Domenica, 23 Marzo, 2025

SANCTORUM ALTRIX

LETTERA APOSTOLICA
SANCTORUM ALTRIX
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL XV CENTENARIO
DELLA NASCITA DI S.BENEDETTO
PATRONO D'EUROPA, MESSAGGERO DI PACE

Ai diletti figli, Vittore Dammertz, abate primate dell'ordine di san Benedetto; Giacomo del Rio, maggiore della congregazione degli eremiti camaldolesi di Montecorona; Paolo Anania, abate generale della congregazione mechitarista di Venezia; Sigardo Klainer, abate generale dell'ordine cistercense; Ambrogio Southey, abate generale dell'ordine dei cistercensi riformati (trappisti) nel XV centenario della nascita di san Benedetto abate.

Diletti figli, salute e apostolica benedizione.

Nutrice di santi, la madre Chiesa presenta ai suoi figli, come maestri di vita, coloro che, con uno splendido esercizio di virtù, hanno seguito fedelmente Cristo, suo sposo, affinché imitando il loro esempio, possano pervenire ad una perfetta unione con Dio, pur tra le varie vicissitudini terrene, e raggiungere così il proprio fine. Quegli eccellenti uomini e donne, sebbene sottomessi nel corso della loro vita terrena alle particolari situazioni del loro tempo, specialmente culturali, tuttavia hanno fatto risplendere, con il loro modo di vivere e con la loro dottrina, un aspetto particolare del mistero di Cristo che, oltrepassando i limiti angusti del tempo, ancora oggi conserva la sua forza e il suo vigore.

Celebrandosi ora solennemente il XV centenario della nascita di san Benedetto, si presenta l'occasione di ascoltare di nuovo il suo messaggio spirituale e sociale.

1. In ogni religione vi sono sempre stati coloro che, «sforzandosi di venire incontro in vari modi alla inquietudine del cuore umano» («Nostra Aetate», 1), sono stati attratti in modo singolare verso l'assoluto e l'eterno. Tra questi, per quanto riguarda il cristianesimo, eccellono i monaci, che già nel secolo III e IV avevano istituito in alcune zone dell'oriente una propria forma di vita, protesi a realizzare per ispirazione divina, dietro l'esempio di Cristo «dedito alla contemplazione sul monte» («Lumen Gentium», 46), o una vita solitaria e nascosta, o la dedizione al servizio di Dio in una convivenza di carità fraterna.

Dall'oriente, poi, la disciplina monastica penetrò in tutta la Chiesa e alimentò il salutare proposito di altri che, conservando le forme della vita religiosa, imitavano il Salvatore, «che annunciava alle turbe il regno di Dio e convertiva a vita migliore i peccatori»(«Lumen Gentium», 46).

In un momento in cui, a causa di questo spirituale fermento, la Chiesa cresceva, e intanto la civiltà romana, ormai decrepita, decadeva - poco prima infatti era crollato l'impero d'occidente -, verso l'anno 480 nasceva a Norcia san Benedetto.

«Benedetto, che era tale per grazia di Dio e non solo per nome, ebbe addirittura dagli anni della fanciullezza il senno di un anziano»; «desideroso di piacere soltanto a Dio» (S.Gregorii Magni «Dialogorum lib. II», Prolog.: PL 66,126), si mise in ascolto del Signore, che cercava il suo operaio (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 1.14), e vincendo, con la giuda del Vangelo, le esitazioni dell'animo sorte all'inizio, «attraverso difficoltà e asprezze» (S.Benedicti «Regula», 58,8) si incamminò «per la via stretta che porta alla vita» (cfr. Mt 7,14).

Conducendo vita solitaria in diversi luoghi, e purificandosi attraverso la prova della tentazione, giunse ad aprire completamente il suo cuore a Dio. Spinto poi dall'amore divino, radunò altri uomini, con i quali, come padre, intraprese «la scuola del servizio del Signore» (S.Benedicti «Regula», Prolog., 45). Così, con l'uso sapiente degli «strumenti delle buone opere» (cfr. S.Benedicti «Regula», 4), congiunto con il senso del dovere, egli e i suoi discepoli costituirono una piccola città cristiana, «dove finalmente - come disse Paolo VI, predecessore nostro di recente memoria - regni l'amore l'obbedienza, l'innocenza, la libertà dalle cose e l'arte di bene usarle, il primato dello spirito, la pace, in uma parola il Vangelo» (cfr. Pauli VI «Allocutio in Archicoenobio Casinensi habita», die 24 oct. 1964: «Insegnamenti di Paolo VI», II [1964] 604).

Portando a compimento tutto ciò che di buono vi era nella tradizione ecclesiale dell'oriente e dell'occidente, il santo di Norcia si elevò alla considerazione dell'uomo nella sua totalità, e inculcò la sua dignità irripetibile come persona.

Quando egli moriva nell'anno 547, già erano state gettate le solide fondamenta della disciplina monastica, la quale, specialmente dopo i sinodi dell'epoca carolingia, divenne il monachesimo occidentale. Questo, poi, attraverso le abazie e le altre case benedettine, diffuse per ogni dove, costituì la struura della nuova Europa, dell'Europa, diciamo, alle cui «popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall'Irlanda alle pianure della Polonia, egli principalmente e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l'aratro, la civiltà cristiana» (cfr. Pauli VI «Pacis Nuntius»: AAS 56 [1964] 965).

2. E' nostro intendimento oggi richiamare alla vostra mente tre caratteristiche fondamentali della vita benedettina: e cioè l'orazione, il lavoro, e l'esercizio paterno dell'autorità. E' utile per noi considerare in un più ampio quadro teologico ed umano questi tre elementi - in quanto emergono dalla vita e dal magistero di Benedetto, e principalmente dalla sua Regola -, per poterli comprendere più profondamente.

La Regola benedettina, stando alle parole del suo santo Autore, vuol essere «una regola minima per principianti»; ma in realtà è un compendio molto ricco del Vangelo, tradotto in un genere di vita non comune. Infatti, avendo davanti agli occhi l'uomo e la sua sorte associata alla redenzione, essa propone alcuni principi di dottrina, ma specialmente una forma di vita. E sebbene tale metodo di vita sia proposto ai monaci - e per di più a monaci del secolo VI - tuttavia esso contiene e irradia ammaestramenti che riguardano anche il nostro tempo, e giovano a tutti quelli che sono rinati nel battesimo e cresciuti nella fede; a tutti coloro che per «l'inerzia della disobbedienza» si sono allontanati da Dio, e ora con l'obbedienza non sempre facile, della fede, si sforzano di tornare a lui (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 2).

La vita benedettina appare nella Chiesa soprattutto come un'ardentissima ricerca di Dio, dalla quale, in qualche modo, è necessario che sia contraddistinto il corso della vita di ogni cristiano che tende alle «più alte vette di dottrina e di virtù» (S.Benedicti «Regula», 73,9; cfr. «Lumen Gentium», 9; «Unitatis Redintegratio», 2), finché arrivi alla patria celeste. Cammino che san Benedetto percorre con animo sollecito e commosso ed osserva, mostrando i non pochi impedimenti che lo rendono arduo, e i pericoli che sembra esso lo precludano e rendano vani tutti gli sforzi: poiché l'uomo è è schiavo di smodate cupidigie per le quali ora si gonfia di vana presunzione, ora è atterrito da uno sgomento che strema le forze (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 48).

Ma questa «via di vita» (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 20) può essere percorsa soltanto a determinate condizioni: cioè nella misura in cui si ama Cristo con cuore indiviso, e si conserva una genuina umiltà. Allora il cristiano, cosciente della sua infermità e della sua indigenza, entra con l'aiuto di Dio nella vita spirituale, si libera da ciò che lo appesantisce, contempla più chiaramente la sua natura autentica come persona, e nelle profondità più intime della sua anima, scopre Dio presente. L'amore quindi e l'umiltà si fondono e muovono l'uomo a discendere, per poi ascendere più in alto. La nostra vita infatti è una scala «che per l'umiltà del cuoreviene dal Signore drizzata verso il cielo» (S.Benedicti «Regula», 7,8).

Orbene, una considerazione limitata all'aspetto esteriore della vita monastica può ingenerare l'opinione che il genere di vita benedettina favorisca soltanto l'utilità propria del monaco che la professa e lo induca a facile noncuranza degli altri, alienando perciò il suo animo dal senso sociale e dai problemi reali dell'umanità. Purtroppo, la vita condotta nella clausura monastica con la consuetudine dell'orazione, nella solitudine e nel silenzio, viene valutata in tal modo anche da taluni che appartengono alla comunità ecclesiale.

In realtà, invece, quando il monaco raccoglie il suo spirito, o, come disse san Gregorio di san Benedetto da Norcia, abita con se stesso e attende diligentementea se stesso attraverso la purificazione dell'ascesi penitenziale, fa questo anche per liberarsi dalla schiavitù della «volontà propria». Ma questa attenzione dello spirito che uno dirige verso se stesso è solo una condizione del tutto necessaria perché il suo animo si apra con più sincero anelito verso Dio e i fratelli. Sotto l'impulso di questa concezione benedettina della vita avviene che i singoli monaci vivano in comunità, e questa diventi una sede di accoglienza.

San Benedetto percorre questa via maestra attraverso la quale, nell'ambito della famiglia monastica, si va a Dio. Ora, la convivenza monastica - chiamata dallo stesso santo ambito singolare nel quale i cuori di coloro che vi fanno parte si dilatano nell'esercizio della reciproca obbedienza - è mossa e stimolata da veemente amore del prossimo, per il quale ciascuno è spinto a dedicarsi al bene del fratello trascurando il proprio vantaggio.

Quando l'uomo giorno per giorno si adopera perché l'esigenza insopprimibile del raccoglimento interiore e della modestia, e la partecipazione alla vita, altrettanto insopprimibile, vengano equamente contemperate, cresce in lui la capacità di attuarsi come persona autentica, che ha relazioni con gli altri, soprattutto con Dio, che è «l'assolutamente altro».

Tuttavia, in questo modo di stimare gli uomini e le realtà sociali, che è proprio di san Benedetto e di tutta la tradizione che proviene da lui, le relazioni non sono circoscritte alla sola comunità monastica. La clausura separa invero il monaco dal secolo, e deve costituire contro ogni vuota dissipazione una specie di barriera che non è lecito oltrepassare. Ma questa non divide e non separa dall'amore; anzi, questa difesa quasi apre lo spazio necessario a una più ampia libertà, dove il monaco - ed in certo qual modo ogni uomo sollecito della sua «piccola clausura» - viva e cresca nell'amore; dove apra il suo cuore ai fratelli che desiderano condividere tutto ciò che egli sperimenta nella sua unione con Dio; dove felicemente avviene, che come rilevò sagacemente Paolo VI, che la sua sede sia «sempre più frequentata come casa di pace e di orazione, dove gli uomini ritrovino se stessi e Dio dentro di loro» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 615). In altre parole, vi si deve costrituire «la scuola del servizio del Signore», cioè «la scuola... della virtù e della contemplazione, che scaturisce abbondantemente da chiare e solide spiegazioni del Vangelo, della dottrina tradizionale, del magistero della Chiesa» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 616); così che il monaco necessariamente raggiunga tutti i singoli, superando con la preghiera ogni confine di spazio e limite di tempo. Per tutte queste condizioni, il monaco di san Benedetto risulta fratello universale, evangelizzatore, messaggero di pace e di amore.

3. Al tempo di san Benedetto la comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze con le condizioni attuali della vita umana. Gli sconvolgimenti della cosa pubblica e l'incertezza del futuro, a causa di guerre incobemti o già in atto, arrecavano mali che gettavano gli animi nel turbamento e nell'angoscia: fino al punto da ritenere la vita priva di ogni certo e valido significato.

Intanto nell'ambito della Chiesa era in atto un'ardua e diuturna controversia per la quale uomini ardenti, investigavano, in modo piuttosto animoso i misteri di Dio, specialmente l'imperscrutabile verità della divinità del Figlio e della sua genuina umanità. Tutte queste cose risuonavano come un'eco nelle parole degne di eterna memoria di Leone Magno, successore del beato Pietro e Vescovo di Roma.

San Benedetto, considerando attentamente questo stato di cose, chiese a Dio ed alla viva tradizione della Chiesa la luce e la via da seguire. La risoluzione da lui presa, pertanto, può essere considerata il paradigma del dovere cristiano nelle vicissitudini del pellegrinaggio terreno, anche se non offre a tutti un metodo di vita concretamente determinato.

Gesù Cristo è il centro vitale, assolutamente necessario, a cui tutte relatà e gli eventi devono essere riferiti, perché possano acquistare un senso e una solida consistenza. Richiamandosi a un pensiero di san Cipriano Vescovo di Cartagine, Benedetto con forza e gravità afferma che assolutamente «nulla deve essere anteposto all'amore di Cristo» (cfr. S.Benedicti «Regula», 4,21; 72,11).

Negli uomini infatti e nelle reltà terrene vi è una forza ed una importanza in quanto sono connessi con Cristo; in questa luce devono essere considerati e stimati. Tutti coloro che si trovano nel monastero - dal superiore (che è il padre, l'abate) all'ospite ignoto e povero, dall'infermo al più piccolo dei fratelli - significano la viva presenza di Cristo. Anche i beni del monastero sono segni dell'amore di Dio verso le creature, o dell'amore che conduce l'uomo verso Dio; addirittura, gli strumenti e le attrezzature per il lavoro «vengono considerati come vasi sacri dell'altare» (cfr. S.Benedicti «Regula», 31,10).

San Benedetto non propone una certa visione teologica astratta, ma partendo dalla verità delle cose, come è solito fare, inculca fortemente negli animi un modo di pensare e di agire, per il quale la teologia è trasferita nel vivere quotidiano. A lui non sta tanto a cuore di parlare delle verità di Cristo, quanto di vivere con piena verità il mistero di Cristo e il «cristocentrismo» che ne deriva.

E' necessario che la priorità da attribuire alla visione soprannaturale delle vicissitudini quotidiane, concordi con la verità dell'incarnazione: non è lecito all'uomo fedele a Dio dimenticarsi di ciò che è umano; egli deve essere fedele anche all'uomo. Perciò il dovere che dobbiamo assolvere, come si usa dire, in senso «verticale», e che si traduce nella vita di preghiera, è rettamente ordinato quando si armonizza strettamente con gli impegni che provengono dalla considerazione «orizzontale» della realtà, il più importante dei quali è il lavoro.

Nella convivenza monastica, quindi, sotto la guida di colui che «come si sa per fede, fa nel monastero le veci di Cristo» (S.Benedicti «Regula», 63,13; cfr. 2,2), san Benedetto indica la via da percorrere, via che si distingue per la grande discrezione ed equilibrio. Questa via, che associa solitudine e convivenza, preghiera e lavoro, deve essere percorsa anche da ogni uomo del nostro tempo - pur contemperando questi elementi in modo diverso secondo le condizioni di ognuno - perché possa attuare fedelmente la sua vocazione.

4. L'amore vero ed assoluto verso Cristo si manifesta in modo significativo nell'orazione, che è come il cardine intorno al quale ruotano la giornata del monaco e tutta la vita benedettina.

Ma il fondamento dell'orazione, secondo la dottrina di san Benedetto, è riposto nel fatto che l'uomo ascolti la parola: perché il Verbo incarnato, qui, oggi, ai singoli uomini, viventi nella presente non ripetibile condizione; lo fa attraverso le Scritture e la mediazione ministeriale della Chiesa; cosa che nel monastero si esercita anche attraverso le parole del padre e dei fratelli della comunità.

In una tale obbedienza di fede, la parola di Dio è accolta con umiltà e con gioia, che derivano dalla sua perenne novità che il tempo non diminuisce, ma anzi rende più vivida e di giorno in giorno più avvincente. La parola di Dio, pertanto, diviene fonte inesausta di orazione, poiché «Dio medesimo parla all'anima, suggerendole al tempo stesso la risposta che il suo cuore attende. Sarà una preghiera diffusa nei vari momenti della giornata e alimentante, come polla sotterranea, le attività quotidiane» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 29 sept. 1976: «Insegnamenti di Paolo VI», XIV [1976] 771).

Cos', attraverso la meditazione pacata e saporosa - che è una vera ruminazione spirituale - la parola di Dio eccita nell'animo di coloro che sono dediti all'orazione quegli acuti bagliori di luce che illuminano tutto il corso della giornata. Per dirla brevemente, questa è «l'orazione del cuore», quella «breve e pura orazione» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,4), per mezzo della quale rispondiamo agli impulsi divini, e insieme sollecitiamo il Signore a largirci il dono inesauribile della sua misericordia.

L'anima dunque attende ogni giorno con amore alla parola di Dio, e la investiga con fervido impegno; tutto ciò attraverso un'applicazione vitale, futto non di scienza umana ma di una sapienza che ha in sé qualcosa di divino; cioè non «per sapere di più», ma, se così sipuò dire, per «essere di più», per colloquiare con Dio, per rivolgere a lui la sua stessa parola, per pensare quello che egli stesso pensa, in una parola, per vivere la sua stessa vita.

Il fedele, ascoltando la parola di Dio, è portato a capire il corso delle vicende e dei tempi che il Signore nella sua provvidenza ha disposto per l'umana famiglia, così che all'anima credente viene offerta una più ampia visione del più disegno divino di salvezza. In questa visione di fede giungiamo anche a percepire le opere mirabili di Dio con occhi aperti e «con orecchie attentissime» (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 9). La luce divinizzante della contemplazione eccita la fiamma, e sia il silenzio, congiunp con lo stupore, sia i canti di esultazione, sia l'alacre azione di grazia, donano a quella orazione un'indole particolare, mediante la quale i monaci celebrano cantando le lodi del Signore ogni giorno. Allora la preghiera diventa quasi la voce dell'intera creazione e in qualche modo anticipa l'eccelso canto della celeste Gerusalemme. La parola di Dio in questo pellegrinaggio terreno, ci fa sentire tutta la vita come aperta allo sguardo di colui che dall'alto vede ogni cosa. Così la preghiera rivolta al Padre, dà voce a quelli che ormai non hanno più voce; e in essa in qulache modo risuonano le gioie e le ansie, gli esiti favorevoli e le speranze deluse, e l'attesa di tempi migliori.

San Benedetto è condotto, particolarmente nella sacra liturgia, da questa parola di Dio, non certo per ottenere che la comunità divenga soltanto un'assemblea che celebra con ardore i misteri divini, e nel canto corale esprima la comune esperienza attinta dallo Spirito; a lui infatti sta soprattutto a cuore che l'animo risponda più intimamente alla parola divina proclamata e cantata, e che «il nostro spirito concordi con la nostra voce» (S.Benedicti «Regula», 19,7). Le sacre scritture, conosciute e gustate in questo modo vitale, vengono lette con diletto quando allo stesso tempo ci si dedica intensamente all'orazione. Per impulso dell'amore, l'animo spesso si raccoglie davanti a Dio; nulla è anteposto all'opera di Dio (cfr. S.Benedicti «Regula», 4,55.56; 43,3); la preghiera fatta nella liturgia viene trasferita nella vita, e la stessa vita diventa preghiera. L'orazione, appena terminata la liturgia, quasi da quegli ampi spazi si riverbera in un ambito più ristretto e si prolunga nel raccoglimento e nel silenzio interiore. Così avviene che uno preghi per conto suo, e la preghiera continuata pervada le azioni e i momenti della giornata.

San Benedetto, amante della parola di Dio, la legge non solo nelle sacre scritture, ma anche in quel grande libro che è la natura. L'uomo, contemplando la bellezza del creato, si commuove nel più intimo del suo animo, ed è portato ad elevare la sua mente a colui che ne è la fonte e l'origine; e allo stesso tempo è condotto a comportarsi quasi con riverenza verso la natura, a porne in luce le bellezze, rispettandone la verità.

«Dove spira il silenzio, ivi parla la preghiera» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinos monachos», die 8 sept. 1971: «Insegnamenti di Paolo VI«, IX [1971] 756): nella solitudine infatti la preghiera si intensifica per una certa ricchezza personale; e questo vale tanto per quella valle incolta dell'Aniene nella quale Benedetto visse solo con Dio solo, quanto per la città sovrabbondante di prodotti della tecnica, ma alienante per gli animi, dove l'uomo del nostro tempo spesso resta emarginato, abbandonato a se stesso. E' necessario che lo spirito sperimenti un certo deserto, per poter condurre una vera vita spirituale; poiché questo preserva da parole vane, facilita un rapporto nuovo con Dio, con gli uomini e con le cose. Nel silenzio del deserto, le relazioni che la persona intrattiene con gli altri vengono ricondotte a ciò che è essenziale e primario, e acquistano una certa austerità; così il cuore si purifica, e si riscopre la pratica dell'orazione quotidiana che dall'intimo del cuore si eleva Dio. Tale preghiera non si perde in molte parole, ma si eleva «nella purezza del cuore pieno di fervore e nella compunzione delle lacrime» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,3; 52,4).

5. Il volto dell'uomo spesso è rigato da lacrime, che, non sempre sgorgando da sincera compunzione o da gioia sovrabbondante, col loro prorompere spingono l'animo a pregare; spesso infatti le lacrime vengono sparse per dolore e angoscia da coloro che vedono calpestata la propria umana dignità e che non riescono a conseguire ciò a cui giustamente aspirano, né a ottenere un lavoro adeguato alle loro necessità e alle loro capacità.

Anche san Benedetto viveva in una società sconvolta da ingiustizie, nella quale la persona spessissimo era tenuta in nessun conto o stimata solo come una cosa; in quel contesto sociale strutturato in vari ordini, i diseredati venivano emarginati e considerati di condizione servile, i poveri sprofondavano in una miseria sempre maggiore, i possidenti si arricchivano sempre più. Quell'uomo egregio, invece, volle che la comunità monastica poggiasse sul fondamento dei precetti del Vangelo. Egli restituisce l'uomo alla sua integrità, da qualsiasi ordine sociale provenga; provvede alle necessità di tutti secondo le norme di una sapiente giustizia distributiva; ai singoli assegna uffici complementari e tra loro saggaimente coordinati; ha cura delle infermità degli uni, senza indulgere in alcun modo alla pigrizia; dà spazio all'operosità degli altri affinché non si sentano coartati, ma stimolati ad esercitare le loro energie migliori. In tal modo egli toglie il pretesto anche alla pur leggera, e alle volte giusta, mormorazione, creando le condizioni per la pace.

L'uomo, nella visione di san Benedetto, non può essere considerato una macchina anonima da sfruttare con l'unico intento di trarne i massimi profitti, affermando che l'operaio non merita alcuna considerazione morale e denegandogli la giusta mercede. Si deve infatti ricordare che in quel tempo il lavoro era fatto ordinariamente da schiavi ai quali non si riconosceva la dignità di persone umane. Ma san Benedetto ritiene il lavoro, per qualsiasi motivo esercitato, parte essenziale della vita, e obbliga ad esso ciascun monaco per dovere di coscienza. Il lavoro, poi, dovrà essere sostenuto «per motivo di obbedienza e di espiazione» (Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 154), giacché il dolore e il sudore sono inseparabili da qualsiasi sforzo veramente efficace. Questa fatica, pertanto, ha una forza redentrice in quanto purifica l'uomo dal peccato, e inoltre nobilita sia le realtà che sono oggetto dell'operosità umana, sia lo stesso ambiente nel quale essa si svolge.

San Benedetto, trascorrendo una vita terrena, nella quale il lavoro e l'orazione sono convenientemente contemperati, e così inserendo felicemente il lavoro in una prospettiva soprannaturale della vita stessa, aiuta l'uomo a riconoscersi cooperatore di Dio e a diventarlo veramente, mentre la sua personalità, esprimendosi in una operosità creatrice, viene promossa nella sua totalità. Così l'azione umana diventa contemplativa e la contemplazione acquista una virtù dinamica che ha una sua importanza e illumina le finalità che essa si propone.

Ciò non viene fatto soltanto perché si eviti l'ozio che ottunde lo spirito, ma anche e soprattutto per rendere l'uomo come persona cosciente dei suoi doveri e diligente, capace di crescere e di perfezionarsi nel loro compimento: perché dal profondo del suo animo si rivelino energie forse ancora sopite, il cui esercizio possa contribuire al bene comune, «affinché in tutto sia glorificato Dio» (1Pt 4,11).

Con ciò il lavoro non è alleggerito dal grave dispendio di energie, ma ad esso viene aggiunto un nuovo impulso interiore. Il monaco infatti, non malgrado il lavoro che compie, ma anzi attraverso il lavoro stesso, si congiunge a Dio, poiché «mentre lavora con le mani o con la mente, si dirige sempre continuamente a Cristo» (cfr. Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 147).

E così accade che il lavoro, anche se umile e poco apprezzato, tuttavia arricchito di una certa qual dignità, viene intrapreso e diventa parte vitale «di quella ricerca somma ed esclusiva di Dio nella solitudine e nel silenzio, nel lavoro umile e povero, per dare alla vita il significato di una orazione continuata, di un "sacrificium laudis", insieme celebrato, insieme consumato, nel respiro di una gaudiosa e fraterna carità» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 28 oct. 1966: «Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 514).

L'Europa è divenuta terra cristiana, specialmente perché i figli di san Benedetto hanno comunicato ai nostri antenati una istruzione che abbracciava tutto, insegnando appunto loro non solo le arti e il lavoro manuale, ma anche, specialmente, per infondendo in loro lo spirito evangelico, necessario per proteggere i tesori spirituali della persona umana.

Il paganesimo, che in quel tempo da folte schiere di monaci missionari è stato trasformato in cristianesimo, torna oggi a propagarsi sempre più nel mondo occidentale, ponendosi come causa ed effetto di quella perduta maniera di considerare il lavoro e la sua dignità.

Se Cristo non dà alla azione umana alto e perpetuo significato, colui che lavora diviene schiavo - nelle forma portate dai nuovi tempi - della sfrenata produzione che cerca solo il guadagno. Al contrario, san Benedetto afferma la necessità impellente di dare al lavoro un carattere spirituale, dilatando i confini dell'operosità umana, così che questa si preservi dall'esasperato esercizio della tecnica produttiva, e dalla cupidigia del privato guadagno.

6. Nella compagine sociale, che si è instaurata nei nostri tempi, e che qua e là acquista l'aspetto di una «società senza padri», il santo di Norcia aiuta a ricuperare quella dimensione primaria - forse troppo trascurata da quelli che hanno autorità - che chiamiamo dimensione paterna.

San Benedetto tra i suoi monaci fa le veci di Cristo, ed essi obbediscono a lui come al Signore, con i sentimenti che lo stesso Salvatore aveva per il Padre. A questa obbedienza-ascolto, propria dei figli, che in questo modo contribuiscono a configurare la figura del padre, risponde la penetrante considerazionemente che san Benedetto ha per tutti i monaci, avendo riguardo alla loro persona nella sua totalità. Questa attenzione lo stimola a curare diligentemente tutte le necessità della comunità.

Colui che esercita l'autorità, pur non trascurando nulla di ciò che attiene all'ordinamento della famiglia monastica, né gli affari materiali, ha cura soprattutto della condizione spirituale di ciascuna persona, poiché questa deve essere preferita a tutte le cose terrene e transitorie.

Nella considerazione di quegli elementi che nella vita terrena sono spirituali e fondamentali, l'abate è illuminato dal contatto che ha assiduamente con la parola di Dio, dalla quale attinge tesori nuovi e vecchi. A questa parola di Dio, il padre del monastero dovrà intimamente conformarsi, così che la sua azione divenga quasi un fermento della giustizia divina che si sparge nella mente dei figli.

Nelle deliberazioni da tenersi nell'ambito della comunità, san Benedetto concede piena autorità all'abate; la sua decisione non potrà essere impugnata. Questo non deriva dal fatto che l'autorità sia quasi stimata una dominazione assoluta, poiché il padre prende consiglio da tutti i fratelli, e da alcuni di loro in privato, senza alcun pregiudizio, nella persuasione che anche nelle cose di grande importanza «spesso il Signore svela quello che è meglio al più giovane» (S.Benedicti «Regula», 3,3)).

Nel colloquio fraterno, l'abate ascolta le richieste di coloro che interpella perché accettino un particolare ufficio; ma per il bene del singolo e della comunità deve essere fermo nell'ingiungere cose che alle volte potrebbero anche sembrare impossibili; a lui dovrà stare soprattutto a cuore la promozione dei singoli, perché si sviluppino meglio, e tutta la comunità ne tragga incremento e vigore.

Il fine primario che deve prefiggersi il padre della comunità dovrà essere di aiutare i fratelli e guidarli con saggezza, in modo che appaia chiaramente che il primato è dato all'amore. Il padre, perciò, «faccia prevalere sempre la misericordia sulla giustizia» (S.Benedicti «Regula», 64,10; cfr. Gc 2,13), e cerchi più di farsi amare che temere, sapendo che egli «deve pittosto giovare che comandare» (cfr.S.Benedicti «Regula», 64,14.8).

Consapevole che dovrà render conto di tutti coloro che gli sono stati affidati, l'abate ama i fratelli; con essi e per essi, svolgendo il compito di buon pastore, fa ciò che è più utile al bene di tutti, ciò che più conviene e quello che giudica essere più salutare. «L'abate deve infatti preoccuparsi intensamente e adoperarsi con ogni premura, accortezza e zelo, per non perdere nessuna delle pecorelle che gli sono state affidate... E imiti l'esempio del buon pastore, che lasciò le novantanove pecorelle sui monti e andò a cercare l'unica che si era smarrita, provando tanta compassione per la sua debolezza, da degnarsi di porsela sulle sue sacre spalle e di riportarla così all'ovile» (S.Benedicti «Regula», 27,5.8-9). Il padre della comunità che deve guidare le anime, sappia che in questo ministero pastorale deve adattarsi alla diversa indole,di molti (cfr. S.Benedicti «Regula», 2,31); si conformi e si adatti ai singoli, affinché ad essi possa dare l'aiuto sicuro e preciso di cui hanno bisogno; sia paziente verso tutti, non tollerando tuttavia i peccati dei trasgressori; abbia in odio la prevaricazione, ma sia privo di risentimento e di zelo inopportuno e diriga i figli con magnanimità.

Questo modo di guidare gli altri con autorità, rivela un ulteriore aspetto dell'ufficio del superiore: parliamo della discrezione, che è misura ed equilibrio nellle deliberazioni e nelle decisioni, affinché non sorgano inutili mormorazioni. I singoli pertanto, se obbediscono con umiltà, non solo sono aiutati a oltrepassare i limiti angusti di ciò che ritengono utile per loro in quel momento, ma si elevano ad una più ampia visione del bene e della vita sociale, cooperando per dovere di coscienza e così raggiungendo quella libertà interiore che è necessaria perché ognuno arrivi alla maturità personale.

Le cose dette dell'abate che adempie il suo dovere come sapiente amministratore della casa del Signore, (cfr. S.Benedicti «Regula», 64,5; 72,3-8), sono il fondamento di una somma pace. Pace che è riposta nel fatto che i fratelli si accettino benevolmente e grandemente si stimino l'un l'altro, malgrado gli inevitabili difetti, e ciò permetta un modo del tutto proprio di espressione della persona di ognuno.

Questa è la pace che deriva dal fatto che i singoli, umilmente e con la coscienza di un dovere, si obbligano con il legame di una tale società umana, dove la legge dello Spirito prevale sulla legge della materia, dove si instaura un giusto ordine, dove tutte le cose sono convenientemente disposte per l'incremento del regno di Dio.

San Benedetto quest'anno è venuto in qualche modo di nuovo a farci visita, mostrandoci i modi di condurre la vita umana che si richiamano da vicino alla dottrina del Vangelo. Un simile progetto non può trovare il nostro spirito indifferente e neghittoso. Specialmente i suoi figli, fedeli all'esempio e alle istituzioni del padre, sono chiamati a raccolta, per dare viva testimonianza di una così eccelsa, e allo stesso tempo sicura e determinata forma di vita. Questa testimonianza muoverà anche i meno edotti e i duri di cuore, nell'animo dei quali le parole non hanno più risonanza.

Il rinnovamento che ne deriverà, potrà fare in modo che il mondo acquisti un nuovo volto, più spirituale, più sincero, più umano. Tuttavia, colui che detiene l'autorità, in qualsiasi gruppo sociale, e di qualsiasi grado essa sia, dovrà sempre più promuovere e manifestare il dono della paternità, la quale è la sola che possa riuscire a tenere legati gli uomini con vincolo fraterno. Solo nella pace, infatti, essi edificheranno il mondo, e costituiranno la società nella quale, pregando e lavorando, l'uomo divenga cooperatore e interlocutore del Dio unico.

Giova anche ricordare, in questa occasione, che da Paolo VI nostro predecessore, san Benedetto è stato dichiarato patrono d'Europa, la quale è nata dopo la caduta dell'impero romano, da quella faticosa gestazione acui hanno partecipato anche i monaci, conservandone gli ordinamenti di vita. Questa silenziosa, costante, sapiente opera degli stessi monaci ebbe il merito di conservare e trasmettere il patrimonio della cultura antica ai popoli europei e a tutto il genere umano. Così lo «spirito benedettino», come già dicemmo il primo gennaio di quest'anno, «è totalmente contrario allo spirito di distruzione» (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Homilia Calendis Ianuariis, in Patriarchali Basilica Vaticana habita». «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III,1 [1980] 5-6); e quindi questo «padre dell'Europa» (Pauli VI «Pacis Nuntius». AAS 56 [1964] 965) esorta tutti gli interessati apromuovere vigorosamente i beni che nutrono e nobilitano le menti, e a tener lontano con ogni forza tutto ciò che è distruzione e sovversione di questi stessi beni.

San Benedetto, come «annunciatore di pace» (Pii XII «Homilia die 18 sept. 1974 habita»: AAS 39 [1974] 453), parla particolarmente alle genti d'Europa, intenteal salutare progetto di costruire una loro unità. Una convivenza pacifica, da ricercare con tutte le forze, si deve fondare soprattutto sulla giustizia, sulla libertà autentica, sul mutuo consentimento, sul fraterno aiuto - cose tutte che sono conformi agli insegnamenti del Vangelo.

Questo santo protegga e favorisca quindi i popoli di questo continente e l'umanità intera; e con la sua preghiera allontani le gravissime calamità che possono essere portate da armi funestissome e sommamente distruttive.

Queste cose si agitano nel nostro cuore, mentre ci rivolgiamo, con il pensiero e con la preghiera, a questo eccelso uomo, romano ed europeo, gloria della Chiesa.

A voi infine, diletti figli, e alle famiglie monastiche che sono in qualunque modo sotto la vostra giurisdizione, di cuore impartiamo la nostra apostolica benedizione, segno della nostra paterna benevolenza.

Dato a Roma, da San Pietro, il giorno 11 del mese di luglio, nella festa di san Benedetto abate, nell'anno 1980, secondo del nostro Pontificato.

 

 

SALVIFICI DOLORIS

LETTERA APOSTOLICA
SALVIFICI DOLORIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI, AI SACERDOTI,
ALLE FAMIGLIE RELIGIOSE
ED AI FEDELI DELLA CHIESA CATTOLICA
SUL SENSO CRISTIANO
DELLA SOFFERENZA UMANA

Venerati Fratelli nell'episcopato,
carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo!

I

INTRODUZIONE

1. « Completo nella mia carne — dice l'apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza — quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa »(1).

Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell'uomo ed illuminata dalla Parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l'Apostolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi »(2). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, ed una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L'Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare — così come aiutò lui — a penetrare il senso salvifico della sofferenza.

2. Il tema della sofferenza—proprio sotto l'aspetto di questo senso salvifico—sembra essere profondamente inserito nel contesto dell'Anno della Redenzione come giubileo straordinario della Chiesa; ed anche questa circostanza si dimostra direttamente in favore dell'attenzione da dedicare ad esso proprio durante questo periodo. Indipendentemente da questo fatto, è un tema universale che accompagna l'uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo, e perciò esige di essere costantemente ripreso. Anche se Paolo nella Lettera ai Romani ha scritto che « tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto »(3), anche se all'uomo sono note e vicine le sofferenze proprie del mondo degli animali, tuttavia ciò che esprimiamo con la parola « sofferenza » sembra essere particolarmente essenziale alla natura dell'uomo. Ciò è tanto profondo quanto l'uomo, appunto perché manifesta a suo modo quella profondità che è propria dell'uomo, ed a suo modo la supera. La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell'uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l'uomo viene in un certo senso « destinato » a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso.

3. Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo particolare nel contesto dell'Anno della Redenzione, ciò avviene prima di tutto perché la redenzione si è compiuta mediante la Croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza. E al tempo stesso nell'Anno della Redenzione ripensiamo alla verità espressa nell'Enciclica Redemptor hominis: in Cristo « ogni uomo diventa la via della Chiesa »(4). Si può dire che l'uomo diventa in modo speciale la via della Chiesa, quando nella sua vita entra la sofferenza. Ciò avviene — come è noto — in diversi momenti della vita, si realizza in modi differenti, assume diverse dimensioni; tuttavia, nell'una o nell'altra forma, la sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall'esistenza terrena dell'uomo.

Dato dunque che l'uomo, attraverso la sua vita terrena, cammina in un modo o nell'altro sulla via della sofferenza, la Chiesa in ogni tempo — e forse specialmente nell'Anno della Redenzione — dovrebbe incontrarsi con l'uomo proprio su questa via. La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare l'incontro con l'uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In un tale incontro l'uomo « diventa la via della Chiesa », ed è, questa, una delle vie più importanti.

4. Da qui deriva anche la presente riflessione, proprio nell'Anno della Redenzione: la riflessione sulla sofferenza. La sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, ed a suo modo intimidisce. In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero. Questo particolare rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto all'inizio di quanto verrà espresso qui successivamente dal più profondo bisogno del cuore, ed anche dal profondo imperativo della fede. Intorno al tema della sofferenza questi due motivi sembrano avvicinarsi particolarmente tra loro ed unirsi: il bisogno del cuore ci ordina di vincere il timore, e l'imperativo della fede — formulato, per esempio, nelle parole di San Paolo, riportate all'inizio — fornisce il contenuto, nel nome e in forza del quale osiamo toccare ciò che sembra in ogni uomo tanto intangibile: poiché l'uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile.

II

IL MONDO DELL' UMANA SOFFERENZA

5. Anche se nella sua dimensione soggettiva, come fatto personale, racchiuso nel concreto e irripetibile interno dell'uomo, la sofferenza sembra quasi ineffabile ed incomunicabile al tempo stesso, forse nient'altro quanto essa esige, nella sua « realtà oggettiva », che sia trattata, meditata, concepita nella forma di un esplicito problema, e che quindi intorno ad essa si pongano interrogativi di fondo e si cerchino le risposte. Come si vede, non si tratta qui solo di dare una descrizione della sofferenza. Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo dell'umana sofferenza.

Può darsi che la medicina, come scienza ed insieme come arte del curare, scopra sul vasto terreno delle sofferenze dell'uomo il settore più conosciuto, quello identificato con maggior precisione e, relativamente, più controbilanciato dai metodi del «reagire » (cioè della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale. L'uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell'umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell'essere umano, ed indica l'elemento corporale e spirituale come l'immediato o diretto soggetto della sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole « sofferenza » e « dolore », la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo « duole il corpo », mentre la sofferenza morale è « dolore dell'anima ». Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione « psichica » del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella fisica. La vastità e la multiformità della sofferenza morale non sono certamente minori di quella fisica; al tempo stesso, però, essa sembra quasi meno identificata e meno raggiungibile dalla terapia.

6. La Sacra Scrittura è un grande libro sulla sofferenza. Riportiamo dai Libri dell'Antico Testamento solo alcuni esempi di situazioni, che recano i segni della sofferenza e, prima di tutto, di quella morale: il pericolo di morte(5), la morte dei propri figli(6) e, specialmente, la morte del figlio primogenito ed unico(7), e poi anche: la mancanza di prole(8), la nostalgia per la patria(9), la persecuzione e l'ostilità dell'ambiente(10), lo scherno e la derisione per il sofferente(11), la solitudine e l'abbandono(12); ed ancora: i rimorsi di coscienza(13), la difficoltà di capire perché i cattivi prosperano e i giusti soffrono(14), l'infedeltà e l'ingratitudine da parte degli amici e dei vicini(15); infine: le sventure della propria nazione(16).

L'Antico Testamento, trattando l'uomo come un « insieme » psicofisico, unisce spesso le sofferenze « morali » col dolore di determinate parti dell'organismo: delle ossa(17), dei reni(18), del fegato(19), dei visceri(20), del cuore(21). Non si può, infatti, negare che le sofferenze morali abbiano anche una loro componente « fisica », o somatica, e che spesso si riflettano sullo stato dell'intero organismo.

7. Come si vede dagli esempi riportati, nella Sacra Scrittura troviamo un vasto elenco di situazioni variamente dolorose per l'uomo. Questo elenco diversificato certamente non esaurisce tutto ciò che in tema di sofferenza ha già detto e costantemente ripete il libro della storia dell'uomo (questo è piuttosto un « libro non scritto »), ed ancor più il libro della storia dell'umanità, letto attraverso la storia di ogni uomo.

Si può dire che l'uomo soffre, allorquando sperimenta un qualsiasi male. Nel vocabolario dell'Antico Testamento il rapporto tra sofferenza e male si pone in evidenza come identità. Quel vocabolario, infatti, non possedeva una parola specifica per indicare la « sofferenza »; perciò, definiva come « male » tutto ciò che era sofferenza»(22). Solamente la lingua greca e, insieme con essa, il Nuovo Testamento (e le versioni greche dall'Antico) si servono del verbo «pasko = sono affetto da ..., provo una sensazione, soffro »; e grazie ad esso la sofferenza non è più direttamente identificabile col male (oggettivo), ma esprime una situazione nella quale l'uomo prova il male e, provandolo, diventa soggetto di sofferenza. Questa invero ha, ad un tempo, carattere attivo e passivo (da « patior »). Perfino quando l'uomo si provoca da solo una sofferenza, quando è l'autore di essa, questa sofferenza rimane qualcosa di passivo nella sua essenza metafisica.

Ciò, tuttavia, non vuol dire che la sofferenza in senso psicologico non sia contrassegnata da una specifica « attività ». Questa è, infatti, quella molteplice e soggettivamente differenziata « attività » di dolore, di tristezza, di delusione, di abbattimento o, addirittura, di disperazione, a seconda dell'intensità della sofferenza, della sua profondità e, indirettamente, a seconda di tutta la struttura del soggetto sofferente e della sua specifica sensibilità. Al centro di ciò che costituisce la forma psicologica della sofferenza si trova sempre un'esperienza del male, a causa del quale l'uomo soffre.

Così dunque la realtà della sofferenza provoca l'interrogativo sull'essenza del male: che cosa è il male?

Questo interrogativo sembra, in un certo senso, inseparabile dal tema della sofferenza. La risposta cristiana ad esso è diversa da quella che viene data da alcune tradizioni culturali e religiose, le quali ritengono che l'esistenza sia un male, dal quale bisogna liberarsi. Il cristianesimo proclama l'essenziale bene dell'esistenza e il bene di ciò che esiste, professa la bontà del Creatore e proclama il bene delle creature. L'uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza, limitazione o distorsione del bene. Si potrebbe dire che l'uomo soffre a motivo di un bene al quale egli non partecipa, dal quale viene, in un certo senso, tagliato fuori, o del quale egli stesso si è privato. Soffre in particolare quando « dovrebbe » aver parte—nell'ordine normale delle cose—a questo bene, e non l'ha.

Cosi dunque nel concetto cristiano la realtà della sofferenza si spiega per mezzo del male, che è sempre, in qualche modo, in riferimento ad un bene.

8. La sofferenza umana costituisce in se stessa quasi uno specifico « mondo » che esiste insieme all'uomo, che appare in lui e passa, e a volte non passa, ma in lui si consolida ed approfondisce. Questo mondo della sofferenza, diviso in molti, in numerosissimi soggetti, esiste quasi nella dispersione. Ogni uomo, mediante la sua personale sofferenza, costituisce non solo una piccola parte di quel « mondo », ma al tempo stesso quel « mondo » è in lui come un'entità finita e irripetibile. Di pari passo con ciò va, tuttavia, la dimensione interumana e sociale. Il mondo della sofferenza possiede quasi una sua propria compattezza. Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l'analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa. Benché dunque il mondo della sofferenza esista nella dispersione, al tempo stesso contiene in se' una singolare sfida alla comunione e alla solidarietà. Cercheremo anche di seguire un tale appello nella presente riflessione.

Pensando al mondo della sofferenza nel suo significato personale ed insieme collettivo, non si può, infine, non notare il fatto che un tal mondo, in alcuni periodi di tempo ed in alcuni spazi dell'esistenza umana, quasi si addensa in modo particolare. Ciò accade, per esempio, nei casi di calamità naturali, di epidemie, di catastrofi e di cataclismi, di diversi flagelli sociali: si pensi, ad esempio, a quello di un cattivo raccolto e legato ad esso — oppure a diverse altre cause — al flagello della fame.

Si pensi, infine, alla guerra. Parlo di essa in modo speciale. Parlo della ultime due guerre mondiali, delle quali la seconda ha portato con se' una messe molto più grande di morte ed un cumulo più pesante di umane sofferenze. A sua volta, la seconda metà del nostro secolo — quasi in proporzione agli errori ed alle trasgressioni della nostra civiltà contemporanea — porta in se' una minaccia così orribile di guerra nucleare, che non possiamo pensare a questo periodo se non in termini di un accumulo incomparabile di sofferenze, fino alla possibile auto-distruzione dell'umanità. In questo modo quel mondo di sofferenza, che in definitiva ha il suo soggetto in ciascun uomo, sembra trasformarsi nella nostra epoca — forse più che in qualsiasi altro momento — in una particolare « sofferenza del mondo »: del mondo che come non mai è trasformato dal progresso per opera dell'uomo e, in pari tempo, come non mai è in pericolo a causa degli errori e delle colpe dell'uomo.

III

ALLA RICERCA DELLA RISPOSTA ALL' INTERROGATIVO
SUL SENSO DELLA SOFFERENZA

9. All'interno di ogni singola sofferenza provata dall'uomo e, parimenti, alla base dell'intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l'interrogativo: perché? E' un interrogativo circa la causa, la ragione, ed insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l'umana sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana.

Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso nel mondo degli animali. Però solo l'uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così come lo è un'altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l'interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza.

L'uno e l'altro interrogativo sono difficili, quando l'uomo li pone all'uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l'uomo li pone a Dio. L'uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell'uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio. Se, infatti, l'esistenza del mondo apre quasi lo sguardo dell'anima umana all'esistenza di Dio, alla sua sapienza, potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare quest'immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza adeguata pena. Perciò, questa circostanza — forse ancor più di qualunque altra — indica quanto sia importante l'interrogativo sul senso della sofferenza, e con quale acutezza occorra trattare sia l'interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.

10. L'uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l'ascolta, come vediamo nella Rivelazione dell'Antico Testamento. Nel Libro di Giobbe l'interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.

E' nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, ed infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. In quest'orribile situazione si presentano nella sua casa i tre vecchi conoscenti, i quali — ognuno con diverse parole — cercano di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e terribile sofferenza, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. La sofferenza — essi dicono — colpisce infatti sempre l'uomo come pena per un reato; viene mandata da Dio assolutamente giusto e trova la propria motivazione nell'ordine della giustizia. Si direbbe che i vecchi amici di Giobbe vogliano non solo convincerlo della giustezza morale del male, ma in un certo senso tentino di difendere davanti a se' stessi il senso morale della sofferenza. Questa, ai loro occhi, può avere esclusivamente un senso come pena per il peccato, esclusivamente dunque sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male il male.

Il punto di riferimento è in questo caso la dottrina espressa in altri scritti dell'Antico Testamento, che ci mostrano la sofferenza come pena inflitta da Dio per i peccati degli uomini. Il Dio della Rivelazione è Legislatore e Giudice in una tale misura, quale nessuna autorità temporale può avere. Il Dio della Rivelazione, infatti, è prima di tutto il Creatore, dal quale, insieme con l'esistenza, proviene il bene essenziale della creazione. Pertanto, anche la consapevole e libera violazione di questo bene da parte dell'uomo è non solo una trasgressione della legge, ma al tempo stesso un'offesa al Creatore, che è il primo Legislatore. Tale trasgressione ha carattere di peccato, secondo il significato esatto, cioè biblico e teologico, di questa parola. Al male morale del peccato corrisponde la punizione, che garantisce l'ordine morale nello stesso senso trascendente, nel quale quest'ordine è stabilito dalla volontà del Creatore e supremo Legislatore. Di qui deriva anche una delle fondamentali verità della fede religiosa, basata del pari sulla Rivelazione: che cioè Dio è giudice giusto, il quale premia il bene e punisce il male: « Tu, Signore, sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi ... Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati »(23).

Nell'opinione espressa dagli amici di Giobbe, si manifesta una convinzione che si trova anche nella coscienza morale dell'umanità: l'ordine morale oggettivo richiede una pena per la trasgressione, per il peccato e per il reato. La sofferenza appare, da questo punto di vita, come un « male giustificato ». La convinzione di coloro che spiegano la sofferenza come punizione del peccato trova il suo sostegno nell'ordine della giustizia, e ciò corrisponde all'opinione espressa da un amico di Giobbe: « Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie »(24).

11. Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un mistero, che l'uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.

Il Libro di Giobbe non intacca le basi dell'ordine morale trascendente, fondato sulla giustizia, quali son proposte dalla Rivelazione, nell'Antica e nella Nuova Alleanza. Al tempo stesso, però, il Libro dimostra con tutta fermezza che i principi di quest'ordine non si possono applicare in modo esclusivo e superficiale. Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell'Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell'uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto ad una durissima prova. Dall'introduzione del Libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: « Forse che Giobbe teme Dio per nulla? ... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia »(25). E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.

I1 Libro di Giobbe non è l'ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata senza riserve con l'ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità, al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire ed impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella Rivelazione.

12. Il Libro di Giobbe pone in modo acuto il « perché » della sofferenza, mostra pure che essa colpisce l'innocente, ma non dà ancora la soluzione al problema.

Già nell'Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il valore educativo della pena sofferenza. Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: « Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo »(26).

Così si afferma la dimensione personale della pena. Secondo tale dimensione, la pena ha senso non soltanto perché serve a ripagare lo stesso male oggettivo della trasgressione con un altro male, ma prima di tutto perché essa crea la possibilità di ricostruire il bene nello stesso soggetto sofferente.

Questo è un aspetto estremamente importante della sofferenza. Esso è profondamente radicato nell'intera Rivelazione dell'Antica e, soprattutto, della Nuova Alleanza. La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell'uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.

13. Ma per poter percepire la vera risposta al « perché » della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la rivelazione dell'amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L'amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell'insufficienza ed inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il « perché » della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell'amore divino.

Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la Parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l'ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con l'amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L'Amore è anche la sorgente più piena della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all'uomo nella Croce di Gesù Cristo.

IV

GESU' CRISTO: LA SOFFERENZA VINTA DALL'AMORE

14. « Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna »(27).

Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio. Esse esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al « mondo » per liberare l'uomo dal male, che porta in se' la definitiva ed assoluta prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola « dà »(«ha dato ») indica che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l'amore, l'amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale « dà » per questo il suo Figlio. Questo è l'amore per l'uomo, l'amore per il « mondo »: è l'amore salvifico.

Ci troviamo qui — occorre rendersene conto chiaramente nella nostra comune riflessione su questo problema — in una dimensione completamente nuova del nostro tema. E' dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia. Questa è la dimensione della Redenzione , alla quale nell'Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del giusto Giobbe: « Io so infatti che il mio Redentore vive, e che nell'ultimo giorno... vedrò il mio Dio... »(28). Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso, esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l'uomo « non muoia », e il significato di questo « non muoia » viene precisato accuratamente dalle parole successive: « ma abbia la vita eterna ».

L'uomo « muore », quando perde « la vita eterna ». Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all'umanità per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell'uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.

15. Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica (perché l'uomo « non muoia, ma abbia la vita eterna »), ma anche — almeno indirettamente — il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato « il peccato del mondo »(29), dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza (come facevano i tre amici di Giobbe), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.

Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte volte essa è attesa persino come una liberazione dalle sofferenze di questa vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell'organismo corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto la morte comporta la dissociazione dell'intera personalità psicofisica dell'uomo. L'anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto ad una graduale decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall'uomo agli inizi della sua storia terrena: « Tu sei polvere e in polvere ritornerai »(30). Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere umano sperimenta in essa, ha un caratere definitivo e totalizzante. Con la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte. Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello Spirito maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere nella Grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio alla futura risurrezione dei corpi. L'una e l'altra sono condizione essenziale della « vita eterna », cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.

In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica dell'esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. E' questa la luce del Vangelo, cioè della Buona Novella. Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito »(31). Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come « peccato del mondo » e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest'amore che supera tutto, egli « dà » questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si avvicini in modo salvifico all'intero mondo della sofferenza, di cui l'uomo è partecipe.

16. Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza. « Passò facendo del bene »(32), e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima. E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale. Essi sono « i poveri in spirito » e « gli afflitti », e « quelli che hanno fame e sete della giustizia » e « i perseguitati per causa della giustizia », quando li insultano, li perseguitano e mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo(33)... Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro « che ora hanno fame »(34).

Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di se'. Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: « Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà »(35). Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì « che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna ». Proprio per mezzo della sua Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l'opera della salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere redentivo.

E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di Croce(36). E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: « Rimetti la spada nel fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire? »(37). Ed inoltre dice: « Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato? »(38). Questa risposta — come altre che ritornano in diversi punti del Vangelo — mostra quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna »(39). Cristo s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest'amore, col quale Egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo. E per questo San Paolo scriverà di Cristo: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me »(40).

17. Le Scritture dovevano adempiersi. Erano molti i testi messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello che di solito è chiamato il quarto Carme del Servo di Jahvé, contenuto nel Libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato « il quinto evangelista », presenta in questo Carme l'immagine delle sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito. La passione di Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti. Ecco, si presenta davanti a noi il vero Uomo dei dolori:

« Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi...
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori,
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti »
(41).

Il Carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la croce, la crocifissione, l'agonia.

Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco, egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti. « Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti »: tutto il peccato dell'uomo nella sua estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del Redentore. Se la sofferenza « viene misurata » col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato. Si può dire che questa è sofferenza « sostitutiva »; soprattutto, però, essa è « redentiva ». L'Uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell'« agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo »(42). Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell'amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l'umanità, e riempie questo spazio col bene.

Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla Croce opera la Redenzione, è il Figlio unigenito che Dio « ha dato ». E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche — uniche nella storia dell'umanità — una profondità ed intensità che, pur essendo umane, possono essere anche incomparabili profondità ed intensità di sofferenza, in quanto l'Uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: « Dio da Dio ». Dunque, soltanto Lui — il Figlio unigenito — è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato « totale », secondo le dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.

18. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il Carme del Servo sofferente, contenuto nel Libro d'Isaia. Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del Carme, che dànno un'anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo sofferente — e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di Cristo — si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario:

« Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza
fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede la sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza,
né vi fosse inganno nella sua bocca »(43).

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell'interrogativo, che — posto molte volte dagli uomini — è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal Libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l'unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la Buona Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della Buona Novella è integrata in modo organico ed indissolubile. E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento: « la parola della Croce », come dirà un giorno San Paolo(44).

Questa « parola della Croce » riempie di una realtà definitiva l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! »(45), e in seguito: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà »(46), hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell'amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l'uomo rabbrividisce. Egli dice: « passi da me », proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.

Le sue parole attestano insieme quest'unica ed incomparabile profondità ed intensità della sofferenza, che poté sperimentare solamente l'Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità ed intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell'uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità espressa dal profeta circa il male in essa provato, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima di Cristo.

Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità — unica nella storia del mondo — del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », le sue parole non sono solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento, specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel Salmo 22 [21], dal quale provengono le parole citate(47). Si può dire che queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre « fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti » (48) è sulla traccia di ciò che dirà San Paolo: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore »(49). Insieme con questo orribile peso, misurando « l'intero » male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire spirando: « Tutto è compiuto »(50).

Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto Carme del Servo sofferente: « Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori »(51). L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua viva(52). In essa dobbiamo anche riproporre l'interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo.

V

PARTECIPI DELLE SOFFERENZE DI CRISTO

19. Il medesimo Carme del Servo sofferente nel Libro di Isaia ci conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di questo interrogativo e di questa risposta:

« Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza,
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori »(53).

Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova situazione. Ed è come se Giobbe l'avesse presentita, quando diceva: « Io so infatti che il mio Redentore vive... »(54), e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del suo significato. Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo — senza nessuna colpa propria — si è addossato « il male totale del peccato ». L'esperienza di questo male determinò l'incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò il prezzo della redenzione. Di questo parla il Carme del Servo sofferente in Isaia. A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della Nuova Alleanza, stipulata nel sangue di Cristo. Ecco le parole dell'apostolo Pietro dalla sua prima Lettera: « Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »(55). E l'apostolo Paolo nella Lettera ai Galati dirà: « Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso »(56), e nella prima Lettera ai Corinzi: « Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! »(57).

Con queste ed altre simili parole i testimoni della Nuova Alleanza parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la sofferenza di Cristo. Il Redentore ho sofferto al posto dell'uomo e per l'uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. E' chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.

20. I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto. Nella seconda Lettera ai Corinzi l'Apostolo scrive: « Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale..., convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù »(58).

San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani « a causa di Gesù ». Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella Lettera di partecipare all'opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Redentore. L'eloquenza della Croce e della morte viene tuttavia completata con l'eloquenza della risurrezione. L'uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione. Perciò, l'Apostolo scriverà anche nella seconda Lettera ai Corinzi: « Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione »(59).

Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole d'incoraggiamento: « Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e nella pazienza di Cristo »(60). E nella Lettera ai Romani scrive: « Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale »(61).

La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione. Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all'uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato.

Questa scoperta dettò a San Paolo parole particolarmente forti nella Lettera ai Galati: « Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me »(62). La fede permette all'autore di queste parole di conoscere quell'amore, che condusse Cristo sulla Croce. E se amò così, soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive in colui che amò così, egli vive nell'uomo: in Paolo. E vivendo in lui — man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde con l'amore al suo amore — Cristo diventa anche in modo particolare unito all'uomo, a Paolo, mediante la Croce. Quest'unione ha dettato a Paolo, nella stessa Lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno forti: « Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo »(63).

21. La Croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell'uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale. I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione. Scrive Paolo: « Perché io possa conoscere lui (Cristo), la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti »(64). Veramente, l'Apostolo prima sperimentò « la potenza della risurrezione » di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella « partecipazione alle sue sofferenze », della quale parla, ad esempio, nella Lettera ai Galati. La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla Croce di Cristo avviene attraverso l'esperienza del Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle espressioni dell'Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la Croce di Cristo dà inizio.

I testimoni della Croce e della risurrezione erano convinti che « è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio »(65). E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: « Possiamo gloriarci di voi ... per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel Regno di Dio, per il quale ora soffrite »(66). Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il Regno di Dio. Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo Regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l'infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il Regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell'uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo Regno mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.

22. Alla prospettiva del Regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella Croce di Cristo. La risurrezione ha rivelato questa gloria — la gloria escatologica — che nella Croce di Cristo era completamente offuscata dall'immensità della sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla gloria. Paolo esprime questo in diversi punti. Scrive ai Romani: « Siamo ... coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi »(67). Nella seconda Lettera ai Corinzi leggiamo: « Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili »(68). L'apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole della sua prima Lettera: « Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare »(69).

Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla Croce ed alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all'elevazione di Cristo per mezzo della Croce. Se, infatti, la Croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla Croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell'umiliazione tutta la sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l'agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno »?(70) A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell'uomo, la sua maturità spirituale. Di ciò hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri ed i confessori di Cristo, fedeli alle parole: « E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima »(71).

La risurrezione di Cristo ha rivelato « la gloria del secolo futuro » e, contemporaneamente, ha confermato « il vanto della Croce »: quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza dell'uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell'uomo.

23. La sofferenza, infatti, è sempre una prova — a volte una prova alquanto dura —, alla quale viene sottoposta l'umanità. Dalle pagine delle Lettere di San Paolo più volte parla a noi quel paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare dall'Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo. Egli scrive nella seconda Lettera ai Corinzi: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo »(72). Nella seconda Lettera a Timoteo leggiamo: « E' questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto »(73). E nella Lettera ai Filippesi dirà addirittura: « Tutto posso in colui che mi dà la forza »(74).

Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della Croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell'impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla Croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella Croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza. Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima Lettera di Pietro: « Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome »(75).

Nella Lettera ai Romani l'apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo « nascere della forza nella debolezza », di questo ritemprarsi spirituale dell'uomo in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo: « Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato »(76). Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l'uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L'uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell'uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con l'opera dell'amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito Santo. Man mano che partecipa a questo amore, l'uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova « l'anima », che gli sembrava di aver « perduto »(77) a causa della sofferenza.

24. Tuttavia, le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa »(78). Ed egli in un'altra Lettera interroga i suoi destinatari: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? »(79).

Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all'unione con l'uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all'atto del Battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo Sacrificio — sacramentalmente mediante l'Eucaristia — la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, ed in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le citate parole della Lettera ai Colossesi attestano l'eccezionale carattere di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo — come in unione con Cristo sopporta le sue « tribolazioni » l'apostolo Paolo — non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche « completa » con la sua sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo ». In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza. La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell'uomo. In quanto l'uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo — in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia —, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo.

Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza. In questa dimensione — nella dimensione dell'amore — la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.

In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo. Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell'uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l'opera redentrice di Cristo. Il mistero della Chiesa — di quel corpo che completa in sé anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo — indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo. Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di « ciò che manca » ai patimenti di Cristo. L'Apostolo, del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di « quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa ».

Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell'umanità, è la dimensione, nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell'uomo. In ciò vien messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa. La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa. Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l'inesprimibile mistero del corpo di Cristo.

VI

IL VANGELO DELLA SOFFERENZA

25. I testimoni della Croce e della risurrezione di Cristo hanno trasmesso alla Chiesa e all'umanità uno specifico Vangelo della sofferenza. Il Redentore stesso ha scritto questo Vangelo dapprima con la propria sofferenza assunta per amore, affinché l'uomo « non muoia, ma abbia la vita eterna »(80). Questa sofferenza, insieme con la viva parola del suo insegnamento, è diventata una fonte abbondante per tutti coloro che hanno preso parte alle sofferenze di Gesù nella prima generazione dei suoi discepoli e confessori, e poi in quelle che si sono succedute nel corso dei secoli.

E', innanzitutto, consolante — come è evangelicamente e storicamente esatto — notare che a fianco di Cristo, in primissima e ben rilevata posizione accanto a lui, c'è sempre la sua Madre santissima per la testimonianza esemplare, che con l'intera sua vita rende a questo particolare Vangelo della sofferenza. In lei le numerose ed intense sofferenze si assommarono in una tale connessione e concatenazione, che se furono prova della sua fede incrollabile, furono altresì un contributo alla redenzione di tutti. In realtà, fin dall'arcano colloquio avuto con l'angelo, Ella intravide nella sua missione di madre la « destinazione » a condividere in maniera unica ed irripetibile la missione stessa del Figlio. E la conferma in proposito le venne assai presto sia dagli eventi che accompagnarono la nascita di Gesù a Betlemme, sia dall'annuncio formale del vecchio Simeone che parlò di una spada tanto acuta da trapassarle l'anima, sia dalle ansie e ristrettezze della fuga precipitosa in Egitto, provocata dalla crudele decisione di Erode.

Ed ancora, dopo le vicende della vita nascosta e pubblica del suo Figlio, da lei indubbiamente condivise con acuta sensibilità, fu sul Calvario che la sofferenza di Maria Santissima, accanto a quella di Gesù, raggiunse un vertice già difficilmente immaginabile nella sua altezza dal punto di vista umano, ma certo misterioso e soprannaturalmente fecondo ai fini dell'universale salvezza. Quel suo ascendere al Calvario, quel suo « stare » ai piedi della Croce insieme col discepolo prediletto furono una partecipazione del tutto speciale alla morte redentrice del Figlio, come del resto le parole, che poté raccogliere dal suo labbro, furono quasi la solenne consegna di questo tipico Vangelo da annunciare all'intera comunità dei credenti.

Testimone della passione del Figlio con la sua presenza, e di essa partecipe con la sua compassione, Maria Santissima offrì un singolare apporto al Vangelo della sofferenza, awerando in anticipo l'espressione paolina, riportata all'inizio. In effetti, Ella ha titoli specialissimi per poter asserire di « completare nella sua carne — come già nel suo cuore — quello che manca ai patimenti di Cristo ».

Nella luce dell'inarrivabile esempio di Cristo, riflesso con singolare evidenza nella vita della Madre sua, il Vangelo della sofferenza, mediante l'esperienza e la parola degli Apostoli, diventa fonte inesauribile per le generazioni sempre nuove che si avvicendano nella storia della Chiesa. Il Vangelo della sofferenza significa non solo la presenza della sofferenza nel Vangelo, come uno dei temi della Buona Novella, ma la rivelazione, altresì, della forza salvifica e del significato salvifico della sofferenza nella missione messianica di Cristo e, in seguito, nella missione e nella vocazione della Chiesa.

Cristo non nascondeva ai propri ascoltatori la necessità della sofferenza. Molto chiaramente diceva: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, ... prenda la sua croce ogni giorno »(81), ed ai suoi discepoli poneva esigenze di natura morale, la cui realizzazione è possibile solo a condizione di « rinnegare se stessi »(82). La via che porta al Regno dei cieli è « stretta ed angusta », e Cristo la contrappone alla via « larga e spaziosa », che peraltro « conduce alla perdizione »(83). Diverse volte Cristo diceva anche che i suoi discepoli e confessori avrebbero incontrato molteplici persecuzioni, ciò che — come si sa — è avvenuto non solo nei primi secoli della vita della Chiesa sotto l'impero romano, ma si è avverato e si avvera in diversi periodi della storia e in differenti luoghi della terra, anche ai nostri tempi.

Ecco alcune frasi di Cristo su questo tema: « Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa: io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime »(84).

Il Vangelo della sofferenza parla prima in diversi punti della sofferenza « per Cristo », « a causa di Cristo », e ciò fa con le parole stesse di Gesù, oppure con le parole dei suoi Apostoli. Il Maestro non nasconde ai suoi discepoli e seguaci la prospettiva di una tale sofferenza, anzi la rivela con tutta franchezza, indicando contemporaneamente le forze soprannaturali, che li accompagneranno in mezzo alle persecuzioni e tribolazioni « per il suo nome ». Queste saranno insieme quasi una speciale verifica della somiglianza a Cristo e dell'unione con lui. « Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me ...; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia ... Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi... Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato »(85). « Vi ho dette queste cose, perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo! »(86).

Questo primo capitolo del Vangelo della sofferenza, che parla delle persecuzioni, cioè delle tribolazioni a motivo di Cristo, contiene in sé una speciale chiamata al coraggio ed alla fortezza, sostenuta dall'eloquenza della risurrezione. Cristo ha vinto il mondo definitivamente con la sua risurrezione; tuttavia, grazie al rapporto di essa con la passione e la morte, ha vinto al tempo stesso questo mondo con la sua sofferenza. Si, la sofferenza è stata in modo singolare inserita in quella vittoria sul mondo, che si è manifestata nella risurrezione. Cristo conserva nel suo corpo risorto i segni delle ferite della Croce sulle sue mani, sui piedi e nel costato. Mediante la risurrezione egli manifesta la forza vittoriosa della sofferenza, e vuole infondere la convinzione di questa forza nel cuore di coloro che ha scelto come suoi Apostoli e di coloro che continuamente sceglie ed invia. L'apostolo Paolo dirà: « Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati »(87).

26. Se il primo grande capitolo del Vangelo della sofferenza viene scritto, lungo le generazioni, da coloro che soffrono persecuzioni per Cristo, di pari passo si svolge lungo la storia un altro grande capitolo di questo Vangelo. Lo scrivono tutti coloro che soffrono insieme con Cristo, unendo le proprie sofferenze umane alla sua sofferenza salvifica. In essi si compie ciò che i primi testimoni della passione e della risurrezione hanno detto ed hanno scritto circa la partecipazione alle sofferenze di Cristo. In essi quindi si compie il Vangelo della sofferenza e, al tempo stesso, ognuno di essi continua in un certo modo a scriverlo: lo scrive e lo proclama al mondo, lo annuncia al proprio ambiente ed agli uomini contemporanei.

Attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l'uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti Santi, come ad esempio San Francesco d'Assisi, Sant'Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l'uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della grandezza spirituale che nell'uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l'uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l'interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali.

Questa interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza certamente sono frutto di una particolare conversione e cooperazione con la Grazia del Redentore crocifisso. E' lui stesso ad agire nel vivo delle umane sofferenze per mezzo del suo Spirito di verità, per mezzo dello Spirito Consolatore. E' lui a trasformare, in un certo senso, la sostanza stessa della vita spirituale, indicando all'uomo sofferente un posto vicino a sé. E' lui — come Maestro e Guida interiore — ad insegnare al fratello e alla sorella sofferenti questo mirabile scambio, posto nel cuore stesso del mistero della redenzione. La sofferenza è, in se stessa, un provare il male. Ma Cristo ne ha fatto la più solida base del bene definitivo, cioè del bene della salvezza eterna. Con la sua sofferenza sulla Croce Cristo ha raggiunto le radici stesse del male: del peccato e della morte. Egli ha vinto l'artefice del male, che è Satana, e la sua permanente ribellione contro il Creatore. Davanti al fratello o alla sorella sofferenti Cristo dischiude e dispiega gradualmente gli orizzonti del Regno di Dio: di un mondo convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato, che si sta edificando sulla potenza salvifica dell'amore. E, lentamente ma efficacemente, Cristo introduce in questo mondo, in questo Regno del Padre l'uomo sofferente, in un certo senso attraverso il cuore stesso della sua sofferenza. La sofferenza, infatti, non può essere trasformata e mutata con una grazia dall'esterno, ma dall'interno. E Cristo mediante la sua propria sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad ogni sofferenza umana, e può agire dall'interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità, del suo Spirito Consolatore.

Non basta: il divin Redentore vuole penetrare nell'animo di ogni sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima, primizia e vertice di tutti i redenti. Quasi a continuazione di quella maternità, che per opera dello Spirito Santo gli aveva dato la vita, Cristo morente conferì alla sempre Vergine Maria una maternità nuova — spirituale e universale — verso tutti gli uomini, affinché ognuno, nella peregrinazione della fede, gli rimanesse insieme con lei strettamente unito fino alla Croce e, con la forza di questa Croce, ogni sofferenza rigenerata diventasse, da debolezza dell'uomo, potenza di Dio.

Non sempre, però, un tale processo interiore si svolge in modo uguale. Spesso inizia e si instaura con difficoltà. Già il punto stesso di partenza è diverso: diversa è la disposizione, che l'uomo porta nella sua sofferenza. Si può, tuttavia, premettere che quasi sempre ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo « perché ». Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda al suo livello umano. Certamente pone più volte questa domanda anche a Dio, come la pone a Cristo. Inoltre, egli non può non notare che colui, al quale pone la sua domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla Croce, dal centro della sua propria sofferenza. Tuttavia, a volte c'è bisogno di tempo, persino di un lungo tempo, perché questa risposta cominci ad essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non risponde direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa il senso della sofferenza. L'uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo.

La risposta che giunge mediante tale partecipazione, lungo la strada dell'incontro interiore col Maestro, è a sua volta qualcosa di più della sola risposta astratta all'interrogativo sul senso della sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. E' una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: « Seguimi! ». Vieni! prendi parte con la tua sofferenza a quest'opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce. Man mano che l'uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla Croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza. L'uomo non scopre questo senso al suo livello umano, ma al livello della sofferenza di Cristo. Al tempo stesso, però, da questo livello di Cristo, quel senso salvifico della sofferenza scende a livello dell'uomo e diventa, in qualche modo, la sua risposta personale. E allora l'uomo trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale.

27. Di tale gioia parla l'Apostolo nella Lettera ai Colossesi: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi »(88). Fonte di gioia diventa il superamento del senso d'inutilità della sofferenza, sensazione che a volte è radicata molto fortemente nell'umana sofferenza. Questa non solo consuma l'uomo dentro se stesso, ma sembra renderlo un peso per gli altri. L'uomo si sente condannato a ricevere aiuto ed assistenza dagli altri e, in pari tempo, sembra a se stesso inutile. La scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma questa sensazione deprimente. La fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza interiore che l'uomo sofferente « completa quello che manca ai patimenti di Cristo »; che nella dimensione spirituale dell'opera della redenzione serve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi è utile agli altri, ma per di più adempie un servizio insostituibile. Nel corpo di Cristo, che incessantemente cresce dalla Croce del Redentore, proprio la sofferenza, permeata dallo spirito del sacrificio di Cristo, è l'insostituibile mediatrice ed autrice dei beni, indispensabili per la salvezza del mondo. E' essa, più di ogni altra cosa, a fare strada alla Grazia che trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa, rende presenti nella storia dell'umanità le forze della redenzione. In quella lotta « cosmica » tra le forze spirituali del bene e del male, della quale parla la Lettera agli Efesini(89), le sofferenze umane, unite con la sofferenza redentrice di Cristo, costituiscono un particolare sostegno per le forze del bene, aprendo la strada alla vittoria di queste forze salvifiche.

E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo sofferenti quasi un soggetto molteplice della sua forza soprannaturale.

Quanto spesso proprio ad essi ricorrono i pastori della Chiesa, e proprio presso di essi cercano aiuto ed appoggio! I1 Vangelo della sofferenza viene scritto incessantemente, ed incessantemente parla con le parole di questo strano paradosso: le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo all'umana debolezza. Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell'infinito tesoro della redenzione del mondo, e possono condividere questo tesoro con gli altri. Quanto più l'uomo è minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d'oggi, tanto più grande è l'eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo.

VII

IL BUON SAMARITANO

28. Al Vangelo della sofferenza appartiene anche — ed in modo organico — la parabola del buon Samaritano. Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo? »(90). Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico, dove giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti, proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il « prossimo » per quell'infelice: « prossimo » significa anche colui che adempì il comandamento dell'amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa strada: uno era sacerdote, e l'altro levita, ma ciascuno « lo vide e passò oltre ». Invece, il Samaritano « lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, ... gli fasciò le ferite », poi « lo portò a una locanda e si prese cura di lui »(91). Ed all'atto di partire, affidò sollecitamente la cura dell'uomo sofferente all'albergatore, impegnandosi a sostenere le spese occorrenti.

La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito « passare oltre » con indifferenza, ma dobbiamo « fermarci » accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come l'aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva. Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l'uomo che « si commuove » per la disgrazia del prossimo. Se Cristo, conoscitore dell'interno dell'uomo, sottolinea questa commozione, vuol dire che essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte alla sofferenza altrui. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane l'unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l'uomo sofferente.

Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che dà se stesso, il suo proprio « io », aprendo quest'« io » all'altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l'antropologia cristiana. L'uomo non può « ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé »(92). Buon Samaritano è l'uomo capace appunto di tale dono di sé.

29. Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell'uomo l'amore, proprio quel dono disinteressato del proprio « io » in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti. I1 mondo dell'umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell'amore umano; e quell'amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l'uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l'uomo « prossimo » passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell'amore del prossimo. Egli deve « fermarsi », « commuoversi », agendo così come il Samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene chiamata opera « da buon samaritano » ogni attività in favore degli uomini sofferenti e bisognosi di aiuto.

Quest'attività assume, nel corso dei secoli, forme istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle rispettive professioni. Quanto è « da buon samaritano » la professione del medico, o dell'infermiera, o altre simili! In ragione del contenuto « evangelico », racchiuso in essa, siamo inclini a pensare qui piuttosto ad una vocazione, che non semplicemente ad una professione. E le istituzioni che, nell'arco delle generazioni, hanno compiuto un servizio « da samaritano », ai nostri tempi si sono ancora maggiormente sviluppate e specializzate. Ciò prova indubbiamente che l'uomo di oggi si ferma con sempre maggiore attenzione e perspicacia accanto alle sofferenze del prossimo, cerca di comprenderle e di prevenirle sempre più esattamente. Egli possiede anche una sempre maggiore capacità e specializzazione in questo settore. Guardando a tutto questo, possiamo dire che la parabola del Samaritano del Vangelo è diventata una delle componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana. E pensando a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la loro capacità rendono molteplici servizi al prossimo sofferente, non possiamo esimerci dal rivolgere al loro indirizzo parole di riconoscimento e di gratitudine.

Queste si estendono a tutti coloro, che svolgono il proprio servizio verso il prossimo sofferente in maniera disinteressata, impegnandosi volontariamente nell'aiuto « da buon samaritano », e destinando a tale causa tutto il tempo e le forze che rimangono a loro disposizione al di fuori del lavoro professionale. Una tale spontanea attività « da buon samaritano » o caritativa può essere chiamata attività sociale, può anche essere definita come apostolato, tutte le volte che viene intrapresa per motivi schiettamente evangelici, specialmente se ciò avviene in collegamento con la Chiesà o con un'altra Comunità cristiana. La volontaria attività « da buon samaritano » si realizza attraverso ambienti adeguati oppure attraverso organizzazioni create a questo scopo. L'operare in questa forma ha una grande importanza, specialmente se si tratta di assumere compiti più grandi, che esigono la cooperazione e l'uso dei mezzi tecnici. Non meno preziosa è anche l'attività individuale, specialmente da parte delle persone, che sono ad essa meglio predisposte riguardo alle varie specie di umana sofferenza, verso le quali l'aiuto non può essere portato che individualmente e personalmente. L'aiuto familiare poi significa sia gli atti d'amore del prossimo, resi alle persone appartenenti alla stessa famiglia, sia l'aiuto reciproco tra le famiglie.

E' difficile elencare qui tutti i tipi ed i diversi àmbiti dell'attività « da samaritano » che esistono nella Chiesa e nella società. Bisogna riconoscere che essi sono molto numerosi, ed anche esprimere la gioia perché grazie ad essi i fondamentali valori morali, quali il valore dell'umana solidarietà, il valore dell'amore cristiano del prossimo, formano il quadro della vita sociale e dei rapporti interumani, combattendo su questo fronte le diverse forme dell'odio, della violenza, della crudeltà, del disprezzo per l'uomo, oppure della semplice « insensibilità », cioè dell'indifferenza verso il prossimo e le sue sofferenze.

Enorme è qui il significato degli atteggiamenti opportuni da usare nell'educazione. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l'affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del Samaritano evangelico. La Chiesa ovviamente deve far lo stesso, addentrandosi ancora più profondamente — in quanto possibile — nelle motivazioni che Cristo ha racchiuso nella sua parabola ed in tutto il Vangelo. L'eloquenza della parabola del buon Samaritano, come anche di tutto il Vangelo, è in particolare questa: l'uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l'amore nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti ed indispensabili; tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima.

30. La parabola del buon Samaritano, che — come si è detto — appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con esso lungo la storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia dell'uomo e dell'umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. E' tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore »(93). Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma messianico della sua missione: egli passa « beneficando (94), ed il bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all'umana sofferenza. La parabola del buon Samaritano è in profonda armonia col comportamento di Cristo stesso.

Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto essenziale, in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha annotato nel suo Vangelo: « Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi »(95). Ai giusti che chiedono quando mai abbiano fatta proprio a lui tutto questo, il Figlio dell'Uomo risponderà: « In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (96). La sentenza opposta toccherà a coloro che si sono comportati diversamente: « Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me »(97).

Si potrebbe certamente allungare l'elenco delle sofferenze che hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l'aiuto, oppure che non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della dichiarazione di Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il « fermarsi », come fece il buon Samaritano, accanto alla sofferenza del suo prossimo, l'aver « compassione » di essa, ed infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del Regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella « civiltà dell'amore ». In questo amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio finale permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e perspicacia del Vangelo.

Queste parole sull'amore, sugli atti di amore, collegati con l'umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo. Cristo dice: « L'avete fatto a me ». Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta l'amore; egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni sofferente senza eccezione. Egli stesso è presente in questo sofferente, poiché la sua sofferenza salvifica è stata aperta una volta per sempre ad ogni sofferenza umana. E tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare partecipi « delle sofferenze di Cristo »(98). Così come tutti sono stati chiamati a « completare » con la propria sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo »(99). Cristo allo stesso tempo ha insegnato all'uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza.

VIII

CONCLUSIONE

31. Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano della sofferenza. E'soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l'uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione.

La sofferenza certamente appartiene al mistero dell'uomo. Forse essa non è avvolta quanto lui da questo mistero, che è particolarmente impenetrabile. Il Concilio Vaticano II ha espresso questa verità che « in realtà, solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Infatti..., Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione »(100). Se queste parole si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell'uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all'umana sofferenza. Proprio in questo punto lo « svelare l'uomo all'uomo e fargli nota la sua altissima vocazione » è particolarmente indispensabile. Succede anche — come prova l'esperienza — che ciò sia particolarmente drammatico. Quando però si compie fino in fondo e diventa luce della vita umana, ciò è anche particolarmente beato. « Per Cristo e in Cristo si illumina l'enigma del dolore e della morte »(101).

Chiudiamo le presenti considerazioni sulla sofferenza nell'anno nel quale la Chiesa vive il giubileo straordinario, collegato all'anniversario della redenzione.

I1 mistero della redenzione del mondo è in modo sorprendente radicato nella sofferenza, e questa, a sua volta, trova in esso il suo supremo e più sicuro punto di riferimento.

Desideriamo vivere quest'Anno della Redenzione in speciale unione con tutti coloro che soffrono. Occorre, pertanto, che sotto la Croce del Calvario idealmente convengano tutti i sofferenti che credono in Cristo e, particolarmente, coloro che soffrono a causa della loro fede in lui Crocifisso e Risorto, affinché l'offerta delle loro sofferenze affretti il compimento della preghiera dello stesso Salvatore per l'unità di tutti(102). Là pure convengano gli uomini di buona volontà, perché sulla Croce sta il « Redentore dell'uomo », l'Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell'amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi.

Insieme con Maria, Madre di Cristo, che stava sotto la Croce (103), ci fermiamo accanto a tutte le croci dell'uomo d'oggi.

Invochiamo tutti i Santi, che durante i secoli furono in special modo partecipi delle sofferenze di Cristo. Chiediamo loro di sostenerci.

E chiediamo a voi tutti, che soffrite, di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per l'umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la Croce di Cristo!

A tutti, Fratelli e Sorelle carissimi, invio la mia Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, l'11 febbraio dell'anno 1984, sesto di Pontificato.

 

 

RUTILANS AGMEN

LETTERA APOSTOLICA
RUTILANS AGMEN
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
ALLA CHIESA DI POLONIA
NEL IX CENTENARIO DEL MARTIRIO
DI S.STANISLAO

Ai venerabili fratelli Stefano Wyszynski, cardinale di Santa Romana Chiesa, arcivescovo metropolita di Gniezno e Varsavia, Francesco Macharski, arcivescovo metropolita di Cracovia, agli altri Vescovi e a tutta la Chiesa di Polonia: nel compimento del nono secolo dalla morte di san Stanislao, vescovo e martire

1. La fulgida schiera di quanti, per la difesa della fede e delle virtù cristiane, hanno affrontato con coraggio tormenti e morte ha dato abitualmente alla Chiesa, sin dall'inizio e lungo i secoli, meravigliosa vigoria e forza. Giustamente esclama sant'Agostino: «La terra si è impregnata del sangue dei martiri come di un seme, dal quale è spuntata la messe della Chiesa. Parlano di Cristo più i morti che i vivi. Parlano oggi, oggi predicano: tace la lingua ma gridano le gesta» («Serm». 286,4; PL 32, 1298). Sembra che siffatti pensieri possano oggi applicarsi, con singolare corrispondenza, alla Chiesa che vive in Polonia: anch'essa è cresciuta dal sangue dei martiri, tra i quali posto eminente occupa san Stanislao, la cui vita e morte pare che parlino con insistenza.

Proprio nell'anno in cui la Chiesa là stabilita celebra il compimento del nono secolo dal martirio dello stesso san Stanislao, Vescovo di Cracovia, non e possibile che manchi la voce del Vescovo di Roma, successore del beato Pietro. Questo giubileo è di estrema importanza e si connette strettamente con la storia della Chiesa e della Nazione Polacca: questo popolo, per più di mille anni ha avuto e coltivato intimi legami con la stessa Chiesa. Quella voce, lo ripetiamo, non può mancare tanto più che colui il quale, ancora poco fa, era successore di san Stanislao nella sede episcopale di Cracovia, per un misterioso disegno di Dio, è stato promosso alla Cattedra di Pietro quale Pastore universale della Chiesa.

E' davvero straordinaria questa occasione che ci si offre: al nono centenario della morte di san Stanislao pubblichiamo questa lettera che noi stessi avevamo chiesto venisse redatta: prima al nostro grande predecessore Paolo VI, e poi all'immediato suo successore, Giovanni Paolo I, che esercitò il ministero pontificale solo per 33 giorni. Oggi dunque, diamo attuazione non solo a quanto abbiamo chiesto come Arcivescovo di Cracovia ad ambedue i nostri predecessori, ma realizziamo anche un particolare, vivo desiderio dell'animo nostro. Chi mai avrebbe potuto immaginare che, proprio all'approssimarsi delle feste programmate per questo giubileo di san Stanislao, noi stessi avremmo lasciato la sede episcopale di Cracovia, già retta da quel Santo, e per i voti dei Cardinali a Conclave saremmo passati alla sede di Roma? Chi mai avrebbe potuto supporre che noi avremmo festeggiato quei grandi giorni non come «padre nella propria casa», ma in qualità di ospite tornato nelle terre dei padri in qualità di primo Papa Polacco e come primo Pontefice in visita a quelle regioni?

2. Secondo il calendario liturgico della Chiesa di Polonia la festa di san Stanislao viene da secoli celebrata l'8 maggio. Ma a Cracovia la solennità esterna è trasferita alla domenica successiva a quel giorno: allora dalla cattedra, sul colle «Wavel», si snoda la processione verso la chiesa di San Michele in «Rupella», dove, secondo la tradizione, il Vescovo Stanislao, originario del villaggio di Szczepanów, fu martirizzato durante la celebrazione dell'eucaristia da Boleslao l'Ardito.

Quest'anno è stato stabilito che le grandi solennità in onore di san Stanislao, rivestendo il carattere di giubileo, si protraggano dalla domenica successiva all'8 maggio fino al periodo compreso tra le domeniche di Pentecoste e della Santissima Trinità. Della più grande importanza è, infatti, il giorno di Pentecoste, in cui la Chiesa ricorda la sua nascita nel Cenacolo di Gerusalemme: di lì gli Apostoli, radunati prima in preghiera con la Madre di Gesù, Maria (cfr. At 1,14), uscirono pieni di quella forza che era stata infusa nei loro animi come speciale dono dello Spirito Santo. Usciti di lì, si diffusero per il mondo ad eseguire l'ordine di Cristo: «Perciò, andate ad ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). Sicché gli Apostoli uscirono dal Cenacolo dalla Pentecoste: di lì, ugualmente provengono lungo la storia umana i loro successori; di lì, nella sua epoca, uscì anche san Stanislao di Szczepanów a testimoniare, lui che recava in petto il medesimo dono della fortezza, la verità del Vangelo sino alla effusione del sangue.

Ebbene, quella generazione, lontana da noi nove secoli, fu una generazione di nostri antenati: essi, come san Stanislao, loro Vescovo nella sede di Cracovia, sono ossa delle nostre ossa e sangue del sangue nostro.

Il periodo di ministero pastorale fu per lui breve, dall'anno 1072 al 1079, un arco cioè di sette anni: ma il suo frutto ancora perdura, giacché in lui si verificarono davvero le parole di Cristo agli Apostoli: «Vi ho costituiti perché andiate a portar frutto e perché il vostro frutto perduri» (Gv 15,16).

3. Le solennità in onore di san Stanislao, con le quali, a nove secoli dalla sua morte, ci riferiamo in certo qual modo al «Cenacolo di Pentecoste», rivestono un profondissimo significato: infatti dal Cenacolo provengono quanti, secondo la parola di Cristo, sono andati per il mondo intero «ad ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 25,19). E la Nazione Polacca nell'anno 966 ebbe il lavacro battesimale nel nome della Santissima Trinità.

Dunque, or non è molto, si è compiuto un millennio da quell'epoca che segnò in pari tempo l'inizio della storia della Chiesa in Polonia e della stessa Nazione Polacca. Occorre proprio tenere in evidenza la grande efficacia nascosta nel battesimo: nel sacramento, cioè, in forza del quale veniamo sepolti insieme a Cristo (cfr. Col 2,12), per esser partecipi della sua risurrezione, di quella vita che il Figlio di Dio fatto uomo volle fosse vita delle nostre anime; e l'inizio di tale vita è nel battesimo, il quale, perché amministrato in nome della Santissima Trinità, dà agli uomini «il potere di divenir figli di Dio» (Gv 1,12) nello Spirito Santo.

Il millennio di quel battesimo, celebrato nel 1966 in Polonia come anno dedicato alla glorificazione della Santissima Trinità, include anche questo giubileo di san Stanislao: infatti di questo sacramento - dal quale ogni uomo viene consacrato a Dio in maniera particolare (cfr. «Lumen Gentium», 44) - vanno considerati come i frutti più rigogliosi proprio i santi: essi in vita e in morte si son resi «dono eterno» a Dio (III Preghiera Eucaristica).

Perciò, quando nella festa della Santissima Trinità di quest'anno 1979 faremo memoria solenne del martirio di san Stanislao, ricorderemo anche il battesimo, amministrato in nome della Santissima Trinità, dal quale egli spuntò come primo e, certo, maturo frutto di santità. A lui tutta la Nazione ha tanto guardato: in questo Santo, della sua stessa gente, la Polonia, una volta immersa nel salutare lavacro dei cristiani, ha riconosciuto con animo riconoscente il frutto di quella nuova vita di cui egli fu partecipe.

Tutto ciò spinge ad includere con speciale venerazione il nono centenario del martirio di san Stanislao nel Millennio del battesimo ricevuto dai nostri antenati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

E per dar maggiore impulso a tale venerazione stabiliamo - secondo il desiderio dei Vescovi di Polonia - che la memoria di san Stanislao venga elevata al grado di memoria obbligatoria nel calendario liturgico della Chiesa universale.

4. Il culto prestato a san Stanislao per nove secoli ha messo profonde radici in Polonia. Non poco contribuì ad accrescere tale venerazione la canonizzazione con cui l'8 settembre 1253 il nostro predecessore, Papa Innocenzo IV, in Assisi presso il sepolcro di san Francesco, decretò a questo meraviglioso personaggio gli onori dei Santi. Davvero poggia su radici profonde questo culto! Esse pervadono tutta la storia della Chiesa in Polonia, compaiono nella vita stessa della Nazione, sono unite al suo destino. Il culto di san Stanislao è attestato non solo dalle annuali festività, ma anche dalle nostre diocesi, chiese e parrocchie dedicate a lui in quella terra e fuori: dovunque, infatti, arrivavano, i figli della Polonia introducevano il culto di questo grande patrono. Per molti secoli san Stanislao era stato il principale patrono della Polonia; ma, per concessione di Giovanni XXIII, nostro predecessore, egli condivide la protezione della Nazione con la beata Vergine Maria, Regina della Polonia e con san Wojciech (Adalberto). Per cui, volgendo il nono centenario del martirio di san Stanislao, tale solenne commemorazione riguarda non solo la sede di Cracovia, ma anche Gniezno e Montechiaro. Infatti per quasi mille anni accanto a san Stanislao, Presule di Cracovia, veniva posto san Wojciech (Adalberto), il cui corpo. martoriato sotto il re Boleslao il Grande soprannominato Chrobry. fu sepolto a Gniezno. Quindi l'uno e l'altro santo, Stanislao e Adalberto, ed insieme la beata Vergine Maria, Regina della Polonia e Madre della Chiesa, difendono la patria.

I luoghi relativi alla vita e alla morte di san Stanislao sono religiosamente onorati: egli è particolarmente venerato nella Chiesa cattedrale di Cracovia sul colle «Wavel», dove si trova il suo sepolcro, nonché nel tempio del villaggio «Rupella» e nel suo villaggio natale Szczepanów, che ora si trova nel territorio della diocesi di Tarnów. Vengono venerate le sue reliquie, specialmente quella del capo, che ancor oggi reca segni evidenti delle ferite mortali inferte nove secoli fa. Intorno a queste reliquie del capo si raccolgono ogni anno abitanti della città regale e pii pellegrini da tutta la Polonia, per onorarle con grandiosa processione per le vie di Cracovia. E proprio a questa processione partecipavano nei secoli passati i re di Polonia successori di Boleslao l'Ardito, il quale, come s'e detto, nel 1079 aveva ucciso san Stanislao ma, secondo la tradizione, era morto fuori della patria e riconciliato con Dio.

Non ha, proprio quest'ultimo fatto, un particolare significato? Non è forse la prova che san Stanislao e stato nei secoli per i suoi concittadini, autorità e sudditi, il fautore della riconciliazione con Dio? Non svela forse quel particolare legame spirituale, di cui tutti grazie al suo martirio sono stati e sono tuttora partecipi? Questo certo è effetto di una morte la quale in forza del mistero battesimale è stata profondamente innestata nella Risurrezione di Cristo, nella sua verità, nel suo amore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dar la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

5. San Stanislao patrono dei Polacchi! Con quanta commozione il Pontefice Romano pronunzia queste parole! egli per tanti anni della sua vita e del suo ministero episcopale si è sentito unito a questo patrono e a tutta la tradizione a lui relativa. Egli ha avuto a cuore tutti gli studi che nel secolo passato e nel nostro hanno avuto per oggetto i fatti di nove secoli or sono e i moventi che portarono a quel crimine. Tali studi provano che il fatto in sé, affidato alla storia, e lo stesso illustre protagonista sono ancora fonte di attività, di ricerca e precisazione del vero: tutto ciò possa sempre aver vitalità e importanza per la vita dell uomo, della Nazione e della Chiesa.

Pertanto, a motivo di questa singolare «vitalità» di san Stanislao, patrono della Polonia, occorre che noi, nel nono centenario della sua testimonianza resa in vita e in morte, offriamo a Dio Uno e Trino, attraverso la Madre di Cristo e della Chiesa, tutte le realtà che hanno costituito e costituiscono tuttora quella ricca eredità che la storia della salvezza in Polonia connette con l'anno 1079. E' un'eredità di fede, di speranza, di carità, che dà piena e convincente spiegazione della vita umana e sociale. E' un'eredità di sollecitudine per la salvezza e il bene spirituale e materiale del prossimo, cioè dei cittadini della stessa Nazione e di tutti coloro ai quali dobbiamo servire con stabile perseveranza. E' anche un'eredità di libertà, la quale è manifestata dallo stesso servizio e dalla donazione, attuati per amore. E', infine, una meravigliosa tradizione di solidale unità, per la cui realizzazione nella storia dei Polacchi san Stanislao, la sua morte, il suo culto e soprattutto la sua canonizzazione han dato grande apporto come provano i fatti.

La Chiesa di Polonia ogni anno onora tale eredità; ogni anno si volge alla nobile tradizione di san Stanislao, la quale è divenuta un singolare patrimonio dell'animo Polacco. In questo anno del Signore, 1979, la Chiesa di Polonia, in circostanze particolari, desidera volgersi alla stessa tradizione: si augura di scrutarla più profondamente e di trarne risultati per la vita pratica di ogni giorno; desidera riceverne aiuto nella lotta contro le debolezze, i vizi, i peccati, specialmente contro quelli che più si oppongono al bene dei Polacchi e della Polonia; cerca di rafforzare con una nuova difesa sia la fede e la speranza del premio futuro, in forza delle quali adempiere la propria missione, sia la fiducia nel servizio da prestare per la salvezza di ciascuno e di tutti.

A tali desideri, a simili ardenti richieste dei cuori, che giungono sino a noi dalla patria, noi, Giovanni Paolo II, Polacco, ci associamo intimamente. E mentre la nostra mente è presa dalla grande importanza di questo giubileo, impartiamo con grande affetto la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, agli altri Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli della Polonia.

Vaticano, 8 maggio 1979

 

 

Sabato, 22 Marzo, 2025

REDEMPTIONIS ANNO

LETTERA APOSTOLICA
REDEMPTIONIS ANNO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II

Ai vescovi della Chiesa cattolica, ai sacerdoti, ai religiosi e religiose, e ai fedeli tutti sulla città di Gerusalemme, patrimonio sacro di tutti i credenti e desiderato crocevia di pace per i popoli del Medio Oriente

1. Venerati fratelli e diletti figli, mentre si conclude l'Anno Giubilare della Redenzione, il mio pensiero va a quella terra privilegiata, situata nel punto di incontro tra l'Europa, l'Asia e l'Africa, dove si è compiuta la redenzione del genere umano «una volta per sempre» (cfr. Rm 6,10; Eb 7,27; 9,12; 10,10). E' la terra che chiamiamo santa per essere stata la patria terrena di Cristo, il quale l'ha percorsa «predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità» (Mt 4,23).

Quest'anno in particolare avrei desiderato rivivere la profonda commozione e l'immensa gioia provata dal mio predecessore, il papa Paolo VI, quando nel 1964 si recò in Terra Santa e a Gerusalemme. Se non mi è stato possibile essere fisicamente là, mi sento, però, spiritualmente pellegrino nella terra dove fu operata la nostra riconciliazione con Dio, per chiedere al Principe della pace il dono prezioso della redenzione e quello della pace, sospirata dal cuore degli uomini, dalle famiglie, dai popoli e, in particolare, dalle genti che abitano proprio in quella regione. Penso specialmente alla città di Gerusalemme, dove Gesù, offrendo la sua vita, «ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo... distruggendo in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,14).

Gerusalemme, ancora prima di essere la città di Gesù redentore è stata il luogo storico della rivelazione biblica di Dio, il punto in cui più che in ogni altro luogo si è intrecciato il dialogo tra Dio e gli uomini, quasi il punto d'incontro tra la terra e il cielo.

A essa i cristiani guardano con religiosa e gelosa affezione, perché là tante volte è risuonata la parola di Cristo, là si sono svolti i grandi eventi della redenzione, cioè la passione, morte e risurrezione del Signore. A Gerusalemme è sorta la prima comunità cristiana e vi si è mantenuta nei secoli, anche in mezzo a difficoltà, una presenza ecclesiale continua.

Per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione.

Anche i musulmani chiamano Gerusalemme «la Santa» con un profondo attaccamento che risale alle origini dell'Islam ed è motivato da luoghi privilegiati di pellegrinaggio e da una presenza più che millenaria e quasi ininterrotta.

Oltre a così rare ed eminenti testimonianze Gerusalemme accoglie comunità vive di credenti, la cui presenza è pegno e fonte di speranza per le genti che in tutte le parti del mondo guardano alla città santa come a un proprio patrimonio spirituale e un segno di pace e di armonia. Sì, perché nella sua qualità di patria del cuore di tutti i discendenti spirituali di Abramo, che la sentono immensamente cara, e in quella di punto di incontro, agli occhi della fede, tra la trascendenza infinita di Dio e la realtà dell'essere creato, Gerusalemme assurge a simbolo di incontro, di unione e di pace per tutta la famiglia umana.

La Città santa racchiude quindi un profondo invito alla pace rivolto a tutta l'umanità, e in particolare agli adoratori del Dio unico e grande, Padre misericordioso dei popoli. Ma purtroppo si deve riconoscere che Gerusalemme permane motivo di perdurante rivalità, di violenza e di rivendicazioni esclusiviste.

Questa situazione e queste considerazioni fanno salire alle labbra le parole del profeta: «Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada» (Is 62,1).

Penso e sospiro il giorno nel quale tutti saremo davvero così «ammaestrati da Dio» (Gv 6,45) da ascoltarne il messaggio di riconciliazione e di pace. Penso al giorno nel quale ebrei, cristiani e musulmani potranno scambiarsi a Gerusalemme il saluto di pace che Gesù rivolse ai discepoli, dopo la sua risurrezione dai morti: «Pace a voi!» (Gv 20,19).

I romani pontefici, soprattutto in questo secolo, hanno seguito sempre con trepidante sollecitudine gli avvenimenti dolorosi nei quali Gerusalemme è stata coinvolta per molti decenni e hanno prestato vigilante attenzione ai pronunciamenti delle istituzioni internazionali che si sono interessate della Città santa.

2. In numerose occasioni, la Santa Sede ha invitato alla riflessione e ha esortato a trovare una soluzione adeguata alla complessa e delicata questione. Lo ha fatto perché profondamente preoccupata della pace tra i popoli, non meno che per motivi spirituali, storici, culturali, di natura eminentemente religiosa.

L'umanità intera, e in primo luogo i popoli e le nazioni, che hanno in Gerusalemme i loro fratelli di fede, cristiani, ebrei e musulmani, hanno motivo di sentirsi in causa e di fare il possibile per preservare il carattere sacro, unico e irripetibile della città. Non solo i monumenti o i luoghi santi, ma tutto l'insieme della Gerusalemme storica e l'esistenza delle comunità religiose, la loro condizione, il loro avvenire non possono non essere oggetto di interesse e di sollecitudine da parte di tutti.

In effetti, è doveroso che si trovi, con buona volontà e lungimiranza, un modo concreto e giusto con cui i diversi interessi e aspirazioni siano composti in forma armonica e stabile e siano tutelati in maniera adeguata ed efficace da uno speciale statuto internazionalmente garantito, così che una parta o l'altra non possa rimetterlo in discrimine.

Sento anche il pressante dovere, di fronte alle comunità cristiane, a coloro che professano la fede nel Dio unico e che sono impegnati nella difesa dei valori fondamentali dell'uomo, di ripetere che la questione di Gerusalemme è fondamentale per la giusta pace nel Medio Oriente. E' mia convinzione che l'identità religiosa della città e in particolare la comune tradizione di fede monoteistica possono appianare la via a promuovere l'armonia tra tutti quelli che variamente sentono la Città santa come propria.

Sono convinto che la mancata ricerca di una soluzione adeguata della questione di Gerusalemme, così come un rassegnato rinvio del problema, non fanno che compromettere ulteriormente l'auspicabile composizione pacifica ed equa della crisi di tutto il Medio Oriente.

E' naturale, in questo contesto, ricordare che nella regione due popoli, l'israeliano e il palestinese, sono da decenni contrapposti in un antagonismo che appare irriducibile. La Chiesa, che guarda a Cristo redentore e ne ravvisa l'immagine nel volto di ogni uomo, invoca pace e riconciliazione per i popoli della terra che fu sua. Per il popolo ebraico che vive nello Stato di Israele e che in quella terra conserva così preziose testimonianze della sua storia e della sua fede, dobbiamo invocare la desiderata sicurezza e la giusta tranquillità che è prerogativa di ogni nazione e condizione di vita e di progresso per ogni società. Il popolo palestinese, che in quella terra affonda le sue radici storiche e da decenni vive disperso, ha il diritto naturale, per giustizia, di ritrovare una patria e di poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli della regione.

Tutte le genti del Medio Oriente, ciascuna con un proprio patrimonio di valori spirituali, non potranno superare le tragiche vicende nelle quali sono coinvolte - penso al Libano tanto provato - se non sapranno riscoprire il vero senso della loro storia, che tramite la fede nell'unico Dio le chiama a una convivenza pacifica di intesa e di mutua collaborazione.

Desidero, pertanto, attirare l'attenzione degli uomini politici, di quanti sono responsabili dei destini dei popoli, di chi è a capo di istituzioni internazionali, sulla sorte della città di Gerusalemme e delle comunità che là vivono. A nessuno, infatti, sfugge che le varie espressioni di fede e di cultura presenti nella Città santa possono e debbono essere un coefficiente di concordia e di pace.

In questo Venerdì santo in cui ricordiamo solennemente la passione e la morte del Salvatore vorrei invitare tutti voi, venerabili fratelli nell'episcopato, e tutti i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli di tutto il mondo a mettere tra le speciali intenzioni delle loro preghiere l'invocazione a favore di una soluzione giusta del problema di Gerusalemme e della Terra Santa, e per il ritorno della pace nel Medio Oriente.

Nell'Anno Santo che sta per concludersi e che abbiamo celebrato con grande gioia spirituale sia a Roma sia in tutte le diocesi della Chiesa universale, Gerusalemme è stata il termine ideale, il luogo naturale a cui si rivolgevano i nostri pensieri di amore e di gratitudine per il grande dono della redenzione che nella Città santa fu operata dal Figlio dell'uomo a vantaggio di tutta l'umanità.

E poiché frutto della redenzione è la riconciliazione dell'uomo con Dio e di ogni uomo con i suoi fratelli, così dobbiamo invocare che anche a Gerusalemme, nella Terra Santa di Gesù, i credenti in Dio possano ritrovare, dopo così dolorose divisioni e discordie, la riconciliazione e la pace. Questa pace annunziata da Gesù Cristo, in nome del Padre che sta nei cieli, renda così Gerusalemme segno vivente del grande ideale di unità, di fratellanza e di convergenza tra i popoli, secondo le parole luminose del libro di Isaia: «Verranno molti popoli e diranno: venite, saliamo sul monte del Signore al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri» (Is 2,3).

Infine, impartiamo di cuore la nostra benedizione apostolica.

 

 

QUARTO CENTENARIO DELL’UNIONE DI BREST

LETTERA APOSTOLICA
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
PER IL QUARTO CENTENARIO
DELL'UNIONE DI BREST

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Si fa vicino il giorno nel quale la Chiesa greco-cattolica di Ucraina celebrerà il quarto centenario dell'unione tra i Vescovi della Metropolia della Rus' di Kiev e la Sede Apostolica. L'unione fu attuata nell'incontro dei rappresentanti della Metropolia di Kiev con il Papa, che ebbe luogo il 23 dicembre 1595 e venne solennemente proclamata a Brest-Litovsk sul fiume Bug il 16 ottobre 1596. Papa Clemente VIII, con la Costituzione apostolica Magnus Dominus et laudabilis nimis [cfr. Bullarium Romanum V/2 (1594-1602), 87-92], ne diede l'annuncio alla Chiesa intera e con la Lettera apostolica Benedictus sit Pastor [cfr. A. Welykyj, Documenta Pontificum Romanorum Historiam Ucrainae illustrantia, t. I, p. 257-259] si rivolse ai Vescovi della Metropolia, comunicando loro l'avvenuta unione.

I Papi seguirono con sollecitudine ed affetto il cammino, spesso drammatico e doloroso, di questa Chiesa. Vorrei qui ricordare, in modo particolare, la Lettera enciclica Orientales omnes di Papa Pio XII, il quale, nel dicembre 1945, scrisse parole indimenticabili, per ricordare il 350 anniversario del ristabilimento della piena comunione con la Sede di Roma [cfr. AAS 38 (1946), 33-63].

L'Unione di Brest aprì una nuova pagina della storia di quella Chiesa [cfr. Giovanni Paolo II, Lettera al Cardinale Myroslav I. Lubachivsky Arcivescovo Maggiore di Lviv degli Ucraini (25 marzo 1995), 3: L'Osservatore Romano 5 maggio 1995, p. 6]. Oggi essa vuole cantare con gioia l'inno di ringraziamento e di lode a Colui che, ancora una volta, l'ha riportata dalla morte alla vita e rimettersi in cammino con slancio rinnovato sulla strada segnata dal Concilio Vaticano II. Ai fedeli della Chiesa greco-cattolica ucraina si uniscono, nell'azione di grazie e nella supplica, le Chiese greco-cattoliche dell'emigrazione che si richiamano all'Unione di Brest, insieme con le altre Chiese orientali cattoliche e con tutta la Chiesa. Ai cattolici di tradizione bizantina di quelle terre voglio unirmi anch'io, Vescovo di Roma, che per tanti anni, al tempo del mio ministero pastorale in Polonia, ho sentito la vicinanza fisica, oltre che spirituale, con quella Chiesa allora così duramente provata e che, dopo la mia elezione alla Sede di Pietro, ho avvertito pressante il dovere, in continuità con i miei Predecessori, di levare la voce per difendere il suo diritto all'esistenza ed alla libera professione della fede, quando entrambe le erano negate. Ora ho il privilegio di celebrare assieme ad essa con commozione i giorni della riacquistata libertà.

Alla ricerca dell'unità

2. Le celebrazioni dell'Unione di Brest vanno collocate nel contesto del Millennio del Battesimo della Rus'. Sette anni fa, nel 1988, quell'evento fu celebrato con grande solennità. Per l'occasione pubblicai due documenti: la Lettera apostolica Euntes in mundum, del 25 gennaio 1988 [cfr. AAS 80 (1988), 935-956], per l'intera Chiesa, e il Messaggio Magnum Baptismi donum, del 14 febbraio dello stesso anno [cfr. ibid., 988-997], indirizzato ai cattolici ucraini. Si trattava infatti di celebrare un momento fondamentale per l'identità cristiana e culturale di quei popoli, con un valore del tutto particolare derivante dal fatto che le Chiese di tradizione bizantina e la Chiesa di Roma vivevano ancora in piena comunione.

Dal tempo della divisione che ferì l'unità fra Occidente ed Oriente bizantino, furono frequenti ed intensi gli sforzi per ricostituire la comunione piena. Voglio ricordare due avvenimenti particolarmente significativi: il Concilio di Lione nel 1274 e soprattutto il Concilio di Firenze nel 1439, quando furono sottoscritti protocolli d'unione con le Chiese Orientali. Purtroppo, varie cause impedirono che le potenzialità contenute in tali accordi portassero il frutto sperato.

I Vescovi della Metropolia di Kiev, nel ristabilire la comunione con Roma, si riferirono esplicitamente alle decisioni del Concilio di Firenze, dunque ad un Concilio che aveva la partecipazione diretta, fra gli altri, dei rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli.

In questo contesto, risplende la figura del metropolita Isidoro di Kiev che, fedele interprete ed assertore delle decisioni di quel Concilio, ebbe a sopportare l'esilio per le sue convinzioni.

Nei Vescovi che promossero l'unione e nella loro Chiesa rimaneva molto viva la coscienza dello stretto legame originario con i loro fratelli ortodossi, oltreché la consapevolezza piena dell'identità orientale della loro Metropolia, da salvaguardare anche dopo l'unione. Nella storia della Chiesa cattolica è di grande valore il fatto che tale giusto desiderio sia stato rispettato e che l'atto di unione non abbia significato il passaggio alla tradizione latina, come pure alcuni pensavano dovesse avvenire: la loro Chiesa vide riconosciuto il diritto di essere governata da una propria gerarchia con una specifica disciplina e di mantenere il patrimonio liturgico e spirituale orientali.

Tra persecuzione e fioritura

3. Dopo l'unione, la Chiesa greco-cattolica ucraina visse un periodo di fioritura delle strutture ecclesiastiche, con riflessi benefici sulla vita religiosa, sulla formazione del clero, sull'impegno spirituale dei fedeli. Grande importanza fu attribuita, con notevole lungimiranza, all'educazione. Con il prezioso contributo dell'Ordine basiliano e di altre Congregazioni religiose, mirabile incremento fu dato allo studio delle discipline sacre e della cultura patria. Nel secolo attuale, una figura di straordinario prestigio fu, in questo senso oltre che nella testimonianza della sofferenza patita per Cristo, il metropolita Andrea Szeptyckyj, che alla preparazione ed alla finezza spirituale della persona, seppe unire eccellenti doti di organizzatore, fondando scuole e accademie, sostenendo gli studi teologici e le scienze umane, la stampa, l'arte sacra, la custodia delle memorie.

Eppure, tanta vitalità ecclesiale fu sempre percorsa dal dramma dell'incomprensione e dell'opposizione. Ne fu vittima illustre l'arcivescovo di Polock e Vitebsk, Giosafat Kuncevyc, il cui martirio fu coronato con l'immarcescibile corona della gloria eterna. Ora il suo corpo riposa nella Basilica vaticana, ove di continuo riceve l'omaggio commosso e grato di tutta la cattolicità.

Le difficoltà e i travagli si ripeterono senza sosta. Pio XII li ha ricordati nella Lettera enciclica Orientales omnes, nella quale, dopo essersi soffermato sulle persecuzioni precedenti, già presagisce quella drammatica del regime ateistico [cfr. AAS 38 (1946), 54-57. Quei timori avrebbero trovato angosciante conferma alcuni anni dopo, come il medesimo Pontefice puntualmente rilevava nell'Ep. enc. Orientales Ecclesias (15 dicembre 1952): AAS 45 (1953), 7-10].

Tra gli eroici testimoni non solo dei diritti della fede, ma anche della coscienza umana, che si distinsero in quegli anni difficili, spicca la figura dell'allora metropolita Josyf Slipyj: il suo coraggio nel sopportare l'esilio e la prigionia per diciotto anni e l'indomita fiducia nella risurrezione della sua Chiesa ne fanno una delle figure più possenti di confessori della fede del nostro tempo. Né vanno dimenticati i suoi numerosi compagni di pena, in particolare i vescovi Gregorio Chomyszyn e Giosafat Kocylowskyj.

Questi tempestosi eventi travolsero la Chiesa nella Madrepatria. Ma già da tempo la Provvidenza divina aveva predisposto che numerosi figli di quella Chiesa potessero trovare una via d'uscita per sé e per il loro popolo: essi, a partire dal secolo XIX, cominciarono infatti a diffondersi numerosi oltre oceano, in flussi migratori che li portarono soprattutto in Canada, negli Stati Uniti d'America, in Brasile, in Argentina e in Australia. La Santa Sede volle essere loro vicina, assistendoli e istituendo per loro strutture pastorali nelle nuove dimore, fino a costituire vere e proprie Eparchie. Nel momento della prova, durante la persecuzione atea nella terra d'origine, la voce di questi credenti poté così levarsi, in piena libertà, con forza e coraggio. Il loro grido rivendicò nel forum internazionale il diritto alla libertà religiosa per i fratelli perseguitati, rafforzando in tal modo l'appello che si è levato dal Concilio Vaticano II a favore della libertà religiosa [cfr. Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae] e l'azione svolta in questo senso dalla Santa Sede.

4. Alle vittime di tante sofferenze va il ricordo commosso dell'intera Comunità cattolica: i martiri e i confessori della fede della Chiesa in Ucraina ci offrono una stupenda lezione di fedeltà a prezzo della vita. E noi, testimoni privilegiati del loro sacrificio, siamo coscienti che essi hanno contribuito a mantenere nella dignità un mondo che sembrava travolto dalla barbarie. Essi hanno conosciuto la verità, e la verità li ha resi liberi. I cristiani d'Europa e del mondo, chini in preghiera sul limitare dei campi di concentramento e delle prigioni, devono essere riconoscenti per quella loro luce: era la luce di Cristo, che essi hanno fatto risplendere nelle tenebre. Queste, agli occhi del mondo, sono apparse per lunghi anni vincenti, ma non hanno potuto spegnere quella luce, che era luce di Dio e luce dell'uomo offeso ma non piegato.

Tale eredità di sofferenza e di gloria si trova oggi ad una svolta storica: cadute le catene della prigionia, la Chiesa greco-cattolica in Ucraina è tornata a respirare l'aria della libertà ed a riacquistare in pieno il proprio ruolo attivo nella Chiesa e nella storia. Questo compito, delicato e provvidenziale, richiede oggi una riflessione particolare, perché sia svolto con sapienza e lungimiranza.

Sulla scia del Concilio Vaticano II

5. La celebrazione dell'Unione di Brest va vissuta e interpretata alla luce degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. E' questo forse l'aspetto più importante per la comprensione della portata di tale ricorrenza.

E' noto che il Concilio Vaticano II si è soffermato a riflettere soprattutto sul mistero della Chiesa, sì che uno dei documenti più importanti da esso elaborati è stata la Costituzione Lumen gentium. Proprio in ragione di questo approfondimento, il Concilio riveste una particolare rilevanza ecumenica. Ne è conferma il Decreto Unitatis redintegratio, che elabora un programma molto illuminato circa l'azione da svolgere in vista dell'unità dei cristiani. Su tale programma mi è parso opportuno ritornare, a trent'anni dalla conclusione del Concilio, con la Lettera enciclica Ut unum sint, pubblicata il 25 maggio dell'anno corrente [cfr. L'Osservatore Romano 31 maggio 1995, pp. 1-8]. Essa delinea i passi ecumenici che hanno avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II e, allo stesso tempo, nella prospettiva del Terzo Millennio dell'era cristiana, cerca di aprire nuove possibilità per il futuro.

Collocando le celebrazioni del prossimo anno nel contesto della riflessione sulla Chiesa, promossa dal Concilio, mi preme soprattutto di invitare ad approfondire la funzione propria che la Chiesa greco-cattolica ucraina è chiamata a svolgere oggi nel movimento ecumenico.

6. Vi è chi vede nell'esistenza delle Chiese orientali cattoliche una difficoltà per il cammino dell'ecumenismo. Il Concilio Vaticano II non ha omesso di affrontare tale problema, indicandone le prospettive di soluzione sia nel Decreto Unitatis redintegratio sull'ecumenismo, che nel Decreto Orientalium ecclesiarum, ad esse specificamente dedicato. Entrambi i documenti si pongono nella prospettiva del dialogo ecumenico con le Chiese orientali non in piena comunione con la Sede di Roma, in modo che sia valorizzata la ricchezza che le altre Chiese hanno in comune con la Chiesa cattolica e sia fondata su tale ricchezza condivisa la ricerca di una comunione sempre più piena e profonda. Infatti «l'ecumenismo intende precisamente far crescere la comunione parziale esistente tra i cristiani verso la piena comunione nella verità e nella carità» [Ibid. 14, l.c., p. 2].

Per promuovere il dialogo con l'Ortodossia bizantina, si è costituita, dopo il Concilio Vaticano II, un'apposita commissione mista, che ha annoverato tra i suoi membri anche rappresentanti delle Chiese orientali cattoliche.

In vari documenti si è cercato di approfondire lo sforzo per una maggior comprensione fra Chiese ortodosse e Chiese orientali cattoliche, non senza risultati positivi. Nella Lettera apostolica Orientale lumen [cfr. nn. 18-19: L'Osservatore Romano 2-3 maggio 1995, p. 4] e nella Lettera enciclica Ut unum sint [cfr. nn. 12-14: L'Osservatore Romano 31 maggio 1995, p. 2] ho già trattato degli elementi di santificazione e di verità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis redintegratio, 3], comuni all'Oriente e all'Occidente cristiano, e del metodo che è desiderabile seguire nella ricerca della piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, alla luce dell'approfondimento ecclesiologico compiuto dal Concilio Vaticano II: «Oggi sappiamo che l'unità può essere realizzata dall'amore di Dio solo se le Chiese lo vorranno insieme, nel pieno rispetto delle singole tradizioni e della necessaria autonomia. Sappiamo che questo può compiersi solo a partire dall'amore di Chiese che si sentono chiamate a manifestare sempre maggiormente l'unica Chiesa di Cristo, nata da un solo battesimo e da una sola Eucaristia, e che vogliono essere sorelle» [cfr. Giovanni Paolo II, Let. Ap. Orientale lumen (2 maggio 1995), 20: L'Osservatore Romano 2-3 maggio 1995, p. 4]. L'approfondimento nella conoscenza della dottrina sulla Chiesa, operato dal Concilio e dal dopo Concilio, ha tracciato una via che si può definire nuova per il cammino dell'unità: la via del dialogo della verità nutrito e sostenuto dal dialogo della carità (cfr. Ef 4,15).

7. L'uscita dalla clandestinità ha significato un cambiamento radicale nella situazione della Chiesa greco-cattolica ucraina: essa si è trovata di fronte ai gravi problemi della ricostruzione delle strutture delle quali era stata completamente privata e, più in generale, ha dovuto impegnarsi a riscoprire pienamente se stessa, non soltanto al proprio interno, ma anche in rapporto con le altre Chiese.

Siano rese grazie al Signore per averle concesso di celebrare questo giubileo in condizione di riacquistata libertà religiosa. Gli siano rese altresì grazie per la crescita del dialogo della carità, in virtù del quale si sono compiuti passi significativi nel cammino verso l'auspicata riconciliazione con le Chiese ortodosse.

Migrazioni e deportazioni molteplici hanno ridisegnato la geografia religiosa di quelle terre; tanti anni di ateismo di Stato hanno segnato profondamente le coscienze; il clero non basta ancora a rispondere agli immensi bisogni della ricostruzione religiosa e morale: sono queste alcune delle sfide più drammatiche con le quali tutte le Chiese si trovano a confrontarsi.

Dinanzi a queste difficoltà si richiede una comune testimonianza della carità, perché la predicazione del Vangelo non sia ostacolata. Come ho detto nella Lettera apostolica Orientale lumen, «oggi possiamo cooperare per l'annuncio del Regno o divenire fautori di nuove divisioni» [N. 19: L'Osservatore Romano 2-3 maggio 1995, p. 4]. Voglia il Signore guidare i nostri passi sulla via della pace.

Il sangue dei martiri

8. Nella libertà ritrovata non possiamo dimenticare la persecuzione ed il martirio che le Chiese di quella regione, cattoliche e ortodosse, subirono nella loro carne. Si tratta di una dimensione importante per la Chiesa di tutti i tempi, come ho ricordato nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente [cfr. AAS 87 (1995), 29-30; Lett. enc. Ut unum sint, 84: L'Osservatore Romano 31 maggio 1995, p. 7]. Si tratta di un'eredità particolarmente significativa per le Chiese d'Europa, che ne restano profondamente segnate: su di essa si dovrà riflettere alla luce della Parola di Dio.

Parte integrante di questa nostra memoria religiosa è dunque il dovere di richiamare alla mente il significato del martirio, per additare alla venerazione di tutti le figure concrete di quei testimoni della fede, nella consapevolezza che anche oggi conserva piena validità il detto di Tertulliano: «Sanguis martyrum, semen christianorum» [Apol., 50,13: CCL I,171]. Noi cristiani abbiamo già un martirologio comune nel quale Dio mantiene e realizza fra i battezzati la comunione nell'esigenza suprema della fede, manifestata con il sacrificio della vita. La comunione reale, sebbene imperfetta, già esistente tra cattolici ed ortodossi nella loro vita ecclesiale, giunge alla sua perfezione in tutto ciò che «noi consideriamo l'apice della vita di grazia, la martyria fino alla morte, la comunione più vera che ci sia con Cristo che effonde il suo sangue e, in questo sacrificio, fa diventare vicini coloro che un tempo erano lontani (cfr. Ef 2,13)» [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ut unum sint, 84: L'Osservatore Romano 31 maggio 1995, p. 7].

Il ricordo dei martiri non può essere cancellato dalla memoria della Chiesa e dell'umanità: siano essi vittime di ideologie d'Oriente o d'Occidente, tutti sono accomunati dalla violenza che, per odio alla fede, è stata apportata alla dignità della persona umana, creata da Dio «a sua immagine e somiglianza».

La Chiesa di Cristo è una

9. «Credo unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam». Questa professione di fede contenuta nel Simbolo niceno-costantinopolitano è comune ai cristiani sia cattolici che ortodossi: ciò mette in evidenza che essi non soltanto credono nell'unità della Chiesa, ma che vivono e vogliono vivere nella Chiesa una ed indivisibile, quale è stata fondata da Gesù Cristo. Le differenze che nacquero e si svilupparono fra cristianesimo d'Oriente e d'Occidente nel corso della storia sono in gran parte diversità di origine culturale e di tradizioni. In questo senso, «la legittima diversità non si oppone affatto all'unità della Chiesa, anzi ne accresce il decoro e contribuisce non poco al compimento della sua missione» [Ibid., 50, l.c., p. 5].

Papa Giovanni XXIII amava ripetere: «E' molto più forte ciò che ci unisce di ciò che ci divide». Sono certo che questo spirito può essere di grande giovamento per tutte le Chiese. Più di trent'anni sono passati da quando il Papa pronunciò queste parole. Molti indizi ci spingono a pensare che in tale periodo i cristiani abbiano progredito su questa strada. Ne sono segni eloquenti gli incontri fraterni fra il Papa Paolo VI ed il Patriarca ecumenico Atenagora I e quelli che io stesso ho avuto con i Patriarchi ecumenici Dimitrios e, recentemente, Bartolomeo e con altri venerati Patriarchi delle Chiese d'Oriente. Tutto questo, insieme alle numerose iniziative di incontro e di dialogo che sono favorite ovunque nella Chiesa, ci incoraggia alla speranza: lo Spirito Santo, lo Spirito di unità, non cessa di operare fra i cristiani ancora separati tra loro.

Eppure la debolezza umana e il peccato continuano a opporre resistenza allo Spirito di unità. Talora si ha persino l'impressione che vi siano forze pronte a tutto pur di frenare, e persino annientare, il processo di unione fra i cristiani. Ma non possiamo desistere: dobbiamo trovare ogni giorno il coraggio e la fortezza, ad un tempo dono dello Spirito e frutto dello sforzo umano, per continuare sulla strada intrapresa.

10. Ripensando all'Unione di Brest ci chiediamo quale sia oggi il significato di questo evento. Si trattò di un'unione che riguardò soltanto una specifica area geografica, tuttavia l'importanza di essa è rilevante per l'intero quadro ecumenico. Le Chiese orientali cattoliche possono arrecare un contributo molto importante all'ecumenismo. Lo ricorda il Decreto conciliare Orientalium ecclesiarum: «Alle Chiese orientali che sono in comunione con la Sede Apostolica Romana, compete lo speciale compito di promuovere l'unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del decreto sull'ecumenismo promulgato da questo Santo Concilio, in primo luogo con la preghiera, l'esempio della vita, la scrupolosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali, la mutua e più profonda conoscenza, la collaborazione e la fraterna stima delle cose e degli animi» [N. 24]. Ne viene ad esse un impegno a vivere con intensità quanto è qui delineato. Da esse si richiede una confessione piena di umiltà e di gratitudine verso lo Spirito Santo, il quale guida la Chiesa verso il fine che le è stato assegnato dal Redentore del mondo.

Tempo di preghiera

11. L'elemento fondamentale che dovrà caratterizzare la celebrazione di questo giubileo sarà dunque la preghiera. Essa è anzitutto rendimento di grazie per quanto si è raggiunto, nel corso dei secoli, nell'impegno per l'unità della Chiesa e, in particolare, per l'impulso che a tale impegno è venuto dal Concilio Vaticano II.

Essa è azione di grazie al Signore che guida il cammino della storia, per il clima di ritrovata libertà religiosa in cui si celebra questo giubileo. Essa è pure supplica allo Spirito Paraclito, perché faccia crescere tutto ciò che favorisce l'unità e dia coraggio e fortezza a quanti si impegnano, secondo gli orientamenti del Decreto conciliare Unitatis redintegratio, in quest'opera benedetta da Dio. E' supplica per ottenere l'amore fraterno, il perdono delle offese e delle ingiustizie subite nella storia. E' supplica perché la potenza del Dio vivente tragga il bene persino da quel male così crudele e multiforme causato dalla malizia degli uomini. La preghiera è anche speranza per il futuro del cammino ecumenico: la potenza di Dio è più grande di tutte le debolezze umane antiche e nuove. Se questo giubileo della Chiesa greco-cattolica ucraina, alle soglie del Terzo Millennio, segnerà qualche passo in avanti verso la piena unità dei cristiani, ciò sarà prima di tutto opera dello Spirito Santo.

Tempo di riflessione

12. Le celebrazioni giubilari, inoltre, saranno un momento di riflessione. La Chiesa greco-cattolica ucraina si interrogherà prima di tutto su ciò che ha significato per essa la piena comunione con la Sede Apostolica e su quanto dovrà significare in avvenire. Essa darà gloria a Dio, con atteggiamento di umile gratitudine, per la sua eroica fedeltà al Successore di Pietro e, sotto l'azione dello Spirito Santo, comprenderà che quella stessa fedeltà la pone oggi sul cammino dell'impegno per l'unità di tutte le Chiese. Tale fedeltà le è costata sofferenze e martirio nel passato: è questo un sacrificio offerto a Dio per implorare la desiderata unione.

La fedeltà alle antiche tradizioni orientali è uno dei mezzi a disposizione delle Chiese orientali cattoliche per promuovere l'unità dei cristiani [cfr. ibid.]. Il Decreto conciliare Unitatis redintegratio è molto esplicito quando dichiara: «Tutti sappiamo che il conoscere, venerare, conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali è di somma importanza per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani d'Oriente e d'Occidente» [N. 15].

Una memoria affidata a Maria

13. Non cessiamo di affidare l'anelito verso la piena unità dei cristiani alla Madre di Cristo, sempre presente nell'opera del Signore e della sua Chiesa. Il capitolo VIII della Costituzione dogmatica Lumen gentium la indica come Colei che ci precede nel nostro cammino di fede sulla terra, teneramente presente alla Chiesa la quale, al termine del secondo millennio, si adopera a ristabilire tra tutti i credenti in Cristo quell'unità che il Signore vuole per loro. Ella è Madre dell'unità, perché Madre dell'unico Cristo. Se per opera dello Spirito Santo ha dato alla luce il Figlio di Dio, che da Lei ha ricevuto il corpo umano, Maria desidera ardentemente l'unità visibile anche di tutti i credenti che formano il Corpo mistico di Cristo. La venerazione a Maria, che unisce con tanta forza Oriente e Occidente, opererà, ne siamo certi, a favore dell'unità.

La Vergine Santissima, già presente dovunque in mezzo a noi, in tanti edifici sacri come nella vita di fede di tante famiglie, parla incessantemente di unità, per la quale intercede senza sosta. Se oggi, nel commemorare l'Unione di Brest, ricordiamo quali meravigliosi tesori di venerazione abbia saputo riservare alla Madre di Dio il popolo cristiano dell'Ucraina, non possiamo non trarre da questa ammirazione per la storia, la spiritualità, la preghiera di quei popoli le conseguenze per l'unità che a tali tesori sono tanto strettamente connesse.

Maria, che ha ispirato nella prova padri e madri, giovani, malati e anziani; Maria, colonna di fuoco capace di guidare tanti martiri della fede, è sicuramente all'opera per preparare la desiderata unione di tutti i cristiani: in vista di essa la Chiesa greco-cattolica in Ucraina ha certamente un suo ruolo da svolgere.

A Maria la Chiesa dice il suo grazie e la prega di farci partecipi della sua sollecitudine per l'unità: abbandoniamoci a Lei con fiducia filiale, per ritrovarci con Lei dove Dio sarà tutto in tutti.

A voi, Fratelli e Sorelle carissimi, la mia Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, il 12 Novembre, memoria di San Giosafat dell'anno 1995, diciottesimo di Pontificato.

 

 

Pannello di controllo

Iscriviti al feed

  • RSS Atom