di più di quello che possiede il suo prossimo» (S.Basilii «Homilia in divites» PG 31,281b).

E in modo ancora più appassionato, in tempo di carestia, esortava a «non mostrarsi più crudeli delle bestie,... col mettersi in seno ciò che è comune, e possedendo da soli ciò che è di tutti» (cfr. S.Basilii «Homilia tempore famis»: PG 31,325a).

Un radicalismo sconcertante e bellissimo, e un forte appello alla Chiesa di tutti i tempi a confrontarsi seriamente con il Vangelo.

Al Vangelo, che comanda l'amore e il servizio dei poveri, oltre che con queste parole Basilio rese testimonianza con opere immense di carità; come la costruzione, alle porte di Cesarea, di un gigantesco ospizio per i bisognosi (cfr. S.Basilii «Epistula» 94: PG 32,488bc): una vera città della misericordia che da lui prese il nome di Basiliade (cfr. Sozosemi «Historia Eccl.» VI,34: PG 67,1397a), anch'essa momento autentico dell'unico annuncio evangelico.

Fu lo stesso amore per il Cristo e il suo Vangelo, ciò che tanto lo fece soffrire delle divisioni della Chiesa e che con tanta perseveranza, sperando contra spem, gli fece ricercare con tutte le Chiese una comunione più efficace e manifesta (cfr. S.Basilii «Epistulae» 70 et 243).

E' la verità stessa del Vangelo, infatti, a essere oscurata dalla discordia dei cristiani, ed è il Cristo stesso a esserne lacerato (cfr. 1Cor 1,13). La divisione dei credenti contraddice la potenza dell'unico battesimo (cfr. Ef 4,4), che nel Cristo ci fa una sola cosa, anzi un'unica mistica persona (cfr. Gal 3,28); contraddice la sovranità del Cristo, unico re al quale tutti devono ugualmente essere soggetti; contraddice l'autorità e la forza unificante della parola di Dio, unica legge alla quale tutti i credenti devono concordemente ubbidire (cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 31,653a-656c).

La divisione delle Chiese è quindi un fatto così nettamente e direttamente anti-cristologico e anti-biblico, che secondo Basilio la via per la ricomposizione dell'unità può essere soltanto la ri-conversione di tutti al Cristo e alla sua parola (cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 31,660b-661a).

Nel multiforme esercizio del suo ministero Basilio si fece dunque, come prescriveva per tutti gli annunciatori della parola, «apostolo e ministro di Cristo, dispensatore dei misteri di Dio, araldo del regno, modello e regola di pietà, occhio del corpo della Chiesa, pastore delle pecore di Cristo, medico pietoso, padre e nutrice, cooperatore di Dio, agricoltore di Dio, costruttore del tempio di Dio» (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,12-21: PG 31,864b-868b).

E in tale opera e tale lotta - ardua, dolorosa, senza respiro - Basilio offrì la sua vita (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,18: PG 31,865c) e si consumò come olocausto.

Morì non ancora cinquantenne, consumato dalle fatiche e dall'ascesi.

3. Il magistero di san Basilio

Dopo avere così brevemente ricordato aspetti salienti della vita di Basilio e del suo impegno di cristiano e di Vescovo, sembra giusto che si tenti di attingere, dalla ricchissima eredità dei suoi scritti, almeno qualche indicazione suprema. Rimettersi alla sua scuola potrà dare luce per meglio affrontare i problemi e le difficoltà di questo stesso tempo, e quindi soccorrerci per il nostro presente e per il nostro futuro.

Non sembri astratto cominciare da ciò che egli ha insegnato riguardo alla santa Trinità: è certo, anzi, che non può esserci inizio migliore, almeno se ci si vuole adeguare al suo stesso pensiero.

D'altra parte, che cosa può imporsi maggiormente o essere più normativo per la vita, che il mistero della vita di Dio? Può esserci punto di riferimento più significativo e vitale di questo, per l'uomo?

Per l'uomo nuovo, che è conformato a questo mistero nella struttura intima del suo essere e del suo esistere; e per ogni uomo, lo sappia o no: poiché non c'è alcuno che non sia stato creato per il Cristo, il Verbo eterno, e non c'è alcuno che non sia chiamato, dallo Spirito e nello Spirito, a glorificare il Padre.

E' il mistero primordiale, la Trinità santa: poiché non è altro che il mistero stesso di Dio, dell'unico Dio vivo e vero.

Di questo mistero, Basilio proclama con fermezza la realtà: la triade dei nomi divini, dice, indica certo tre distinte ipostasi (cfr. S.Basilii «Adv. Eunomium», I: PG 29,529a). Ma con non minore fermezza ne confessa l'assoluta inaccessibilità.

Com'era lucida in lui, teologo sommo, la coscienza dell'infermità e inadeguatezza di ogni teologare!

Nessuno, diceva, è capace di farlo in modo degno, e la grandezza del mistero vince ogni discorso, cosicché neppure le lingue degli angeli possono attingerlo (cfr. S.Basilii «Homilia de fide»: PG 31,464b-465a).

Realtà abissale e imperscrutabile, dunque, il Dio vivente! Ma nondimeno Basilio sa di «doverne» parlare, prima e più che di ogni altra cosa. E così, credendo, parla (cfr. 2Cor 4,13): per forza incoercibile di amore, per obbedienza al comando di Dio, e per l'edificazione della Chiesa, che «non si sazia mai di udire tali cose» (S.Basilii «Homilia de fide»: PG 31,464cd).

Ma forse è più esatto dire che Basilio, da vero «teologo», più che parlare di questo mistero, lo canta.

Canta il Padre: «Il principio di tutto, la causa dell'essere di ciò che esiste, la radice dei viventi» (S.Basilii «Homilia de fide»: PG 31,465c), e soprattutto «Padre del nostro Signore Gesù Cristo» («Anaphora S.Basilii»). E come il Padre è primariamente in rapporto al Figlio, così il Figlio - il Verbo che si è fatto carne nel seno di Maria - è primariamente in rapporto al Padre.

Così dunque lo contempla e lo canta Basilio: nella «luce inaccessibile», nella «potenza ineffabile», nella «grandezza infinita», nella «gloria sovrasplendente» del mistero trinitario, Dio presso Dio (S.Basilii «Homilia de fide»: PG 31,465cd), «immagine della bontà del Padre e sigillo di forma a lui uguale» (cfr. «Anaphora S.Basilii»).

Solo in questo modo, confessando senza ambiguità il Cristo come «uno della santa Trinità» («Liturgia S.Ioannis Chrysostomi»), Basilio può poi vederlo con pieno realismo nell'annientamento della sua umanità. E come pochi altri sa far misurare l'infinito spazio da lui percorso alla nostra ricerca; come pochi sa far scrutare fin nell'abisso dell'umiiiazione di colui che «essendo nella forma di Dio, svuotò se stesso assumendo la forma di servo» (Fil 2,6ss)

Nell'insegnamento di Basilio, la cristologia della gloria non attenua per nulla la cristologia dell'umiliazione: anzi, serve a proclamare con forza ancora più grande quel contenuto centrale del Vangelo che è la parola della croce (cfr. 1Cor 1,18) e lo scandalo della croce (cfr. Gal 5,11).

Questo è, di fatto, uno schema abituale del suo discorso cristologico: è la luce della gloria, a rivelare il senso dell'abbassamento.

L'ubbidienza del Cristo è vero «Vangelo», cioè realizzazione paradossale dell'amore redentivo di Dio, proprio perché - e solo se - colui che ubbidisce è «il Figlio Unigenito di Dio, il Signore e Dio nostro, colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte» (S.Basilii «De iudicio»: PG 31,660b); ed è così che essa può piegare la nostra ostinata disubbidienza. Le sofferenze del Cristo, agnello immacolato che non ha aperto la bocca contro chi lo percuoteva (cfr. Is 53,7), hanno portata infinita e valore eterno e universale, proprio perché colui che così ha patito è «il creatore e sovrano del cielo e della terra, adorabile al di là di ogni creatura intellettuale e sensibile, colui che tutto sostiene con la parola della sua potenza» (cfr. Eb 1,3; S.Basilii «Homilia de ira»: PG 31,369b), ed è così che la passione del Cristo domina la nostra violenza e placa la nostra ira.

La croce, infine, è davvero la nostra «unica speranza» («Liturgia Horarum», "Hebdomada Sancta": Hymnus ad Vesperas) - non sconfitta, quindi, ma evento salvifico, «esaltazione» (cfr. Gv 8,32ss et alibi) e stupendo trionfo - solo perché colui che vi è stato inchiodato e vi è morto è «il Signore nostro e di tutti» (cfr. At 10,36; S.Basilii «De Baptismo», II,12: PG 31,1624b), «colui mediante il quale sono state fatte tutte le cose, le visibili e le invisibili, colui che possiede la vita come la possiede il Padre che gliel'ha data, colui che dal Padre ha ricevuto ogni potere» (S.Basilii «De Baptismo», II,13: PG 31,1625c); ed è così che la morte del Cristo ci libera da quel «timore della morte» del quale tutti eravamo schiavi (cfr. Eb 2,15).

«Da lui, il Cristo, rifulse lo Spirito Santo: lo Spirito della verità, il dono dell'adozione filiale, il pegno dell'eredità futura, la primizia dei beni eterni, la potenza vivificante, la sorgente della santificazione, da cui ogni creatura razionale e intellettuale riceve potenza di rendere culto al Padre e di elevare a lui la dossologia eterna» (cfr. «Anaphora S.Basilii»).

Questo inno dell'anafora di Basilio esprime bene, in sintesi, il ruolo dello Spirito nell'economia salvifica.

E' lo Spirito che, dato a ogni battezzato, in ciascuno opera carismi e a ciascuno ricorda gli insegnamenti del Signore (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1561a); è lo Spirito che anima tutta la Chiesa e la ordina e la vivifica con i suoi doni facendone tutte un corpo «spirituale» e carismatico (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto»: PG 32,181ab; «De iudicio»: PG 31,657c-660a).

Di qui, Basilio risaliva alla serena contemplazione della «gloria» dello Spirito, misteriosa e inaccessibile: confessandolo, al di sopra di ogni creatura (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto», 22), sovrano e signore poiché da lui siamo divinizzati (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto», 20ss), e Santo per essenza poiché da lui siamo santificati (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto», 9 et 18). Avendo così contribuito alla formulazione della fede trinitaria della Chiesa, Basilio ancora oggi parla al suo cuore e la consola, particolarmente con la luminosa confessione del suo Consolatore.

La luce sfolgorante del mistero trinitario non mette certo in ombra la gloria dell'uomo: anzi, massimamente la esalta e la rivela.

L'uomo infatti, non è rivale di Dio, follemente opposto a lui; e non è senza Dio, abbandonato alla disperazione della propria solitudine. Ma è riflesso di Dio e sua immagine.

Perciò, quanto più Dio risplende, tanto più ne riverbera la luce dall'uomo; quanto più Dio è esaltato, tanto più è innalzata la dignità dell'uomo.

E in questo modo, difatti, Basilio ha celebrato la dignità dell'uomo: vedendola tutta in rapporto a Dio, cioè derivata da lui e finalizzata a lui.

Essenzialmente per conoscere Dio l'uomo ha ricevuto l'intelligenza, e per vivere conforme alla sua legge ha ricevuto la libertà. Ed è in quanto immagine, che l'uomo trascende tutto l'ordine della natura e appare «più glorioso del cielo, più del sole, più dei cori degli astri: quale cielo, infatti, è chiamato immagine di Dio altissimo?» (S.Basilii «In Psalmum» 48: PG 29,449c).

Proprio per questo, la gloria dell'uomo è radicalmente condizionata al suo rapporto con Dio: l'uomo consegue in pienezza la sua dignità «regale» solo realizzandosi in quanto immagine, e diviene veramente se stesso solo conoscendo e amando colui per il quale ha la ragione e la libertà.

Già prima di Basilio, così si esprimeva mirabilmente sant'Ireneo: «La gloria di Dio è l'uomo vivente; ma la vita dell'uomo è la visione di Dio» (S.Irenaei «Adversus haereses», IV,20,7). L'uomo vivente è in se stesso glorificazione di Dio, in quanto raggio della sua bellezza, ma non ha «vita» se non attingendola da Dio, nel rapporto personale con lui. Fallire in questo compito, significherebbe per l'uomo tradire la propria vocazione essenziale, e pertanto negare e avvilire la propria dignità (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 48: PG 29,449b-452a).

E che altro è il peccato se non questo? Il Cristo stesso, infatti, non è forse venuto per restaurare e restituire la sua gloria a questa immagine di Dio che è l'uomo, cioè all'immagine che l'uomo, con il peccato, aveva ottenebrata (S.Basilii «Homilia de malo»: PG 31,333a), corrotta (S.Basilii «In Psalmum» 32: PG 29,344b), infranta? (S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1537a).

Proprio per questo - afferma Basilio con le parole della Scrittura - «il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi (Gv 1,14), e ha tanto umiliato se stesso da farsi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce» (cfr. Fil 2,8; S.Basilii «In Psalmum» 48: PG 29,452ab). Perciò, o uomo, «renditi conto della tua grandezza considerando il prezzo versato per te: guarda il prezzo del tuo riscatto, e comprendi la tua dignità!» (S.Basilii «In Psalmum» 48: PG 29,452b).

La dignità dell'uomo, dunque, è insieme nel mistero di Dio, e nel mistero della croce: è questo l'«umanesimo» di Basilio, o - potremmo dire più semplicemente - l'umanesimo cristiano.

Il restauro dell'immagine può dunque compiersi soltanto in virtù della croce del Cristo: «Fu la sua ubbidienza fino alla morte a divenire per noi redenzione dei peccatori, libertà dalla morte che regnava per la colpa originale, riconciliazione con Dio, potenza di piacere a Dio, dono di giustizia, comunione dei santi nella vita eterna, eredità del regno dei cieli» (S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1556b).

Ma questo, per Basilio, equivale a dire che tutto ciò si compie in virtù del battesimo.

Che cos'è, infatti, il battesimo, se non l'evento salvifico della morte del Cristo, nel quale siamo inseriti mediante la celebrazione del mistero? Il mistero sacramentale, «imitazione» della sua morte, ci immerge nella realtà della sua morte; come scrive Paolo: «O ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?» (Rm 6,3).

Basandosi appunto sulla misteriosa identità del battesimo con l'evento pasquale del Cristo, al seguito di Paolo anche Basilio insegna che essere battezzati altro non è se non essere realmente crocifissi - cioé inchiodati con il Cristo alla sua unica croce - realmente morire la sua morte, con lui essere sepolti nel suo seppellimento, e conseguentemente con lui risorgere della sua risurrezione (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2).

Coerentemente, perciò, egli può riferire al battesimo gli stessi titoli di gloria con cui l'abbiamo udito inneggiare alla croce: anch'esso è «riscatto dei prigionieri, remissione dei debiti, morte del peccato, rigenerazione dell'anima, abito di luce, inviolabile sigillo, veicolo per il cielo, titolo per il regno, dono della filiazione» (S.Basilii «In sanctum Baptisma»: PG 31,433ab). E' per esso, infatti, che si salda l'unione fra l'uomo e il Cristo, e che mediante il Cristo l'uomo è inserito nel cuore stesso della vita trinitaria: divenendo spirito perché nato dallo Spirito (cfr. S.Basilii «Moralia», XX,2: PG 31,736d; «Moralia», LXXX,22: PG 31,869a) e figlio perché rivestito del Figlio, in un rapporto altissimo con il Padre dell'Unigenito che è ormai divenuto anche, realmente, il Padre suo (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1564c-1565b).

Alla luce di una considerazione così vigorosa del mistero battesimale, si disvela a Basilio il senso stesso della vita cristiana. Del resto, come altrimenti comprendere questo mistero dell'uomo nuovo, se non fissando lo sguardo sul punto luminoso della sua nascita nuova, e sulla potenza divina che nel battesimo lo ha generato?

«Come si definisce il cristiano?», si chiede Basilio; e risponde: «Come colui che è generato da acqua e Spirito nel battesimo» (S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,868d).

Solo in ciò da cui siamo si rivela ciò che siamo, e ciò per cui siamo.

Creatura nuova, il cristiano, anche quando non ne è pienamente consapevole, vive una vita nuova; e nella sua realtà più profonda, anche se col suo agire lo rinnega, é trasferito in una patria nuova, sulla terra già reso celeste (cfr. S.Basilii «De Spiritu Sancto»: PG 32,157c; «In sanctum Baptisma»: PG 31,429b): perché l'operazione di Dio è infinitamente e infallibilmente efficace, e rimane sempre in qualche misura al di là di ogni smentita e contraddizione dell'uomo.

Resta, certo, il compito - ed è, in rapporto essenziale con il battesimo, il senso stesso della vita cristiana - di diventare quello che si è, adeguandosi alla nuova dimensione «spirituale» ed escatologica del proprio mistero personale. Come si esprime, con la consueta chiarezza, san Basilio: «Il significato e la potenza del battesimo è che il battezzato si trasformi nei pensieri, nelle parole e nelle opere, e che diventi - secondo la potenza che gli è stata elargita - quale è colui dal quale è stato generato» (S.Basilii «Moralia», XX,2: PG 31,736d).

L'eucaristia, compimento dell'iniziazione cristiana, è sempre considerata da Basilio in strettissimo rapporto con il battesimo.

Unico cibo adeguato al nuovo essere del battezzato e capace di sostenerne la vita nuova e di alimentarne le nuove energie (cfr. S.Basilii «De Baptismo» I,3: PG 31,1573b); culto in spirito e verità, esercizio del nuovo sacerdozio e sacrificio perfetto dell'Israele nuovo (cfr. S.Basilii «De Baptismo», II,2ss et 8: PG 31,1601c; S.Basilii «Epistula» 93: PG 32,485a), solo l'eucaristia attua in pienezza e perfeziona la nuova creazione battesimale.

Perciò, è mistero di immensa gioia - solo cantando vi si può partecipare (cfr. S.Basilii «Moralia»,XXI,4: PG 31,741a) - e di infinita, tremenda santità. Come si potrebbe, essendo in stato di peccato, trattare il corpo del Signore? (cfr. S.Basilii «De Baptismo», II,3: PG 31,1585ab). La Chiesa che comunica, dovrebbe davvero essere «senza macchia e ruga, santa e incontaminata» (Ef 5,27; S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,869b): cioé dovrebbe sempre, con vigile coscienza del mistero che celebra, esaminare bene se stessa (cfr. 1Cor 11,28; S.Basilii «Morali», XXI,2: PG 31,740ab), per purificarsi sempre più «da ogni contaminazione e impurità» (S.Basilii «De Baptismo» II,3: PG 31,1585ab).

D'altra parte, astenersi dal comunicare non è possibile: all'eucaristia infatti, necessaria per la vita eterna (cfr. S.Basilii «Moralia», XXI,1: PG 31,737c), è ordinato lo stesso battesimo, e il popolo dei battezzati deve essere puro proprio per partecipare all'eucaristia (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,869b).

Solo l'eucaristia del resto, vero memoriale del mistero pasquale del Cristo, è capace di tenere desta in noi la memoria del suo amore. Essa è perciò il segreto della vigilanza della Chiesa: le sarebbe troppo facile, altrimenti, senza la divina efficacia di questo richiamo continuo e dolcissimo, senza la forza penetrante di questo sguardo del suo sposo fissato su di lei, cadere nell'oblio, nell'insensibilità, nell'infedeltà. A questo scopo è stata istituita, secondo le parole del Signore: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24ss et par.); e a questo scopo, conseguentemente, deve essere celebrata.

Basilio non si stanca di ripeterlo: «Per ricordare (S.Basilii «Moralia», XXI,3: PG 31,740b); anzi, per ricordare sempre, «per il ricordo indelebile» (S.Basilii «Moralia», XXI,3: PG 31,1576d), «per custodire incessantemente il ricordo di colui che è morto e risorto per noi» (S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,1869b).

Solo l'eucaristia dunque, per disegno e dono di Dio, può veramente custodire nel cuore «il sigillo» (cfr. S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 5: PG 31,921b) di quel ricordo del Cristo che, stringendosi come in una morsa, ci impedisce di peccare. E' perciò particolarmente in rapporto all'eucaristia che Basilio riprende il testo di Paolo: «L'amore di Cristo ci stringe, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5,14ss).

Ma che cos'è poi questo vivere per il Cristo - o «vivere integralmente per Dio» - se non il contenuto stesso del patto battesimale? (cfr. S.Basilii «De Baptismo», II,1: PG 31,1581a).

Anche per questo aspetto, dunque, l'eucaristia appare essere la pienezza del battesimo: essa sola, infatti consente di viverlo con fedeltà e continuamente lo attualizza nella sua potenza di grazia.

Perciò Basilio non esita a raccomandare la comunione frequente, o addirittura quotidiana: «Comunicare anche ogni giorno ricevendo il santo corpo e sangue del Cristo è cosa buona e utile; poiché egli stesso dice chiaramente: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna" (Gv 6,54). Chi dunque dubiterà che comunicare continuamente alla vita non sia vivere in pienezza?» (S.Basilii «Epistula» 93: PG 32,484b).

Vero «cibo di vita eterna» capace di nutrire la vita nuova del battezzato è, come l'eucaristia, anche «ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; cfr. Dt 8,3; S.Basilii «De Baptismo», I,3: PG 31,1573bc).

E' Basilio stesso a stabilire con forza questo nesso fondamentale fra la mensa della parola di Dio e quella del corpo del Cristo (cfr. «Dei Verbum», 21). Benché in modo diverso, infatti, anche la Scrittura, come l'eucaristia, è divina, santa, e necessaria.

Veramente divina, afferma Basilio con singolare energia: cioé «di Dio» nel senso più proprio. Dio stesso l'ha ispirata (cfr. S.Basilii «De iudicio»: PG 31,664d; S.Basilii «De fide»: PG 31,677a; ecc...), Dio l'ha convalidata (cfr. S.Basilii «De fide»: PG 31,680b), Dio l'ha pronunciata mediante gli agiografi (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 13: PG 31,1092a; «Adv. Eunomium», II: PG 29,597c; ecc...) - Mosé, i profeti, gli evangelisti, gli apostoli (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,1: PG 31,1524d) - e soprattutto mediante il suo Figlio (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1561c); lui, l'unico Signore: sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 47: PG 31,1113a), certo con diversi gradi di intensità e diversa pienezza di rivelazione (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 276: PG 31,1276cd; «De Baptismo», I,2: PG 31,1545b), ma pure senza ombra di contraddizione (cfr. S.Basilii «De fide»: PG 31,692b).

Di sostanza divina benché fatta di parole umane, la Scrittura è perciò infinitamente autorevole: sorgente della fede, secondo la parola di Paolo (cfr. Rm 10,17; S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,868c), è il fondamento di una certezza piena, indubbia, non vacillante (S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,868c). Essendo tutta di Dio, è tutta, in ogni sua minima parte, infinitamente importante e degna di estrema attenzione (cfr. S.Basilii «In Hexaem.», VI: PG 29,144c; «In Hexaem.», VIII: PG 29,184c).

E per questo, anche, la Scrittura giustamente viene chiamata santa: poiché, come sarebbe terribile sacrilegio profanare l'eucaristia, sarebbe sacrilegio anche attentare all'integrità e alla purezza della parola di Dio.

Non la si può dunque intendere secondo categorie umane, ma alla luce dei suoi stessi insegnamenti, quasi «chiedendo al Signore stesso l'interpretazione delle cose da lui dette» (S.Basilii «De Baptismo», II,4: PG 31,1589b); e non si può «togliere né aggiungere nulla» a quei testi divini consegnati alla Chiesa per tutti i tempi, a quelle parole sante pronunciate da Dio una volta per tutte (cfr. S.Basilii «De fide»: PG 31,680ab; «Moralia», LXXX,22: PG 31,868c).

E' di necessità vitale, infatti, che il rapporto con la parola di Dio sia sempre adorante, fedele, e amante. Essenzialmente da essa la Chiesa deve attingere per il suo annuncio (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 115: PG 30,105c 108a), lasciandosi guidare dalle parole stesse del suo Signore (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1533c), per non rischiare di «ridurre a parole umane le parole della religione» (S.Basilii «Epistula» 140: PG 32,588b). E alla Scrittura deve riferirsi «sempre e dovunque» ogni cristiano per tutte le sue scelte (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 269: PG 31,1268c), facendosi di fronte ad essa «come un bambino» (cfr. Mc 10,15; S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 217: PG 31,1225bc; S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1560ab), in essa cercando il più efficace rimedio contro tutte le sue diverse infermità (cfr. S.Basilii «In Psalmum» 1: PG 29,209a), e non osando muovere un passo senza essere illuminato dai raggi divini di quelle parole (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 1: PG 31,1081a).

Autenticamente cristiano, tutto il magistero di Basilio è, come si è visto, «vangelo», proclamazione gioiosa della salvezza.

Non è forse piena di gioia e sorgente di gioia la confessione della gloria di Dio che si irradia sull'uomo sua immagine?

Non è stupendo l'annuncio della vittoria della croce, nella quale, «per la grandezza della pietà e la moltitudine delle misericordie di Dio» (S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 10: PG 31,1088c), i nostri peccati sono stati perdonati prima ancora che li commettessimo? (cfr. S.Basilii «Regulae bravius tractatae», 12: PG 31,1089b). Quale annuncio più consolante che quello del battesimo che ci rigenera, dell'eucaristia che ci nutre, della Parola che ci illumina?

Ma proprio per questo, per non avere taciuto o sminuito la potenza salvifica e trasformante dell'opera di Dio e delle «energie del secolo futuro» (cfr. Eb 6,5), Basilio può chiedere a tutti, con molta fermezza, amore totale per Dio, dedizione senza riserve, perfezione di vita evangelica (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,22: PG 31,869c).

Poiché, se il battesimo è grazia - e quale grazia! - quanti l'hanno conseguita hanno effettivamente ricevuto «il potere e la forza di piacere a Dio» (S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 10: PG 31,1088c), e sono perciò «tutti ugualmente tenuti a conformarsi a tale grazia», cioé a «vivere conforme al Vangelo» (S.Basilii «De Baptismo», II,1: PG 31,15980ac).

«Tutti ugualmente»: non ci sono cristiani di seconda categoria, semplicemente perché non ci sono battesimi diversi, e perché il senso della vita cristiana è tutto intrinsecamente contenuto nell'unico patto battesimale (S.Basilii «De Baptismo», II,1: PG 31,1580ac).

«Vivere conforme al Vangelo»: che cosa significa questo, in concreto, secondo Basilio?

Significa tendere, con tutta la brama del proprio essere (cfr. S.Basilii «Regulae brevius tractatae», 157: PG 31,1185a) e con tutte le nuove energie delle quali si dispone, a conseguire il «compiacimento di Dio» (cfr. S.Basilii «Moralia», I,5: PG 31,704a et passim)

Significa, per esempio, «non essere ricchi, ma poveri, secondo la parola del Signore» (cfr. S.Basilii «Moralia», XLVIII,3: PG 31,769a), realizzando così una condizione fondamentale per poterlo seguire (cfr. S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 10: PG 31,944d-945a) con libertà (cfr. S.Basilii «Regulaea fusius tractatae», 8: PG 31,940bc; «Regulae fusius tractatae», 237: PG 31,1241b), e manifestando, rispetto alla norma imperante del vivere mondano, la novità del Vangelo (cfr. S.Basilii «De Baptismo», I,2: PG 31,1544d). Significa sottomettersi totalmente alla parola di Dio, rinunciando alle «proprie volontà» (cfr. S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 6 et 41: PG 31,925c et 1021a) e facendosi ubbidienti, a imitazione del Cristo, «fino alla morte» (cfr. Fil 2,8; S.Basilii «Regulae fusius tractatae», 28: PG 31,989b; «Regulae brevius tractatae», 119: PG 31,1161d et passim).

Davvero, Basilio non arrossiva del Vangelo: ma, sapendo che esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (cfr. Rm 1,16) lo annunciava con quella integrità (cfr. S.Basilii «Moralia», LXXX,12: PG 31,864b) che lo fa essere pienamente parola di grazia e sorgente di vita.

Ci piace infine rilevare che san Basilio, anche se più sobriamente del fratello san Gregorio di Nissa e dell'amico san Gregorio di Nazianzo, celebra la verginità di Maria (cfr. S.Basilii «In sanctam Christi generationem», 5: PG 31,1468b): chiama Maria «profetessa» (cfr. S.Basilii «In Isaiam», 208: PG 30,477b) e con felice espressione così motiva il fidanzamento di Maria con Giuseppe: «Ciò avvenne perché la verginità fosse onorata e non fosse disprezzato il matrimonio» (cfr. S.Basilii «In sanctam Christi generationem», 3: PG 31,1464a).

L'anafora di san Basilio sopra ricordata contiene lodi eccelse alla «tutta santa, immacolata, ultrabenedetta e gloriosa Signora Madre-di-Dio e sempre-vergine Maria»; «Donna piena di grazia, esultanza di tutto il creato...»

4. Conclusione

Di questo grande santo e maestro tutti noi, nella Chiesa, ci gloriamo di essere discepoli e figli: riconsideriamo dunque il suo esempio, e riascoltiamo con venerazione i suoi insegnamenti, con intima disponibilità lasciandoci ammonire, confortare ed esortare.

Affidiamo questo nostro messaggio in modo particolare ai numerosi ordini religiosi - maschili e femminili - che si onorano del nome e della tutela di san Basilio e ne seguono la Regola, impegnandoli in questa felice ricorrenza a propositi di nuovo fervore in una vita di ascesi e contemplazione delle cose divine, che poi sovrabbondi in opere sante a gloria di Dio e a edificazione della santa Chiesa. Per il felice conseguimento di tali scopi, imploriamo anche l'aiuto materno della Vergine Maria, come auspicio di doni celesti e pegno della nostra benevolenza, con grande affetto vi impartiamo l'apostolica benedizione.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 2 gennaio, nella memoria dei santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, Vescovi e Dottori della Chiesa, dell'anno 1980, secondo di Pontificato.

 

 

ORIENTALE LUMEN


LETTERA APOSTOLICA
ORIENTALE LUMEN
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
PER LA RICORRENZA CENTENARIA DELLA ORIENTALIUM DIGNITAS
DI PAPA LEONE XIII

Venerati Fratelli,
Carissimi Figli e Figlie della Chiesa

1. La luce dell'Oriente ha illuminato la Chiesa universale, sin da quando è apparso su di noi «un sole che sorge» (Lc 1,78), Gesù Cristo, nostro Signore, che tutti i cristiani invocano quale Redentore dell'uomo e speranza del mondo.

Quella luce ispirava al mio Predecessore Papa Leone XIII la Lettera Apostolica Orientalium Dignitas con la quale egli volle difendere il significato delle tradizioni orientali per tutta la Chiesa [cfr. Leonis XIII Acta, 14 (1894), 358-370. Il Pontefice richiama la stima e l'aiuto concreto che la Santa Sede ha riservato alle Chiese Orientali e la volontà di tutelarne le specificità; inoltre Lett. ap.Praeclara gratulationis (20 giugno 1894), 1.c.,195-214; Lett. enc. Christi nomen (24 dicembre 1894), 1.c., 405-409].

Ricorrendo il centenario di quell'avvenimento e delle iniziative contemporanee con le quali questo Pontefice intendeva favorire la ricomposizione dell'unità con tutti i cristiani d'Oriente, ho voluto che un appello simile, arricchito dalle tante esperienze di conoscenza e d'incontro realizzatesi in quest'ultimo secolo, fosse rivolto alla Chiesa cattolica.

Poiché infatti crediamo che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la prima necessità per i cattolici e di conoscerla per potersene nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo dell'unità.

I nostri fratelli orientali cattolici sono ben coscienti di essere i portatori viventi, insieme con i fratelli ortodossi, di questa tradizione. E necessario che anche i figli della Chiesa cattolica di tradizione latina possano conoscere in pienezza questo tesoro e sentire così, insieme con il Papa, la passione perché sia restituita alla Chiesa e al mondo la piena manifestazione della cattolicità della Chiesa, espressa non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità contro l'altra; e perché anche a noi tutti sia concesso di gustare in pieno quel patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, I; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17] che si conserva e cresce nella vita delle Chiese d'Oriente come in quelle d'Occidente.

2. Il mio sguardo si rivolge all'Orientale Lumen che risplende da Gerusalemme (cfr. Is 60,1; Ap 21,10), la città nella quale il Verbo di Dio, fatto uomo per la nostra salvezza, ebreo «nato dalla stirpe di Davide» (Rm 1,3; 2Tm 2,8), morì e fu risuscitato. In quella città santa, mentre si compiva il giorno di Pentecoste e «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1), lo Spirito Paraclito fu inviato su Maria e i discepoli. Di lì il Buon Annuncio si irradiò nel mondo perché, ripieni dello Spirito Santo, «annunziavano la Parola di Dio con franchezza» (At 4,31). Di lì dalla madre di tutte le Chiese [S. Agostino, al riguardo, osserva: «Da dove la Chiesa ha avuto inizio? Da Gerusalemme», In Epistulam Ioannis, II, 2: PL 35,1990] il Vangelo fu predicato a tutte le nazioni, molte delle quali si gloriano di aver avuto in uno degli apostoli il primo testimone del Signore [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 23; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14]. In quella città le culture e le tradizioni più varie ebbero ospitalità nel nome dell'unico Dio (cfr. At 2,9-11). Nel volgerci ad essa con nostalgia e gratitudine ritroviamo la forza e l'entusiasmo per intensificare la ricerca dell'armonia in quell'autenticità e pluriformità che rimane l'ideale della Chiesa [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 4].

3. Un Papa, figlio di un popolo slavo, sente particolarmente nel cuore il richiamo di quei popoli verso i quali si volsero i due santi fratelli Cirillo e Metodio, esempio glorioso di apostoli dell'unità che seppero annunziare Cristo nella ricerca della comunione tra Oriente ed Occidente, pur tra le difficoltà che già talvolta contrapponevano i due mondi. Più volte mi sono soffermato sull'esempio del loro operato [cfr. Lett. ap. Egregiae virtutis (31 dicembre 1980): AAS 73 (1981), 258-262; Lett. enc. Slavorum Apostoli (2 giugno 1985), 12-14: AAS 77 (1985), 792-796], anche rivolgendomi a quanti ne sono i figli nella fede e nella cultura.

Queste considerazioni vogliono ora allargarsi per abbracciare tutte le Chiese orientali, nella varietà delle loro diverse tradizioni. Ai fratelli delle Chiese d'Oriente va il mio pensiero, nel desiderio di ricercare insieme la forza di una risposta agli interrogativi che l'uomo oggi si pone, ad ogni latitudine del mondo. Al loro patrimonio di fede e di vita intendo rivolgermi, nella coscienza che il cammino dell'unità non può conoscere ripensamenti ma è irreversibile come l'appello del Signore all'unità. «Carissimi, abbiamo questo compito comune, dobbiamo dire insieme fra Oriente e Occidente: Ne evacuetur Crux! (cfr. 1Cor 1,17). Non sia svuotata la Croce di Cristo, perché se si svuota la Croce di Cristo, l'uomo non ha più radici, non ha più prospettive: è distrutto! Questo è il grido alla fine del secolo ventesimo. E il grido di Roma, il grido di Costantinopoli, il grido di Mosca. E il grido di tutta la cristianità: delle Americhe, dell'Africa, dell'Asia, di tutti. E il grido della nuova evangelizzazione» [Discorso dopo la Via Crucis del Venerdi Santo (1· aprile 1994), 3: AAS 87 (1995), 88].

Alle Chiese d'Oriente si dirige il mio pensiero, come numerosi altri Papi fecero nel passato, sentendo rivolto anzitutto a sé il mandato di mantenere l'unità della Chiesa e di cercare instancabilmente l'unione dei cristiani dove fosse stata lacerata. Un legame particolarmente stretto già ci unisce. Abbiamo in comune quasi tutto [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14-18]; e abbiamo in comune soprattutto l'anelito sincero all'unità.

4. Giunge a tutte le Chiese, d'Oriente e d'Occidente, il grido degli uomini d'oggi che chiedono un senso per la loro vita. Noi vi percepiamo l'invocazione di chi cerca il Padre dimenticato e perduto (cfr. Lc 15,18-20; Gv 14,8). Le donne e gli uomini di oggi ci chiedono di indicare loro Cristo, che conosce il Padre e ce lo ha rivelato (cfr. Gv 8,55; 14,8-11). Lasciandoci interpellare dalle domande del mondo, ascoltandole con umiltà e tenerezza, in piena solidarietà con chi le esprime, noi siamo chiamati a mostrare con parole e gesti di oggi le immense ricchezze che le nostre Chiese conservano nei forzieri delle loro tradizioni. Impariamo dal Signore stesso che lungo il cammino si fermava tra la gente, l'ascoltava, si commuoveva quando li vedeva «come pecore senza pastore» (Mt 9,36; cfr. Mc 6,34). Da lui dobbiamo apprendere quello sguardo d'amore con il quale riconciliava gli uomini con il Padre e con se stessi, comunicando loro quella forza che sola è in grado di sanare tutto l'uomo.

Di fronte a questo appello le Chiese d'Oriente e di Occidente sono chiamate a concentrarsi sull'essenziale: «Non possiamo presentarci davanti a Cristo, Signore della storia, così divisi come ci siamo purtroppo ritrovati nel corso del secondo millennio. Queste divisioni devono cedere il passo al riavvicinamento e alla concordia; debbono essere rimarginate le ferite sul cammino dell'unità dei cristiani» [Discorso al Concistoro straordinario, 13 giugno 1994].

Al di là delle nostre fragilità dobbiamo volgerci a Lui, unico Maestro, partecipando alla sua morte, in modo da purificarci da quel geloso attaccamento ai sentimenti e alle memorie non delle grandi cose che Dio ha fatto per noi, ma delle vicende umane di un passato che pesa ancora fortemente sui nostri cuori. Lo Spirito renda limpido il nostro sguardo, perché insieme possiamo camminare verso l'uomo contemporaneo che attende il lieto annuncio. Se di fronte alle attese e alle sofferenze del mondo daremo una risposta concorde, illuminante, vivificante, contribuiremo davvero a un annuncio più efficace del Vangelo tra gli uomini del nostro tempo.

I

CONOSCERE L'ORIENTE CRISTIANO
UN'ESPERIENZA DI FEDE

5. «Nell'indagare la verità rivelata in oriente e in occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall'uno che non dall'altro, cosicché si può dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi» [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17].

Portando nel cuore le domande, le aspirazioni e le esperienze a cui ho accennato, la mia mente si volge al patrimonio cristiano dell'Oriente. Non intendo descriverlo né interpretarlo: mi metto in ascolto delle Chiese d'Oriente che so essere interpreti viventi del tesoro tradizionale da esse custodito. Nel contemplarlo appaiono ai miei occhi elementi di grande significato per una più piena ed integrale comprensione dell'esperienza cristiana e, quindi, per dare una più completa risposta cristiana alle attese degli uomini e delle donne di oggi. Rispetto a qualsiasi altra cultura, l'Oriente cristiano ha infatti un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della Chiesa nascente.

La tradizione orientale cristiana implica un modo di accogliere, di comprendere e di vivere la fede nel Signore Gesù. In questo senso essa è vicinissima alla tradizione cristiana d'Occidente che nasce e si nutre della stessa fede. Eppure se ne differenzia, legittimamente e mirabilmente, in quanto il cristiano orientale ha un proprio modo di sentire e di comprendere, e quindi anche un modo originale di vivere il suo rapporto con il Salvatore. Voglio qui avvicinarmi con rispetto e trepidazione all'atto di adorazione che esprimono queste Chiese, piuttosto che individuare questo o quel punto teologico specifico, emerso nei secoli in contrapposizione polemica nel dibattito tra Occidentali e Orientali.

L'Oriente cristiano fin dalle origini si mostra multiforme al proprio interno, capace di assumere i tratti caratteristici di ogni singola cultura e con un sommo rispetto di ogni comunità particolare. Non possiamo che ringraziare Dio, con profonda commozione, per la mirabile varietà con cui ha consentito di comporre, con tessere diverse, un mosaico così ricco e composito.

6. Vi sono alcuni tratti della tradizione spirituale e teologica, comuni alle diverse Chiese d'Oriente, che ne distinguono la sensibilità rispetto alle forme assolute della trasmissione del Vangelo nelle terre d'Occidente. Così li sintetizza il Vaticano II: «E noto a tutti con quanto amore i cristiani orientali compiano le sacre azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo Incarnato, morto e glorificato, nell'effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la santissima Trinità, fatti "partecipi della natura divina" (2Pt 1,4)» [Ibidem, 15].

In questi tratti si delinea la visione orientale del cristiano, il cui fine è la partecipazione alla natura divina mediante la comunione al mistero della santa Trinità. Vi si tratteggiano la «monarchia» del Padre e la concezione della salvezza secondo l'economia, quale la presenta la teologia orientale dopo Sant'Ireneo di Lione e quale si diffonde presso i Padri cappadoci [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, V,36,2: SCh 153/2,461; S. Basilio, Trattato sullo Spirito Santo, XV,36: PG 32,132; XVII,43, I.c., 148; XVIII, 47, I.c., 153].

La partecipazione alla vita trinitaria si realizza attraverso la liturgia e in modo particolare l'Eucaristia, mistero di comunione con il corpo glorificato di Cristo, seme di immortalità [cfr. S. Gregorio di Nissa, Discorso catechetico XXXVII: PG 45,97]. Nella divinizzazione e soprattutto nei sacramenti la teologia orientale attribuisce un ruolo tutto particolare allo Spirito Santo: per la potenza dello Spirito che dimora nell'uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è trasfigurata e il Regno di Dio è inaugurato.

L'insegnamento dei Padri cappadoci sulla divinizzazione è passato nella tradizione di tutte le Chiese orientali e costituisce parte del loro patrimonio comune. Ciò si può riassumere nel pensiero già espresso da Sant'Ireneo alla fine del II secolo: Dio si è fatto figlio dell'uomo, affinché l'uomo potesse divenire figlio di Dio [cfr. Contro le eresie, III,10,2: SCh 211/2,121; III,18,7, I.c., 365; III,19,1, I.c., 375; IV,20,4: SCh 100/2,635; IV 33,4, I.c., 811; V, Pref., SCh 153/2,15]. Questa teologia della divinizzazione resta una delle acquisizioni particolarmente care al pensiero cristiano orientale [Innestati in Cristo «gli uomini diventano dei e figli di Dio, ... la polvere e innalzata ad un tale grado di gloria da essere ormai uguale in onore e deità alla natura divina», Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, I: PG 150,505].

In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nella via del bene ha reso «somigliantissimi» al Cristo: i martiri e i santi [cfr. S.Giovanni Damasceno, Sulle immagini, I,19: PG 94,1249]. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il Virgulto di Jesse (cfr. Is 11,1). La sua figura è non solo la Madre che ci attende ma la Purissima che - realizzazione di tante prefigurazioni veterotestamentarie - è icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia, modello e sicura speranza per quanti muovono i loro passi verso la Gerusalemme del cielo [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987) 31-34: AAS 79 (1987), 402-406; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 15].

Pur accentuando fortemente il realismo trinitario e la sua implicazione nella vita sacramentale l'Oriente associa la fede nell'unità della natura divina alla inconoscibilità della divina essenza. I Padri orientali affermano sempre che è impossibile sapere ciò che Dio è, si può solo sapere che Egli è, poiché si è rivelato nella storia della salvezza come Padre, Figlio e Spirito Santo [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, II,28,3-6: SCh 294,274-284; S. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè: PG 44,377; S. Gregorio di Nazianzo, Sulla santa Pasqua, or. XLV, 3s: PG 36,625-630].

Questo senso della indicibile realtà divina si riflette nella celebrazione liturgica, dove il senso del mistero è colto così fortemente da parte di tutti i fedeli dell'Oriente cristiano.

«In oriente si trovano pure le ricchezze di quelle tradizioni spirituali, che sono state espresse specialmente dal monachesimo. Ivi infatti fin dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità monastica, che si estese poi all'occidente e dalla quale, come da sua fonte trasse origine la regola monastica dei latini e in seguito ricevette ripetutamente nuovo vigore. Perciò caldamente si raccomanda che i cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei padri orientali, le quali trasportano tutto l'uomo alla contemplazione delle cose divine» [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 15].

Vangelo, Chiese e culture

7. Già altre volte ho messo in evidenza che un primo grande valore vissuto particolarmente nell'Oriente cristiano consiste nell'attenzione ai popoli e alle loro culture, perché la Parola di Dio e la sua lode possano risuonare in ogni lingua. Su questo tema mi sono soffermato nella Lettera enciclica Slavorum Apostoli, ove rilevavo che Cirillo e Metodio «desiderarono diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e condividerne in tutto la sorte» [N. 9: AAS 77 (1985), 789-790]; «si trattava di un nuovo metodo di catechesi» [Ibidem, II, I.c., 791]. Nel fare questo essi espressero un atteggiamento molto diffuso nell'Oriente cristiano: «Incarnando il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che evangelizzavano, i Santi Cirillo e Metodio ebbero particolari meriti per la formazione e lo sviluppo di quella stessa cultura o, meglio, di molte culture» [Ibidem, 21, I.c., 802-803]. Rispetto e considerazione per le culture particolari si uniscono in essi alla passione per l'universalità della Chiesa, che instancabilmente si sforzano di realizzare. L'atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è rappresentativo, nell'antichità cristiana, di uno stile tipico di molte Chiese: la rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente comprensibile quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della Pentecoste.

In un tempo nel quale si riconosce come sempre più fondamentale il diritto di ogni popolo ad esprimersi secondo il proprio patrimonio di cultura e di pensiero, l'esperienza delle singole Chiese d'Oriente ci si presenta come un autorevole esempio di riuscita inculturazione.

Da questo modello apprendiamo che se vogliamo evitare il rinascere di particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo comprendere che l'annuncio del Vangelo deve essere, ad un tempo, profondamente radicato nella specificità delle culture ed aperto a confluire in una universalità che è scambio per il comune arricchimento.

Tra memoria e attesa

8. Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente; è come se l'uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue. A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in particolare le Chiese dell'Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica.

La Tradizione è patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli Apostoli che ne hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in una linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai Vescovi di oggi. Essa si articola nel patrimonio storico e culturale di ciascuna Chiesa, plasmato in essa dalla testimonianza dei martiri, dei padri e dei santi, nonché dalla fede viva di tutti i cristiani lungo i secoli fino ai nostri giorni. Si tratta non di una ripetizione immutata di formule, ma di un patrimonio che custodisce il vivo nucleo kerygmatico originario. E la Tradizione che sottrae la Chiesa al pericolo di raccogliere solo opinioni mutevoli e ne garantisce la certezza e la continuità.

Quando gli usi e le consuetudini propri di ciascuna Chiesa vengono intesi come pura immobilità, si rischia certo di sottrarre alla Tradizione quel carattere di realtà vivente, che cresce e si sviluppa, e che lo Spirito le garantisce proprio perché essa parli agli uomini di ogni tempo. E come già la Scrittura cresce con chi la legge [«Divina eloquia cum legente crescunt»: S. Gregorio Magno In Ezechiel, I,VII,8: PL 76,843], così ogni altro elemento del patrimonio vivo della Chiesa cresce nella comprensione dei credenti e si arricchisce di apporti nuovi, nella fedeltà e nella continuità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 8]. Solo una religiosa assimilazione, nell'obbedienza della fede, di ciò che la Chiesa chiama «Tradizione» consentirà a questa di incarnarsi nelle diverse situazioni e condizioni storico-culturali [cfr. Commissione Teologica lnternazionale, Interpretationis problema (ottobre 1989), II,1-2: EnVat 11, pp. 1717-1719]. La Tradizione non è mai pura nostalgia di cose o forme passate, o rimpianto di privilegi perduti, ma la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore che la inabita.

Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l'attesa escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito. Il Signore Gesù è venuto a morire per noi ed è risorto dai morti, mentre la creazione, salvata nella speranza, soffre ancora nelle doglie del parto (cfr. Rm 8,22); quello stesso Signore tornerà per consegnare il cosmo al Padre (cfr. 1Cor 15,28). Questo ritorno la Chiesa invoca, e di esso è testimone privilegiato il monaco e il religioso.

L'Oriente esprime in modo vivo le realtà della tradizione e dell'attesa. Tutta la sua liturgia, in particolare, è memoriale della salvezza e invocazione del ritorno del Signore. E se la Tradizione insegna alle Chiese la fedeltà a ciò che le ha generate, l'attesa escatologica le spinge al essere ciò che ancora non sono in pienezza e che il Signore vuole che diventino, e quindi a cercare sempre nuove vie di fedeltà, vincendo il pessimismo perché proiettate verso la speranza di Dio che non delude.

Dobbiamo mostrare agli uomini la bellezza della memoria, la forza che ci viene dallo Spirito e che ci rende testimoni perché siamo figli di testimoni; far gustare loro le cose stupende che lo Spirito ha disseminato nella storia; mostrare che è proprio la Tradizione a conservarle dando quindi speranza a coloro che, pur non avendo veduto i loro sforzi di bene coronati da successo, sanno che qualcun altro li porterà a compimento, allora l'uomo si sentirà meno solo, meno rinchiuso nell'angolo angusto del proprio operato individuale.

Il monachesimo come esemplarità di vita battesimale

9. Vorrei ora guardare il vasto paesaggio del cristianesimo d'Oriente da un'altura particolare, che permette di scorgerne molti tratti: il monachesimo.

In Oriente il monachesimo ha conservato una grande unità, non conoscendo, come in Occidente, la formazione dei diversi tipi di vita apostolica. Le varie espressioni della vita monastica, dal cenobitismo stretto, come lo concepivano Pacomio o Basilio, all'eremitismo più rigoroso di un Antonio o di un Macario l'egiziano, corrispondono più a stadi diversi del cammino spirituale che alla scelta tra diversi stati di vita. Tutti comunque si rifanno al monachesimo in sé, in qualsiasi forma esso si esprima.

Inoltre il monachesimo non è stato visto in Oriente soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo.

Quando Dio chiama in modo totale come nella vita monastica, allora la persona può raggiungere il punto più alto di quanto sensibilità, cultura e spiritualità sono in grado di esprimere. Ciò vale a maggior ragione per le Chiese orientali, per le quali il monachesimo costituì una esperienza essenziale e che ancora oggi mostra di fiorire in esse, non appena la persecuzione ha termine e i cuori possono levarsi in libertà verso i cieli. Il monastero è il luogo profetico in cui il creato diventa lode di Dio e il precetto della carità concretamente vissuta diventa ideale di convivenza umana, e dove l'essere umano cerca Dio senza barriere e impedimenti, diventando riferimento per tutti, portandoli nel cuore ed aiutandoli a cercare Dio.

Vorrei anche ricordare la fulgida testimonianza delle monache nell'Oriente cristiano. Essa ha indicato un modello di valorizzazione dello specifico femminile nella Chiesa, anche forzando la mentalità del tempo. Durante recenti persecuzioni, soprattutto nei paesi dell'Est europeo, quando molti monasteri maschili furono chiusi con violenza, il monachesimo femminile ha conservato accesa la fiaccola della vita monastica. Il carisma della monaca con le caratteristiche che le sono specifiche, è un segno visibile di quella maternità di Dio alla quale sovente si richiama la Scrittura santa.

Guarderò dunque al monachesimo, per individuare quei valori che sento oggi molto importanti per esprimere l'apporto dell'Oriente cristiano al cammino della Chiesa di Cristo verso il Regno. Senza essere esclusivi talvolta né della sola esperienza monastica né del patrimonio dell'Oriente, questi aspetti hanno spesso acquisito in esso una connotazione particolare. D'altronde noi stiamo cercando di valorizzare non l'esclusività ma l'arricchimento reciproco in ciò che l'unico Spirito ha suscitato nell'unica Chiesa di Cristo.

Il monachesimo è stato da sempre l'anima stessa delle Chiese orientali: i primi monaci cristiani sono nati in Oriente e la vita monastica è stata parte integrante del lumen orientale trasmesso in Occidente dai grandi Padri della Chiesa indivisa [Grande è stato l'influsso in Occidente della Vita di Antonio, scritta da S. Atanasio: PG 26,835-977. La ricorda, tra gli altri, S. Agostino nelle sue Confessiones, VIII, 6: CSEL 33,181-182. Le traduzioni di opere dei Padri orientali, tra le quali le Regole di S. Basilio: PG 31,889-1305; la Storia dei monaci d 'Egitto: PG 65,441-456, e gli Apoftegmi dei Padri del deserto: PG 65,72-440 segnarono il monachesimo in Occidente; cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, Epistula ad Fratres de Monte Dei: SCh 223,130-384].

I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese.

Tra Parola ed Eucaristia

10. Il monachesimo in modo particolare rivela che la vita è sospesa tra due vertici: la Parola di Dio e l'Eucaristia. Ciò significa che esso è sempre, anche nelle sue forme eremitiche, al contempo risposta personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e comunitario.

E la Parola di Dio il punta di partenza del monaco, una Parola che chiama, che invita; che personalmente interpella, come accadde agli Apostoli. Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce l'obbedienza, cioè l'ascolto che cambia la vita. Ogni giorno il monaco si nutre del pane della Parola. Privato di esso egli è come morto, e non ha più nulla da comunicare ai fratelli, perché la Parola è Cristo, al quale il monaco è chiamato a conformarsi.

Anche quando canta con i suoi fratelli la preghiera che santifica il tempo, egli continua la sua assimilazione della Parola. La ricchissima innografia liturgica, della quale vanno giustamente fiere tutte le Chiese dell'Oriente cristiano, non è che la continuazione della Parola letta, compresa, assimilata e finalmente cantata: quegli inni sono in gran parte delle sublimi parafrasi del testo biblico, filtrate e personalizzate attraverso l'esperienza del singolo e della comunità.

Di fronte all'abisso della divina misericordia al monaco non resta che proclamare la coscienza della propria povertà radicale, che diviene subito invocazione e grido di giubilo per una salvezza ancora più generosa, perché insperabile dall'abisso della propria miseria [cfr. ad esempio S. Basilio, Regola breve: PG 31,1079-1305; S. Giovanni Crisostomo, Sulla compunzione: PG 47 391-422; Omelie su Matteo, om. XV,3, PG 57,225-228; S. Gregorio di Nissa Sulle beatitudini, om. 3: PG 44,1219-1232]. Ecco perché l'invocazione di perdono e la glorificazione di Dio sostanziano gran parte della preghiera liturgica. Il cristiano è immerso nello stupore di questo paradosso, ultimo di una infinita serie, tutta magnificata con riconoscenza nel linguaggio della liturgia: l'Immenso si fa limite, una vergine partorisce; attraverso la morte Colui che è la vita sconfigge per sempre la morte, nell'alto dei cieli un corpo umano si asside alla destra del Padre.

Al culmine di questa esperienza orante sta l'Eucaristia, l'altro vertice indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel quale la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove essa torna a farsi evento.

Nell'Eucaristia si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di Colui che è offerente ed offerta: essi, partecipando ai Santi Misteri divengono «consanguinei» [cfr. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, IV: PG 150,584-585; Cirillo d'Alessandria, Trattato su Giovanni, 11: PG 74,561; ibidem, 12, 1.c., 564; S. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo om. LXXXII,5: PG 58,743-744] di Cristo, anticipando l'esperienza della divinizzazione nell'ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità.

Ma l'Eucaristia è anche ciò che anticipa l'appartenenza di uomini e cose alla Gerusalemme celeste. Essa svela così compiutamente la sua natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il monaco prosegue e porta a pienezza nella liturgia l'invocazione della Chiesa, la Sposa che supplica il ritorno dello Sposo in un «marana tha» continuamente ripetuto non solo a parole, ma con l'intera esistenza.

Una liturgia per tutto l'uomo e per tutto il cosmo

11. Nell'esperienza liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina il cammino e svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella Scrittura. Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di tratti che solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la loro piena destinazione. Ecco perché la liturgia è il cielo sulla terra e in essa il Verbo che ha assunto la carne permea la materia di una potenzialità salvifica che si manifesta in pienezza nei Sacramenti: lì la creazione comunica a ciascuno la potenza conferitale da Cristo. Così il Signore, immerso nel Giordano, trasmette alle acque una potenza che le abilita ad essere lavacro di rigenerazione battesimale [cfr. S. Gregorio di Nazianzo, Discorso XXXIX: PG 36,335-360].

In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'umanità salvata. Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità trasfigurata [cfr. Clemente di Alessandria, Il Pedagogo, III,1,1: SCh 158,12], si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi. Il tempo prolungato delle celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto esprime un progressivo immedesimarsi nel mistero celebrato con tutta la persona. E la preghiera della Chiesa diviene così già partecipazione alla liturgia celeste, anticipo della beatitudine finale.

Questa valorizzazione integrale della persona nelle sue componenti razionali ed emotive, nell'«estasi» e nell'immanenza, è di grande attualità, costituendo una mirabile scuola per la comprensione del significato delle realtà create: esse non sono né un assoluto, né un nido di peccato e di iniquità. Nella liturgia le cose svelano la propria natura di dono offerto dal Creatore all'umanità: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Se tutto ciò è segnato dal dramma del peccato, che appesantisce la materia e ne ostacola la trasparenza, questa è redenta nell'Incarnazione e resa pienamente teoforica, cioè capace di metterci in relazione con il Padre: questa proprietà è massimamente manifesta nei santi misteri, i Sacramenti della Chiesa.

Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la corporeità, che viene anzi valorizzata in pieno nell'atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra la sua intima natura di tempio dello Spirito e giunge ad unirsi al Signore Gesù, fatto anch'egli corpo per la salvezza del mondo. Né questo comporta una esaltazione assoluta di tutto quanto è fisico, perché conosciamo bene quale disordine abbia introdotto il peccato nell'armonia dell'essere umano. La liturgia rivela che il corpo, attraversando il mistero della Croce, è in cammino verso la trasfigurazione, la pneumatizzazione: sul monte Tabor Cristo lo ha mostrato splendente come è volere del Padre che torni ad essere.

Ed anche la realtà cosmica è convocata al rendimento di grazie, perché tutto il cosmo è chiamato alla ricapitolazione nel Cristo Signore. Si esprime in questa concezione un equilibrato e mirabile insegnamento sulla dignità, il rispetto e la finalità della creazione e del corpo umano in particolare. Esso, rigettato parimenti ogni dualismo ed ogni culto del piacere fine a se stesso, diventa luogo reso luminoso dalla grazia e quindi pienamente umano.

A chi cerca un rapporto di autentico significato con se stesso e con il cosmo, così spesso ancora sfigurato dall'egoismo e dall'ingordigia, la liturgia rivela la via verso l'equilibrio dell'uomo nuovo e invita al rispetto per la potenzialità eucaristica del mondo creato: esso è destinato ad essere assunto nell'Eucaristia del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio dell'altare.

Uno sguardo limpido alla scoperta di se stessi

12. A Cristo, l'Uomo-Dio, si volge lo sguardo del monaco: nel volto sfigurato di Lui, uomo del dolore, egli già scorge l'annuncio profetico del volto trasfigurato del Risorto. All'occhio contemplativo il Cristo si rivela come alle donne di Gerusalemme, salite a contemplare il misterioso spettacolo del Calvario. E così, formato a quella scuola, lo sguardo del monaco si abitua a contemplare Cristo anche nelle pieghe nascoste della creazione e nella storia degli uomini, essa pure compresa nel suo progressivo conformarsi al Cristo totale.

Lo sguardo progressivamente cristificato impara così a distaccarsi dall'esteriorità, dal turbine dei sensi da quanto cioè impedisce all'uomo quella lievità disponibile a lasciarsi afferrare dallo Spirito. Percorrendo questa strada egli si lascia riconciliare con Cristo in un incessante processo di conversione: nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore ricercata e donata, dove si apprende a far battere il cuore in armonia con il ritmo dello Spirito, eliminando ogni doppiezza o ambiguità. Questo divenire sempre più sobrio ed essenziale, più trasparente a se stesso, può farlo cadere nell'orgoglio e nell'intransigenza, se arriva a ritenere che ciò sia il frutto del suo sforzo ascetico. Il discernimento spirituale, nella continua purificazione, lo rende allora umile e mansueto, cosciente di percepire solo qualche tratto di quella verità che lo sazia, perché è dono dello Sposo, Lui solo pienezza di felicità.

All'uomo che cerca il significato della vita, l'Oriente offre questa scuola per conoscersi ed essere libero, amato da quel Gesù che disse: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). A chi cerca la guarigione interiore, egli dice di continuare a cercare: se l'intenzione è retta e la via onesta alla fine il volto del Padre si farà riconoscere, impresso com'è nelle profondità del cuore umano.

Un padre nello Spirito

13. Il percorso del monaco non è scandito in genere unicamente da uno sforzo personale, ma fa riferimento ad un padre spirituale, al quale si abbandona con fiducia filiale nella certezza che in lui si manifesta la tenera ed esigente paternità di Dio. Questa figura dà al monachesimo orientale una straordinaria duttilità: per l'opera del padre spirituale il cammino di ogni monaco è infatti fortemente personalizzato nei tempi, nei ritmi, nei modi della ricerca di Dio. Proprio perché il padre spirituale è il punto di raccordo e di ammonizzazione, ciò consente al monachesimo la più grande varietà di espressioni, cenobitiche ed eremitiche. Il monachesimo in Oriente ha così potuto essere realizzazione delle attese di ciascuna Chiesa nei vari periodi della sua storia [Significative sono, ad esempio, le esperienze di Antonio; cfr. S. Atanasio Vita di Antonio, 15: PG 26,865; di S. Pacomio, Les vies copres de saint Pakhome et ses successeurs, ed. L. Th. Lefort, Louvain 1943, p.3; e la testimonianza di Evagrio Il Pontico, Trattato pratico, 100: SCh 171,710].

In questa ricerca l'Oriente insegna in modo particolare che ci sono fratelli e sorelle ai quali lo Spirito ha elargito il dono della guida spirituale: essi sono punti di riferimento preziosi, perché guardano con l'occhio di amore che Dio tiene su di noi. Non si tratta di rinunciare alla propria libertà, per farsi gestire da altri: si tratta di trarre profitto dalla conoscenza del cuore, che è un vero carisma per essere aiutati, con dolcezza e fermezza a trovare la strada della verità. Il nostro mondo ha un estremo bisogno di padri. Spesso li ha rifiutati perché gli sembravano poco credibili, o il loro modello appariva ormai superato e poco attraente per la sensibilità corrente. Stenta tuttavia a trovarne di nuovi, e allora soffre nella paura e nell'incertezza, senza modelli e punti di riferimento. Colui che è padre nello Spirito, se è veramente tale - e il popolo di Dio ha sempre mostrato di saperlo riconoscere -, non farà uguali a se stesso, ma aiuterà a trovare la strada verso il Regno.

Certo, anche all'Occidente è dato il dono mirabile di una vita monastica, maschile e femminile, che custodisce il dono della guida nello Spirito ed attende di essere valorizzata. In quell'ambito e dovunque la grazia susciti tali preziosi strumenti di maturazione interiore, possano i responsabili coltivare e valorizzare un tale dono e tutti avvalersene: sperimenteranno così quale consolazione e quale sostegno sia la paternità nello Spirito per il loro cammino di fede [cfr. Giovanni Paolo II, Omelia ai Religiosi e alle Religiose (2 febbraio 1988), 6: AAS 80 (1988), 1111].

Comunione e servizio

14. Proprio nel progressivo distacco da ciò che nel mondo lo ostacola nella comunione col suo Signore, il monaco ritrova il mondo come luogo ove si riflette la bellezza del Creatore e l'amore del Redentore. Nella sua orazione il monaco pronuncia una epiclesi dello Spirito sul mondo ed è certo che sarà esaudito, perché essa partecipa della stessa preghiera di Cristo. E così egli sente nascere in sé un amore profondo per l'umanità, quell'amore che la preghiera in Oriente così spesso celebra come attributo di Dio, l'amico degli uomini che non ha esitato ad offrire suo Figlio perché il mondo fosse salvo. In questo atteggiamento è dato talora al monaco di contemplare quel mondo già trasfigurato dall'azione deificante del Cristo morto e risorto.

Qualunque sia la modalità che lo Spirito gli riserva, il monaco è sempre essenzialmente l'uomo della comunione. Con questo nome si è indicato fin dall'antichità anche lo stile monastico della vita cenobitica. Il monachesimo ci mostra come non vi sia autentica vocazione che non nasca dalla Chiesa e per la Chiesa. Ne è testimonianza l'esperienza di tanti monaci che, rinchiusi nelle loro celle, portano nella loro preghiera una straordinaria passione non solo per la persona umana ma per ogni creatura, nell'invocazione incessante affinché tutto si converta alla corrente salvifica dell'amore di Cristo. Questo cammino di liberazione interiore nell'apertura all'Altro fa del monaco l'uomo della carità. Alla scuola dell'apostolo Paolo che indica la pienezza della legge nella carità (cfr. Rm 13,10), la comunione monastica orientale è sempre stata attenta a garantire la superiorità dell'amore rispetto ad ogni legge.

Essa si manifesta anzitutto nel servizio ai fratelli nella vita monastica ma poi anche alla comunità ecclesiale, in forme che variano nei tempi e nei luoghi, e vanno dalle opere sociali alla predicazione itinerante. Le Chiese d'Oriente hanno vissuto con grande generosità questo impegno, a cominciare dalla evangelizzazione che è il servizio più alto che il cristiano possa offrire al fratello, per proseguire in molte altre forme di servizio spirituale e materiale. Si può anzi dire che il monachesimo sia stato nell'antichità - e, a varie riprese, anche in tempi successivi - lo strumento privilegiato per l'evangelizzazione dei popoli.

Una persona in relazione

15. La vita del monaco dà ragione dell'unità che esiste in Oriente fra spiritualità e teologia: il cristiano, e il monaco in particolare, più che cercare verità astratte, sa che solo il suo Signore è Verità e Vita, ma sa anche che egli è la Via (cfr. Gv 14,6) per raggiungere entrambe; conoscenza e partecipazione sono dunque un'unica realtà: dalla persona al Dio tripersonale attraverso l'Incarnazione del Verbo di Dio.

L'Oriente ci aiuta a delineare con grande ricchezza di elementi il significato cristiano della persona umana. Esso è centrato sull'Incarnazione, dalla quale trae luce la stessa creazione. In Cristo, vero Dio e vero uomo, si svela la pienezza dell'umana vocazione: perché l'uomo diventasse Dio il Verbo ha assunto l'umanità. L'uomo, che conosce continuamente il gusto amaro del suo limite e del suo peccato, non si abbandona allora alla recriminazione o all'angoscia perché sa che dentro di sé opera la potenza della divinità. L'umanità è stata assunta da Cristo senza separazione dalla natura divina e senza confusione [cfr. Symbolum Chalsedonense, DS 301-302], e l'uomo non è lasciato solo a tentare, in mille modi spesso frustrati, una impossibile scalata al cielo: vi è un tabernacolo di gloria, che è la persona santissima di Gesù il Signore, dove divino e umano si incontrano in un abbraccio che non potrà mai essere sciolto: il Verbo si è fatto carne, in tutto simile a noi eccetto il peccato. Egli versa la divinità nel cuore malato dell'umanità e, infondendovi lo Spirito del Padre, la rende capace di diventare Dio per grazia.

Ma se questo ci ha rivelato il Figlio, allora a noi è dato di accostarci al mistero del Padre, principio di comunione nell'amore. La Trinità Santissima ci appare allora come una comunità di amore: conoscere un simile Dio significa sentire l'urgenza che egli parli al mondo, che si comunichi, e la storia della salvezza non è che la storia d'amore di Dio per la creatura che egli ha amato e scelto, volendola «secondo l'icona dell'icona» - come si esprime l'intuizione dei Padri orientali [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, V,16,2: SCh 153/2,217; IV, 334: SCh 100/2,811; S. Atanasio, Contro i Gentili 2-3 e 34: PG 25,5-8 e 68-69; L'incarnazione del Verbo, 12-13: SCh 18,228-231], - cioè plasmata ad immagine dell'Immagine, che è il Figlio, condotta alla comunione perfetta dal santificatore, lo Spirito d'amore. E anche quando l'uomo pecca, questo Dio lo cerca e lo ama, perché la relazione non sia fratturata e l'amore continui a scorrere. E lo ama nel mistero del Figlio, che si lascia uccidere sulla croce da un mondo che non lo riconobbe, ma è risuscitato dal Padre, quale garanzia perenne che nessuno può uccidere l'amore, perché chiunque ne è partecipe è toccato dalla gloria di Dio: è quest'uomo trasformato dall'amore che i discepoli hanno contemplato sul Tabor, l'uomo che noi tutti siamo chiamati ad essere.

Un silenzio che adora

16. Eppure continuamente questo mistero si vela, si copre di silenzio [Il silenzio («hesychia») è una componente essenziale della spiritualità monastica orientale; cfr. Vita e detti dei Padri del Deserto: PG 65,72-456; Evagrio Il Pontico, Le basi della vita monastica: PC 40,1252-1264], per evitare che, in luogo di Dio, ci si costruisca un idolo. Solo in una purificazione progressiva della conoscenza di comunione, l'uomo e Dio si incontreranno e riconosceranno nell'abbraccio eterno la loro mai cancellata connaturalità d'amore.

Nasce così quello che viene chiamato l'apofatismo dell'Oriente cristiano: più l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza. Ciò non va confuso con un misticismo oscuro dove l'uomo si perde in enigmatiche realtà impersonali. Anzi, i cristiani d'Oriente si rivolgono a Dio come Padre, Figlio, Spirito Santo, persone vive, teneramente presenti, alle quali esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e semplice. Essi però percepiscono che a questa presenza ci si avvicina soprattutto lasciandosi educare ad un silenzio adorante, perché al culmine della conoscenza e dell'esperienza di Dio sta la sua assoluta trascendenza. Ad esso si giunge, più che attraverso una meditazione sistematica, mediante l'assimilazione orante della Scrittura e della liturgia.

In questa umile accettazione del limite creaturale di fronte all'infinita trascendenza di un Dio che non cessa di rivelarsi come il Dio-Amore, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nel gaudio dello Spirito Santo, io vedo espresso l'atteggiamento della preghiera e il metodo teologico che l'Oriente preferisce e continua ad offrire a tutti i credenti in Cristo.

Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo (cfr. Es 34, 33) e perché le nostre assemblee sappiano fare spazio alla presenza di Dio, evitando di celebrare se stesse; la predicazione, perché non si illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare all'esperienza di Dio; l'impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono. Ne ha bisogno l'uomo di oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; l'uomo che si stordisce nel rumore. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola.

II

DALLA CONOSCENZA ALL'INCONTRO

17. Trent'anni sono trascorsi da quando i Vescovi della Chiesa cattolica, riuniti in Concilio con la presenza di non pochi fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, hanno ascoltato la voce dello Spirito che illuminava verità profonde sulla natura della Chiesa, manifestando così che tutti i credenti in Cristo si trovavano molto più vicini di quanto potessero pensare, tutti in cammino verso l'unico Signore, tutti sostenuti e sorretti dalla sua grazia. Emergeva di qui un invito sempre più pressante all'unità.

Da allora molta strada si è fatta nella conoscenza reciproca. Essa ha intensificato la stima e ci ha consentito spesso di pregare insieme l'unico Signore ed anche gli uni per gli altri, in un cammino di carità che è già pellegrinaggio di unità.

Dopo gli importanti passi compiuti da Papa Paolo VI, ho voluto che si proseguisse sulla strada della reciproca conoscenza nella carità. Posso testimoniare la gioia profonda che ha suscitato in me l'incontro fraterno con tanti capi e rappresentanti di Chiese e Comunità ecclesiali in questi anni. Insieme abbiamo condiviso preoccupazioni e attese, insieme abbiamo invocato l'unione tra le nostre Chiese e la pace per il mondo. Ci siamo sentiti insieme più responsabili del bene comune, non solo come singoli ma a nome dei cristiani di cui il Signore ci ha fatto pastori. Talvolta a questa Sede di Roma sono giunti i pressanti appelli di altre Chiese, minacciate o colpite dalla violenza e dal sopruso. A tutte essa ha cercato di aprire il proprio cuore. Per loro, appena è stato possibile, si è levata la voce del Vescovo di Roma, perché gli uomini di buona volontà ascoltassero il grido di quei nostri fratelli sofferenti.

«Tra i peccati che esigono un maggior impegno di penitenza e di conversione devono essere annoverati certamente quelli che hanno pregiudicato l'unità voluta da Dio per il suo popolo. Nel corso dei mille anni che si stanno concludendo, ancor più che nel primo millennio, la comunione ecclesiale, "talora non senza colpa di uomini d'entrambe le parti" [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 3], ha conosciuto dolorose lacerazioni che contraddicono apertamente alla volontà di Cristo e sono di scandalo al mondo. Tali peccati del passato fanno sentire ancora, purtroppo, il loro peso e permangono come altrettante tentazioni anche nel presente. E necessario farne ammenda, invocando con forza il perdono di Cristo» [Giovanni Paolo II, Lett. ap.Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994), 34: AAS 87 (1995), 26].

Il peccato della nostra separazione è gravissimo: sento il bisogno che cresca la nostra comune disponibilità allo Spirito che ci chiama a conversione, ad accettare e riconoscere l'altro con rispetto fraterno, a compiere nuovi gesti coraggiosi, capaci di sciogliere ogni tentazione di ripiegamento. Sentiamo la necessità di andare oltre il grado di comunione che abbiamo raggiunto.

18. Si fa in me ogni giorno più acuto il desiderio di ripercorrere la storia delle Chiese, per scrivere finalmente una storia della nostra unità, e riandare così al tempo in cui, all'indomani della morte e della risurrezione del Signore Gesù, il Vangelo si diffuse nelle culture più varie, ed ebbe inizio uno scambio fecondissimo ancor oggi testimoniato dalle liturgie delle Chiese. Pur non mancando difficoltà e contrasti, le lettere degli Apostoli (cfr. 2Cor 9,11-14) e dei Padri [cfr. S. Clemente Romano, Lettera ai Corinti: Patres Apostolici, ed. F.X. Funk, I, 64-144; S. Ignazio d'Antiochia, Lettere, l.c., 172-252; S. Policarpo, Lettera ai Filippesi, I.c., 266-282] mostrano legami strettissimi, fraterni, tra le Chiese, in una piena comunione di fede nel rispetto delle specificità e delle identità. La comune esperienza del martirio e la meditazione degli atti dei martiri di ogni Chiesa, la partecipazione alla dottrina di tanti santi maestri della fede, in una profonda circolazione e condivisione, rafforzano questo mirabile sentimento di unità [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, I,10,2: SCh 264/2,158- 160]. Lo sviluppo di differenti esperienze di vita ecclesiale non impediva che, mediante reciproche relazioni, i cristiani potessero continuare a provare la certezza di essere a casa propria in qualsiasi Chiesa perché da tutte si levava, in mirabile varietà di lingue e di modulazioni, la lode dell'unico Padre, per Cristo, nello Spirito Santo; tutte erano adunate per celebrare l'Eucaristia, cuore e modello per la comunità non solo per quanto riguarda la spiritualità o la vita morale, ma anche per la struttura stessa della Chiesa, nella varietà dei ministeri e dei servizi sotto la presidenza del Vescovo, successore degli Apostoli [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 26; Cost. sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum concilium, 41; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 15]. I primi concili sono una testimonianza eloquente di questa perdurante unità nella diversità [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. A Concilio Constantinopolitano I (25 marzo 1981), 2: AAS 73 (1981), 515; Lett. ap. Duodecimum saeculum (4 dicembre 1987), 2 e 4: AAS 80 (1988), 242.243-244].

Ed anche quando si rafforzarono certe incomprensioni dogmatiche - amplificate spesso sotto l'influsso di fattori politici e culturali - che già portavano a dolorose conseguenze nei rapporti fra le Chiese, rimase vivo lo sforzo di invocare e promuovere l'unità della Chiesa. Nel primo intreccio del dialogo ecumenico lo Spirito Santo ci ha consentito di rinsaldarci nella fede comune, perfetta continuazione del kerygma apostolico, e di questo rendiamo grazie a Dio con tutto il cuore [cfr. Giovanni Paolo II, Omelia in S. Pietro, alla presenza di Demetrio I, Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca Ecumenico (6 dicembre 1987), 3: AAS 80 (1988), 713-714]. E se lentamente, già nei primi secoli dell'era cristiana, sono andate sorgendo contrapposizioni all'interno del corpo della Chiesa, non possiamo dimenticare che per tutto il primo millennio perdura, nonostante difficoltà, l'unità fra Roma e Costantinopoli. Abbiamo sempre meglio appreso che a lacerare il tessuto dell'unità non è stato tanto un episodio storico o una semplice questione di preminenza, ma un progressivo estraneamento, sicché l'altrui diversità non è più percepita come ricchezza comune, ma come incompatibilità. Anche quando il secondo millennio conosce un indurimento nella polemica e nella divisione, quanto più cresce l'ignoranza reciproca e il pregiudizio, non cessano tuttavia incontri costruttivi fra capi di Chiese desiderosi di intensificare i rapporti e di favorire gli scambi, così come non viene meno l'opera santa di uomini e donne che, riconoscendo nella contrapposizione un grave peccato ed essendo innamorati dell'unità e della carità, hanno tentato in molti modi di promuovere, con la preghiera, con lo studio e la riflessione, con l'incontro aperto e cordiale, la ricerca della comunione [cfr. ad esempio Anselmo di Havelberg, Dialoghi: PL 188,1139-1248]. E tutta quest'opera meritoria a confluire nella riflessione del Concilio Vaticano II e a trovare come un emblema nella abrogazione delle reciproche scomuniche del 1054 voluta dal Papa Paolo VI e dal Patriarca ecumenico Atenagora I [cfr. Tomos Agapis, Vatican-Phanar (1958-1970), Rome-Istanbul, 1971, pp.278-295].

19. Il cammino della carità conosce nuovi momenti di difficoltà in seguito ai recenti avvenimenti che hanno coinvolto l'Europa centrale e orientale. Fratelli cristiani che insieme avevano subito la persecuzione si guardano con sospetto e timore nel momento in cui si aprono prospettive e speranze di maggiore libertà: non è questo un nuovo, grave rischio di peccato che dobbiamo tutti, con ogni forza, tentare di vincere, se vogliamo che popoli in ricerca possano più agevolmente trovare il Dio dell'amore, anziché essere nuovamente scandalizzati dalle nostre lacerazioni e contrapposizioni? Quando, in occasione del Venerdì Santo 1994, Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I fece dono alla Chiesa di Roma della sua meditazione sulla «Via della Croce», ho voluto ricordare questa comunione nella recente esperienza del martirio: «Noi siamo uniti in questi martiri fra Roma, la "Montagna delle Croci" e le Isole Soloviesy e tanti altri campi di sterminio. Noi siamo uniti sullo sfondo dei martiri non possiamo non essere uniti» [Discorso dopo la Via Crucis del Venerdi Santo (1· aprile 1994): AAS 87 (1995), 87].

E dunque urgente che si prenda coscienza di questa gravissima responsabilità: oggi possiamo cooperare per l'annuncio del Regno o divenire fautori di nuove divisioni. Il Signore apra i nostri cuori, converta le nostre menti e ci ispiri passi concreti, coraggiosi, capaci se necessario di forzare luoghi comuni, facili rassegnazioni o posizioni di stallo. Se chi vuol essere primo è chiamato a farsi servo di tutti, allora dal coraggio di questa carità si vedrà crescere il primato dell'amore. Prego il Signore perché ispiri prima di tutto a me stesso ed ai Vescovi della Chiesa cattolica gesti concreti a testimonianza di questa interiore certezza. Lo chiede la natura più profonda della Chiesa. Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, sacramento della comunione, noi troviamo nel Corpo e nel Sangue condiviso il sacramento e l'appello alla nostra unità [cfr. Messale Romano, solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, orazione sopra le offerte; ibidem, preghiera eucaristica III; S. Basilio, Anafora alessandrina, ed. E. Renaudot, Liturgiarum Orientalium Collectio, I, Francoforte, 1847, p.68]. Come potremo essere pienamente credibili se ci presentiamo divisi davanti all'Eucaristia, se non siamo capaci di vivere la partecipazione allo stesso Signore che siamo chiamati ad annunciare al mondo? Di fronte alla reciproca esclusione dall'Eucaristia sentiamo la nostra povertà e l'esigenza di porre ogni sforzo affinché venga il giorno nel quale parteciperemo insieme dello stesso pane e del medesimo calice [cfr. Paolo VI, Messaggio ai Mechitaristi (8 settembre 1977): Insegnamenti 15 (1977), 812]. Allora l'Eucaristia tornerà ad essere pienamente percepita come profezia del Regno e riecheggeranno con piena verità queste parole tratte da una antichissima preghiera eucaristica: «Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra nel tuo regno» [Didachè, IX,4; Patres Apostolici, ed. F.X. Funk, I,22].

Esperienze di unità

20. Ricorrenze di particolare significato ci incoraggiano a rivolgere il nostro pensiero, con affetto e riverenza, alle Chiese orientali. Anzitutto, come si è detto, il centenario della Lettera apostolica «Orientalium Dignitas». Da allora ha avuto inizio un cammino che ha portato, tra l'altro, nel 1917, alla creazione della Congregazione per le Chiese Orientali [cfr. Motu proprio Dei providentis (1· maggio 1917): AAS 9 (1917), 529-531] e all'istituzione del Pontificio Istituto Orientale [cfr. Motu proprio Orientis Catholici (15 ottobre 1917), l.c., 531 -533] ad opera del Papa Benedetto XV. In seguito, il 5 giugno 1960, fu istituito da Giovanni XXIII il Segretariato per la promozione dell'unità dei Cristiani [cfr. Motu proprio Superno Dei nutu (5 giugno 1960), 9: AAS 52 (1960), 435-436]. In tempi recenti, il 18 ottobre 1990, ho promulgato il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [cfr. Cost. ap. Sacri canones (18 ottobre 1990): AAS 82 (1990), 1033-1044], perché fosse salvaguardata e promossa la specificità del patrimonio orientale.

Sono questi i segni di un atteggiamento che la Chiesa di Roma ha sempre sentito parte integrante del mandato affidato da Gesù Cristo all'apostolo Pietro: confermare i fratelli nella fede e nell'unità (cfr. Lc 22,32). I tentativi del passato avevano i loro limiti derivanti dalla mentalità dei tempi e dalla stessa comprensione delle verità sulla Chiesa. Ma vorrei qui riaffermare che questo impegno porta nella sua radice la convinzione che Pietro (cfr. Mt 16,17-19) intende porsi al servizio di una Chiesa unità nella carità. «Il compito di Pietro è di cercare costantemente le vie che servono al mantenimento dell'unità. Egli, dunque, non deve creare ostacoli, ma cercare delle vie. Il che non è affatto in contraddizione con il compito assegnatogli da Cristo di "confermare i fratelli nella fede" (cfr. Lc 22,32). Inoltre, è significativo che Cristo abbia pronunciato queste parole proprio quando l'apostolo stava per rinnegarlo. Era come se il Maestro stesso avesse voluto dirgli: "Ricordati che sei debole, che anche tu hai bisogno di un'incessante conversione. Puoi confermare gli altri in quanto hai coscienza della tua debolezza. Ti do come compito la verità, la grande verità di Dio destinata alla salvezza dell'uomo, ma questa verità non può essere predicata e realizzata in alcun altro modo che amando". E necessario, sempre, "veritatem facere in caritate" - far verità nella carità (cfr. Ef 4,15)» [Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, p. 168]. Oggi sappiamo che l'unità può essere realizzata dall'amore di Dio solo se le Chiese lo vorranno insieme, nel pieno rispetto delle singole tradizioni e della necessaria autonomia. Sappiamo che questo può compiersi solo a partire dall'amore di Chiese che si sentono chiamate a manifestare sempre maggiormente l'unica Chiesa di Cristo, nata da un solo battesimo e da una sola eucarestia, e che vogliono essere sorelle [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14]. Come ebbi modo di dire, «è una la Chiesa di Cristo; se ci sono divisioni si devono superare, ma la Chiesa è una, la Chiesa di Cristo fra l'Oriente e l'Occidente non può essere che una, una e unità» [Visita al Pont. Istituto Orientale, 12 dicembre 1993].

Certo, allo sguardo odierno appare che una vera unione era possibile solo nel pieno rispetto dell'altrui dignità, senza ritenere che il complesso degli usi e consuetudini della Chiesa latina fosse più completo o più adatto a mostrare la pienezza della retta dottrina; ed ancora che tale unione doveva essere preceduta da una coscienza di comunione che permeasse tutta la Chiesa e non si limitasse ad un accordo tra vertici. Oggi siamo coscienti - e lo si è più volte riaffermato - che l'unità si realizzerà come e quando il Signore vorrà, e che essa richiederà l'apporto della sensibilità e la creatività dell'amore, forse anche andando oltre le forme già storicamente sperimentate [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, 30].

21. Le Chiese orientali entrate nella piena comunione con questa Chiesa di Roma vollero essere una manifestazione di tale sollecitudine, espressa secondo il grado di maturazione della coscienza ecclesiale in quel tempo [cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio Magnum Baptismi donum (14 febbraio 1988), 4: AAS 80 (1988), 991-992]. Entrando nella comunione cattolica, esse non intendevano affatto rinnegare la fedeltà alla loro tradizione, che hanno testimoniato nei secoli con eroismo e spesso a prezzo del sangue. E se talvolta, nei loro rapporti con le Chiese ortodosse, si sono verificati malintesi e aperte contrapposizioni, tutti sappiamo di dover invocare incessantemente la divina misericordia e un cuore nuovo capace di riconciliazione, oltre ogni torto subito o inflitto.

Più volte si è ribadito che la già realizzata unione piena delle Chiese orientali cattoliche con la Chiesa di Roma non deve comportare per esse una diminuzione nella coscienza della propria autenticità ed originalità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, 24]. Qualora ciò fosse avvenuto, il Concilio Vaticano II le ha esortate a riscoprire in pieno la loro identità, avendo esse «il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari, poiché si raccomandano per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime» [Ibidem, 5]. Queste Chiese recano nella loro carne una drammatica lacerazione perché è impedita ancora una totale comunione con le Chiese orientali ortodosse, con le quali pur condividono il patrimonio dei loro padri. Una costante e comune conversione è indispensabile perché esse procedano risolutamente e con slancio in vista della reciproca comprensione. E conversione è richiesta anche alla Chiesa latina, perché rispetti e valorizzi in pieno la dignità degli Orientali ed accolga con gratitudine i tesori spirituali di cui le Chiese orientali cattoliche sono portatrici a vantaggio dell'intera comunione cattolica [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17; Giovanni Paolo II, Discorso al Concistoro Straordinario, 13 giugno 1994]; mostri concretamente, molto più che in passato, quanto stimi e ammiri l'Oriente cristiano e quanto essenziale consideri l'apporto di esso perché sia pienamente vissuta l'universalità della Chiesa.

Incontrarsi, conoscersi, lavorare insieme

22. Ho vivo il desiderio che le parole che San Paolo rivolgeva dall'Oriente ai fedeli della Chiesa di Roma risuonino oggi sulle labbra dei cristiani d'Occidente riguardo ai loro fratelli delle Chiese orientali: «Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo» (Rm 1,8). E subito appresso l'Apostolo delle genti dichiarava con entusiasmo il suo proposito: «Ho un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Ecco dunque delineata mirabilmente la dinamica dell'incontro: la conoscenza dei tesori di fede altrui - che ho cercato appena di tratteggiare - produce spontaneamente lo stimolo per un nuovo e più intimo incontro tra fratelli, che sia di vero e sincero scambio reciproco. E uno stimolo che lo Spirito suscita costantemente nella Chiesa e che si fa più insistente proprio nei momenti di maggiore difficoltà.

23. Sono peraltro ben cosciente che in questo momento alcune tensioni tra la Chiesa di Roma ed alcune Chiese d'Oriente rendono più difficile il cammino della stima reciproca in vista della comunione. Più volte questa Sede di Roma si è sforzata di emanare direttive che favoriscano il cammino comune di tutte le Chiese in un momento così importante per la vita del mondo, soprattutto nell'Europa Orientale, dove eventi storici drammatici hanno impedito spesso alle Chiese orientali, in tempi recenti, di realizzare in pienezza il mandato dell'evangelizzazione che pure sentivano impellente [cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi del Continente europeo (31 maggio 1991): AAS 84 (1992), 163-168; inoltre «Les principes généraux et normes pratiques pour coordonner l'évangélisation et l'engagement oecuménique de l'Église catholique en Russie et dans les autres Pays de la C.E.I.» (pubblicati dalla Pontificia Commissione Pro Russia il 1· giugno 1992)].

Situazioni di maggiore libertà offrono loro oggi rinnovate opportunità anche se i mezzi a loro disposizione sono limitati a causa delle difficoltà dei Paesi ove operano. Desidero affermare con forza che le comunità d'Occidente sono pronte a favorire in tutto - e non poche già operano in tal senso - l'intensificazione di questo ministero di diaconia, mettendo a disposizione di tali Chiese l'esperienza acquisita in anni di più libero esercizio della carità. Guai a noi se l'abbondanza dell'uno fosse causa dell'umiliazione dell'altro o di sterili e scandalose competizioni. Da parte loro le comunità d'Occidente si faranno un dovere anzitutto di condividere, ove possibile, progetti di servizio con i fratelli delle Chiese d'Oriente o di contribuire alla realizzazione di quanto esse intraprendono al servizio dei loro popoli e comunque mai ostenteranno, nei territori di presenza comune, un atteggiamento che possa apparire irrispettoso dei faticosi sforzi che le Chiese d'Oriente intendono compiere, con tanto maggior merito quanto più precarie sono le loro disponibilità.

Esprimere gesti di comune carità, l'una verso l'altra ed insieme verso gli uomini che si trovano in necessità, apparirà come un atto di immediata eloquenza. Evitare questo o addirittura testimoniare il contrario indurrà quanti ci osservano a credere che ogni impegno di riavvicinamento fra le Chiese nella carità è solo enunciazione astratta, senza convinzione e senza concretezza.

Sento fondamentale il richiamo del Signore ad operare in ogni modo perché tutti i credenti in Cristo testimonino insieme la propria fede, soprattutto nei territori dove più consistente è la convivenza fra figli della Chiesa cattolica - latini e orientali - e figli delle Chiese ortodosse. Dopo il comune martirio patito per Cristo sotto l'oppressione dei regimi atei, è giunto il momento di soffrire, se necessario, per non venire mai meno alla testimonianza della carità tra cristiani, perché se anche dessimo il nostro corpo per essere bruciato, ma non avessimo la carità, a nulla servirebbe (cfr. 1Cor 13,3). Dovremo pregare intensamente perché il Signore intenerisca le nostre menti e i nostri cuori e ci doni la pazienza e la mitezza.

24. Credo che un modo importante per crescere nella comprensione reciproca e nell'unità consista proprio nel migliorare la nostra conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica già conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché essi possano raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia delle Chiese d'Oriente [cfr. Congregazione per L'Educazione Cattolica, Istr. In ecclesiasticam futurorum (3 giugno 1979), 48: En Vat 6, p. 1080]; approfondire la conoscenza delle tradizioni spirituali dei Padri e dei Dottori dell'Oriente cristiano [cfr. Congregazione per l'Educazione Cattolica, Istr. Inspectis dierum (10 novembre 1989): AAS 82 (1990), 607-636]; prendere esempio dalle Chiese d'Oriente per l'inculturazione del messaggio del Vangelo; combattere le tensioni fra Latini e Orientali e stimolare il dialogo fra Cattolici e Ortodossi, formare in istituzioni specializzate per l'Oriente cristiano teologi, liturgisti, storici e canonisti che possano diffondere, a loro volta, la conoscenza delle Chiese d'Oriente; offrire nei seminari e nelle facoltà teologiche un insegnamento adeguato su tali materie, soprattutto per i futuri sacerdoti [cfr. Congregazione per L'Educazione Cattolica, Lett. circ. En égard au développement (6 gennaio 1987), 9-14: L'Osservatore Romano, 16 aprile 1987, p. 6]. Sono indicazioni sempre molto valide, sulle quali intendo insistere con particolare forza.

25. Oltre alla conoscenza, sento molto importante la frequentazione reciproca. Al riguardo, auspico che un'opera particolare esercitino i monasteri, proprio per il ruolo tutto speciale che riveste la vita monastica all'interno delle Chiese e per i molti punti che uniscono l'esperienza monastica, e quindi la sensibilità spirituale, in Oriente e in Occidente. Un'altra forma di incontro è costituita dall'accoglienza di docenti e studenti ortodossi presso le Università Pontificie ed altre istituzioni accademiche cattoliche. Continueremo a fare il possibile perché tale accoglienza possa assumere proporzioni maggiori. Dio benedica inoltre la nascita e lo sviluppo di luoghi destinati proprio all'ospitalità dei nostri fratelli d'Oriente, anche in questa città di Roma, che custodisce la memoria vivente e comune dei corifei degli Apostoli e di tanti martiri.

E importante che le iniziative d'incontro e di scambio coinvolgano nel modo e nelle forme più ampie le comunità ecclesiali: sappiamo ad esempio quanto positive possano risultare iniziative di contatto tra parrocchie, come «gemellate» per un reciproco arricchimento culturale e spirituale, anche nell'esercizio della carità.

Giudico molto positivamente le iniziative di pellegrinaggi comuni sui luoghi dove la santità si è espressa in modo particolare, nel ricordo di uomini e donne che in ogni tempo hanno arricchito la Chiesa del sacrificio della propria vita. In questa direzione sarebbe poi un atto di grande significato il pervenire al riconoscimento comune della santità di quei cristiani che negli ultimi decenni, in particolare nei paesi dell'Est europeo, hanno versato il sangue per l'unica fede in Cristo.

26. Un pensiero particolare va poi ai territori della diaspora dove vivono, in ambito a maggioranza latina, molti fedeli delle Chiese orientali che hanno lasciato le loro terre d'origine. Questi luoghi, dove più facile è il contatto sereno all'interno di una società pluralistica, potrebbero essere l'ambiente ideale per migliorare e intensificare la collaborazione fra le Chiese nella formazione dei futuri sacerdoti, nei progetti pastorali e caritativi, anche a vantaggio delle terre d'origine degli Orientali.

Agli Ordinari latini di quei Paesi raccomando in modo particolare lo studio attento, la piena comprensione e la fedele applicazione dei principi enunciati da questa Sede sulla collaborazione ecumenica [cfr. Pont. Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, Directoire pour l'application des principes et des normes sur l'Oecumenisme, V: AAS 85 (1993), 1096-1119] e sulla cura pastorale dei fedeli delle Chiese orientali cattoliche, soprattutto quando costoro sono sprovvisti di una propria Gerarchia.

Invito i Gerarchi e il clero orientale cattolico a collaborare strettamente con gli Ordinari latini per una pastorale efficace che non sia frammentaria, soprattutto quando la loro giurisdizione si estende su territori molto vasti ove l'assenza di collaborazione significa, in effetti, l'isolamento. I Gerarchi orientali cattolici non trascureranno alcun mezzo per favorire un clima di fraternità, di stima sincera e reciproca, e di collaborazione con i loro fratelli delle Chiese alle quali non ci unisce ancora una comunione piena, in particolare verso coloro che appartengono alla medesima tradizione ecclesiale.

Laddove in Occidente non vi fossero sacerdoti orientali per assistere i fedeli delle Chiese orientali cattoliche, gli Ordinari latini ed i loro collaboratori operino perché cresca in quei fedeli la coscienza e la conoscenza della propria tradizione, ed essi siano chiamati a cooperare attivamente, con il loro apporto specifico, alla crescita della comunità cristiana.

27. Con riferimento al monachesimo, in considerazione della sua importanza nel cristianesimo d'Oriente, desideriamo che esso rifiorisca nelle Chiese orientali cattoliche e siano incoraggiati quanti si sentono chiamati a operare per questo rafforzamento [cfr. Messaggio del Sinodo Generale Ordinario dei Vescovi, VII: «Appello alle Religiose e Religiosi delle Chiese Orientali» (27 ottobre 1994): L 'Osservatore Romano, 29 ottobre 1994, p.7]. Esiste infatti un intrinseco legame fra la preghiera liturgica, la tradizione spirituale e la vita monastica in Oriente. Proprio per questo, anche per loro una ripresa ben formata e motivata della vita monastica potrebbe significare una vera fioritura ecclesiale. Ne si dovrà pensare che ciò diminuisca l'efficacia del ministero pastorale, che anzi uscirà corroborata da una così robusta spiritualità e ritroverà in tal modo la sua collocazione ideale. Tale auspicio riguarda anche i territori della diaspora orientale, ove la presenza di monasteri orientali darebbe maggiore solidità alle Chiese orientali in quei Paesi, offrendo inoltre un prezioso apporto alla vita religiosa dei cristiani d'Occidente.

Camminare insieme verso l'«Orientale Lumen»

28. Nel concludere questa Lettera il mio pensiero va ai diletti fratelli i Patriarchi, i Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi, i Monaci e le Monache, gli uomini e le donne delle Chiese d'Oriente.

Sulla soglia del terzo millennio noi tutti sentiamo giungere alle nostre Sedi il grido degli uomini, schiacciati dal peso di minacce gravi eppure forse persino a loro insaputa, desiderosi di conoscere la storia d'amore voluta da Dio. Quegli uomini sentono che un raggio di luce, se accolto, può ancora disperdere le tenebre dall'orizzonte della tenerezza del Padre.

Maria, «Madre dell'astro che non tramonta» [Horologion, Inno Akathistos alla Santissima Madre di Dio, Ikos 5], «aurora del mistico giorno» [Ibidem], «oriente del Sole di gloria» [Horologion, Compieta della domenica (1· tono) nella liturgia bizantina], ci addita l'Orientale Lumen.

Da Oriente ogni giorno torna a sorgere il sole della speranza, la luce che restituisce al genere umano la sua esistenza. Da Oriente, secondo una bella immagine, tornerà il nostro Salvatore (cfr. Mt 24,27).

Gli uomini e le donne d'Oriente sono per noi segno del Signore che torna. Noi non possiamo dimenticarli, non solo perché li amiamo come fratelli e sorelle, redenti dallo stesso Signore, ma anche perché la nostalgia santa dei secoli vissuti nella piena comunione della fede e della carità ci urge, ci grida i nostri peccati, le nostre reciproche incomprensioni: noi abbiamo privato il mondo di una testimonianza comune che, forse avrebbe potuto evitare tanti drammi se non addirittura cambiare il senso della storia.

Noi sentiamo con dolore di non potere ancora partecipare alla medesima Eucaristia. Ora che il millennio si chiude e il nostro sguardo è tutto rivolto al Sole che sorge, li ritroviamo con gratitudine sul percorso del nostro sguardo e del nostro cuore.

L'eco del Vangelo, parola che non delude, continua a risuonare con forza, indebolita solo dalla nostra separazione: Cristo grida, ma l'uomo stenta a sentire la sua voce perché noi non riusciamo a trasmettere parole unanimi. Ascoltiamo insieme l'invocazione degli uomini che vogliono udire intera la Parola di Dio. Le parole dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze. Le nostre parole si incontreranno per sempre nella Gerusalemme del cielo, ma invochiamo e vogliamo che quell'incontro sia anticipato nella Santa Chiesa che ancora cammina verso la pienezza del Regno.

Voglia Dio far breve il tempo e lo spazio. Presto, molto presto Cristo, l'Orientale Lumen, ci conceda di scoprire che in realtà, nonostante tanti secoli di lontananza, eravamo vicinissimi, perché insieme, forse senza saperlo, camminavamo verso l'unico Signore, e quindi gli uni verso gli altri.

L'uomo del terzo millennio possa godere di questa scoperta, finalmente raggiunto da una parola concorde e per questo pienamente credibile, proclamata da fratelli che si amano e si ringraziano per le ricchezze che reciprocamente si donano. E così noi ci presenteremo a Dio con le mani pure della riconciliazione e gli uomini del mondo avranno una solida ragione in più per credere e per sperare.

Con questi voti imparto a tutti la mia Benedizione.

Dal Vaticano, il 2 maggio, memoria di S. Atanasio, Vescovo e Dottore della Chiesa, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato.

 

 

 

ORDINATIO SACERDOTALIS

LETTERA APOSTOLICA
ORDINATIO SACERDOTALIS
DEL PAPA GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI
DELLA CHIESA CATTOLICA
SULL'ORDINAZIONE SACERDOTALE
DA RISERVARSI SOLTANTO AGLI UOMINI

Venerabili Fratelli nell'Episcopato!

1. L'ordinazione sacerdotale, mediante la quale si trasmette l'ufficio che Cristo ha affidato ai suoi Apostoli di insegnare, santificare e governare i fedeli, è stata nella Chiesa cattolica sin dall'inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini. Tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali.

Quando sorse la questione dell'ordinazione delle donne presso la Comunione Anglicana, il Sommo Pontefice Paolo VI, in nome della sua fedeltà all'ufficio di custodire la Tradizione apostolica, ed anche allo scopo di rimuovere un nuovo ostacolo posto sul cammino verso l'unità dei cristiani, ebbe cura di ricordare ai fratelli anglicani quale fosse la posizione della Chiesa cattolica: «Essa sostiene che non è ammissibile ordinare donne al sacerdozio, per ragioni veramente fondamentali. Queste ragioni comprendono: l'esempio, registrato nelle Sacre Scritture, di Cristo che scelse i suoi Apostoli soltanto tra gli uomini; la pratica costante della Chiesa, che ha imitato Cristo nello scegliere soltanto degli uomini; e il suo vivente magistero, che ha coerentemente stabilito che l'esclusione delle donne dal sacerdozio è in armonia con il piano di Dio per la sua Chiesa» (cfr. Paolo VI, Rescritto alla lettera di Sua Grazia il Rev.mo Dott. F. D. Coggan, Arcivescovo di Canterbury, sul ministero sacerdotale delle donne, 30 novembre 1975: AAS 68 (1976), 599-600). Ma poiché anche tra teologi ed in taluni ambienti cattolici la questione era stata posta in discussione, Paolo VI diede mandato alla Congregazione per la Dottrina della Fede di esporre ed illustrare in proposito la dottrina della Chiesa. Ciò fu eseguito con la Dichiarazione Inter Insigniores, che il Sommo Pontefice approvò e ordinò di pubblicare (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insignores circa la questione dell'ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale, 15 ottobre 1976: AAS 69 (1977), 98-116).

2. La Dichiarazione riprende e spiega le ragioni fondamentali di tale dottrina, esposte da Paolo VI, concludendo che la Chiesa «non si riconosce l'autorità di ammettere le donne all'ordinazione sacerdotale» (Ibidem 100). A queste ragioni fondamentali il medesimo documento aggiunge altre ragioni teologiche che illustrano la convenienza di tale disposizione divina, e mostra chiaramente come il modo di agire di Cristo non fosse guidato da motivi sociologici o culturali propri del suo tempo. Come successivamente precisò il Papa Paolo VI, «la ragione vera è che Cristo, dando alla Chiesa la sua fondamentale costituzione, la sua antropologia teologica, seguita poi sempre dalla Tradizione della Chiesa stessa, ha stabilito così» (Paolo VI, Discorso su Il ruolo della donna del disegno della salvezza, 30 gennaio 1977: Insegnamenti, vol. XV, 1977, 111; cfr. anche Giovanni Paolo II Esortazione Apostolica Christifideles Laici, 30 dicembre 1988, n. 51: AAS 81 (1989), 393-521; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1577). Nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, io stesso ho scritto a questo proposito: «Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo» (Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem, 15 agosto 1988, n. 26: AAS 80 (1988), 1715).

Infatti i Vangeli e gli Atti degli Apostoli attestano che questa chiamata è stata fatta secondo l'eterno disegno di Dio: Cristo ha scelto quelli che egli ha voluto (cfr. Mc 3,13-14; Gv 6,70), e lo ha fatto in unione col Padre, «nello Spirito Santo» (At 1,2), dopo aver passato la notte in preghiera (cfr. Lc 6,12). Pertanto, nell'ammissione al sacerdozio ministeriale (cfr. Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 28; Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 2b), la Chiesa ha sempre riconosciuto come norma perenne il modo di agire del suo Signore nella scelta dei dodici uomini che Egli ha posto a fondamento della sua Chiesa (cfr. Ap 21,14). Essi, in realtà, non hanno ricevuto solamente una funzione, che in seguito avrebbe potuto essere esercitata da qualunque membro della Chiesa, ma sono stati specialmente ed intimamente associati alla missione dello stesso Verbo incarnato (cfr. Mt 10,1.7-8; 28,16-20; Mc 3,13-16; 16,14-15). Gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori (cfr. 1Tm 3,1-13; 2Tm 1,6; Tt 1,5-9) che sarebbero ad essi succeduti nel ministero (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1577). In tale scelta erano inclusi anche coloro che, attraverso i tempi della Chiesa, avrebbero proseguito la missione degli Apostoli di rappresentare Cristo Signore e Redentore (cfr. Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 20 e n. 21).

3. D'altronde, il fatto che Maria Santissima, Madre di Dio e della Chiesa, non abbia ricevuto la missione propria degli Apostoli né il sacerdozio ministeriale mostra chiaramente che la non ammissione delle donne all'ordinazione sacerdotale non può significare una loro minore dignità né una discriminazione nei loro confronti, ma l'osservanza fedele di un disegno da attribuire alla sapienza del Signore dell'universo.

La presenza e il ruolo della donna nella vita e nella missione della Chiesa, pur non essendo legati al sacerdozio ministeriale, restano comunque assolutamente necessari e insostituibili. Come è stato rilevato dalla stessa Dichiarazione Inter Insigniores, «la Santa Madre Chiesa auspica che le donne cristiane prendano pienamente coscienza della grandezza della loro missione: il loro ruolo sarà oggigiorno determinante sia per il rinnovamento e l'umanizzazione della società, sia per la riscoperta, tra i credenti, del vero volto della Chiesa» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI: AAS 69 (1977), 115-116). Il Nuovo Testamento e tutta la storia della Chiesa mostrano ampiamente la presenza nella Chiesa di donne, vere discepole e testimoni di Cristo nella famiglia e nella professione civile, oltre che nella consacrazione totale al servizio di Dio e del Vangelo. «La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per quelle che, fedeli al Vangelo, in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto il popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno trasmesso la fede e la tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem, n. 27: AAS 80 (1988), 1719).

D'altra Parte è alla santità dei fedeli che è totalmente ordinata la struttura gerarchica della Chiesa. Perciò, ricorda la Dichiarazione Inter Insigniores, «il solo carisma superiore, che si può e si deve desiderare, è la carità (cfr. 1Cor 12-13). I più grandi nel Regno dei cieli non sono i ministri, ma i santi» (Congreagazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI: AAS 69 (1977), 115).

4. Benché la dottrina circa l'ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare.

Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli (cfr. Lc 22,32), dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa.

Invocando su di voi, venerabili Fratelli, e sull'intero popolo cristiano il costante aiuto divino, a tutti imparto l'Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, il 22 maggio, Solennità di Pentecoste, dell'anno 1994, sedicesimo di Pontificato.

 

 

OPEROSAM DIEM

LETTERA APOSTOLICA
OPEROSAM DIEM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AL CARDINALE ARCIVESCOVO E AL CLERO
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI
DELL'ARCIDIOCESI MILANESE
NEL XVI CENTENARIO
DELLA MORTE DI SANT'AMBROGIO
VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

Al Venerato Fratello
Carlo Maria Cardinale Martini
Arcivescovo di Milano

1. Il 4 aprile 397 Ambrogio di Milano concludeva la sua laboriosa giornata terrena generosamente spesa a servizio della Chiesa. Negli ultimi giorni, ricorda il suo segretario e biografo Paolino, « aveva visto il Signore Gesù venire a lui e sorridergli... E proprio quando ci lasciò per volare al Signore, dalle ore cinque del pomeriggio fino all'ora in cui rese l'anima, pregò con le braccia aperte in forma di croce ». (1) Era l'alba del Sabato Santo. Il Vescovo lasciava questa terra per unirsi a Cristo Signore, che egli aveva intensamente desiderato e amato.

Avvicinandosi la XVI ricorrenza centenaria di quel giorno, Ella, signor Cardinale, mi ha chiesto che la morte del grande Pastore possa essere commemorata con la celebrazione di un « Anno Santambrosiano », e che all'evento sia dedicata una speciale Lettera apostolica.

Mi è assai gradito accedere al Suo desiderio, perché, come Ella ha scritto, sant'Ambrogio è stato ed è un dono per l'intera Chiesa, alla quale ha lasciato un tesoro singolarmente ricco di dottrina e di santità.

2. Tutto in lui si compose in armonia e trovò unità nel servizio episcopale, compiuto con dedizione senza riserve. « Chiamato all'episcopato dal frastuono delle liti del foro e dal temuto potere della pubblica amministrazione », (2) Ambrogio modellò la sua vita sulle esigenze di quel ministero che la Provvidenza gli poneva nelle mani e nel cuore; ad esso dedicò le sue energie, la sua esperienza e le sue ricche doti e capacità. Pastore forte e mite insieme, uomo del monito e uomo del perdono, deciso contro l'errore e paziente con gli erranti, esigente coi sovrani e rispettoso dello Stato, in rapporto con gli imperatori e vicino al suo popolo, studioso profondo e instancabile uomo d'azione, Ambrogio si staglia sullo sfondo delle tormentate vicende del suo tempo come figura di straordinario rilievo, il cui influsso, valicati i secoli, permane vivo anche oggi. (3)

La commemorazione centenaria della sua morte, iniziando il 6 dicembre prossimo, coinciderà praticamente con l'anno 1997 che, secondo le indicazioni date nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, apre la seconda fase preparatoria del grande Giubileo del 2000. (4) È in questa prospettiva che vorrei soffermarmi a riflettere sulla persona e sull'opera di sant'Ambrogio per trarne ulteriori stimoli spirituali in vista di quella storica scadenza. Confido infatti che il ricordo di così insigne Pastore, ravvivato dalla celebrazione dell'« Anno Santambrosiano », aiuti codesta diletta Arcidiocesi ad entrare in modo sempre più profondo nello spirito della preparazione della ricorrenza due volte millenaria della nascita di Cristo.

I

AMBROGIO VESCOVO

3. Per la Chiesa di Milano sarà certamente motivo di gioia mettersi in ascolto con rinnovato interesse del suo antico Pastore, e quasi rifare l'esperienza di quegli innumerevoli fedeli — umili o altolocati, anonimi o illustri — che si lasciarono illuminare dalla sua parola e, guidati da lui, raggiunsero Cristo. Passato e presente si intrecciano nella fede vissuta di ciascuna comunità ecclesiale. È proprio dei Santi, infatti, restare misteriosamente « contemporanei » di ogni generazione: è la conseguenza del loro profondo radicarsi nell'eterno presente di Dio. Ambrogio, in qualche modo, parla ancora dalla cattedra milanese, e la sua voce è accolta e desiderata da tutta la Chiesa. Mossi da questa consapevolezza, vogliamo cercare di raccoglierne i tratti salienti, per meglio aprirci alla sua testimonianza e al suo messaggio. A questa riscoperta ci spinge anche l'amore che la Chiesa inculca verso coloro che, eminenti per santità e dottrina nei primi secoli cristiani, a ragione vengono chiamati e sono « padri » nella fede. Ambrogio lo è a titolo davvero speciale.

4. È a tutti nota la singolarità della sua elezione, che il biografo Paolino attribuisce all'ispirata iniziativa di un fanciullo, a cui peraltro corrispose la piena fiducia del popolo e del clero e, successivamente, la soddisfazione dello stesso imperatore. (5) Ambrogio, nato da genitori cristiani, ma rimasto catecumeno secondo un uso non infrequente nelle famiglie ragguardevoli del tempo, aveva percorso con onore la carriera politica, prima a Sirmio nella prefettura d'Italia, di Illirico e d'Africa, quindi a Milano come consularis, con la responsabilità di governo della provincia di Emilia - Liguria. Qui aveva potuto constatare la grave situazione della Chiesa milanese, disorientata dal governo quasi ventennale del Vescovo ariano Aussenzio, divisa e fortemente provata dal diffondersi di questa eresia.

5. Ritenendosi impreparato ad assumere l'ufficio episcopale, egli tentò ripetutamente di sottrarsi a quella nomina, ma alla fine si piegò all'insistenza del popolo che, avendolo apprezzato per l'equanimità e la dirittura nell'incarico di governatore, nutriva fondata fiducia nella sua capacità di guidare con saggezza la comunità ecclesiale. Accettò quindi di ricevere il battesimo, che gli fu amministrato da un Vescovo cattolico il 30 novembre 374; e il 7 dicembre successivo fu ordinato Vescovo. (6)

Nei primi anni, con intima sofferenza e schietta umiltà, dovette riconoscere il contrasto fra la sua impreparazione specifica e il dovere impellente di insegnare ai fedeli e di operare le necessarie scelte pastorali. (7) Ma volle subito gettare le basi di un'accurata preparazione teologica e, con il consiglio e il sostegno del presbitero Simpliciano, che fu poi suo successore nella sede di Milano, si dedicò con cura allo studio biblico e teologico, approfondendo le Scritture e attingendo alle fonti più autorevoli dei grandi Padri e scrittori ecclesiastici antichi, sia latini che greci, primo fra tutti Origene, suo costante maestro e ispiratore.

Nelle omelie e negli scritti Ambrogio in gran parte riproponeva quanto aveva intelligentemente assimilato, ma insieme lo arricchiva col suo genio, rinvigorendo l'esposizione, coniando formule sintetiche particolarmente efficaci e introducendo concreti adattamenti alla situazione dei suoi ascoltatori e lettori. Così, dallo studio costantemente ravvivato della dottrina cattolica, nasceva un ricco e fruttuoso insegnamento e insieme si dispiegava un'articolata azione pastorale.

6. Subito Ambrogio volle accogliere quanti si erano sbandati dietro all'arianesimo. Di regola non cercava di strapparli bruscamente alle spire dell'eresia, neppure quando si trattava di membri del clero, (8) e ciò non per un improvvido compromesso, ma con il lodevole intento di promuovere un'adesione convinta alla retta fede trinitaria attraverso una predicazione rigorosa e articolata. E fra il 378 e il 382 divulgò il frutto di quegli insegnamenti nei trattati De fide, De Spiritu Sancto e De incarnationis dominicae sacramento.

Gli esiti positivi di questa strategia pastorale si toccarono con mano quando, nella primavera del 385 e soprattutto in quella dell'anno seguente, l'autorità imperiale fomentò l'opposizione ariana e pretese per essa la cessione di una basilica. La gente allora si strinse attorno al Vescovo, mostrando quanto efficace fosse stata la sua parola e, al tempo stesso, quanto falsamente gonfiata fosse l'esigenza avanzata dalla corte. In quei frangenti i commercianti sopportarono persino tasse imposte proprio con l'intento di staccarli dal Vescovo: ma non lo vollero privare del proprio sostegno. (9) E quando si giunse a minacciare Ambrogio e ad accerchiare le chiese, il popolo vegliò insieme al suo Pastore, condividendone la trepidazione, la lotta, la preghiera. Alla fine l'autorità imperiale cedette, e il Vescovo poteva confidare alla sorella Marcellina: « Quale fu, allora, l'allegrezza di tutta la gente, quale il plauso di tutto il popolo, quale la riconoscenza! ». (10) Eletto per la decisa volontà dei Milanesi, Ambrogio seppe coltivare un'intesa profonda con la sua comunità, mirabilmente ancorandola ai princìpi della fede cattolica.

7. Nella società romana in disfacimento, non più sorretta dalle antiche tradizioni, era inoltre necessario ricostruire un tessuto morale e sociale che colmasse il pericoloso vuoto di valori che si era venuto creando. Il Vescovo di Milano volle dar risposta a queste gravi esigenze, non operando soltanto all'interno della comunità ecclesiale, ma allargando lo sguardo anche ai problemi posti dal risanamento globale della società. Consapevole della forza rinnovatrice del Vangelo, vi attinse concreti e forti ideali di vita e li propose ai suoi fedeli, perché ne nutrissero la propria esistenza e facessero così emergere, a servizio di tutti, autentici valori umani e sociali.

Non esitò quindi a manifestare la sua chiara opposizione, quando nel 384 il praefectus Urbi Simmaco avanzò all'imperatore Valentiniano II la domanda di ripristinare in Senato la statua della dea Vittoria. A chi pensava di salvare la « romanità » facendo ritorno a simboli e pratiche ormai desuete e senza vita, Ambrogio obiettò che la tradizione romana, con i suoi antichi valori di coraggio, di dedizione e di onestà, poteva essere assunta e rivitalizzata proprio dalla religione cristiana. Il vecchio culto pagano — notava il Vescovo di Milano — accomunava Roma ai barbari proprio e solo nell'ignoranza di Dio; (11) ma ora che finalmente la grazia si è diffusa tra i popoli, « a buon diritto è stata preferita la verità ». (12)

8. La forza rinnovatrice del Vangelo apparve evidente negli interventi dedicati dal Vescovo alla difesa della giustizia sociale, in particolare nei tre libretti De Nabuthae, De Tobia, De Helia et ieiunio. Ambrogio stigmatizza l'abuso delle ricchezze, denuncia le sperequazioni e i soprusi con cui i pochi abbienti sfruttano a proprio vantaggio le situazioni di disagio economico e di carestia, condanna coloro che, fingendo di aiutare per carità, dànno poi a prestito con una pesantissima usura. Su tutto e su tutti fa riecheggiare i suoi moniti: « Una medesima natura è madre di tutti gli uomini, e perciò siamo tutti fratelli generati da un'unica e medesima madre, legati da un medesimo vincolo di parentela »; (13) « tu non dài del tuo al povero, ma gli rendi il suo ». (14) Specificamente riguardo all'usura si domanda: « Che c'è di più crudele del dare il tuo denaro a chi non ne ha ed esigerne il doppio? » (15) Per la salvezza stessa dei popoli, spesso schiacciati dal peso dei debiti, Ambrogio riteneva dovere dei Vescovi adoperarsi ad estirpare tali vizi e a promuovere gli slanci di un'operosa carità.

Comprensibile dunque il suo impeto di gioia, e si direbbe la sua umile fierezza di padre, quando gli giunse notizia che un suo eminente figlio spirituale, Paolino da Bordeaux, ex senatore e futuro Vescovo di Nola, aveva deciso di lasciare i suoi beni ai poveri, per ritirarsi, insieme con la moglie Terasia, a condurre vita ascetica nella cittadina campana. Esempi come questo — osservava Ambrogio in una sua lettera (16) — erano destinati a produrre clamore e scandalo in una società prigioniera dell'edonismo, ma incarnavano, con l'efficacia insostituibile della testimonianza, la grande sfida morale del cristianesimo.

9. Tutta la vita doveva essere rinnovata dal lievito del Vangelo. Al riguardo Ambrogio prospetta ai suoi fedeli un itinerario spirituale chiaro ed impegnativo, fatto di ascolto della Parola di Dio, di partecipazione ai Sacramenti e alla preghiera liturgica, di sforzo morale ispirato alla concreta osservanza dei comandamenti. Chi legge gli scritti del santo Vescovo si accorge che questi sono gli elementi, semplici e necessari, continuamente richiamati nella sua predicazione e nella sua attività pastorale. Su queste realtà Ambrogio viene costruendo giorno per giorno una comunità viva, nutrita dei valori evangelici e segno non equivoco per la società del suo tempo.

Ne fu vivamente impressionato, tra gli altri, Agostino, giunto a Milano nell'autunno del 384. Pur inizialmente attratto soltanto dallo stile oratorio del Vescovo, ben presto sperimentò la concretezza e il fascino della vita della Chiesa di Milano: « Vedevo la chiesa piena, e in essa l'uno avanzare in un modo, l'altro in un altro », ricorderà con ammirazione molti anni dopo. (17) Non era riuscito ad ottenere dal Vescovo incontri prolungati e confidenziali, ma aveva visto nella Chiesa da lui guidata una manifestazione eloquente della sua saggezza pastorale e aveva potuto compiere una verifica convincente della validità del suo insegnamento spirituale. Giustamente perciò considerò Ambrogio, dal quale ricevette anche il Battesimo, padre della sua fede.

10. Non è possibile passare in rassegna dettagliatamente tutti gli interventi dell'infaticabile Pastore, che in vario modo contribuirono a vivificare la comunità e ad immettere energie nuove e vigorose nella società. Ma è almeno opportuno elencarne i più significativi.

Al primo posto porrei la premura che egli ebbe per la formazione dei sacerdoti e dei diaconi. Li voleva pienamente conformati a Cristo, posseduti totalmente da Lui (18) e corredati delle più solide virtù umane: l'ospitalità, l'affabilità, la fedeltà, la lealtà, una generosità che aborrisse l'avarizia, la riflessività, un pudore incontaminato, l'equilibrio, l'amicizia. Esigente quanto paterno, il suo affetto per i sacerdoti era davvero traboccante: « Per voi, che ho generato nel Vangelo, non nutro minor amore che se vi avessi avuto nel matrimonio ». (19)

Ugualmente intensa, fin dalla sua prima predicazione giunta a noi nel De virginibus, fu la cura delle vergini consacrate. Ambrogio vedeva la loro vocazione radicata nel mistero stesso del Verbo Incarnato: « E chi possiamo credere che ne sia il suo autore, se non l'immacolato Figlio di Dio, la cui carne non ha visto la corruzione, la cui divinità non ha conosciuto contaminazione? »; (20) e nella testimonianza delle vergini segnalava una risposta provocatoria, forte e concreta, al ruolo umiliante in cui la decadente società romana aveva relegato la donna.

Costante fu pure l'attenzione di Ambrogio per il culto dei martiri. Con il rinvenimento delle loro reliquie e la venerazione ad essi tributata egli intendeva proporre ai credenti modelli di una sequela di Cristo impavida e generosa; e non mancava di metterli in guardia contro i pericoli dei tempi di pace, quando ai persecutori violenti si sostituiscono quelli più subdoli che « senza ricorrere alla minaccia della spada, stritolano spesso lo spirito dell'uomo, quelli che espugnano l'animo dei credenti più con le lusinghe che con le minacce ». (21)

Anche le celebrazioni liturgiche, nutrite dalle spiegazioni catechetiche del Vescovo e animate dalla sua genialità poetica, diventavano momento comunitario di validissima formazione e di incisiva testimonianza. Basti pensare agli inni, da lui composti e sperimentati nelle lunghe ore di veglia durante l'accerchiamento delle chiese: « Dicono che il popolo è stato abbindolato dall'incantesimo dei miei inni », ribatteva agli ariani che lo accusavano. « Proprio così: non lo nego. È un grande incantesimo, il più potente di tutti. Che c'è infatti di più potente del confessare la Trinità, che ogni giorno viene esaltata dalla bocca di tutto il popolo? A gara, tutti vogliono proclamare la loro fede, tutti hanno imparato a lodare in versi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Sono dunque diventati tutti maestri, quelli che a malapena potevano essere discepoli ». (22)

11. Pastore attivissimo, Ambrogio fu certamente uomo di intenso raccoglimento e di profonda contemplazione. Era capace di grande concentrazione: per questo le sue letture poterono prepararlo al ministero in così breve tempo e fra attività tanto numerose. Amava il silenzio; e Agostino, che lo trovò assorto nello studio, non ardì neppure parlargli: « Chi infatti avrebbe osato disturbarlo nella sua concentrazione? ». (23) Da quel raccoglimento nasceva la sua penetrazione delle Scritture e la spiegazione che ne offriva nelle omelie e nei commentari.

Da lì nasceva anche la profonda spiritualità del Vescovo. Il biografo Paolino ne sottolinea l'ascesi: « Era uomo di grande astinenza e di molte veglie e fatiche, e macerava il corpo con quotidiano digiuno... Grande era anche l'assiduità alla preghiera, di notte e di giorno ». (24) Al centro della sua spiritualità stava Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A Lui tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la carità che egli proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona accogliendo « caterve di gente affannata che soccorreva nell'angustia », come ci ricorda Agostino. (25)

12. Mancherebbe un elemento caratteristico a questo pur rapido ritratto dell'uomo e del Vescovo, se non gettassimo almeno uno sguardo al suo rapporto con l'autorità civile. Era ancora vivo il ricordo delle intromissioni nella vita e nella dottrina della Chiesa compiute nei decenni precedenti dagli imperatori cristiani, che talora avevano sostenuto la parte ariana e in ogni caso avevano creato gravi disagi e spaccature nella comunità dei credenti. Fatto Vescovo, Ambrogio confermò in molte situazioni il suo spiccato lealismo nei confronti dello Stato, ma sentì anche il dovere di promuovere un più corretto rapporto tra Chiesa e Impero, (26) reclamando per la prima una precisa autonomia nel suo proprio ambito. In questo modo egli non solo difendeva i diritti di libertà della Chiesa, ma poneva anche un argine all'assolutismo senza limiti dell'autorità imperiale, favorendo così la rinascita delle antiche libertà civili, nell'alveo della migliore tradizione romana.

Era una strada difficile da percorrere, tutta da inventare; ed Ambrogio dovette di volta in volta precisare meglio modalità e stile. Se gli riuscì di coniugare fermezza ed equilibrio negli interventi già menzionati — nella questione cioè dell'altare della Vittoria e quando fu richiesta una basilica per gli ariani — inadeguato si rivelò invece il suo giudizio nell'affare di Callinico, quando nel 388 venne distrutta la sinagoga di quel lontano borgo sull'Eufrate. Ritenendo infatti che l'imperatore cristiano non dovesse punire i colpevoli e neppure obbligarli a porre rimedio al danno arrecato, (27) andava ben oltre la rivendicazione della libertà ecclesiale, pregiudicando l'altrui diritto alla libertà e alla giustizia.

Fu all'opposto mirabile il suo atteggiamento nei confronti dello stesso Teodosio, due anni più tardi, all'indomani della strage di Tessalonica, ordinata per vendicare l'uccisione di un comandante. All'imperatore, che si era macchiato di una colpa tanto grave, il Vescovo indicò, con tatto e fermezza, la necessità di sottoporsi a penitenza, (28) e Teodosio, accogliendo l'invito, « pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato » e « con lamenti e lacrime invocò il perdono ». (29) In questo celebre episodio Ambrogio aveva saputo incarnare al meglio l'autorità morale della Chiesa, facendo appello alla coscienza dell'errante, senza riguardo al suo potere, ed ergendosi a vindice del sangue ingiustamente e crudelmente versato.

13. Veramente grande la figura di questo santo Vescovo, e straordinariamente efficace l'opera che egli svolse per la Chiesa e la società del suo tempo! Auspico che il suo esempio di uomo, di sacerdote, di pastore dia rinnovato impulso alla presa di coscienza di cui tutti i fedeli del nostro tempo — Vescovi, presbiteri, anime consacrate e laici cristiani — hanno bisogno per ispirare la propria vita al Vangelo, e farsene apostoli sempre più ardenti alle soglie ormai del terzo millennio cristiano.

II

« LO SGUARDO FISSO SULLA PAROLA DI DIO » (30)

14. Insieme con Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno, il santo Vescovo di Milano è uno dei quattro Dottori, a cui la Chiesa latina guarda con particolare venerazione. Desidero perciò portare speciale attenzione a questo versante della sua personalità accostandolo nella prospettiva del prossimo Giubileo.

Una prima indicazione ci viene offerta dal ruolo che ebbe nella vita di Ambrogio la parola di Dio. « Per conoscere la vera identità di Cristo — ho scritto nella Tertio millennio adveniente — occorre che i cristiani [...] tornino con rinnovato interesse alla Bibbia ». (31) Ambrogio può esserci maestro e guida: egli fu, infatti, un cospicuo esegeta della Bibbia, che assumeva come oggetto abituale della sua catechesi. Tutte le sue opere sono una spiegazione dei Libri ispirati.

Il santo Vescovo ha dedicato un'intera Expositio al Vangelo secondo Luca e in molti suoi scritti, soprattutto in alcune lettere, ama commentare l'epistolario paolino riproponendo con viva partecipazione il pensiero dell'Apostolo. Ma è soprattutto sui libri dell'Antico Testamento che egli si sofferma con particolare predilezione. In essi trova una lunga e ardente preparazione alla venuta di Cristo, come un'« ombra » che, in modo ancora imperfetto ma già sapientemente tratteggiato, preannuncia la rivelazione piena del Vangelo.

Leggendo in profondità le pagine bibliche dell'uno e dell'altro Testamento, sulla scia della concorde tradizione patristica, Ambrogio invita a raccogliere, oltre il senso letterale, sia un senso morale, che illumina il comportamento, sia un senso allegorico-mistico, che permette di rinvenire nelle immagini e negli episodi narrati il mistero di Cristo e della Chiesa. Così, in particolare, molti personaggi dell'Antico Testamento appaiono « tipi » e anticipazioni della figura di Cristo. Leggere le Scritture è leggere Cristo. Per questo Ambrogio raccomanda vivamente la lettura integrale della Scrittura: « Bevi dunque tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. Bevi Cristo, che è la vite; bevi Cristo, che è la pietra che ha sprizzato l'acqua; bevi Cristo, che è la fontana della vita; bevi Cristo, che è il fiume la cui corrente feconda la città di Dio; bevi Cristo che è la pace ». (32)

15. Ambrogio sa che la conoscenza delle Scritture non è facile. Nell'Antico Testamento vi sono pagine oscure che ricevono piena luce solo nel Nuovo. Cristo ne è la chiave, il rivelatore: « Grande è l'oscurità delle Scritture profetiche! Ma se tu bussassi con la mano del tuo spirito alla porta delle Scritture, e se esaminassi con scrupolosità ciò che vi è nascosto, a poco a poco cominceresti a raccogliere il senso delle parole, e ti sarebbe aperto non da altri, ma dal Verbo di Dio [...] perché solo il Signore Gesù nel suo Vangelo ha tolto il velo degli enigmi profetici e dei misteri della Legge; egli solo ci ha fornito la chiave del sapere e ci ha dato la possibilità di aprire ». (33)

La Scrittura è un « mare, che racchiude in sé sensi profondi e abissi di enigmi profetici: in questo mare si sono riversati moltissimi fiumi ». (34) Dato questo suo carattere di parola viva e insieme complessa, la Scrittura non può essere letta con superficialità. Essa schiude i suoi tesori a chi la accosta con vivo desiderio, con animo veramente assetato di luce, seguendo l'esempio dell'orante descritto nel Salmo 118: « Si consumano i miei occhi dietro la tua Parola » (v. 82). Come la giovane sposa — commenta Ambrogio con vivida immagine — corre alla riva del mare scrutando ogni nave che possa recarle il suo sposo, così il salmista « abbandonava tutte le preoccupazioni di questo tempo e, da custode sempre all'erta, teneva fisso lo sguardo degli occhi interiori, in vista della parola di Dio ». (35) Lo stesso Vescovo impersonava questo orante colmo di desiderio; e impegnava i suoi fedeli a fare altrettanto.

Chiedeva loro anche di « ruminare » la Parola, perché essa è cibo sostanzioso, che esige di essere ripreso più volte con pazienza e costanza, in una continua meditazione: solo così potrà sprigionare le inesauribili sostanze nutritive che racchiude. « Procuriamo alla nostra mente questo cibo che, triturato e reso farinoso da una lunga meditazione, dia forza al cuore dell'uomo, come la manna celeste: cibo che non abbiamo ricevuto già triturato e farinoso, senza aver fatto fatica. Per ciò è necessario triturare e rendere farinose le parole delle Scritture celesti, impegnandoci con tutto l'animo e con tutto il cuore, affinché la linfa di quel cibo spirituale si diffonda in tutte le vene dell'anima ». (36) E ancora: « Rifletti dunque tutto il giorno sulla Legge [...] Prenditi come consiglieri Mosè, Isaia, Geremia, Pietro, Paolo, Giovanni, e lo stesso eccelso consigliere Gesù, se vuoi acquistare il Padre. Con loro devi trattare, con loro devi confrontarti tutto il giorno, devi tutto il giorno riflettere ». (37)

16. Ambrogio spiega costantemente ai suoi fedeli le Scritture proclamate nella liturgia. Egli le pone ad ispirazione e a fondamento dell'intera sua predicazione e dei suoi scritti: dei commentari biblici, delle lettere, dei discorsi esequiali, dei trattati a sfondo sociale, delle opere di contenuto spiccatamente spirituale. Il suo stile è impregnato di immagini e di espressioni bibliche: si direbbeche egli non soltanto parli della Bibbia, ma parli la Bibbia, divenuta come la sostanza intima del suo pensiero e della sua parola. Così i Sacri Testi nutrono gli ascoltatori, che ne diventano conoscitori sempre più competenti. La Chiesa guidata da Ambrogio ci appare veramente formata e plasmata dalla Parola di Dio.

Desidero vivamente che il suo esempio spinga a porre la Bibbia sempre più al centro della vita cristiana e a leggerla con quella fede e con quella profondità di cui il Vescovo di Milano è stato esimio modello e sicuro maestro.

III

« CRISTO E TUTTO PER NOI » (38)

17. L'Anno Santambrosiano coincide con il periodo che, nell'itinerario di preparazione al Giubileo, sarà « dedicato alla riflessione su Cristo, Verbo del Padre, fattosi uomo per opera dello Spirito Santo. Occorre infatti porre in luce il carattere spiccatamente cristologico del Giubileo, che celebrerà l'Incarnazione del Figlio di Dio, mistero di salvezza per tutto il genere umano ». (39)

Nella scia del Concilio di Nicea, di cui fu energico difensore, sant'Ambrogio è stato un riconosciuto maestro della dottrina cristologica e trinitaria. L'insegnamento del Vescovo di Milano ha in Cristo il suo centro unificante; da Lui riceve il suo splendore teologico e la sua forza di attrazione per la vita spirituale. Ripercorrerne i punti salienti è perciò di particolare significato anche per la preparazione al Millennio che viene.

18. In molti suoi scritti, a partire dalla triade De fide, De Spiritu Sancto e De incarnationis dominicae sacramento, Ambrogio espone il suo insegnamento sulla Trinità, sulla quale propone lucide considerazioni che serviranno da modello nell'ulteriore sviluppo della teologia trinitaria in Occidente, senza tuttavia dimenticare che il mistero di Dio supera sempre la nostra comprensione e le nostre affermazioni. (40) « Abbiamo infatti appreso che vi è una distinzione tra "il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo" (Mt 28, 19), non una confusione; una distinzione, non una separazione; una distinzione, non una pluralità; [...] per divino e mirabile mistero il Padre sussiste sempre, sempre sussiste il Figlio, sempre lo Spirito Santo [...]. Conosciamo la distinzione, ma ignoriamo i segreti; non indaghiamo le cause, custodiamo i misteri ». (41)

Riguardo al Figlio, Ambrogio ricorda che egli « è sempre col Padre, sempre nel Padre »; (42) dal Padre, fonte dell'essere, egli viene generato: « Questi segni caratterizzano il Figlio di Dio in modo tale che da essi tu ricavi che il Padre è eterno, e ugualmente il Figlio non è diverso da lui; dal Padre è il Figlio; da Dio è il Verbo; riflesso della sua gloria, impronta della sua sostanza, specchio della maestà di Dio, immagine della sua bontà; sapienza che proviene da colui che è sapiente; potenza da colui che è forte; verità da colui che è vero; vita da colui che è vivo ». (43)

Cristo viene nel mondo per rivelare il Padre: « Egli è l'eterno splendore dell'anima, che il Padre ha mandato sulla terra proprio per questo: per darci la possibilità di contemplare, nella luce del suo volto, le realtà eterne e celesti, prima a noi precluse dalla caligine che ci opprimeva ». (44)

19. Sant'Ambrogio ha una visione unitaria del piano divino della salvezza: preannunziato da Dio nell'Antico Patto, esso è stato realizzato nel Nuovo con la venuta di Cristo, che ha rivelato al mondo il volto del Padre e la luce della Trinità. Il Cristo Redentore è anzi già velatamente significato nell'opera stessa della creazione, in quel riposo che Dio si concede dopo aver creato l'uomo. « A questo punto, osserva Ambrogio, Dio si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati. O forse già allora si preannunciò il mistero della futura passione del Signore, col quale si rivelò che Cristo avrebbe riposato nell'uomo, egli che predestinava a se stesso un corpo umano per la redenzione dell'uomo ». (45) Il riposo di Dio prefigurava quello di Cristo in croce nella morte redentrice; e la passione del Signore veniva così a collocarsi dall'inizio, in un progetto di universale misericordia, come il senso e il fine della creazione stessa.

20. Del mistero dell'Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l'ardore di uno che è stato letteralmente afferrato da Cristo, e tutto vede nella sua luce. La riflessione che egli sviluppa sgorga dalla contemplazione affettuosa e spesso prorompe in preghiere, vere elevazioni dell'anima nel bel mezzo di trattazioni impegnative: il Salvatore è venuto nel mondo « per me », « per noi », sono espressioni che ritornano con frequenza nelle sue opere. (46)

Annunciato, in qualche modo, in tutti i Libri dell'antica Scrittura, (47) il Verbo scende dal seno del Padre e adempie la sua missione in successive tappe, che il Vescovo, ispirandosi al Cantico dei cantici, paragona ai salti di un cerbiatto mosso dall'amore per l'umanità e per la Chiesa. (48) Con l'Incarnazione, il Verbo prende « l'aspetto di servo, cioè la pienezza della perfezione umana »; (49) ed assume in sé, nella sua carne, tutta l'umanità, conferendole un privilegio di cui nemmeno gli angeli partecipano. (50)

Se nell'Incarnazione il Cristo si è legato a noi con vincoli d'amore, (51) nella sua Passione, subìta per la Redenzione del mondo, questo amore ha brillato in mezzo ai contrasti più profondi di umiliazione-esaltazione del Crocifisso; (52) il suo obbrobrio ha tolto gli obbrobri di tutti, (53) le lacrime, da lui versate sulla Croce, ci hanno lavati. (54) La Redenzione di Cristo è universale: (55) « Nel Redentore di tutti non entrava un solo uomo, ma tutto quanto il mondo »; (56) « Lui si è umiliato, perché tu fossi esaltato ». (57)

21. Di qui fioriscono nelle opere di Ambrogio tutte quelle definizioni e appellativi del Redentore, che ce lo tratteggiano nella sua grandezza e benevolenza. Cristo si è fatto tutto a tutti; (58) egli è la pienezza e l'ampiezza; (59) è il fine della Legge; (60) il fondamento di tutte le cose e il capo della Chiesa, (61) la sorgente della vita; (62) « la sua morte è vita, la sua ferita è vita, il suo sangue è vita, la sua sepoltura è vita, la sua risurrezione è vita di tutti ». (63) Egli è « l'espiazione universale, il riscatto universale », (64) il re e mediatore, (65) il sole di giustizia, (66) luce, (67) fuoco, (68) via, (69) gioia, (70) l'unico in cui gloriarci nonostante i nostri peccati; (71) si è fatto povero per noi, (72) umile per insegnarci l'umiltà, (73) nostro compagno; (74) Egli è buono, anzi la bontà stessa: (75) « Questo "bene" venga nella nostra anima, nell'intimo della nostra mente [...] Questi è il nostro tesoro, questi è la nostra via, questi è la nostra sapienza, la nostra giustizia, il nostro pastore e il buon pastore, questi è la nostra vita. Tu vedi quanti beni ci sono in un solo bene ». (76)

22. Nel presentare la figura di Cristo, il Vescovo Ambrogio anticipa le formidabili tematiche che nei secoli successivi verranno affrontate nei grandi Concili cristologici; e con magistrale sintesi ci parla dell'unico Cristo Signore, nella duplice natura divina e umana. Ecco un esempio fra i molti, tratto dal secondo libro del De fide: « Manteniamo la distinzione tra la natura divina e la carne! In entrambe parla il solo Figlio di Dio, poiché nel medesimo si trova l'una e l'altra natura; anche se è il medesimo a parlare, non parla però sempre in un solo modo. Osserva in lui ora la gloria di Dio, ora le passioni dell'uomo. In quanto Dio, dice le cose che sono di Dio, poiché è il Verbo; in quanto uomo, dice le cose che sono dell'uomo, poiché parla nella mia sostanza ». (77) Per la sua completezza e precisione questo brano fu ripreso negli atti dei Concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451) e nel Sinodo Lateranense del 649. Ma numerosi testi del Vescovo di Milano vennero citati e meditati in quei frangenti, a partire dal De incarnationis dominicae sacramento tradotto in greco già pochi decenni dopo la morte di Ambrogio, per giungere ai larghi estratti dell'Expositio evangelii secundum Lucam letti e tradotti durante il III Concilio di Costantinopoli del 681.

Così la parola di Ambrogio, appassionato di Cristo Signore, entrava a sostenere e a vivificare le grandi definizioni cristologiche della Chiesa antica.

IV

« LA SOBRIA EBBREZZA DELLO SPIRITO » (78)

23. Al di là del suo ricco apporto dottrinale, Ambrogio fu soprattutto pastore e guida spirituale. Le sue indicazioni di vita ci aiutano anche a muoverci più speditamente verso l'obiettivo che ho indicato come prioritario nella celebrazione del primo anno di preparazione al terzo Millennio: il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani. Ho scritto al riguardo: « È necessario, pertanto, suscitare in ogni fedele un vero anelito alla santità, un desiderio forte di conversione e di rinnovamento personale in un clima di sempre più intensa preghiera e di solidale accoglienza del prossimo ». (79)

E in funzione di questo esigente ideale di perfezione, a cui tutti siamo chiamati, che desidero soffermarmi ora specificamente sull'insegnamento spirituale del Vescovo di Milano.

24. Per illustrare il cammino spirituale proposto alla Chiesa e a ciascun cristiano, sant'Ambrogio fa uso delle ricche immagini offerte nel Cantico dei cantici: nell'amore dei due sposi vede infatti rappresentato sia il matrimonio di Cristo con la Chiesa, sia l'unione dell'anima con Dio. Due scritti sono, in particolare, dedicati a questo tema: l'ampia Expositio psalmi CXVIII e il piccolo trattato De Isaac vel anima. Nel primo di essi, commentando in stretta connessione sia il Salmo 118, con la sua prolungata meditazione sulla Legge divina, sia ampie sezioni del Cantico dei cantici, il Vescovo insegna che la mistica dell'unione sponsale con Dio deve essere preparata dalla disciplina di una vita virtuosa e che, allo stesso tempo, l'impegno morale del cristiano non è chiuso in sé stesso ma finalizzato all'incontro mistico con Dio.

Per questo, ripercorrendo nel De Isaac le tappe della crescita spirituale, Ambrogio addita la necessità di un lungo e impegnativo cammino di ascesi e di purificazione, raccomandato del resto senza sosta in tutti i suoi scritti. Egli segnala insieme che il progredire di tappa in tappa mira a quell'incontro con lo Sposo divino in cui l'anima sperimenta la pienezza di conoscenza e di unione nell'amore. Allora infatti la sposa del Cantico, conducendo l'amato nella sua casa (cfr Ct 8, 2), « prende dentro di sé il Verbo, per esserne ammaestrata »; (80) e, salendo appoggiata a lui (cfr Ct 8, 5), sperimenta un'intimità totale con il Verbo divino: « Costei, commenta il santo Vescovo, o era adagiata su Cristo o si appoggiava su di lui o certamente, siccome stiamo parlando delle nozze, era stata ormai consegnata alla destra di Cristo e veniva condotta dallo sposo nel talamo ». (81)

25. Chi ha aderito a Cristo, come la sposa allo sposo, è consapevole della presenza di Dio nella sua anima, (82) prende da lui la forza per cercarLo ed entrare in comunione con Lui. (83) Non è mai solo, perché vive con Lui. (84) Cristo infatti ha sete di noi (85) che, fatti per Lui e per Dio Trinità, siamo chiamati a diventare una sola cosa con Lui, mediante la sua inabitazione in noi: (86) « Entri nella tua anima Cristo, abbia dimora nei tuoi pensieri Gesù, per precludere ogni spazio al peccato nella sacra tenda della virtù ». (87)

Così viene sviluppandosi un rapporto sempre più profondo col Cristo: partendo dall'ascesi, condizione ineliminabile per giungere all'intimità con Lui, (88) occorre desiderare Cristo, (89) imitarLo, (90) meditare sulla sua Persona ed i suoi esempi, (91) pregarLo continuamente, (92) cercarLo a lungo, (93) parlare di Lui, (94) esserGli sottomessi in tutto, (95) offrirGli le nostre sofferenze e le nostre prove, (96) trovando in Lui conforto e sostegno. (97)

Ma anche in questa ricerca di Lui, nulla potremmo da noi stessi, perché unicamente Cristo è il mediatore, la guida, la via. « Cristo è tutto per noi » e quindi: « se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall'iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento ». (98) All'incontro con Cristo è chiamata ad approdare la nostra esistenza: « Andremo là dove ai suoi poveri servi il Signore Gesù ha preparato le dimore, per essere anche noi dove è lui: questo egli ha voluto ». (99) Per questo con sant'Ambrogio possiamo invocare: « Noi ti seguiamo, Signore Gesù: ma chiamaci, perché ti seguiamo: senza di te nessuno potrà salire. Tu infatti sei la via, la verità, la vita, la possibilità, la fede, il premio. Accogli i tuoi: sei la via; confermali: sei la verità; vivificali: sei la vita ». (100)

26. Sant'Ambrogio sottolinea con chiarezza che un simile cammino è proposto a ciascun fedele e alla comunità ecclesiale nel suo insieme. La meta, pur così elevata, non è riservata a pochi eletti, ma tutti i discepoli di Gesù la possono raggiungere, ascoltando la Parola di Dio, partecipando con frutto ai Sacramenti, osservando i comandamenti. Questi sono i cardini della vita spirituale, attraverso i quali si stabilisce quell'intima comunione con Dio che ricolma di grazia la vita del credente.

Per questo le omelie del Vescovo sono colme di spunti morali, proposti agli ascoltatori con passione, incisività e intensa forza di persuasione. Egli si impegna personalmente nella predicazione a coloro che si preparano ai Sacramenti dell'iniziazione cristiana. Spiega loro il valore del Battesimo, mostrandone il nesso profondo con la morte e risurrezione di Cristo e insieme richiamando l'impegno morale che ne deriva: « Come è morto Cristo, così anche tu gusti la morte; come Cristo è morto al peccato e vive per Dio, così anche tu, mediante il sacramento del Battesimo, devi essere morto alle precedenti lusinghe dei peccati ed essere risorto mediante la grazia di Cristo. È una morte, ma non nella realtà d'una morte fisica, bensì in un simbolo. Quando t'immergi nel fonte, assumi la somiglianza della sua morte e della sua sepoltura, ricevi il sacramento della sua croce, perché Cristo fu appeso in croce e il suo corpo fu trafitto dai chiodi. Tu sei crocifisso con lui, sei attaccato a Cristo, sei attaccato ai chiodi di nostro Signore Gesù Cristo, perché il diavolo non ti possa strappare da lui. Mentre la debolezza della natura umana vorrebbe allontanartene, ti trattenga il chiodo di Cristo ». (101)

27. L'approfondimento della dottrina di sant'Ambrogio sul Battesimo ben s'inserisce in quell'« impegno di attualizzazione sacramentale » che, nel cammino verso il Giubileo, dovrà ugualmente distinguere l'anno 1997, facendo leva appunto « sulla riscoperta del Battesimo come fondamento dell'esistenza cristiana ». (102) Ma non meno feconda si rivelerà la ricchissima dottrina sull'Eucarestia: essa è corpo di Cristo, fatto realmente presente dalla parola efficace del sacramento, quella stessa Parola divina che con potenza creò le cose all'inizio del mondo. « Dopo la consacrazione ti dico che ormai c'è il corpo di Cristo. Egli parlò, e fu fatto; egli comandò, e fu creato ». (103) L'Eucarestia è sostentamento quotidiano del cristiano, che ogni giorno viene così unito al sacrificio di salvezza: « Ricevi ogni giorno ciò che ogni giorno ti giova! Vivi in modo da essere degno di riceverlo ogni giorno! [...] Tu senti ripetere che ogni volta che si offre il sacrificio, si annuncia la morte del Signore, la risurrezione del Signore, l'ascensione del Signore e la remissione dei peccati, e tuttavia non ricevi ogni giorno questo pane di vita? ». (104)

28. Nell'inno Splendor paternae gloriae Ambrogio invita a cantare: « Cristo sia nostro cibo, nostra bevanda sia la fede; lieti beviamo la sobria ebbrezza dello Spirito ». (105) Nel De sacramentis, come a commentare le parole dell'inno, il Vescovo incita a gustare il pane eucaristico, in cui « non c'è amarezza, ma ogni soavità », e il vino, che arreca una gioia che « non può essere contaminata dalla sozzura di nessun peccato ». Infatti ogni volta che si beve il calice di Cristo, si riceve la remissione dei peccati e si è inebriati dello Spirito: « Chi si ubriaca di vino, barcolla e tentenna; chi si inebria dello Spirito, è radicato in Cristo. Perciò è un'eccellente ebbrezza, perché produce la sobrietà della mente ». (106) Con l'espressione « sobria ebbrezza dello Spirito », Ambrogio sembra voler sintetizzare la sua concezione della vita spirituale. Ci fa comprendere così che essa è ebbrezza, gaudio e pienezza di comunione con Cristo; ci insegna altresì che non si traduce in una esaltazione scomposta ed entusiasta, ma esige piuttosto una sobrietà operosa; ricorda soprattutto che essa è dono dello Spirito di Dio. Coloro che attingono diligentemente alle Sacre Scritture, ricevono questa ebbrezza che « rinsalda i passi di una mente sobria » e che « irriga il terreno della vita eterna che ci è stato donato ». (107)

La vita spirituale che il Pastore di Milano insegna ai suoi fedeli è insieme esigente e attraente, concreta e immersa nel mistero. Anche per la Chiesa di oggi desidero che risuoni questo suo invito forte e coinvolgente.

V

AL SERVIZIO DELL'UNITA'

29. L'esigente cammino spirituale, tracciato da Ambrogio, porta il credente ad una crescente comunione con Cristo. Questa, peraltro, non può non esprimersi anche in comunione d'anima e di cuore (cfr At 4,32) con i fratelli nella fede. Il Vescovo di Milano lo sa e lo testimonia nei suoi scritti. E, questo, un aspetto del suo insegnamento singolarmente stimolante per quanti sono impegnati sul fronte dell'ecumenismo. Come dimenticare che Ambrogio, venerato ad Occidente come ad Oriente, è uno dei grandi Padri della Chiesa ancora indivisa? Certo anche al suo tempo, come abbiamo visto, erano tutt'altro che assenti contrasti anche ampi e laceranti, dovuti ad errori dottrinai e a diversi altri fattori. Ma era insieme forte il bisogno di tornare alla comunione di fede e di vita ecclesiale. La testimonianza di Ambrogio, letta in questa chiave, può offrire un contributo notevole alla causa dell'unità. Anche in questo peraltro la sua commemorazione coincide con uno degli obiettivi qualificanti nel cammino verso il Giubileo dell'Anno 2000. (108)

In effetti, la valenza ecumenica della sua personalità presenta diversi aspetti degni di considerazione. Basta pensare, per la dimensione più propriamente dottrinale, alle nitide formulazioni cristologiche del Pastore di Milano, tradotte e apprezzate anche in ambito greco e nei concili del V e del VII secolo, e che spiegano la stima che Ambrogio gode a tutt'oggi presso i nostri fratelli d'Oriente. Anche la sua adamantina figura di Vescovo della città imperiale, in atteggiamento leale ma non mai succube nei confronti dei potenti, spiega l'attenzione che la storiografia bizantina gli ha riservato e che, unita alla stima per i suoi insegnamenti ha favorito il permanere del suo culto nelle Chiese dell'Oriente cristiano, fino ai nostri giorni.

Né dimentichiamo come anche nell'ambito della Riforma protestante si continuò a guardare con ammirazione agli scritti del Vescovo di Milano, riconoscendo in lui un maestro dotato e della grazia dell'insegnamento e di grande cultura.

30. Vi è di più: Ambrogio ha lasciato un chiaro insegnamento circa i rapporti che la Chiesa deve intrattenere nel dialogo con chi non è cristiano. Illuminante al riguardo è l'ammonizione che egli rivolge ai suoi fedeli raccomandando loro di « non fuggire quelli che sono separati dalla nostra fede e dalla comunione con noi, perché anche il pagano, una volta convertito, può diventare un difensore della fede ». (109) Un'interessante trattazione dei vari aspetti del problema si trova nell'Expositio evangelii secundum Lucam, ove è una chiara sintesi dei metodi di evangelizzazione del suo tempo, in relazione ai pagani, agli Ebrei, ai catecumeni. (110)

A questi criteri il Vescovo di Milano si atteneva nella sua catechesi, che esercitava sugli ascoltatori una singolare forza di attrazione. Tanti ne fecero esperienza. La lontana Fritigil, regina dei Marcomanni, attratta dalla sua fama, gli scrisse per essere da lui istruita nella religione cattolica, ricevendone in cambio una « splendida lettera a forma di catechismo ». (111)

Benché altri siano oggi i tempi, il suo esempio può ancora suscitare interesse ed attrarre personalità pensose del futuro dell'umanità, anche fuori delle Chiese e denominazioni cristiane, per quel prestigio di cultura sacra e profana, di amore all'uomo, di fermezza contro le ingiustizie e le oppressioni, di coerenza granitica nella dottrina e nella prassi che, ancora in vita, gli ottennero un indiscusso riconoscimento.

VI

« SIA IN CIASCUNO L'ANIMA DI MARIA » (112)

31. Nell'ottica della preparazione al Giubileo, ho suggerito che nel 1997 si contempli anche il mistero della divina maternità di Maria, giacché « l'affermazione della centralità di Cristo non può essere disgiunta dal riconoscimento del ruolo svolto dalla sua Santissima Madre ». (113) Di Lei Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto.

Egli ne offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore, l'assiduità al lavoro e alla preghiera. Pur nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani. Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo Vescovo di Milano esclama: « Sia in ciascuno l'anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio ». (114)

32. Maria, insegna Ambrogio, è tutta coinvolta nella storia di salvezza, come Madre e Vergine. Se Cristo è il profumo eterno del Padre, « di esso fu cosparsa Maria e, da vergine, concepì; da vergine, generò il buon odore: il Figlio di Dio ». (115) Unita a Cristo, quando il Figlio, offrendosi per amore, « appeso al tronco... spandeva il profumo della redenzione del mondo », (116) anche Maria condivideva quell'effusione d'amore: « Davanti alla croce stava in piedi la madre, e mentre gli uomini fuggivano, lei restava intrepida... Osservava con occhi pietosi le ferite del Figlio, per il quale sapeva che sarebbe giunta a tutti la redenzione... Il Figlio pendeva sulla croce, la madre si offriva ai persecutori... Sapendo che il Figlio moriva per l'utilità di tutti, lei era pronta, nel caso che anche con la sua morte avesse potuto aggiungere qualcosa al bene di tutti. Ma la passione di Cristo non ebbe bisogno di aiuto ». (117) E, questa di Maria, l'immagine di una donna forte e generosa, consapevole del ruolo a lei affidato nella storia della salvezza, pronta a compiere la sua missione fino all'offerta della vita. Ma il Vescovo di Milano, che tanto la celebra e la ama, in nessun momento dimentica che ella è tutta subordinata e relativa a Cristo, unico Salvatore.

33. Carissimo e Venerato Fratello, a Maria Santissima, alla cui nascita benedetta è dedicata codesta cattedrale, mi è gradito affidare la riuscita dell'Anno Santambrosiano, che l'illustre Chiesa di Milano si appresta a celebrare. Confido che esso costituisca per i fedeli un intenso periodo di interiore progresso nella fede, nella speranza e nella carità, sulle orme del santo Vescovo e Patrono, contribuendo così a far maturare nella vita di ciascuno copiosi frutti di testimonianza cristiana. A ciò mirano anche gli speciali favori spirituali che ne arricchiscono la celebrazione e che i fedeli potranno conseguire a determinate condizioni, aprendosi di cuore alla grazia del Signore.

Vorrei chiudere questa mia Lettera con le stesse parole, che il Santo scrisse alla Chiesa in Vercelli: « Convertitevi tutti al Signore Gesù. Sia in voi la gioia di questa vita in una coscienza senza rimorsi, l'accettazione della morte con la speranza dell'immortalità, la certezza della risurrezione con la grazia di Cristo, la verità con la semplicità, la fede con la fiducia, il disinteresse con la santità, l'attività con la sobrietà, la vita tra gli altri con la modestia, la cultura senza vanità, la sobrietà di una dottrina fedele senza lo stordimento dell'eresia ». (118)

Con questi auspici ben volentieri imparto a Lei, Venerato Fratello, ai Vescovi suoi collaboratori, ai sacerdoti e ai diaconi, ai consacrati ed alle consacrate, come pure a tutti i fedeli laici di codesta Arcidiocesi, che dal suo Patrono prende nome, una speciale Benedizione Apostolica, propiziatrice di ogni desiderata grazia celeste.

Dal Vaticano, il 1o Dicembre 1996.


(1) Paolino, Vita Ambrosii, 47, 1, 2: ed. A.A.R. Bastiaensen, Milano 1975, pp. 112-114.

(2) De paenitentia, II, 8, 67: Sancti Ambrosii episcopi Mediolanensis opera, Milano - Roma, 1977-1994 (= SAEMO) 17, p. 264; cfr anche De officiis, I, 1, 4: SAEMO 13, 24.

(3) Il costante interesse che egli suscita emerge anche dai numerosi studi a lui dedicati, come pure dalle molte edizioni e traduzioni dei suoi scritti. Particolare menzione merita la citata edizione bilingue, recentemente curata dalla Biblioteca Ambrosiana, SAEMO.

(4) Cfr nn. 40-43: AAS 87 (1995), 31-33.

(5) Cfr Paolino, Vita Ambrosii, 6, 1-2: ed. A.A.R. Bastiaensen, Milano 1975, p. 60.

(6) Cfr ibid., 9, 2-3: l.c., p. 64.

(7) Cfr De virginibus, I, 1, 1: SAEMO 14I, p. 100; De officiis, I, 1, 4: SAEMO 13, p. 24.

(8) Cfr Teofilo d'Alessandria, Ep. ad Flavianum, framm. 1: SAEMO 24I, p. 213.

(9) 2 Cfr Ep. LXXVI, 6: SAEMO 21, pp. 138-140.

(10) Ibid., 26: l.c., p. 152.

(11) Cfr Ep. LXXIII, 7: SAEMO 21, p. 66.

(12) Ibid., 29: l.c., p. 78.

(13) De Noe, 26, 94: SAEMO 2I, p. 484.

(14) De Nabuthae, 12, 53: SAEMO 6, p. 172; cfr Expositio ev. sec. Lucam, VII, 124: SAEMO 12, p. 184.

(15) Ep. LXII, 4-5: SAEMO 20, p. 148; cfr De Tobia, 14, 50: SAEMO 6, p. 246.

(16) Cfr Ep. XXVII, 1-3: SAEMO 19, p. 252.

(17) Confessiones, VIII, 1,2: CCL 27, 113.

(18) 3 Cfr Ep. XVII, 14: SAEMO 19, p. 176; Ep. XXIV, 13: SAEMO 19, p. 244.

(19) « Neque enim minus vos diligo, quos in Evangelio genui, quam si coniugio suscepissem », De officiis, I, 7, 24: SAEMO 13, p. 36.

(20) De virginibus, I, 5, 21: SAEMO 14I, p. 122.

(21) Expositio ps. CXVIII, XX, 46: SAEMO 10, p. 358.

(22) Contra Auxentium = Ep. LXXVa, 34: SAEMO 21, p. 134.

(23) Confessiones, VI, 3, 3: CCL 27,75.

(24) Paolino, Vita Ambrosii, 38, 3: ed. A.A.R. Bastiaensen, Milano 1975, p. 102.

(25) Confessiones, VI, 3, 3: CCL 27,75.

(26) Cfr Contra Auxentium = Ep. LXXVa, 36: SAEMO 21, p. 136.

(27) Cfr Ep. extra coll. I, 27-28: SAEMO 21, p. 188.

(28) Cfr Ep. extra coll. XI, l.c., pp. 230-240.

(29) De obitu Theodosii, 33: SAEMO 18, p. 234.

(30) Cfr Expositio ps. CXVIII, XI, 9: SAEMO 9, p. 458.

(31) N. 40: AAS 87 (1995), 31.

(32) Explanatio ps. I, 33: SAEMO 7, p. 80.

(33) Expositio ps. CXVIII, VIII, 59: SAEMO 9, p. 374; cfr ibid., 60, l.c., p. 376.

(34) Ep. XXXVI, 3: SAEMO 20, p. 24.

(35) Expositio ps. CXVIII, XI, 9: SAEMO 9, p. 458.

(36) De Cain et Abel, II, 6, 22: SAEMO 2I, p. 282; cfr Expositio ps. CXVIII, VIII, 59: SAEMO 9, p. 374.

(37) Expositio ps. CXVIII, XIII, 7: SAEMO 10, p. 66; cfr Explanatio ps. I, 31: SAEMO 7, p. 76.

(38) De virginitate, 16, 99: SAEMO 14II, p. 80.

(39) Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 40: AAS 87 (1995), 31.

(40) Cfr De fide, V, 19, 228: SAEMO 15, pp. 446-448.

(41) Ibid., IV, 8, 91: SAEMO 15, p. 296; cfr Explanatio ps. XXXV, 22: SAEMO 7, p. 138.

(42) De fide, IV, 8, 88: SAEMO 15, p. 294.

(43) Ibid., II, Prol. 3: l.c., p. 128; cfr ibid., I, 10, 67; II, 6, 50: l.c., pp. 88; 150.

(44) Explanatio ps. XLIII, 89: SAEMO 8, p. 188.

(45) Exameron, VI, 10, 76: SAEMO 1, p. 418.

(46) Cfr De fide, II, 7, 53; 11, 93: SAEMO 15, pp. 150-152; 170-172; De interpell. Iob et David, IV (II), 4, 17: SAEMO 4, p. 238; De Iacob et vita beata, I, 6, 26: SAEMO 3, p. 256; Expositio ev. sec. Lucam, II, 41: SAEMO 11, pp. 182-184 et al.

(47) Cfr Explanatio ps. XXXIX, 6-15: SAEMO 8, pp. 14-18.

(48) Cfr De Isaac vel anima, 4, 31: SAEMO 3, pp. 68-69; Expositio ps. CXVIII, VI, 6: SAEMO 9, p. 244.

(49) De fide, V, 8, 109: SAEMO 15, p. 386.

(50) Cfr Expositio ps. CXVIII, X, 14: SAEMO 9, p. 412.

(51) Cfr ibid., III, 8: l.c., p. 130.

(52) Cfr ibid., l.c., p. 132.

(53) Cfr ibid., V, 42: l.c., p. 234.

(54) Cfr De fide, II, 11, 95: SAEMO 15, p. 172.

(55) Cfr Explanatio ps. XLVIII, 2: SAEMO 8, pp. 252-254; De paradiso, 10, 47: SAEMO 2I, p. 114.

(56) De fide, IV, 1, 7: SAEMO 15, p. 260.

(57) Explanatio ps. XLIII, 78: SAEMO 8, p. 178.

(58) Cfr Expositio ev. sec. Lucam, IV, 6: SAEMO 11, pp. 302-304.

(59) Cfr Explanatio ps. XLIII, 94: SAEMO 8, p. 194.

(60) Cfr Expositio ps. CXVIII, V, 24: SAEMO 9, p. 216.

(61) Cfr De fide, V, 14, 181: SAEMO 15, p. 420.

(62) Cfr Explanatio ps. XXXV, 22: SAEMO 7, p. 138.

(63) Ibid., 36, l.c., p. 194; cfr De fide, V, 18, 222: SAEMO 15, p. 444.

(64) Explanatio ps. XLVIII, 15: SAEMO 8, p. 264.

(65) Cfr De fide, V, 12, 150: SAEMO 15, p. 404; ibid., V, 7,90, l.c., p. 376.

(66) Cfr Expositio ps. CXVIII, XIX, 5: SAEMO 10, p. 288.

(67) Cfr Expositio ps. CXVIII, XIV, 6: SAEMO 10, p. 90; Explanatio ps. I, 56: SAEMO 7, p. 108; Explanatio ps. XXXVII, 41: l.c., p. 304; Explanatio ps. XLIII, 89: SAEMO 8, p. 188.

(68) Cfr Expositio ps. CXVIII, XVIII, 20: SAEMO 10, p. 260.

(69) Cfr ibid., XI, 6: SAEMO 9, p. 454.

(70) Cfr Explanatio ps. XLVII, 10: SAEMO 8, p. 236.

(71) Cfr De Iacob et vita beata, I, 6, 21: SAEMO 3, p. 250.

(72) Cfr De patriarchis, 9, 38: SAEMO 4, p. 50.

(73) Cfr Explanatio ps. XLIII, 78: SAEMO 8, p. 178.

(74) Cfr Expositio ps. CXVIII, VIII, 53: SAEMO 9, pp. 366-368.

(75) Cfr De Isaac vel anima, 8, 79: SAEMO 3, p. 124; De fide, II, 2, 25: SAEMO 15, p. 140.

(76) Ep. XI, 6: SAEMO 19, p. 118; cfr De bono mortis, 12, 55: SAEMO 3, pp. 204-206.

(77) De fide, II, 9, 77: SAEMO 15, p. 164.

(78) Hymni, II, « Splendor paterne gloriae »: SAEMO 22, p. 38; cfr De Noe 29, 111: SAEMO 2I, p. 502.

(79) Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 42: AAS 87 (1995), 32.

(80) De Isaac vel anima, 8, 71: SAEMO 3, p. 114.

(81) Ibid., 8, 72: l.c.

(82) Cfr De Iacob et vita beata, I, 8, 39: SAEMO 3, p. 272.

(83) Cfr Explanatio ps. XLIII, 28: SAEMO 8, pp. 120-122.

(84) Cfr De officiis, III, 1, 7: SAEMO 13, p. 276.

(85) Cfr Explanatio ps. LXI, 14: SAEMO 8, p. 294.

(86) Cfr De fide, IV, 3, 35: SAEMO 15, p. 272.

(87) « Inhabitet in tuis Iesus membris ». Expositio ps. CXVIII, IV, 26: SAEMO 9, p. 192.

(88) Cfr Explanatio ps. XLVII, 10: SAEMO 8, pp. 223-236; Explanatio ps. XXXVI, 12: SAEMO 7, p. 160.

(89) Cfr Expositio ps. CXVIII, XI, 4: SAEMO 9, p. 450.

(90) Cfr Explanatio ps. XXXVII, 5: SAEMO 7, p. 260.

(91) Cfr Explanatio ps. XL, 4: SAEMO 8, p. 40.

(92) Cfr Expositio ps. CXVIII, XIX, 16; 18; 30; 32: SAEMO 10, pp. 296; 298; 310; 312; Explanatio ps. XXXXVIII, 11: SAEMO 7, p. 340.

(93) Cfr De Isaac vel anima, 4, 33: SAEMO 3, p. 70.

(94) 2 Cfr Explanatio ps. XXXVI, 65: SAEMO 7, p. 232.

(95) 2 Cfr ibid., 16: l.c., pp. 164-166.

(96) 2 Cfr Explanatio ps. XXXVII, 32: SAEMO 7, pp. 292-294; De Iacob et vita beata, I, 7, 27: SAEMO 3, p. 256.

(97) 2 Cfr De fide, II, 11, 95: SAEMO 15, p. 172.

(98) 2 De virginitate, 16, 99: SAEMO 14II, p. 80.

(99) 2 De bono mortis, 12, 53: SAEMO 3, p. 202.

(100) Ibid., 12, 55: l.c., p. 204.

(101) De sacramentis, II, 7, 23: SAEMO 17, p. 70.

(102) Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 41: AAS 87 (1995), 32.

(103) De sacramentis, IV, 4, 16: SAEMO 17, p. 94; cfr Explanatio ps. XXXVIII, 25: SAEMO 7, p. 358.

(104) Ibid., V, 4, 25: l.c., p. 114.

(105) « Christusque nobis sit cibus potusque noster sit fides: laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus »: Hymni, II: SAEMO 22, pp. 36-38.

(106) De Sacramentis, V, 3, 17: SAEMO 17, p. 108.

(107) Explanatio ps. I, 33: SAEMO 7, p. 80.

(108) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 41: AAS 87 (1995), 32.

(109) Exameron, III, XIII, 55: SAEMO 1, p. 170.

(110) Cfr VI, 104-105 (pagani); 106 (Ebrei); 107-109 (catecumeni): SAEMO 12, pp. 86-92.

(111) Paolino, Vita Ambrosii, 36, 1-2: ed. A.A.R. Bastiaensen, Milano 1975, p. 100.

(112) Expositio ev. sec. Lucam, II, 26: SAEMO 11, p. 168.

(113) Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 43: AAS 87 (1995), 32.

(114) Expositio ev. sec. Lucam, II, 26: SAEMO 11, p. 168.

(115) De virginitate, 65: SAEMO 14II, p. 56.

(116) Expositio ps. CXVIII, V, 9: SAEMO 9, p. 204; cfr. ibid., III, 8: l.c., pp. 130-132; Expositio ev. sec. Lucam, VI, 32-33: SAEMO 12, pp. 32-34.

(117) De institutione virginis, 7, 49: SAEMO 14II, p. 148; cfr Ep. extra coll. 14, 110: SAEMO 21, p. 320.

(118) Ep. extra coll. XIV, 113: SAEMO 21, p. 320.


INDICE

I. Ambrogio Vescovo . . . . . .

II. « Lo sguardo fisso sulla Parola di Dio »

III. « Cristo è tutto per noi » . . . . .

IV. « La sobria ebbrezza dello Spirito » .

V. Al servizio dell'unità . . . . . .

VI. « Sia in ciascuno l'anima di Maria » .

 

 

Novo Millennio Ineunte

LETTERA APOSTOLICA
NOVO MILLENNIO INEUNTE

DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
AL TERMINE DEL GRANDE GIUBILEO
DELL'ANNO DUEMILA

 

Ai Confratelli nell'Episcopato,
ai sacerdoti e ai diaconi,
ai religiosi e alle religiose,
a tutti i fedeli laici.

1. All'inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l'Apostolo a « prendere il largo » per la pesca: « Duc in altum » (Lc 5,4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. « E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci » (Lc 5,6).

Duc in altum! Questa parola risuona oggi per noi, e ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: « Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre! » (Eb 13,8).

Grande è stata quest'anno la gioia della Chiesa, che si è dedicata a contemplare il volto del suo Sposo e Signore. Essa si è fatta più che mai popolo pellegrinante, guidato da Colui che è « il Pastore grande delle pecore » (Eb 13,20). Con uno straordinario dinamismo, che ha coinvolto tanti suoi membri, il Popolo di Dio, qui a Roma, come a Gerusalemme e in tutte le singole Chiese locali, è passato attraverso la « Porta Santa » che è Cristo. A lui, traguardo della storia e unico Salvatore del mondo, la Chiesa e lo Spirito hanno gridato: « Marana tha — Vieni, Signore Gesù » (cfr Ap 22,17.20; 1 Cor 16,22).

È impossibile misurare l'evento di grazia che, nel corso dell'anno, ha toccato le coscienze. Ma certamente, « un fiume d'acqua viva », quello che perennemente scaturisce « dal trono di Dio e dell'Agnello » (cfr Ap 22,1), si è riversato sulla Chiesa. E l'acqua dello Spirito che disseta e rinnova (cfr Gv 4,14). E l'amore misericordioso del Padre che, in Cristo, ci è stato ancora una volta svelato e donato. Al termine di quest'anno possiamo ripetere, con rinnovata esultanza, l'antica parola della gratitudine: « Celebrate il Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia » (Sal 118[117],1).

2. Sento perciò il bisogno di rivolgermi a voi, carissimi, per condividere il canto della lode. A quest'Anno Santo del Duemila avevo pensato, come ad una scadenza importante, fin dall'inizio del mio Pontificato. Avevo colto, in questa celebrazione, un appuntamento provvidenziale, in cui la Chiesa, a trentacinque anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II, sarebbe stata invitata ad interrogarsi sul suo rinnovamento per assumere con nuovo slancio la sua missione evangelizzatrice.

È riuscito il Giubileo in questo intento? Il nostro impegno, con i suoi sforzi generosi e le immancabili fragilità, è davanti allo sguardo di Dio. Ma non possiamo sottrarci al dovere della gratitudine per le « meraviglie » che Dio ha compiuto per noi. « Misericordias Domini in aeternum cantabo » (Sal 89[88],2).

Al tempo stesso, quanto è avvenuto sotto i nostri occhi chiede di essere riconsiderato e, in certo senso, decifrato, per ascoltare ciò che lo Spirito, lungo quest'anno così intenso, ha detto alla Chiesa (cfr Ap 2,7.11.17 ecc.).

3. Soprattutto, carissimi Fratelli e Sorelle, è doveroso per noi proiettarci verso il futuro che ci attende. Tante volte, in questi mesi, abbiamo guardato al nuovo millennio che si apre, vivendo il Giubileo non solo come memoria del passato, ma come profezia dell'avvenire. Bisogna ora far tesoro della grazia ricevuta, traducendola in fervore di propositi e concrete linee operative. Un compito al quale desidero invitare tutte le Chiese locali. In ciascuna di esse, raccolta intorno al suo Vescovo, nell'ascolto della Parola, nell'unione fraterna e nella « frazione del pane » (cfr At 2,42), è « veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica ».1 È soprattutto nel concreto di ciascuna Chiesa che il mistero dell'unico Popolo di Dio assume quella speciale configurazione che lo rende aderente ai singoli contesti e culture.

Questo radicarsi della Chiesa nel tempo e nello spazio riflette, in ultima analisi, il movimento stesso dell'Incarnazione. E ora dunque che ciascuna Chiesa, riflettendo su ciò che lo Spirito ha detto al Popolo di Dio in questo speciale anno di grazia, ed anzi nel più lungo arco di tempo che va dal Concilio Vaticano II al Grande Giubileo, compia una verifica del suo fervore e recuperi nuovo slancio per il suo impegno spirituale e pastorale. È a tal fine che desidero offrire in questa Lettera, a conclusione dell'Anno giubilare, il contributo del mio ministero petrino, perché la Chiesa risplenda sempre di più nella varietà dei suoi doni e nell'unità del suo cammino.

I
L'incontro con Cristo
EreditÀ del Grande Giubileo

4. « Noi ti rendiamo grazie, Signore Dio onnipotente » (Ap 11,17). Nella Bolla di indizione del Giubileo auspicavo che la celebrazione bimillenaria del mistero dell'Incarnazione fosse vissuta come «un unico, ininterrotto canto di lode alla Trinità»2 e insieme «come cammino di riconciliazione e come segno di genuina speranza per quanti guardano a Cristo ed alla sua Chiesa».3 L'esperienza dell'Anno giubilare si è modulata appunto secondo queste dimensioni vitali, raggiungendo momenti di intensità che ci hanno fatto quasi toccare con mano la presenza misericordiosa di Dio, dal quale «discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto» (Gc 1,17).

Penso alla dimensione della lode, innanzitutto. È da qui infatti che muove ogni autentica risposta di fede alla rivelazione di Dio in Cristo. Il cristianesimo è grazia, è la sorpresa di un Dio che, non pago di creare il mondo e l'uomo, si è messo al passo con la sua creatura, e dopo aver parlato a più riprese e in diversi modi « per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio » (Eb 1,1-2).

In questi giorni! Sì, il Giubileo ci ha fatto sentire che duemila anni di storia sono passati senza attenuare la freschezza di quell'« oggi » con cui gli angeli annunciarono ai pastori l'evento meraviglioso della nascita di Gesù a Betlemme: « Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2,11). Duemila anni sono passati, ma resta più che mai viva la proclamazione che Gesù fece della sua missione davanti ai suoi attoniti concittadini nella sinagoga di Nazareth, applicando a sé la profezia di Isaia: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi » (Lc 4,21). Duemila anni sono passati, ma torna sempre consolante per i peccatori bisognosi di misericordia — e chi non lo è ? — quell'« oggi » della salvezza che sulla Croce aprì le porte del Regno di Dio al ladrone pentito: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso » (Lc 23,43).

La pienezza del tempo

5. La coincidenza di questo Giubileo con l'ingresso in un nuovo millennio ha certamente favorito, senza alcun cedimento a fantasie millenariste, la percezione del mistero di Cristo nel grande orizzonte della storia della salvezza. Il cristianesimo è religione calata nella storia! È sul terreno della storia, infatti, che Dio ha voluto stabilire con Israele un'alleanza e preparare così la nascita del Figlio dal grembo di Maria nella « pienezza del tempo » (Gal 4,4). Colto nel suo mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima. È per mezzo di lui, infatti, Verbo e immagine del Padre, che « tutto è stato fatto » (Gv 1,3; cfr Col 1,15). La sua incarnazione, culminante nel mistero pasquale e nel dono dello Spirito, costituisce il cuore pulsante del tempo, l'ora misteriosa in cui il Regno di Dio si è fatto vicino (cfr Mc 1,15), anzi ha messo radici, come seme destinato a diventare un grande albero (cfr Mc 4,30-32), nella nostra storia.

« Gloria a te, Cristo Gesù, oggi e sempre tu regnerai ». Con questo canto mille e mille volte ripetuto, abbiamo quest'anno contemplato Cristo quale ce lo presenta l'Apocalisse: « l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio e la fine » (Ap 22,13). E contemplando Cristo, abbiamo insieme adorato il Padre e lo Spirito, l'unica e indivisa Trinità, mistero ineffabile in cui tutto ha la sua origine e tutto il suo compimento.

Purificazione della memoria

6. Perché il nostro occhio potesse essere più puro per contemplare il mistero, quest'Anno giubilare è stato fortemente caratterizzato dalla richiesta di perdono. E ciò è stato vero non solo per i singoli, che si sono interrogati sulla propria vita, per implorare misericordia e ottenere il dono speciale dell'indulgenza, ma per l'intera Chiesa, che ha voluto ricordare le infedeltà con cui tanti suoi figli, nel corso della storia, hanno gettato ombra sul suo volto di Sposa di Cristo.

A questo esame di coscienza ci eravamo a lungo disposti, consapevoli che la Chiesa, comprendendo nel suo seno i peccatori, è « santa e sempre bisognosa di purificazione ».4 Convegni scientifici ci hanno aiutato a focalizzare quegli aspetti in cui lo spirito evangelico, nel corso dei primi due millenni, non sempre ha brillato. Come dimenticare la toccante Liturgia del 12 marzo 2000, in cui io stesso, nella Basilica di san Pietro, fissando lo sguardo sul Crocifisso, mi sono fatto voce della Chiesa chiedendo perdono per il peccato di tutti i suoi figli? Questa « purificazione della memoria » ha rafforzato i nostri passi nel cammino verso il futuro, rendendoci insieme più umili e vigili nella nostra adesione al Vangelo.

I testimoni della fede

7. La viva coscienza penitenziale, tuttavia, non ci ha impedito di rendere gloria al Signore per quanto ha operato in tutti i secoli, e in particolare nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle, assicurando alla sua Chiesa una grande schiera di santi e di martiri. Per alcuni di essi l'Anno giubilare è stato anche l'anno della beatificazione o canonizzazione. Riferita a Pontefici ben noti alla storia o ad umili figure di laici e religiosi, da un continente all'altro del globo, la santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo.

Molto si è fatto poi, in occasione dell'Anno Santo, per raccogliere le memorie preziose dei Testimoni della fede nel secolo XX. Li abbiamo commemorati il 7 maggio 2000, insieme con i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, nello scenario suggestivo del Colosseo, simbolo delle antiche persecuzioni. È un'eredità da non disperdere, da consegnare a un perenne dovere di gratitudine e a un rinnovato proposito di imitazione.

Chiesa pellegrinante

8. Quasi mettendosi sulle orme dei Santi, si sono avvicendati qui a Roma, presso le tombe degli Apostoli, innumerevoli figli della Chiesa, desiderosi di professare la propria fede, confessare i propri peccati e ricevere la misericordia che salva. Il mio sguardo quest'anno non è rimasto soltanto impressionato dalle folle che hanno riempito Piazza san Pietro durante molte celebrazioni. Non di rado mi sono soffermato a guardare le lunghe file di pellegrini in paziente attesa di varcare la Porta Santa. In ciascuno di essi cercavo di immaginare una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza.

Osservando poi il continuo fluire dei gruppi, ne traevo come un'immagine plastica della Chiesa pellegrinante, di quella Chiesa posta, come dice sant'Agostino, « fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio ».5 A noi non è dato di osservare che il volto più esteriore di questo evento singolare. Chi può misurare le meraviglie di grazia, che si sono realizzate nei cuori? Conviene tacere e adorare, fidandosi umilmente dell'azione misteriosa di Dio e cantandone l'amore senza fine: «Misericordias Domini in aeternum cantabo!».

I giovani

9. I numerosi incontri giubilari hanno visto radunarsi le più diverse categorie di persone, registrando una partecipazione davvero impressionante, che talvolta ha messo a dura prova l'impegno degli organizzatori e degli animatori, sia ecclesiali che civili. Desidero approfittare di questa Lettera per esprimere a tutti il mio grazie più cordiale. Ma al di là del numero, ciò che tante volte mi ha commosso è stata la constatazione dell'impegno serio di preghiera, di riflessione, di comunione, che questi incontri hanno per lo più manifestato.

E come non ricordare specialmente il gioioso ed entusiasmante raduno dei giovani? Se c'è un'immagine del Giubileo dell'Anno 2000 che più di altre resterà viva nella memoria, sicuramente è quella della marea di giovani con i quali ho potuto stabilire una sorta di dialogo privilegiato, sul filo di una reciproca simpatia e di un'intesa profonda. È stato così fin dal benvenuto che ho loro dato in Piazza san Giovanni in Laterano e in Piazza san Pietro. Poi li ho visti sciamare per la Città, allegri come devono essere i giovani, ma anche pensosi, desiderosi di preghiera, di « senso », di amicizia vera. Non sarà facile, né per loro stessi, né per quanti li hanno osservati, cancellare dalla memoria quella settimana in cui Roma si è fatta « giovane coi giovani ». Non sarà possibile dimenticare la celebrazione eucaristica di Tor Vergata.

Ancora una volta, i giovani si sono rivelati per Roma e per la Chiesa un dono speciale dello Spirito di Dio. C'è talvolta, quando si guarda ai giovani, con i problemi e le fragilità che li segnano nella società contemporanea, una tendenza al pessimismo. Il Giubileo dei Giovani ci ha come «spiazzati», consegnandoci invece il messaggio di una gioventù che esprime un anelito profondo, nonostante possibili ambiguità, verso quei valori autentici che hanno in Cristo la loro pienezza. Non è forse Cristo il segreto della vera libertà e della gioia profonda del cuore? Non è Cristo l'amico supremo e insieme l'educatore di ogni autentica amicizia? Se ai giovani Cristo è presentato col suo vero volto, essi lo sentono come una risposta convincente e sono capaci di accoglierne il messaggio, anche se esigente e segnato dalla Croce. Per questo, vibrando al loro entusiasmo, non ho esitato a chiedere loro una scelta radicale di fede e di vita, additando un compito stupendo: quello di farsi « sentinelle del mattino » (cfr Is 21,11-12) in questa aurora del nuovo millennio.

Pellegrini delle varie categorie

10. Non posso ovviamente soffermarmi in dettaglio sui singoli eventi giubilari. Ciascuno di essi ha avuto il suo carattere e ha lasciato il suo messaggio non solo a quanti vi hanno preso parte direttamente, ma anche a quanti ne hanno avuto notizia o vi hanno partecipato a distanza, attraverso i mass media. Ma come non ricordare il tono festoso del primo grande incontro dedicato ai bambini? Iniziare con loro, significava in certo modo rispettare il monito di Gesù: « Lasciate che i bambini vengano a me » (Mc 10,14). Significava forse ancor più ripetere il gesto che egli compì, quando « pose in mezzo » un bambino e ne fece il simbolo stesso dell'atteggiamento da assumere, se si vuole entrare nel Regno di Dio (cfr Mt 18,2-4).

Così, in certo senso, è sulle orme dei bambini che sono venuti a chiedere la misericordia giubilare le più varie categorie di adulti: dagli anziani ai malati e disabili, dai lavoratori delle officine e dei campi agli sportivi, dagli artisti ai docenti universitari, dai Vescovi e presbiteri alle persone di vita consacrata, dai politici ai giornalisti fino ai militari, venuti a ribadire il senso del loro servizio come un servizio alla pace.

Grande respiro ebbe il raduno dei lavoratori, svoltosi il 1° maggio nella tradizionale data della festa del lavoro. Ad essi chiesi di vivere la spiritualità del lavoro, ad imitazione di san Giuseppe e di Gesù stesso. Il loro giubileo mi offrì inoltre l'occasione per pronunciare un forte invito a sanare gli squilibri economici e sociali esistenti nel mondo del lavoro, e a governare con decisione i processi della globalizzazione economica in funzione della solidarietà e del rispetto dovuto a ciascuna persona umana.

I bambini, con la loro incontenibile festosità, sono tornati nel Giubileo delle Famiglie, in cui sono stati additati al mondo come « primavera della famiglia e della società ». Davvero eloquente è stato questo incontro giubilare, in cui tante famiglie, provenienti dalle diverse regioni del mondo, sono venute ad attingere con rinnovato fervore la luce di Cristo sul disegno originario di Dio a loro riguardo (cfr Mc 10,6-8; Mt 19,4-6). Esse si sono impegnate a irradiarla verso una cultura che rischia di smarrire in modo sempre più preoccupante il senso stesso del matrimonio e dell'istituto familiare.

Tra gli incontri più toccanti, poi, rimane per me quello che ho avuto con i carcerati di Regina Caeli. Nei loro occhi ho letto il dolore, ma anche il pentimento e la speranza. Per loro il Giubileo è stato a titolo tutto speciale un « anno di misericordia ».

Simpatico, infine, negli ultimi giorni dell'anno, l'incontro con il mondo dello spettacolo, che tanta forza di attrazione esercita sull'animo della gente. Alle persone coinvolte in questo settore ho ricordato la grande responsabilità di proporre, con il lieto divertimento, messaggi positivi, moralmente sani, capaci di infondere fiducia e amore alla vita.

Il Congresso Eucaristico Internazionale

11. Nella logica di quest'Anno giubilare, un significato qualificante doveva avere il Congresso Eucaristico Internazionale. E lo ha avuto! Se l'Eucaristia è il sacrificio di Cristo che si rende presente tra noi, poteva la sua presenza reale non essere al centro dell'Anno Santo dedicato all'incarnazione del Verbo? Fu previsto, proprio per questo, come anno «intensamente eucaristico»6 e così abbiamo cercato di viverlo. Al tempo stesso, come poteva mancare, accanto al ricordo della nascita del Figlio, quello della Madre? Maria è stata presente nella celebrazione giubilare non solo attraverso opportuni e qualificati Convegni, ma soprattutto attraverso il grande Atto di affidamento con cui, affiancato da buona parte dell'Episcopato mondiale, ho consegnato alla sua premura materna la vita degli uomini e delle donne del nuovo millennio.

La dimensione ecumenica

12. Si comprenderà che mi sia spontaneo parlare soprattutto del Giubileo visto dalla Sede di Pietro. Non dimentico tuttavia di aver voluto io stesso che la sua celebrazione avesse luogo a pieno titolo anche nelle Chiese particolari, ed è lì che la maggior parte dei fedeli ha potuto ottenere le grazie speciali e, in particolare, l'indulgenza legata all'Anno giubilare. Resta comunque significativo che numerose Diocesi abbiano sentito il desiderio di rendersi presenti, con vasti gruppi di fedeli, anche qui a Roma. La Città eterna ha così manifestato ancora una volta il suo ruolo provvidenziale di luogo in cui le ricchezze e i doni di ogni singola Chiesa, ed anzi di ogni singola nazione e cultura, si armonizzano nella « cattolicità », perché l'unica Chiesa di Cristo manifesti in modo sempre più eloquente il suo mistero di sacramento di unità.7

Un'attenzione speciale avevo anche chiesto che si riservasse nel programma dell'Anno giubilare alla dimensione ecumenica. Quale occasione più propizia, per incoraggiare il cammino verso la piena comunione, che la comune celebrazione della nascita di Cristo? Molti sforzi sono stati compiuti a tale scopo, e rimane luminoso l'incontro ecumenico nella Basilica di san Paolo, il 18 gennaio 2000, quando per la prima volta nella storia una Porta Santa è stata aperta congiuntamente dal Successore di Pietro, dal Primate Anglicano e da un Metropolita del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, alla presenza di rappresentanti di Chiese e Comunità ecclesiali di tutto il mondo. In questa linea sono andati anche alcuni importanti incontri con Patriarchi ortodossi e Capi di altre Confessioni cristiane. Ricordo, in particolare, la recente visita di S.S. Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni. Inoltre tanti fedeli di altre Chiese e Comunità ecclesiali hanno partecipato agli incontri giubilari delle singole categorie. Il cammino ecumenico resta certo faticoso, forse lungo, ma ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove.

Il pellegrinaggio in Terra Santa

13. E come poi non ricordare il mio personale Giubileo sulle strade della Terra Santa? Avrei desiderato iniziarlo ad Ur dei Caldei, per mettermi quasi sensibilmente sulle orme di Abramo «nostro padre nella fede» (cfr Rm 4,11-16). Dovetti invece accontentarmi di una tappa solo spirituale, con la suggestiva « Liturgia della Parola » celebrata il 23 febbraio nell'Aula Paolo VI. Venne subito dopo il pellegrinaggio vero e proprio, seguendo l'itinerario della storia della salvezza. Ebbi così la gioia di sostare al Monte Sinai, nello scenario del dono del Decalogo e della prima Alleanza. Ripresi un mese più tardi il cammino, toccando il Monte Nebo e recandomi poi negli stessi luoghi abitati e santificati dal Redentore. È difficile esprimere la commozione che ho provato nel poter venerare i luoghi della nascita e della vita di Cristo, a Betlemme e a Nazareth, nel celebrare l'Eucaristia nel Cenacolo, nello stesso luogo della sua istituzione, nel rimeditare il mistero della Croce sul Golgotha, dove Egli ha dato la vita per noi. In quei luoghi, ancora tanto travagliati e anche recentemente funestati dalla violenza, ho potuto sperimentare un'accoglienza straordinaria non soltanto da parte dei figli della Chiesa, ma anche da parte delle comunità israeliana e palestinese. Intensa è stata poi la mia emozione nella preghiera presso il Muro del Pianto e nella visita al Mausoleo di Yad Vashem, ricordo agghiacciante delle vittime dei campi di sterminio nazisti. Quel pellegrinaggio è stato un momento di fraternità e di pace, che mi piace raccogliere come uno dei più bei doni dell'evento giubilare. Ripensando al clima vissuto in quei giorni, non posso non esprimere l'augurio sentito di una sollecita e giusta soluzione dei problemi ancora aperti in quei luoghi santi, congiuntamente cari agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani.

Il debito internazionale

14. Il Giubileo è stato anche — e non poteva essere diversamente — un grande evento di carità. Fin dagli anni preparatori, avevo fatto appello ad una maggiore e più operosa attenzione ai problemi della povertà che ancora travagliano il mondo. Un particolare significato ha assunto, in questo scenario, il problema del debito internazionale dei Paesi poveri. Nei confronti di questi ultimi, un gesto di generosità era nella logica stessa del Giubileo, che nella sua originaria configurazione biblica era appunto il tempo in cui la comunità si impegnava a ristabilire giustizia e solidarietà nei rapporti tra le persone, restituendo anche i beni materiali sottratti. Sono lieto di osservare che recentemente i Parlamenti di molti degli Stati creditori hanno votato un sostanziale condono del debito bilaterale a carico dei Paesi più poveri e indebitati. Faccio voti che i rispettivi Governi diano compimento, in tempi brevi, a queste decisioni parlamentari. Piuttosto problematica si è rivelata invece la questione del debito multilaterale, contratto dai Paesi più poveri con gli Organismi finanziari internazionali. C'è da augurarsi che gli Stati membri di tali Organizzazioni, soprattutto quelli che hanno un maggiore peso decisionale, riescano a trovare i necessari consensi per arrivare alla rapida soluzione di una questione, da cui dipende il cammino di sviluppo di molti Paesi, con pesanti conseguenze per la condizione economica ed esistenziale di tante persone.

Un dinamismo nuovo

15. Sono, queste, soltanto alcune delle linee emergenti dall'esperienza giubilare. Essa lascia impressi in noi tanti ricordi. Ma se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità che essa ci consegna, non esiterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo: lui considerato nei suoi lineamenti storici e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo, confessato come senso della storia e luce del nostro cammino.

Ora dobbiamo guardare avanti, dobbiamo « prendere il largo », fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum! Ciò che abbiamo fatto quest'anno non può giustificare una sensazione di appagamento ed ancor meno indurci ad un atteggiamento di disimpegno. Al contrario, le esperienze vissute devono suscitare in noi un dinamismo nuovo, spingendoci ad investire l'entusiasmo provato in iniziative concrete. Gesù stesso ci ammonisce: « Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio » (Lc 9,62). Nella causa del Regno non c'è tempo per guardare indietro, tanto meno per adagiarsi nella pigrizia. Molto ci attende, e dobbiamo per questo porre mano ad un'efficace programmazione pastorale post-giubilare.

È tuttavia importante che quanto ci proporremo, con l'aiuto di Dio, sia profondamente radicato nella contemplazione e nella preghiera. Il nostro è tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all'agitazione, col facile rischio del « fare per fare ». Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di « essere » prima che di « fare ». Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: « Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno » (Lc 10,41-42). In questo spirito, prima di proporre alla vostra considerazione alcune linee operative, desidero parteciparvi qualche spunto di meditazione sul mistero di Cristo, fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale.

 

II
UN VOLTO DA CONTEMPLARE

16. « Vogliamo vedere Gesù » (Gv 12,21). Questa richiesta, fatta all'apostolo Filippo da alcuni Greci che si erano recati a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale, è riecheggiata spiritualmente anche alle nostre orecchie in questo Anno giubilare. Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di « parlare » di Cristo, ma in certo senso di farlo loro « vedere ». E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?

La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto. Il Grande Giubileo ci ha sicuramente aiutati ad esserlo più profondamente. A conclusione del Giubileo, mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell'animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore.

La testimonianza dei Vangeli

17. E la contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto di Lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata dal suo mistero, oscuramente additato nell'Antico Testamento, pienamente rivelato nel Nuovo, al punto che san Girolamo sentenzia con vigore: «L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo stesso».8 Restando ancorati alla Scrittura, ci apriamo all'azione dello Spirito (cfr Gv 15,26), che è all'origine di quegli scritti, e insieme alla testimonianza degli Apostoli (cfr ibid., 27), che hanno fatto esperienza viva di Cristo, il Verbo della vita, lo hanno visto con i loro occhi, udito con le loro orecchie, toccato con le loro mani (cfr 1 Gv 1,1).

Quella che ci giunge per loro tramite è una visione di fede, suffragata da una precisa testimonianza storica: una testimonianza veritiera, che i Vangeli, pur nella loro complessa redazione e con un'intenzionalità primariamente catechetica, ci consegnano in modo pienamente attendibile.9

18. I Vangeli in realtà non pretendono di essere una biografia completa di Gesù secondo i canoni della moderna scienza storica. Da essi tuttavia il volto del Nazareno emerge con sicuro fondamento storico, giacché gli Evangelisti si preoccuparono di delinearlo raccogliendo testimonianze affidabili (cfr Lc 1,3) e lavorando su documenti sottoposti al vigile discernimento ecclesiale. Fu sulla base di queste testimonianze della prima ora che essi, sotto l'azione illuminante dello Spirito Santo, appresero il dato umanamente sconcertante della nascita verginale di Gesù da Maria, sposa di Giuseppe. Da chi lo aveva conosciuto durante i circa trent'anni da lui trascorsi a Nazareth (cfr Lc 3,23), raccolsero i dati sulla sua vita di « figlio del carpentiere » (Mt 13,55) e «carpentiere» egli stesso, ben collocato nel quadro della sua parentela (cfr Mc 6,3). Ne registrarono la religiosità, che lo spingeva a recarsi con i suoi in pellegrinaggio annuale al tempio di Gerusalemme (cfr Lc 2,41) e soprattutto lo rendeva abituale frequentatore della sinagoga della sua città (cfr Lc 4,16).

Le notizie si fanno poi più ampie, pur senza essere un resoconto organico e dettagliato, per il periodo del ministero pubblico, a partire dal momento in cui il giovane Galileo si fa battezzare da Giovanni Battista al Giordano, e forte della testimonianza dall'alto, con la consapevolezza di essere il « figlio prediletto » (Lc 3,22), inizia la sua predicazione dell'avvento del Regno di Dio, illustrandone le esigenze e la potenza attraverso parole e segni di grazia e misericordia. I Vangeli ce lo presentano così in cammino per città e villaggi, accompagnato da dodici Apostoli da lui scelti (cfr Mc 3,13-19), da un gruppo di donne che li assistono (cfr Lc 8,2-3), da folle che lo cercano o lo seguono, da malati che ne invocano la potenza guaritrice, da interlocutori che ne ascoltano, con vario profitto, le parole.

La narrazione dei Vangeli converge poi nel mostrare la crescente tensione che si verifica tra Gesù e i gruppi emergenti della società religiosa del suo tempo, fino alla crisi finale, che ha il suo drammatico epilogo sul Golgotha. È l'ora delle tenebre, a cui segue una nuova, radiosa e definitiva aurora. I racconti evangelici si chiudono infatti mostrando il Nazareno vittorioso sulla morte, ne additano la tomba vuota e lo seguono nel ciclo delle apparizioni, nelle quali i discepoli, prima perplessi e attoniti, poi colmi di indicibile gioia, lo sperimentano vivente e radioso, e da lui ricevono il dono dello Spirito (cfr Gv 20,22) e il mandato di annunciare il Vangelo a « tutte le nazioni » (Mt 28,19).

La via della fede

19. « E i discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20). Il volto che gli Apostoli contemplarono dopo la risurrezione era lo stesso di quel Gesù col quale avevano vissuto circa tre anni, e che ora li convinceva della verità strabiliante della sua nuova vita mostrando loro « le mani e il costato » (ibid.). Certo, non fu facile credere. I discepoli di Emmaus credettero solo dopo un faticoso itinerario dello spirito (cfr Lc 24,13-35). L'apostolo Tommaso credette solo dopo aver constatato il prodigio (cfr Gv 20,24-29). In realtà, per quanto si vedesse e si toccasse il suo corpo, solo la fede poteva varcare pienamente il mistero di quel volto. Era, questa, un'esperienza che i discepoli dovevano aver fatto già nella vita storica di Cristo, negli interrogativi che affioravano alla loro mente ogni volta che si sentivano interpellati dai suoi gesti e dalle sue parole. A Gesù non si arriva davvero che per la via della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo stesso sembra delinearci le tappe nella ben nota scena di Cesarea di Filippo (cfr Mt 16,13-20). Ai discepoli, quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che cosa la « gente » pensi di lui, ricevendone come risposta: « Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti » (Mt 16,14). Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora — e quanto! — dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa decisamente eccezionale di questo rabbì che parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo della sua persona, quello che Egli si aspetta dai «suoi»: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Solo la fede professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore, raggiungendo la profondità del mistero: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

20. Com'era arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: « Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (16,17). L'espressione « carne e sangue » evoca l'uomo e il modo comune di conoscere. Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di « rivelazione » che viene dal Padre (cfr ibid.). Luca ci offre un'indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che questo dialogo con i discepoli si svolse « mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare » (Lc 9,18). Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell'evangelista Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14).

La profondità del mistero

21. Il Verbo e la carne, la gloria divina e la sua tenda tra gli uomini! È nell'unione intima e indissociabile di queste due polarità che sta l'identità di Cristo, secondo la formulazione classica del Concilio di Calcedonia (a. 451): « una persona in due nature ». La persona è quella, e solo quella, del Verbo eterno, figlio del Padre. Le due nature, senza confusione alcuna, ma anche senza alcuna possibile separazione, sono quella divina e quella umana.10

Siamo consapevoli della limitatezza dei nostri concetti e delle nostre parole. La formula, pur sempre umana, è tuttavia attentamente calibrata nel suo contenuto dottrinale e ci consente di affacciarci, in qualche modo, sull'abisso del mistero. Sì, Gesù è vero Dio e vero uomo! Come l'apostolo Tommaso, la Chiesa è continuamente invitata da Cristo a toccare le sue piaghe, a riconoscerne cioè la piena umanità assunta da Maria, consegnata alla morte, trasfigurata dalla risurrezione: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato » (Gv 20,27). Come Tommaso la Chiesa si prostra adorante davanti al Risorto, nella pienezza del suo splendore divino, e perennemente esclama: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20,28).

22. « Il Verbo si è fatto carne » (Gv 1,14). Questa folgorante presentazione giovannea del mistero di Cristo è confermata da tutto il Nuovo Testamento. In questa linea si pone anche l'apostolo Paolo quando afferma che il Figlio di Dio è « nato dalla stirpe di Davide secondo la carne » (Rm 1,3; cfr 9,5). Se oggi, col razionalismo che serpeggia in tanta parte della cultura contemporanea, è soprattutto la fede nella divinità di Cristo che fa problema, in altri contesti storici e culturali ci fu piuttosto la tendenza a sminuire o dissolvere la concretezza storica dell'umanità di Gesù. Ma per la fede della Chiesa è essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo « si è fatto carne » ed ha assunto tutte le dimensioni dell'umano, tranne il peccato (cfr Eb 4,15). In questa prospettiva, l'Incarnazione è veramente una kenosi, uno « spogliarsi », da parte del Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall'eternità (cfr Fil 2,6-8; 1 Pt 3,18).

D'altra parte, questo abbassamento del Figlio di Dio non è fine a se stesso; tende piuttosto alla piena glorificazione di Cristo, anche nella sua umanità: « Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).

23. « Il tuo volto, Signore, io cerco » (Sal 27[26], 8). L'antico anelito del Salmista non poteva ricevere esaudimento più grande e sorprendente che nella contemplazione del volto di Cristo. In lui veramente Dio ci ha benedetti, e ha fatto « splendere il suo volto » sopra di noi (cfr Sal 67[66], 3). Al tempo stesso, Dio e uomo qual è, egli ci rivela anche il volto autentico dell'uomo, « svela pienamente l'uomo all'uomo ».11

Gesù è « l'uomo nuovo » (Ef 4,24; cfr Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l'umanità redenta. Nel mistero dell'Incarnazione sono poste le basi per un'antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della « divinizzazione », attraverso l'inserimento in Cristo dell'uomo redento, ammesso all'intimità della vita trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell'Incarnazione i Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente uomo, l'uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio.12

Volto del Figlio

24. Questa identità divino-umana emerge con forza dai Vangeli, che ci offrono una serie di elementi grazie ai quali possiamo introdurci in quella « zona-limite » del mistero, rappresentata dall'auto-coscienza di Cristo. La Chiesa non dubita che nel loro racconto gli Evangelisti, ispirati dall'Alto, abbiano colto correttamente, nelle parole pronunciate da Gesù, la verità della sua persona e della coscienza che egli ne aveva. Non è forse questo che ci vuol dire Luca, raccogliendo le prime parole di Gesù, appena dodicenne, nel tempio di Gerusalemme? Egli appare già allora consapevole di essere in una relazione unica con Dio, quale è quella propria del « figlio ». Alla Madre, infatti, che gli fa notare l'angoscia con cui lei e Giuseppe lo hanno cercato, Gesù risponde senza esitazione: « Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » (Lc 2,49). Non meraviglia dunque che, nella maturità, il suo linguaggio esprima decisamente la profondità del suo mistero, come è abbondantemente sottolineato sia dai Vangeli sinottici (cfr Mt 11,27; Lc 10,22), sia soprattutto dall'evangelista Giovanni. Nella sua auto-coscienza Gesù non ha alcun dubbio: « Il Padre è in me e io nel Padre » (Gv 10,38).

Per quanto sia lecito ritenere che, per la condizione umana che lo faceva crescere « in sapienza, età e grazia » (Lc 2,52), anche la coscienza umana del suo mistero progredisse fino all'espressione piena della sua umanità glorificata, non c'è dubbio che già nella sua esistenza storica Gesù avesse consapevolezza della sua identità di Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea fino ad affermare che fu, in definitiva, per questo, che venne respinto e condannato: cercavano infatti di ucciderlo « perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio » (Gv 5,18). Nello scenario del Getsemani e del Golgotha, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Ma nemmeno il dramma della passione e morte riuscirà a intaccare la sua serena certezza di essere il Figlio del Padre celeste.

Volto dolente

25. La contemplazione del volto di Cristo ci conduce così ad accostare l'aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell'ora estrema, l'ora della Croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l'essere umano non può che prostrarsi in adorazione.

Passa davanti al nostro sguardo l'intensità della scena dell'agonia nell'orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, lo invoca con la sua abituale e tenera espressione di confidenza: « Abbà, Padre ». Gli chiede di allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler ascoltare la voce del Figlio. Per riportare all'uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell'uomo, ma caricarsi persino del « volto » del peccato. « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2 Cor 5,21).

Non finiremo mai di indagare l'abisso di questo mistero. È tutta l'asprezza di questo paradosso che emerge nel grido di dolore, apparentemente disperato, che Gesù leva sulla croce: « Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). È possibile immaginare uno strazio più grande, un'oscurità più densa? In realtà, l'angoscioso «perché» rivolto al Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si illumina con il senso dell'intera preghiera, in cui il Salmista unisce insieme, in un intreccio toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua infatti il Salmo: « In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati [...] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta » (22[21], 5.12).

26. Il grido di Gesù sulla croce, carissimi Fratelli e Sorelle, non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, « abbandonato » dal Padre, egli si « abbandona » nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell'anima. La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse, Gesù, vivere insieme l'unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di beatitudine, e l'agonia fino al grido dell'abbandono. La compresenza di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella profondità insondabile dell'unione ipostatica.

27. Di fronte a questo mistero, accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la « teologia vissuta » dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come « notte oscura ». Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore. Nel Dialogo della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: « E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente ».13 Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: « Nostro Signore nell'orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa ».14 È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23,46).

Volto del Risorto

28. Come nel Venerdì e nel Sabato Santo, la Chiesa continua a restare in contemplazione di questo volto insanguinato, nel quale è nascosta la vita di Dio ed offerta la salvezza del mondo. Ma la sua contemplazione del volto di Cristo non può fermarsi all'immagine di lui crocifisso. Egli è il Risorto! Se così non fosse, vana sarebbe la nostra predicazione e vana la nostra fede (cfr 1 Cor 15,14). La risurrezione fu la risposta del Padre alla sua obbedienza, come ricorda la Lettera agli Ebrei: « Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » (5, 7-9).

È a Cristo risorto che ormai la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino confessando a Cristo, con comprensibile trepidazione, il suo amore: « Tu sai che io ti amo » (Gv 21,15.17). Lo fa accompagnandosi a Paolo, che lo incontrò sulla via di Damasco e ne restò folgorato: « Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno » (Fil 1,21).

A duemila anni di distanza da questi eventi, la Chiesa li rivive come se fossero accaduti oggi. Nel volto di Cristo essa, la Sposa, contempla il suo tesoro, la sua gioia. « Dulcis Iesu memoria, dans vera cordis gaudia »: quanto è dolce il ricordo di Gesù, fonte di vera gioia del cuore! Confortata da questa esperienza, la Chiesa riprende oggi il suo cammino, per annunciare Cristo al mondo, all'inizio del terzo millennio: Egli « è lo stesso ieri, oggi e sempre » (Eb 13,8).

 

III
RIPARTIRE DA CRISTO

29. « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Questa certezza, carissimi Fratelli e Sorelle, ha accompagnato la Chiesa per due millenni, ed è stata ora ravvivata nei nostri cuori dalla celebrazione del Giubileo. Da essa dobbiamo attingere un rinnovato slancio nella vita cristiana, facendone anzi la forza ispiratrice del nostro cammino. È nella consapevolezza di questa presenza tra noi del Risorto che ci poniamo oggi la domanda rivolta a Pietro a Gerusalemme, subito dopo il suo discorso di Pentecoste: « Che cosa dobbiamo fare? » (At 2,37).

Ci interroghiamo con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!

Non si tratta, allora, di inventare un « nuovo programma ». Il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio.

È necessario tuttavia che esso si traduca in orientamenti pastorali adatti alle condizioni di ciascuna comunità. Il Giubileo ci ha offerto l'opportunità straordinaria di impegnarci, per alcuni anni, in un cammino unitario di tutta la Chiesa, un cammino di catechesi articolata sul tema trinitario e accompagnata da specifici impegni pastorali finalizzati a una feconda esperienza giubilare. Ringrazio per l'adesione cordiale con cui è stata ampiamente accolta la proposta da me fatta nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente. Ora non è più un traguardo immediato che si delinea davanti a noi, ma il più grande e impegnativo orizzonte della pastorale ordinaria. Dentro le coordinate universali e irrinunciabili, è necessario che l'unico programma del Vangelo continui a calarsi, come da sempre avviene, nella storia di ciascuna realtà ecclesiale. È nelle Chiese locali che si possono stabilire quei tratti programmatici concreti — obiettivi e metodi di lavoro, formazione e valorizzazione degli operatori, ricerca dei mezzi necessari — che consentono all'annuncio di Cristo di raggiungere le persone, plasmare le comunità, incidere in profondità mediante la testimonianza dei valori evangelici nella società e nella cultura.

Esorto, perciò, vivamente i Pastori delle Chiese particolari, aiutati dalla partecipazione delle diverse componenti del Popolo di Dio, a delineare con fiducia le tappe del cammino futuro, sintonizzando le scelte di ciascuna Comunità diocesana con quelle delle Chiese limitrofe e con quelle della Chiesa universale.

Tale sintonia sarà certamente facilitata dal lavoro collegiale, ormai divenuto abituale, che viene svolto dai Vescovi nelle Conferenze episcopali e nei Sinodi. Non è forse stato questo anche il senso delle Assemblee continentali del Sinodo dei Vescovi, che hanno scandito la preparazione al Giubileo, elaborando linee significative per l'odierno annuncio del Vangelo nei molteplici contesti e nelle diverse culture? Questo ricco patrimonio di riflessione non deve essere lasciato cadere, ma reso concretamente operativo.

È dunque un'entusiasmante opera di ripresa pastorale che ci attende. Un'opera che ci coinvolge tutti. Desidero tuttavia additare, a comune edificazione ed orientamento, alcune priorità pastorali, che l'esperienza stessa del Grande Giubileo ha fatto emergere con particolare forza al mio sguardo.

La santità

30. E in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità. Non era forse questo il senso ultimo dell'indulgenza giubilare, quale grazia speciale offerta da Cristo perché la vita di ciascun battezzato potesse purificarsi e rinnovarsi profondamente?

Mi auguro che, tra coloro che hanno partecipato al Giubileo, siano stati tanti a godere di tale grazia, con piena coscienza del suo carattere esigente. Finito il Giubileo, ricomincia il cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un'urgenza della pastorale.

Occorre allora riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato alla « vocazione universale alla santità ». Se i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all'ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come « mistero », ossia come popolo « adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito »,15 non poteva non comportare anche la riscoperta della sua « santità », intesa nel senso fondamentale dell'appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il « tre volte Santo » (cfr Is 6,3). Professare la Chiesa come santa significa additare il suo volto di Sposa di Cristo, per la quale egli si è donato, proprio al fine di santificarla (cfr Ef 5,25-26). Questo dono di santità, per così dire, oggettiva, è offerto a ciascun battezzato.

Ma il dono si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l'intera esistenza cristiana: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). È un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità».16

31. Ricordare questa elementare verità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all'inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito, qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse « programmare » la santità? Che cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale?

In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l'inserimento in Cristo e l'inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all'insegna di un'etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48).

Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni « geni » della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa « misura alta » della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa.

La preghiera

32. Per questa pedagogia della santità c'è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell'arte della preghiera. L'Anno giubilare è stato un anno di più intensa preghiera, personale e comunitaria. Ma sappiamo bene che anche la preghiera non va data per scontata. È necessario imparare a pregare, quasi apprendendo sempre nuovamente quest'arte dalle labbra stesse del Maestro divino, come i primi discepoli: « Signore, insegnaci a pregare! » (Lc 11,1). Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: « Rimanete in me e io in voi » (Gv 15,4). Questa reciprocità è la sostanza stessa, l'anima della vita cristiana ed è condizione di ogni autentica vita pastorale. Realizzata in noi dallo Spirito Santo, essa ci apre, attraverso Cristo ed in Cristo, alla contemplazione del volto del Padre. Imparare questa logica trinitaria della preghiera cristiana, vivendola pienamente innanzitutto nella liturgia, culmine e fonte della vita ecclesiale,17 ma anche nell'esperienza personale, è il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera.

33. E non è forse un « segno dei tempi » che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera? Anche le altre religioni, ormai ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui.

La grande tradizione mistica della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può dire molto a tal proposito. Essa mostra come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo d'amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall'Amato divino, vibrante al tocco dello Spirito, filialmente abbandonata nel cuore del Padre. Si fa allora l'esperienza viva della promessa di Cristo: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv 14,21). Si tratta di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose purificazioni (la « notte oscura »), ma approda, in diverse forme possibili, all'indicibile gioia vissuta dai mistici come « unione sponsale ». Come dimenticare qui, tra tante luminose testimonianze, la dottrina di san Giovanni della Croce e di santa Teresa d'Avila?

Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche « scuole » di preghiera, dove l'incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero « invaghimento » del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall'impegno nella storia: aprendo il cuore all'amore di Dio, lo apre anche all'amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio.18

34. Certo alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all'esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno. Ma ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d'oggi pone alla fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma « cristiani a rischio ». Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di « surrogati », accogliendo proposte religiose alternative e indulgendo persino alle forme stravaganti della superstizione.

Occorre allora che l'educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale. Io stesso mi sono orientato a dedicare le prossime catechesi del mercoledì alla riflessione sui Salmi, cominciando da quelli delle Lodi, con cui la preghiera pubblica della Chiesa ci invita a consacrare e orientare le nostre giornate. Quanto gioverebbe che non solo nelle comunità religiose, ma anche in quelle parrocchiali, ci si adoperasse maggiormente perché tutto il clima fosse pervaso di preghiera. Occorrerebbe valorizzare, col debito discernimento, le forme popolari, e soprattutto educare a quelle liturgiche. Una giornata della comunità cristiana, in cui si coniughino insieme i molteplici impegni pastorali e di testimonianza nel mondo con la celebrazione eucaristica e magari con la recita di Lodi e Vespri, è forse più « pensabile » di quanto ordinariamente non si creda. L'esperienza di tanti gruppi cristianamente impegnati, anche a forte componente laicale, lo dimostra.

L'Eucaristia domenicale

35. Il massimo impegno va posto dunque nella liturgia, « il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù ».19 Nel secolo XX, specie dal Concilio in poi, molto è cresciuta la comunità cristiana nel modo di celebrare i Sacramenti e soprattutto l'Eucaristia. Occorre insistere in questa direzione, dando particolare rilievo all'Eucaristia domenicale e alla stessa domenica, sentita come giorno speciale della fede, giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito, vera Pasqua della settimana.20 Da duemila anni, il tempo cristiano è scandito dalla memoria di quel « primo giorno dopo il sabato » (Mc 16,2.9; Lc 24,1; Gv 20,1), in cui Cristo risorto portò agli Apostoli il dono della pace e dello Spirito (cfr Gv 20,19-23). La verità della risurrezione di Cristo è il dato originario su cui poggia la fede cristiana (cfr 1 Cor 15,14), evento che si colloca al centro del mistero del tempo, e prefigura l'ultimo giorno, quando Cristo ritornerà glorioso. Non sappiamo quali eventi ci riserverà il millennio che sta iniziando, ma abbiamo la certezza che esso resterà saldamente nelle mani di Cristo, il « Re dei re e Signore dei signori » (Ap 19,16), e proprio celebrando la sua Pasqua, non solo una volta all'anno, ma ogni domenica, la Chiesa continuerà ad additare ad ogni generazione « ciò che costituisce l'asse portante della storia, al quale si riconducono il mistero delle origini e quello del destino finale del mondo ».21

36. Vorrei pertanto insistere, nel solco della Dies Domini, perché la partecipazione all'Eucaristia sia veramente, per ogni battezzato, il cuore della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo per assolvere a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana veramente consapevole e coerente. Stiamo entrando in un millennio che si prefigura caratterizzato da un profondo intreccio di culture e religioni anche nei Paesi di antica cristianizzazione. In molte regioni i cristiani sono, o stanno diventando, un « piccolo gregge » (Lc 12,32). Ciò li pone di fronte alla sfida di testimoniare con maggior forza, spesso in condizione di solitudine e di difficoltà, gli aspetti specifici della propria identità. Il dovere della partecipazione eucaristica ogni domenica è uno di questi. L'Eucaristia domenicale, raccogliendo settimanalmente i cristiani come famiglia di Dio intorno alla mensa della Parola e del Pane di vita, è anche l'antidoto più naturale alla dispersione. Essa è il luogo privilegiato dove la comunione è costantemente annunciata e coltivata. Proprio attraverso la partecipazione eucaristica, il giorno del Signore diventa anche il giorno della Chiesa,22 che può svolgere così in modo efficace il suo ruolo di sacramento di unità.

Il sacramento della Riconciliazione

37. Un rinnovato coraggio pastorale vengo poi a chiedere perché la quotidiana pedagogia delle comunità cristiane sappia proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione. Come ricorderete, nel 1984 intervenni su questo tema con l'Esortazione post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, che raccoglieva i frutti di riflessione di un'Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata a questa problematica. Invitavo allora a fare ogni sforzo per fronteggiare la crisi del « senso del peccato » che si registra nella cultura contemporanea,23 ma più ancora invitavo a far riscoprire Cristo come mysterium pietatis, colui nel quale Dio ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il sacramento della Penitenza, che è per un cristiano « la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il Battesimo ».24 Quando il menzionato Sinodo affrontò il problema, stava sotto gli occhi di tutti la crisi del Sacramento, specialmente in alcune regioni del mondo. I motivi che ne erano all'origine non sono svaniti in questo breve arco di tempo. Ma l'Anno giubilare, che è stato particolarmente caratterizzato dal ricorso alla Penitenza sacramentale, ci ha offerto un messaggio incoraggiante, da non lasciar cadere: se molti, e tra essi anche tanti giovani, si sono accostati con frutto a questo Sacramento, probabilmente è necessario che i Pastori si armino di maggior fiducia, creatività e perseveranza nel presentarlo e farlo valorizzare. Non dobbiamo arrenderci, carissimi Fratelli nel sacerdozio, di fronte a crisi temporanee! I doni del Signore — e i Sacramenti sono tra i più preziosi — vengono da Colui che ben conosce il cuore dell'uomo ed è il Signore della storia.

Il primato della grazia

38. Impegnarci con maggior fiducia, nella programmazione che ci attende, ad una pastorale che dia tutto il suo spazio alla preghiera, personale e comunitaria, significa rispettare un principio essenziale della visione cristiana della vita: il primato della grazia. C'è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita ad investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che « senza Cristo non possiamo far nulla » (cfr Gv 15,5).

La preghiera ci fa vivere appunto in questa verità. Essa ci ricorda costantemente il primato di Cristo e, in rapporto a lui, il primato della vita interiore e della santità. Quando questo principio non è rispettato, c'è da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell'animo un avvilente senso di frustrazione? Facciamo allora l'esperienza dei discepoli nell'episodio evangelico della pesca miracolosa: « Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla » (Lc 5,5). È quello il momento della fede, della preghiera, del dialogo con Dio, per aprire il cuore all'onda della grazia e consentire alla parola di Cristo di passare attraverso di noi con tutta la sua potenza: Duc in altum! Fu Pietro, in quella pesca, a dire la parola della fede: « Sulla tua parola getterò le reti » (ibid.). Consentite al Successore di Pietro, in questo inizio di millennio, di invitare tutta la Chiesa a questo atto di fede, che s'esprime in un rinnovato impegno di preghiera.

Ascolto della Parola

39. Non c'è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della parola di Dio. Da quando il Concilio Vaticano II ha sottolineato il ruolo preminente della parola di Dio nella vita della Chiesa, certamente sono stati fatti grandi passi in avanti nell'ascolto assiduo e nella lettura attenta della Sacra Scrittura. Ad essa si è assicurato l'onore che merita nella preghiera pubblica della Chiesa. Ad essa i singoli e le comunità ricorrono ormai in larga misura, e tra gli stessi laici sono tanti che vi si dedicano anche con l'aiuto prezioso di studi teologici e biblici. Soprattutto poi è l'opera dell'evangelizzazione e della catechesi che si sta rivitalizzando proprio nell'attenzione alla parola di Dio. Occorre, carissimi Fratelli e Sorelle, consolidare e approfondire questa linea, anche mediante la diffusione nelle famiglie del libro della Bibbia. In particolare è necessario che l'ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell'antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l'esistenza.

Annuncio della Parola

40. Nutrirci della Parola, per essere « servi della Parola » nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una « società cristiana », che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l'appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall'ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: « Guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di « specialisti », ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell'attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza.

Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all'annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato. Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo particolarmente goduto nell'Anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.

La proposta di Cristo va fatta a tutti con fiducia. Ci si rivolgerà agli adulti, alle famiglie, ai giovani, ai bambini, senza mai nascondere le esigenze più radicali del messaggio evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità e linguaggio, secondo l'esempio di Paolo, il quale affermava: « Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno » (1 Cor 9,22). Nel raccomandare tutto questo, penso in particolare alla pastorale giovanile. Proprio per quanto riguarda i giovani, come poc'anzi ho ricordato, il Giubileo ci ha offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare quella risposta consolante, investendo quell'entusiasmo come un nuovo « talento » (cfr Mt 25,15) che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare.

41. Ci sostenga ed orienti, in questa « missionarietà » fiduciosa, intraprendente, creativa, l'esempio fulgido dei tanti testimoni della fede che il Giubileo ci ha fatto rievocare. La Chiesa ha trovato sempre, nei suoi martiri, un seme di vita. Sanguis martyrum — semen christianorum:25 questa celebre « legge » enunciata da Tertulliano, si è dimostrata sempre vera alla prova della storia. Non sarà così anche per il secolo, per il millennio che stiamo iniziando? Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po' lontani, quasi si trattasse di una categoria del passato, legata soprattutto ai primi secoli dell'era cristiana. La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni, che in un modo o nell'altro, hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino a dare la prova suprema del sangue. In loro la parola di Dio, seminata in buon terreno, ha portato il centuplo (cfr Mt 13,8.23). Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme.

 

IV
TESTIMONI DELL'AMORE

42. « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al « comandamento nuovo » che egli ci ha dato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

È l'altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell'amore che, sgorgando dal cuore dell'eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi « un cuore solo e un'anima sola » (At 4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come « sacramento », ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».26

Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell'inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede « da trasportare le montagne », ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe « nulla » (cfr 1 Cor 13,2). La carità è davvero il « cuore » della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: «Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d'Amore. Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa [...] Capii che l'Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l'Amore era tutto».27

Una spiritualità di comunione

43. Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo.

Che cosa significa questo in concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi appartiene », per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un « dono per me », oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper « fare spazio » al fratello, portando « i pesi gli uni degli altri » (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita.

44. Su questa base, il nuovo secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del Concilio Vaticano II, servono ad assicurare e garantire la comunione. Come non pensare, innanzitutto, a quegli specifici servizi alla comunione che sono il ministero petrino, e, in stretta relazione con esso, la collegialità episcopale? Si tratta di realtà che hanno il loro fondamento e la loro consistenza nel disegno stesso di Cristo sulla Chiesa,28 ma proprio per questo bisognose di una continua verifica che ne assicuri l'autentica ispirazione evangelica.

Molto si è fatto dal Concilio Vaticano II in poi anche per quanto riguarda la riforma della Curia romana, l'organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle Conferenze episcopali. Ma certamente molto resta da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di questi strumenti della comunione, oggi particolarmente necessari di fronte all'esigenza di rispondere con prontezza ed efficacia ai problemi che la Chiesa deve affrontare nei cambiamenti così rapidi del nostro tempo.

45. Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com'è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa;29 non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra Pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall'altro, a convergere normalmente anche nell'opinabile verso scelte ponderate e condivise.

Occorre a questo scopo far nostra l'antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei Pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il Popolo di Dio. Significativo ciò che san Benedetto ricorda all'Abate del monastero, nell'invitarlo a consultare anche i più giovani: « Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore ».30 E san Paolino di Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio».31

Se dunque la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale con un'indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del Popolo di Dio.

La varietà delle vocazioni

46. Questa prospettiva di comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare spazio a tutti i doni dello Spirito. L'unità della Chiesa non è uniformità, ma integrazione organica delle legittime diversità. È la realtà di molte membra congiunte in un corpo solo, l'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,12). È necessario perciò che la Chiesa del terzo millennio stimoli tutti i battezzati e cresimati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità nella vita ecclesiale. Accanto al ministero ordinato, altri ministeri, istituiti o semplicemente riconosciuti, possono fiorire a vantaggio di tutta la comunità, sostenendola nei suoi molteplici bisogni: dalla catechesi all'animazione liturgica, dall'educazione dei giovani alle più varie espressioni della carità.

Certamente un impegno generoso va posto — soprattutto con la preghiera insistente al padrone della messe (cfr Mt 9,38) — per la promozione delle vocazioni al sacerdozio e di quelle di speciale consacrazione. È questo un problema di grande rilevanza per la vita della Chiesa in ogni parte del mondo. In certi Paesi di antica evangelizzazione, poi, esso si è fatto addirittura drammatico a motivo del mutato contesto sociale e dell'inaridimento religioso indotto dal consumismo e dal secolarismo. È necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno.

In questo contesto prende tutto il suo rilievo anche ogni altra vocazione, radicata in definitiva nella ricchezza della vita nuova ricevuta nel sacramento del Battesimo. In particolare, sarà da scoprire sempre meglio la vocazione che è propria dei laici, chiamati come tali a « cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio »32 ed anche a svolgere « i compiti propri nella Chiesa e nel mondo [...] con la loro azione per l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini ».33

In questa stessa linea, grande importanza per la comunione riveste il dovere di promuovere le varie realtà aggregative, che sia nelle forme più tradizionali, sia in quelle più nuove dei movimenti ecclesiali, continuano a dare alla Chiesa una vivacità che è dono di Dio e costituisce un'autentica « primavera dello Spirito ». Occorre certo che associazioni e movimenti, tanto nella Chiesa universale quanto nelle Chiese particolari, operino nella piena sintonia ecclesiale e in obbedienza alle direttive autorevoli dei Pastori. Ma torna anche per tutti, esigente e perentorio, il monito dell'Apostolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,19-21).

47. Un'attenzione speciale, poi, deve essere assicurata alla pastorale della famiglia, tanto più necessaria in un momento storico come il presente, che sta registrando una crisi diffusa e radicale di questa fondamentale istituzione. Nella visione cristiana del matrimonio, la relazione tra un uomo e una donna — relazione reciproca e totale, unica e indissolubile — risponde al disegno originario di Dio, offuscato nella storia dalla « durezza del cuore », ma che Cristo è venuto a restaurare nel suo splendore originario, svelando ciò che Dio ha voluto fin « dal principio » (Mt 19,8). Nel matrimonio, elevato alla dignità di Sacramento, è espresso poi il « grande mistero » dell'amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa (cfr Ef 5,32).

Su questo punto, la Chiesa non può cedere alle pressioni di una certa cultura, anche se diffusa e talvolta militante. Occorre piuttosto fare in modo che, attraverso un'educazione evangelica sempre più completa, le famiglie cristiane offrano un esempio convincente della possibilità di un matrimonio vissuto in modo pienamente conforme al disegno di Dio e alle vere esigenze della persona umana: di quella dei coniugi, e soprattutto di quella più fragile dei figli. Le famiglie stesse devono essere sempre più consapevoli dell'attenzione dovuta ai figli e farsi soggetti attivi di un'efficace presenza ecclesiale e sociale a tutela dei loro diritti.

L'impegno ecumenico

48. E che dire poi dell'urgenza di promuovere la comunione nel delicato ambito dell'impegno ecumenico? Purtroppo, le tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio. La celebrazione giubilare ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto cammino rimane da fare.

In realtà, facendoci fissare lo sguardo su Cristo, il Grande Giubileo ci ha fatto prendere più viva coscienza della Chiesa come mistero di unità. « Credo la Chiesa una »: ciò che esprimiamo nella professione di fede, ha il suo fondamento ultimo in Cristo, nel quale la Chiesa non è divisa (cfr 1 Cor 1,11-13). In quanto suo Corpo, nell'unità prodotta dal dono dello Spirito, essa è indivisibile. La realtà della divisione si genera sul terreno della storia, nei rapporti tra i figli della Chiesa, quale conseguenza dell'umana fragilità nell'accogliere il dono che continuamente fluisce dal Cristo-Capo nel Corpo mistico. La preghiera di Gesù nel Cenacolo — « come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola » (Gv 17,21) — è insieme rivelazione e invocazione. Essa ci rivela l'unità di Cristo col Padre quale luogo sorgivo dell'unità della Chiesa e dono perenne che in lui questa, misteriosamente, riceverà fino alla fine dei tempi. Quest'unità, che non manca di realizzarsi concretamente nella Chiesa cattolica, nonostante i limiti propri dell'umano, opera pure in varia misura nei tanti elementi di santificazione e di verità che si trovano all'interno delle altre Chiese e Comunità ecclesiali; tali elementi, come doni propri della Chiesa di Cristo, le sospingono incessantemente verso l'unità piena.34

La preghiera di Cristo ci ricorda che questo dono ha bisogno di essere accolto e sviluppato in maniera sempre più profonda. L'invocazione « ut unum sint » è, insieme, imperativo che ci obbliga, forza che ci sostiene, salutare rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore. È sulla preghiera di Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere anche nella storia, la comunione piena e visibile di tutti i cristiani.

In questa prospettiva di rinnovato cammino post-giubilare, guardo con grande speranza alle Chiese dell'Oriente, auspicando che riprenda pienamente quello scambio di doni che ha arricchito la Chiesa del primo millennio. Il ricordo del tempo in cui la Chiesa respirava con «due polmoni» spinga i cristiani d'Oriente e d'Occidente a camminare insieme, nell'unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità, accogliendosi e sostenendosi a vicenda come membra dell'unico Corpo di Cristo.

Con analogo impegno dev'essere coltivato il dialogo ecumenico con i fratelli e le sorelle della Comunione anglicana e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Il confronto teologico su punti essenziali della fede e della morale cristiana, la collaborazione nella carità e, soprattutto, il grande ecumenismo della santità, con l'aiuto di Dio non potranno nel futuro non produrre i loro frutti. Intanto proseguiamo con fiducia nel cammino, sospirando il momento in cui, con tutti i discepoli di Cristo, senza eccezione, potremo cantare insieme a voce spiegata: « Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme » (Sal 133[132],1).

Scommettere sulla carità

49. Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell'impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi » (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo.

Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che « con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ».35 Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c'è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali.

50. In effetti sono tanti, nel nostro tempo, i bisogni che interpellano la sensibilità cristiana. Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all'analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?

Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all'insidia della droga, all'abbandono nell'età avanzata o nella malattia, all'emarginazione o alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario, deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo decifrandone l'appello che egli manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. È l'ora di una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione.

Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come « a casa loro ». Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l'annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole.

Le sfide odierne

51. E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell'uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l'incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali l'animo cristiano non può restare insensibile.

Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno compresi, fino a rendere impopolare l'intervento della Chiesa, ma che non possono per questo essere meno presenti nell'agenda ecclesiale della carità. Mi riferisco al dovere di impegnarsi per il rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto. Allo stesso modo, il servizio all'uomo ci impone di gridare, opportunamente e importunamente, che quanti s'avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell'etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà, che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano.

Per l'efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell'essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all'economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell'essere umano e il futuro della civiltà.

52. Tutto questo ovviamente dovrà essere realizzato con uno stile specificamente cristiano: saranno soprattutto i laici a rendersi presenti in questi compiti in adempimento della vocazione loro propria, senza mai cedere alla tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali. In particolare, il rapporto con la società civile dovrà configurarsi in modo da rispettare l'autonomia e le competenze di quest'ultima, secondo gli insegnamenti proposti dalla dottrina sociale della Chiesa.

È noto lo sforzo che il Magistero ecclesiale ha compiuto, soprattutto nel secolo XX, per leggere la realtà sociale alla luce del Vangelo ed offrire in modo sempre più puntuale ed organico il proprio contributo alla soluzione della questione sociale, divenuta ormai una questione planetaria.

Questo versante etico-sociale si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell'Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. Se quest'ultima ci rende consapevoli del carattere relativo della storia, ciò non vale a disimpegnarci in alcun modo dal dovere di costruirla. Rimane più che mai attuale, a tal proposito, l'insegnamento del Concilio Vaticano II: « Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente ».36

Un segno concreto

53. Per dare un segno di questo indirizzo di carità e di promozione umana, che si radica nelle intime esigenze del Vangelo, ho voluto che lo stesso Anno giubilare, tra i numerosi frutti di carità che già ha prodotto nel corso del suo svolgimento — penso, in particolare, all'aiuto offerto a tanti fratelli più poveri per consentir loro di prendere parte al Giubileo — lasciasse anche un'opera che costituisse, in qualche modo, il frutto e il sigillo della carità giubilare. Molti pellegrini, infatti, hanno in diversi modi versato il loro obolo e, insieme con loro, anche molti protagonisti dell'attività economica hanno offerto sostegni generosi, che sono serviti ad assicurare una conveniente realizzazione dell'evento giubilare. Saldati i conti delle spese che è stato necessario affrontare nel corso dell'anno, il denaro che si sarà potuto risparmiare dovrà essere destinato a finalità caritative. È importante infatti che da un evento religioso tanto significativo sia allontanata ogni parvenza di speculazione economica. Ciò che sopravanzerà servirà a ripetere anche in questa circostanza l'esperienza vissuta tante altre volte nel corso della storia da quando, agli inizi della Chiesa, la comunità di Gerusalemme offrì ai non cristiani lo spettacolo commovente di uno spontaneo scambio di doni, fino alla comunione dei beni, a favore dei più poveri (cfr At 2,44-45).

L'opera che verrà realizzata sarà soltanto un piccolo rivolo che confluirà nel grande fiume della carità cristiana che percorre la storia. Piccolo, ma significativo rivolo: il Giubileo ha spinto il mondo a guardare verso Roma, la Chiesa « che presiede alla carità »37 ed a recare a Pietro il proprio obolo. Ora la carità manifestata nel centro della cattolicità torna, in qualche modo, a volgersi verso il mondo attraverso questo segno, che vuole restare come frutto e memoria viva della comunione sperimentata in occasione del Giubileo.

Dialogo e missione

54. Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo il compito stupendo ed esigente di esserne il « riflesso ». È il mysterium lunae così caro alla contemplazione dei Padri, i quali indicavano con tale immagine la dipendenza della Chiesa da Cristo, Sole di cui essa riflette la luce.38 Era un modo per esprimere quanto Cristo stesso dice, presentandosi come « luce del mondo » (Gv 8,12) e chiedendo insieme ai suoi discepoli di essere « la luce del mondo » (Mt 5,14).

È un compito, questo, che ci fa trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni di ombre. Ma è compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi.

55. È in quest'ottica che si pone anche la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II.39 Negli anni che hanno preparato il Grande Giubileo la Chiesa ha tentato, anche con incontri di notevole rilevanza simbolica, di delineare un rapporto di apertura e dialogo con esponenti di altre religioni. Il dialogo deve continuare. Nella condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi nella storia dell'umanità. Il nome dell'unico Dio deve diventare sempre di più, qual è, un nome di pace e un imperativo di pace.

56. Ma il dialogo non può essere fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa costituire offesa all'altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3,16). Tutto questo, come è stato anche recentemente sottolineato dalla Dichiarazione Dominus Iesus, non può essere oggetto di una sorta di trattativa dialogica, quasi fosse per noi una semplice opinione: è invece per noi grazia che ci riempie di gioia, è notizia che abbiamo il dovere di annunciare.

La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all'attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l'annuncio che è nel Cristo, « Via, Verità e Vita » (Gv 14,6), che gli uomini trovano la salvezza. Il dialogo interreligioso « non può semplicemente sostituire l'annuncio, ma resta orientato verso l'annuncio ».40 Il dovere missionario, d'altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all'ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla « pienezza della verità » (cfr Gv 16,13).

Questo principio è alla base non solo dell'inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i « segni dei tempi? ».41 Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i « veri segni della presenza o del disegno di Dio »,42 la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche « ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano ».43 Questo atteggiamento di apertura e insieme di attento discernimento il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l'insegnamento e la traccia con grande fedeltà.

Nella luce del Concilio

57. Quanta ricchezza, carissimi Fratelli e Sorelle, negli orientamenti che il Concilio Vaticano II ci ha dato! Per questo, in preparazione al Grande Giubileo, ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio.44 È stato fatto? Il Convegno che si è tenuto qui in Vaticano è stato un momento di questa riflessione, e mi auguro che altrettanto si sia fatto, in diversi modi, in tutte le Chiese particolari. A mano a mano che passano gli anni, quei testi non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre.

 

CONCLUSIONE

DUC IN ALTUM!

58. Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull'aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell'uomo, compie anche oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti. Non è stato forse per riprendere contatto con questa fonte viva della nostra speranza, che abbiamo celebrato l'Anno giubilare? Ora il Cristo contemplato e amato ci invita ancora una volta a metterci in cammino: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo » (Mt 28,19). Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza « che non delude » (Rm 5,5).

Il nostro passo, all'inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese, cammina, sono tante, ma non v'è distanza tra coloro che sono stretti insieme dall'unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del Pane eucaristico e della Parola di vita. Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del «primo giorno dopo il sabato» (Gv 20,19) si presentò ai suoi per « alitare » su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura dell'evangelizzazione.

Ci accompagna in questo cammino la Vergine Santissima, alla quale, qualche mese fa, insieme con tanti Vescovi convenuti a Roma da tutte le parti del mondo, ho affidato il terzo millennio. Tante volte in questi anni l'ho presentata e invocata come « Stella della nuova evangelizzazione ». La addito ancora, come aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino. «Donna, ecco i tuoi figli», le ripeto, riecheggiando la voce stessa di Gesù (cfr Gv 19,26), e facendomi voce, presso di lei, dell'affetto filiale di tutta la Chiesa.

59. Carissimi Fratelli e Sorelle! Il simbolo della Porta Santa si chiude alle nostre spalle, ma per lasciare più spalancata che mai la porta viva che è Cristo. Non è a un grigio quotidiano che noi torniamo, dopo l'entusiasmo giubilare. Al contrario, se autentico è stato il nostro pellegrinaggio, esso ha come sgranchito le nostre gambe per il cammino che ci attende. Dobbiamo imitare lo slancio dell'apostolo Paolo: « Proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3,13-14). Dobbiamo imitare insieme la contemplazione di Maria, che, dopo il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme, ritornava nella casa di Nazareth meditando nel suo cuore il mistero del Figlio (cfr Lc 2,51).

Gesù risorto, che si accompagna a noi sulle nostre strade, lasciandosi riconoscere, come dai discepoli di Emmaus « nello spezzare il pane » (Lc 24,35), ci trovi vigili e pronti per riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annuncio: « Abbiamo visto il Signore! » (Gv 20,25).

È questo il frutto tanto auspicato del Giubileo dell'Anno Duemila, il Giubileo che ha riproposto al vivo ai nostri occhi il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio e Redentore dell'uomo. Mentre esso si conclude e ci apre a un futuro di speranza, salga al Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo, la lode e il ringraziamento di tutta la Chiesa.

Con questo auspicio invio a tutti dal profondo del cuore la mia Benedizione.

Dal Vaticano, il 6 gennaio, Solennità dell'Epifania del Signore, dell'anno 2001, ventitreesimo di Pontificato.


NOTE

(1) Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ufficio pastorale dei Vescovi Christus Dominus, 11.

(2) Bolla Incarnationis mysterium (29 novembre 1998), 3: AAS 91 (1999), 132.

(3) Ibid., 4: l.c., 133.

(4) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.

(5) De civ. Dei XVIII, 51,2: PL 41,614; cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.

(6) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 55: AAS 87 (1995), 38.

(7) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.

(8) « Ignoratio enim Scripturarum ignoratio Christi est »: Comm. in Is., Prol.: PL 24,17.

(9) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 19.

(10) « Seguendo i santi Padri, all'unanimità, noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo [...] uno e medesimo Cristo Signore unigenito, da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili [...] egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo figlio, unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo »: DS 301-302.

(11) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

(12) Osserva a tal proposito sant'Atanasio: « L'uomo non poteva essere divinizzato rimanendo unito a una creatura, se il Figlio non fosse vero Dio », Discorso II contro gli Ariani 70: PG 26, 425 B – 426 G.

(13) N. 78.

(14) Ultimi Colloqui. Quaderno giallo, 6 luglio 1897: Opere complete, Città del Vaticano 1997, 1003.

(15) S. Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; cfr Lumen gentium, 4.

(16) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 40.

(17) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10.

(18) Cfr Congr. per la Dottrina della Fede, Lett. su alcuni aspetti della meditazione cristiana Orationis formas (15 ottobre 1989): AAS 82 (1990), 362-379.

(19) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10.

(20) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Dies Domini (31 maggio 1998), 19: AAS 90 (1998), 724.

(21) Ibid., 2: l.c., 714.

(22) Cfr ibid., 35: l.c., 734.

(23) Cfr n. 18: AAS 77 (1985), 224.

(24) Ibid., 31: l.c., 258.

(25) Tertulliano, Apol., 50,13: PL 1, 534.

(26) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.

(27) MsB 3vo, Opere complete, Città del Vaticano, 1997, 223.

(28) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, c. III.

(29) Cfr Congr. per il Clero ed Altre, Istr. interdicasteriale su alcune questioni circa la collaborazione dei laici al ministero dei sacerdoti Ecclesiae de mysterio (15 agosto 1997): AAS 89 (1997), 852-877, specie art. 5: Gli organismi di collaborazione nella Chiesa particolare.

(30) Reg. III, 3: « Ideo autem omnes ad consilium vocari diximus, quia saepe iuniori Dominus revelat quod melius est ».

(31) « De omnium fidelium ore pendeamus, quia in omnem fidelem Spiritus Dei spirat »: Epist. 23, 36 a Sulpicio Severo: CSEL 29, 193.

(32) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 31.

(33) Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 2.

(34) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.

(35) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

(36) Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 34.

(37) S. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, Pref., ed. Funk, I, 252.

(38) Così, ad esempio, S. Agostino: « Luna intellegitur Ecclesia, quod suum lumen non habeat, sed ab Unigenito Dei Filio, qui multis locis in Sanctis Scripturis allegorice sol appellatus est »: Enarr. in Ps. 10, 3: CCL 38, 42.

(39) Cfr Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate.

(40) Istr. sull'annuncio del Vangelo e il dialogo interreligioso del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, Dialogo e annuncio: riflessioni e orientamenti (19 maggio 1991), 82: AAS 84 (1992), 444.

(41) Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 4.

(42) Ibid., 11.

(43) Ibid., 44.

(44) Cfr Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 36: AAS 87 (1995), 28.

 

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